Gender

  • Con l’inclusività i ricavi aumentano fino al 30 per cento

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Assoedilizia

    L’altra metà del cielo protagonista al convegno organizzato da GEA e Harvard Business Review Italia a Palazzo Mezzanotte di Milano alla presenza del mondo economico e finanziario milanese, tra cui il presidente di Assoedilizia Achille Colombo Clerici ed il presidente della Fondazione Italia Cina Mario Boselli. L’evento ha evidenziato come una cultura aziendale inclusiva e diversificata rafforzi l’engagement e contribuisca ad aumentare la produttività a lungo termine, generando un incremento dei ricavi che può arrivare al 30%.

    Oggi la Diversity & Inclusion è un elemento cruciale per garantire la solidità economica ed etica delle aziende nel medio-lungo periodo, sia in termini di risorse umane che di performance di brand e di mercato. Diversity & Inclusion sono fattori critici di successo per l’impresa in generale e per quella italiana in particolare in quanto più piccola, flessibile e proiettata all’internazionalizzazione e all’innovazione, attività nelle quali la qualità delle persone, il loro benessere ed il loro contributo strategico, sono determinanti.

    Dopo i saluti di Enrico Sasson, presidente di Eccellenze d’Impresa e di Fabrizio Testa, CEO di Borsa Italiana, Luigi Consiglio presidente di GEA Consulenti di direzione ha aperto i lavori.

    “La capacità di lavorare sinergicamente sull’inclusione sia internamente che esternamente rappresenta un vantaggio competitivo per le imprese” ha spiegato Consiglio chiarendo che: “La comprensione delle singole forme di diversità, l’ascolto delle loro istanze e la capacità di trasformarle in azioni inclusive arricchiscono in modo più che proporzionale la brand equity riflettendosi sul posizionamento e sui risultati in termini di market share, fatturato e redditività, a parità di altre condizioni”. Consiglio ha anche spiegato come “la matrice artigiana delle nostre imprese e le difficoltà che siamo abituati ad affrontare per fare business in Italia spingono a guardare il mondo circostante con umiltà, abituandosi alla dote principale dell’inclusività: l’ascolto”.

    Sulla necessità di valorizzare il ruolo della donna nel mercato del lavoro è intervenuta con un keynote speech l’economista Veronica De Romanis, docente di politica economica alla Stanford University e alla Luiss. “L’occupazione femminile è parte significativa della soluzione di un Paese, come l’Italia, che ha un tasso di sviluppo limitato, un debito elevato e disuguaglianze crescenti”.

    De Romanis ha proseguito illustrando i dati sul tasso di occupazione. “Dal 2019 al 2021 l’Italia è peggiorata, insieme a Repubblica Ceca, Bulgaria, Danimarca, Svezia, Lituania, Olanda e Lettonia. Le donne hanno pagato il prezzo più alto della crisi e spesso rimangono intrappolate nel cosiddetto part-time involontario”.

    In un Paese dove il tasso di natalità resta inferiore alla media UE “aumentare l’occupazione femminile può invertire la curva demografica” ha spiegato l’economista, illustrando anche la stima del costo della mancanza di donne nel mercato del lavoro, in termini di crescita. “Nel mondo 2,4 miliardi di donne in età da lavoro non hanno gli stessi diritti degli uomini. Se si arrivasse ad uguali tutele, avremmo un aumento del 20% del Pil. In conclusione, inclusività significa più donne nel mercato del lavoro, meno diseguaglianze, più natalità e ricchezza”.

    Sono seguiti interventi di Patrizia Ghiazza, partner GC Governance Consulting; Barbara Falcomer direttrice generale Valore D; Francesca Vecchioni, presidente di Fondazione Diversity; Paola Angeletti, Coo di Intesa Sanpaolo; Marilù Capparelli, legal director EMEA; Luciana De Laurentiis, Head of Corporate Culture & Inclusion Fastweb; Nilufer Demirkol, Global Head of Diversity and Inclusion di Nestlé; Pietro Iurato, HRD Head EMEA di SAP. Emanuele Acconciamessa, COO di Focus Management e Gabriella Crafa, Vice President di Fondazione Diversity hanno presentato la ricerca “Diversity Brand Index” e le relative best practice.

    “Tutti gli interventi e i living cases presentati oggi confermano quanto sia indispensabile che gli imprenditori capiscano che l’inclusività è il principale fattore competitivo nelle loro mani, oltre che un fattore critico di successo per l’internazionalizzazione dell’industria italiana” ha concluso Luigi Consiglio.

  • Uno su cinque si pente di aver cambiato sesso. Ed è allarme suicidi tra i transgender

    «Fino al 20% delle persone che hanno cambiato sesso rimpiange questa scelta. Le procedure per il cambio di sesso non sono efficaci, affermano i ricercatori. Da 10 a 15 anni dopo la riassegnazione chirurgica, il tasso di suicidi è 20 volte rispetto a quello di coetanei comparabili. Qui ci rivolgiamo a coloro che considerano la “detransizione”». E’ quanto si legge sul sito sexchangeregret.com dedicato a chi si sia pentito di aver cambiato sesso, come riferisce un reportage del settimanale Panorama.

    Succede, secondo quanto emerge da uno studio in Svezia, e può portare a conseguenze drammatiche. Un’analisi condotta nell’arco di tempo 1973-2003 su 324 persone che hanno cambiato sesso (191 passaggi da maschi a femmine, 133 da femmine a maschi) ha constatato tra i pazienti sottoposti a transizione di genere un tasso di suicidi più alto del 19% rispetto alla media e un rischio maggiore di tentativi di suicidio e di cure ospedaliere psichiatriche, oltre a un’eventualità più elevata di condanne penali.

    Walt Heyer, il fondatore del sito, ha vissuto per otto anni come donna transgender, dopo pesanti molestie nella sua infanzia, riassume così quell’esperienza: «Si prova un’iniziale euforia: “Ho cambiato il mio sesso e tutto ora sarà meraviglioso!”. Mi sentivo finalmente quello che avrei dovuto essere. Ma l’euforia è breve: ho perso il mio lavoro, ho vissuto in strada in California e ho sfiorato la morte per overdose di cocaina, ero sempre fatto».

    Nel Regno Unito le statistiche registrano un aumento del 4mila per cento di casi di Gender dysphoria (GD) tra le giovani donne interessate dalle cure con ormoni, seguite spesso da interventi chirurgici di «riassegnazione». Nel 2020 la 23enne detransitioner Keira Bell ha trascinato in tribunale il Tavistock e Portman NHS Trust, la fondazione che gestisce l’unica clinica di genere per giovani trans in Inghilterra e Galles. A farle vincere la battaglia legale, insieme alla sospensione dell’attività della clinica dove sono stati trattati oltre 19 mila bambini con disforia di genere, è stata la controversia sulla validità del consenso informato, sottoscritto quando Keira era sedicenne. In appello il verdetto è stato ribaltato ma l’Alta Corte ha ammonito: «Non pensiamo che la risposta a questo caso sia semplicemente fornire al bambino informazioni più dettagliate. Il problema è che in molti casi, per quante informazioni si forniscano al bambino in merito alle conseguenze a lungo termine, lui/lei non sarà in grado di soppesarle davvero. Non esiste un modo adeguato a quell’età per far loro comprendere la perdita della fertilità o della piena funzione sessuale negli anni successivi».

    Nel 2021 la Svezia ha deciso di mettere un freno alle prescrizioni facili dei «puberty blockers» e alle terapie per la transizione di genere nei minori di 16 anni. Sarà possibile somministrare gli ormoni fra i 16 e i 18 anni solo nell’ambito di studi approvati dal Comitato etico svedese. Negli ultimi anni il numero degli adolescenti che si è sottoposto all’iter per cambiare sesso e identità sociale è aumentato enormemente, specie nel Nord Europa. In Svezia, dal 2008 al 2018, le diagnosi di disforia di genere sono cresciute del 1.500% nella fascia fra i 13 e i 17 anni.

    Denuncia Abigail Shrier, autrice del bestseller Irreversible Damage: The Transgender Craze Seducing Our Daughters: «Fino a poco tempo fa le diagnosi di disforia di genere infantile riguardavano lo 0,1% della popolazione americana. Oggi è uno tsunami che colpisce in special modo le teenagers: una giovane ogni 20 americane in età da college si identifica come trans». Altro dato emblematico: fino al 2007 negli Stati Uniti esisteva una sola clinica per transgender, oggi se ne contano 300, con centinaia di pediatri che prescrivono, già alla prima visita, trattamenti bloccanti e ormoni cross-sex, anche a minorenni. «Il testosterone è facilmente ottenibile così come gli interventi di doppia mastectomia, che non necessariamente richiedono il consenso dei genitori e la prescrizione medica» ha raccontato la Shrier. Che a marzo 2021 è stata audita davanti al Senato americano sul controverso Equality Act: un disegno di legge che mira a trasformare l’identità di genere in una categoria protetta ai sensi del Civil Rights Act del 1964. E a rendere così impossibile qualsiasi distinzione legale tra una donna e un maschio biologico che rivendichi, per qualsiasi motivo, un’identità femminile. In Canada, un recente disegno di legge vieta di praticare le «terapie di conversione». Rischiano due anni di prigione tutti i soggetti – quali terapisti, sacerdoti o semplici consulenti scolastici – scoperti nel tentativo di modificare l’orientamento sessuale di un individuo GD in eterosessuale o l’identità di genere in «cisgender». È reato spingere un paziente gender a ritrovare se stesso, ma non il contrario.

    Il fenomeno dei «detransitori» (detransitioners) è sempre più diffuso. «La detransizione di genere è un fenomeno emergente ma poco compreso nella nostra società, che pone sfide professionali e bioetiche significative per i clinici che lavorano nel campo della GD» ammette una ricerca scientifica internazionale del 2021 intitolata «Una tipologia di detransizione di genere e le sue implicazioni per gli operatori sanitari». Dove si riconosce, esplicitamente, la sottovalutazione del fenomeno: «I detransitori sono una popolazione sottoservita le cui esperienze dobbiamo ascoltare e capire se miriamo davvero a migliorare l’assistenza sanitaria per le persone con GD. Ciò richiederà ricerche approfondite per saperne di più sulle loro esperienze, motivazioni, bisogni e richieste uniche». Per molti, l’unica richiesta sarebbe quella di lasciare ai bambini il diritto, lento, di pensarsi e di ripensarsi. Liberi dallo sguardo giudicante e dalle cure «affermative» della società.

  • Italia sesta in Europa per leadership femminile in azienda, ma solo il 4% delle donne è Ceo

    I progressi ci sono, ma non tutti in Europa hanno lo stesso passo nel cammino che porta le donne ai vertici delle aziende. E la pandemia di Covid, tra nuovi equilibri di conciliazione e crisi dell’occupazione, rischia di pesare ancora di più sul mondo femminile. E’ la fotografia scattata dallo studio europeo di Ewob, l’associazione European Women on Boards di cui fa parte l’italiana Valore D, che ogni anno analizza la rappresentanza di genere nei consigli di amministrazione e nei posti di comando aziendali delle più grandi realtà europee.

    In Norvegia, Francia, Regno Unito, Finlandia e Svezia le aziende sono vicine all’equilibrio di genere ai vertici societari, diversamente da ciò che si registra in paesi come Polonia e Repubblica Ceca, tutt’altro che orientati alla leadership femminile. L’Italia si trova in sesta posizione nell’indice di Gender Diversity. Si colloca nella parte alta della classifica registrando un indice di 0,60 – leggermente superiore alla media europea – e posizionandosi davanti a Olanda, Belgio e Irlanda. Con un indice di 0,74 è la Norvegia a vantare le aziende più performanti in termini di uguaglianza di genere. Nel Belpaese i dati testimoniano una buona presenza di donne nei consigli di amministrazione (22%) e nei comitati di controllo (45%) dettata anche, tuttavia, da una legislazione favorevole. Ma sui livelli esecutivi la musica cambia: le donne al vertice delle aziende sono solo il 17% contro il 33% della Norvegia e il 25% del Regno Unito e solo il 4% riveste il ruolo di amministratore delegato, contro il 21% della Norvegia o il 15% dell’Irlanda. “È grazie alla legge Golfo-Mosca se oggi in Italia abbiamo migliorato la rappresentanza femminile nei Consigli di amministrazione, ma il percorso è lungo. Ancora troppo esiguo il numero di donne ai vertici delle aziende nei livelli executive e ceo”, spiega Paola Mascaro, Presidente di Valore D. Sono appena il 6% le società che compongono l’indice di Borsa Stoxx Europe 600 con a capo una donna e solamente in 130 (19%) è presente una donna che a livello europeo ricopre la funzione di amministratore delegato o direttore operativo. La parità nella stanza dei bottoni però sembra ancora lontana: i ruoli dirigenziali sono il 28% del totale. La presenza femminile all’interno dei Cda è invece del 34% ed è il livello di governance che registra la maggiore partecipazione delle donne.Il 2020, nonostante la pandemia, è stato comunque un anno di progresso. “Rispetto al 2019, l’avanzamento della leadership femminile si è tradotto concretamente in un aumento delle donne Ceo che oggi sono 42, 14 in più rispetto all’anno scorso”, sottolinea Päivi Jokinen, presidente di European Women on Boards.

  • Nei board dei grandi gruppi latita la presenza femminile

    Nel settore tech inglese vi è una “preoccupante” mancanza di diversità tra i suoi dirigenti senior. Lo rivela un recente rapporto dell’agenzia Inclusive Boards riportato dal Guardian secondo cui il settore è in ritardo rispetto al FTSE 100 e all’economia in generale su misure che includono la rappresentanza di genere, razza e classe. Solo l’8,5% dei leader senior nella tecnologia proviene da un background di minoranza, secondo il rapporto, mentre le donne costituiscono solo il 12,6% dei membri del consiglio di amministrazione del settore  rispetto alla rappresentanza femminile del 30% ora raggiunta dalle aziende del FTSE 100.

  • Stockholm City council votes to ban sexist and racist advertising on billboards

    Stockholm City council voted on Monday in favour of removing sexist and racist ads from the city’s advertising billboards, Sverige Radio reports.

    The City council will process complaints on advertising that has already been posted; the complaints will then be processed, companies notified, at which point they will have 24-hours to take down their adds before the Council intervenes.

    Stockholm’s 700 billboards are managed by the transport commission; the commission will include a “sexism and racism” clause on contracts with advertising agencies and the system will no longer rely on self-regulation.

    By 2016, the Swedish Advertising Ombudsman reported between 250 and 1,000 complaints a year concerning gender discrimination. In approximately half the cases reported in 2015 (54%), the ombudsman upheld the complaints. In Sweden, gender bias in advertising is seen as discrimination against women rather than “indecency.”

    The ombudsman doesn’t have any sanctioning power but advertisers more often than not comply with instructions to pull out specific adds.

     

  • #Diversitywins: FCB Milan firma la campagna dedicata alle diversità che fanno bene al business e alla reputazione delle aziende

    E’ Greta, copywriter non vedente, la prima protagonista della campagna #DIVERSITYWINS ideata dall’agenzia FBC Milan e nata in occasione del primo “Diversity Brand Summit”, evento unico nel suo genere in Italia che indaga il ruolo della diversità in azienda. La manifestazione, voluta da Francesca Vecchioni, Presidente di Diversity (associazione no profit impegnata nella promozione di politiche di diversity) e in collaborazione con Focus Management (società di consulenza manageriale con competenze strategiche anche in ambito CSR), si svolgerà a Milano giovedì 8 febbraio, dalle ore 14.00 alle 18.00, presso la Fondazione Giangiacomo Feltrinelli (Viale Pasubio, 5).

    La campagna nasce per promuovere la tematica della Diversity & Inclusion in azienda con l’obiettivo di dimostrare che le aziende inclusive sono più apprezzate dai consumatori, attirano più talenti e migliorano le performance economiche, tema al centro del Summit.  Per farlo FCB Milan ha deciso di dar voce a tutti quei talenti che, grazie alla loro unicità, dimostrano la ricchezza delle differenze, valorizzando i team e rappresentando davvero la società che ci circonda. E Greta è il primo concreto esempio di #DIVERSITYWINS. Con lei ci saranno Top Manager di importanti aziende quali Airbnb, Amazon, Ambasciata del Canada, American Express, Crédit Agricole, Diesel, Google, Lierac e Vodafone, che hanno raccontato la loro storia di diversità di genere, di orientamento sessuale, di etnia, di età, di status, ma soprattutto di inclusione in azienda. “Questa campagna mostra come la diversità non sia una debolezza bensì una grande forza” – afferma Francesca Vecchioni -.  “Oggi più che mai – continua – abbiamo bisogno di racconti personali per comprendere la forza di questo valore. Ognuno di noi è diverso, perché ognuno di noi è unico, e l’incontro delle nostre differenze è il driver di crescita più grande”.

Pulsante per tornare all'inizio