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  • World’s longest detained journalist wins rights prize

    A journalist detained in Eritrean prison without trial for 23 years has won a Swedish human rights prize for his commitment to freedom of expression.

    Dawit Isaak, who holds dual Eritrean-Swedish citizenship, was given the Edelstam Prize “for his… exceptional courage”, the foundation behind the award said in a statement.

    Dawit was one of the founders of Setit, Eritrea’s first independent newspaper.

    He was detained in 2001 after his paper published letters demanding democratic reforms.

    Dawit was among a group of about two dozen individuals, including senior cabinet ministers, members of parliament and independent journalists, arrested in a government purge.

    Over the years, the Eritrean government has provided no information on his whereabouts or health, and many who were jailed alongside him are presumed dead.

    The Edelstam Prize, awarded for exceptional courage in defending human rights, will be presented on 19 November in Stockholm.

    Dawit’s daughter, Betlehem Isaak, will accept the prize on his behalf as he remains imprisoned in Eritrea.

    His work with the Setit included criticism of the government and calls for democratic reform and free expression, actions that led to his arrest in a crackdown on dissent.

    The Edelstam Foundation has called for Dawit’s release, urging the Eritrean authorities to disclose his location and allow him legal representation.

    “Dawit Isaak is the longest detained journalist in the world. We are very concerned about his health and his whereabouts are unknown, he is not charged with a crime, and he has been denied access to his family, consular assistance, and the right to legal counsel – effectively, it is an enforced disappearance,” said Caroline Edelstam, the chair of the Edelstam Prize jury.

    His “indefatigable courage stands as a testament to the principle of freedom of expression.”

    The Edelstam Foundation also urged the international community to pressure Eritrea for Dawit’s release and to advocate for human rights reforms.

    The Edelstam Prize honours individuals who show exceptional bravery in defending human rights, in memory of Swedish diplomat Harald Edelstam.

    Eritrea is the only African country without privately owned media, having shut down its private press in 2001 under the pretext of “national security”.

    Dawit, who fled to Sweden in 1987 during Eritrea’s war for independence, returned after the country gained independence in 1993 after becoming a Swedish citizen.

    There have been no elections in Eritrea since its independence, and President Isaias Afwerki has held power for nearly 31 years.

  • Giornalista ai domiciliari in Russia per aver diffuso notizie sulla strage di Bucha

    Un tribunale russo, secondo quanto ha riferito l’agenzia di stampa “Ria Novosti”, ha ordinato che il giornalista dell’edizione russa di Forbes, Sergej Mingazov, sia messo agli arresti domiciliari. Il suo avvocato, Konstantin Bubon, ha reso noto sulla propria pagina Facebook che Mingazov è stato arrestato a Khabarovsk con l’accusa di aver diffuso false informazioni sull’esercito russ: il giornalista aveva pubblicato sul suo canale Telegram notizie circa gli eventi nella città ucraina di Bucha, dove la popolazione fu trovata sterminata poco dopo l’inizio delle ostilità russe in Ucraina.

    Oltre a scrivere per “Forbes”, infatti, Mingazov ha gestito in passato un canale Telegram, “Khabarovskaja Mingazeta”, dedicato agli eventi che riguardano la regione di Khabarovsk e l’Estremo Oriente della Russia. E proprio attraverso questo canale Mingazov avrebbe “ripostato”, secondo le accuse, dei messaggi presi da altre fonti che accusano l’esercito russo di aver ucciso dei civili a Bucha.

    Nel 2022, Mingazov aveva rilanciato dei messaggi pubblicati su altri canali Telegram che accusavano la Russia di aver commesso un massacro a Bucha. Bubon ha precisato ieri che le autorità hanno perquisito l’abitazione di Mingazov, confiscando telefonini e computer di tutti i membri della sua famiglia.

    Procedendo all’arresto le autorità hanno anche perquisito l’abitazione di Mingazov, confiscando telefonini e computer di tutti i membri della sua famiglia.

  • I figli di Khassoggi salvano i killer del padre dalla pena capitale

    Il gesto di clemenza è arrivato in una delle ultime notti di Ramadan, come suggerisce la tradizione islamica. “Noi, figli del martire Jamal Khashoggi, annunciamo di voler perdonare coloro che hanno ucciso nostro padre”. Poche parole che hanno il peso di una pietra tombale sulle speranze di chi chiedeva giustizia per la brutale uccisione del reporter saudita, il 2 ottobre 2018 nel consolato di Riad a Istanbul. Con il perdono annunciato su Twitter dal figlio maggiore Salah, per i killer dell’editorialista del Washington Post, i cui resti non sono mai stati ritrovati, si apriranno le porte della commutazione della pena e, in futuro, magari anche quelle del carcere.

    Secondo i media di Riad, con il “perdono” dei familiari della vittima dovrebbe infatti essere commutata in una pena minore la condanna a morte inflitta a cinque imputati da un tribunale del Regno. Incerto resta il destino degli altri tre condannati a 24 anni complessivi di carcere, mentre i sospetti mandanti l’avevano già fatta franca dopo che a dicembre i giudici sauditi avevano tolto l’aggravante della premeditazione, scagionando i due fedelissimi del principe ereditario Mohammed bin Salman, l’ex braccio destro della comunicazione, Saud al-Qahtani, e l’ex numero due dei servizi segreti, il generale Ahmed al-Assiri.

    Ma l’annuncio di Salah Khashoggi si accompagna a forti sospetti di un accordo con la casa dei Saud, che secondo il Washington Post avrebbe lautamente ricompensato lui e gli altri figli del giornalista con proprietà immobiliari del valore di milioni di dollari e ingenti somme di denaro. Accuse che i familiari hanno sempre negato. In ogni caso, è un esito che permette a Mbs – come viene chiamato il principe – di archiviare almeno sul piano giudiziario una drammatica vicenda che ne ha macchiato l’immagine di aspirante sovrano riformatore, specie dopo che i rapporti della Cia e degli esperti Onu avevano escluso che potesse non sapere dell’operazione di Istanbul.

    Dal resto del mondo continuano a levarsi voci indignate. A partire dalla fidanzata della vittima, l’ultima a vederlo in vita fuori dalla sede diplomatica. “Nessuno ha il diritto di perdonare gli assassini. Jamal Khashoggi – ha scritto su Twitter Hatice Cengiz – è diventato un simbolo internazionale più grande di tutti noi, ammirato e amato. Jamal è stato ucciso all’interno del consolato del suo Paese mentre prendeva dei documenti per il nostro matrimonio. L’imboscata e il suo efferato omicidio non vanno in prescrizione. Io e altri non ci fermeremo finché non avremo giustizia per Jamal”. Dura la reazione anche della relatrice speciale delle Nazioni Unite sulle esecuzioni extragiudiziali, Agnes Callamard, che dopo aver indagato per mesi sulla vicenda ha parlato di “prove credibili” di un coinvolgimento di Mbs. Secondo l’esperta dell’Onu, che non parla però a nome del Palazzo di Vetro, è un annuncio “scioccante”, anche se “atteso”, che rappresenta un nuovo atto della “parodia della giustizia saudita”.

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