Gran Bretagna

  • 432 NO alla Brexit contro 202 SI’

    Quel che si prevedeva è accaduto. La Camera dei Comuni ha respinto l’accordo del governo con l’UE per l’uscita del Regno Unito dall’Europa. Quel che non si prevedeva, invece, è stata la dimensione del NO: 432 pareri contrari contro soltanto 202 a favore. Il che vuol dire che la crisi in seno al parlamento, ed in particolare in seno al partito conservatore, è molto più ampia di quel che si temeva. Una larga fetta di deputati conservatori ha votato contro il proprio governo, dando man forte all’opposizione laburista, che non ha mai dichiarato che Brexit vuole. Il partito di Corbyn vuole innanzitutto le dimissioni della May. Per il resto si vedrà! Il che sta a dimostrare che anche tra i laburisti ci sono opinioni contrarie e divergenti. Alcuni vorrebbero un secondo referendum, nella speranza che stavolta la Brexit sia respinta, ma Corbyn non è dello stesso parere. La volontà dei deputati comunque è stata chiara: No a questa Brexit negoziata dalla May nel corso di 18 mesi. Quale Brexit, allora? Quella senza accordo, con conseguenze incalcolabili per la finanza e per l’economia, tanto del RU che dell’UE? Quella con una presenza del RU nell’Unione doganale (e quindi nel mercato unico) a tempo indeterminato? Sarebbe salvaguardata in questo modo la libera circolazione delle merci alla frontiera dell’Irlanda del Nord con la repubblica irlandese, come vorrebbe il partito nord-irlandese che sostiene la May al governo. Sarebbe la Brexit del cosiddetto Piano B, vale a dire con modifiche all’accordo attuale per chiedere ulteriori rassicurazioni sulla dichiarazione politica facente parte dell’accordo attuale che riguarderebbero il “backstop” con il RU dentro l’Unione doganale. Una Soft Brexit con una proroga della sua entrata in vigore per permettere un negoziato finalizzato a non prevedere la piena permanenza nel mercato unico, ma una forma di accordo di libero scambio simile a quello che l’UE ha negoziato recentemente con il Canada. Le ipotesi sono molte, ma probabilmente non esiste per ora nessuna maggioranza a favore di esse.  E’ indubbio che il ritorno dei dazi doganali e l’entrata in funzione delle dogane impensierisce molti produttori. Essere tagliati fuori dal grande mercato unico fa temere una diminuzione dei traffici commerciali, con conseguenze negative nel settore della produzione e dei trasporti. Quale soluzione scegliere, allora? L’incertezza è sovrana e i rischi del peggio non sono solo minacce verbali. Molti si chiedono, anche a livello internazionale, che cosa farà la May? Rimarrà in carica o darà le dimissioni per favorire un’uscita dalla crisi? Conoscendo il suo carattere e la sua tempra di combattente, i suoi amici affermano che non abbandonerà il governo, tanto più che non esiste al momento attuale una ipotesi alternativa dichiarata. La frammentazione delle forze politiche, unita a quella della Scozia che non vuole la Brexit, non permette al momento di imbarcarsi per un approdo sicuro. Ricostituire l’unità dei conservatori e pretendere una visione unitaria dei Laburisti sembrano ipotesi lontane dalla realtà. Siamo portati a credere, come abbiamo affermato in altre occasioni, che la Brexit, più che un problema per l’Europa, sia soprattutto un problema interno inglese. Un sovranismo mal posto, un populismo un po’ retorico, un nazionalismo fuori tempo sono tutti elementi che non possono essere ricomposti con la necessità dello stare insieme e con una geopolitica razionale. La Brexit è anche un problema di cultura ed è difficile, per il pragmatismo anglosassone, rendersene conto. Occorre tempo. Ma nel frattempo bisogna riuscire a far andar d’accordo le frontiere con la libera circolazione e le relazioni commerciali con la libertà di scambio. Le sfide che nel mondo globale attendono gli europei, inglesi compresi, non aspettano certamente le sottigliezze dei politicanti di professione. Il mondo va avanti e l’Europa, Regno Unito compreso, non può  permettersi di fermarsi davanti al no dei deputati laburisti, unito a quello dei deputati conservatori che rifiutano la leadership del loro Primo ministro. La posta in gioco è troppo alta perché si rinunci a quel senso di responsabilità richiesto dalla gravità della situazione. Anche l’Italia avrebbe una lezione da tirare dalla realtà britannica. Chiacchere a vanvera sull’Europa e sulla sua moneta unica non favoriscono comprensione e solidarietà, due elementi indispensabili per lo stare insieme senza traumi. Così come non portano a soluzioni condivise i sovranismi populisti. Una Brexit mal riuscita avrebbe conseguenze incalcolabili anche per l’Italia.

  • Sempre più complicata la situazione della Brexit

    L’11 gennaio alla Camera dei Comuni inizierà il dibattito sull’accordo con l’UE approvato dal governo May e il voto dovrebbe aver luogo tra il 14 ed il 15 gennaio. Il nuovo anno non sembra aver portato novità significative. Non si sono fatti passi avanti nel tentativo di scongiurare il voto negativo, che riporterebbe la situazione al punto di partenza, vale a dire al rischio più che certo di un’uscita del Regno Unito dall’Unione europea senza accordo. Sarebbe una situazione paradossale. Il governo ha approvato l’accordo con le dimissioni di tre ministri, i conservatori pro Europa vorrebbero un secondo referendum, ma per ora non esiste nessuna iniziativa in proposito. Anche una parte dei laburisti vorrebbero un secondo referendum, ma Corbyn, il loro leader, non fa una mossa in questa direzione; si barcamena ambiguamente nella speranza di giungere alla caduta del governo e di presentarsi come candidato alla sostituzione della May. Un altro aspetto del paradosso è rappresentato dal fatto che il nodo non sciolto nell’accordo raggiunto fino ad ora è la questione del confine con l’Irlanda del Nord, una frontiera aperta con l’UE, come vogliono gli irlandesi che sono al governo con la May, o una frontiera chiusa che imporrebbe la dogana con la repubblica d’Irlanda? La prima soluzione prevede l’appartenenza dell’Irlanda del Nord all’unione doganale con l’Europa e la seconda è rifiutata dai politici che sono al governo con la May. Che fare, dunque? Prorogare la data dell’uscita, il 29 marzo, come pronostica qualcuno, oppure uscire alla data prevista e senza trattato per il dopo? Già, senza trattato! Ma è proprio questa situazione che impaurisce molti inglesi e che fa temere anche per il futuro del Regno Unito. Non a caso, infatti, si sta registrando un boom di passaporti che offrono una seconda nazionalità agli inglesi. La Germania, l’Irlanda, la Spagna e il Portogallo hanno registrato un significativo aumento  delle richieste di passaporto da parte degli inglesi. Nel 2017 in Germania sono state richieste 7.500 naturalizzazioni contro le 622 del 2015, in Irlanda c’è stato il 22% d’aumento, in Spagna il numero delle richieste è triplicato. Sono dati allarmanti che corrispondono alla paura dei cittadini inglesi di non poter più lavorare e viaggiare liberamente dopo la data fissata per l’uscita dall’Europa. Secondo un sondaggio effettuato su un campione di 25mila intervistati, solo il 22% dei cittadini britannici sostiene l’accordo raggiunto con l’UE dalla May: un dato che testimonia il grave stato d’incertezza che ha caratterizzato questi ultimi mesi e che ha scavato una profonda frattura tra il governo e l’opinione pubblica. Lo stesso governo ha organizzato una simulazione del passaggio di camion al porto di Dover, l’approdo più vicino alla Francia, nel caso di una frontiera chiusa con l’Europa e di un controllo doganale. Ogni giorno, dal porto di Dover passano circa 10.000 furgoni. Un rapporto dell’University College di Londra ritiene che il mancato accordo sulla Brexit avrebbe delle conseguenze incredibili. Un aumento minimo dei controlli alla dogana comporterebbe un’enorme peggioramento del traffico. Anche alcuni secondi farebbero una differenza enorme. Secondo il detto rapporto universitario un aumento di 40 secondi a veicolo non avrebbe alcun impatto sul traffico. Se i ritardi arrivassero invece a 70 secondi per ogni veicolo, ci sarebbero delle code di sei giorni in cui sarebbero coinvolti dai 1200 al 2724 camion. Con un ritardo di 80 secondi – spiega il rapporto – non ci sarebbero rimedi: tutto il paese rimarrebbe sconvolto e incastrato nel traffico. Se il no deal, cioè la mancanza di un trattato per dopo l’uscita, fa intravedere soltanto per il traffico doganale ostacoli e complicazioni come quelli previsti dallo studio universitario citato, non si può certamente affermare che la situazione sia tranquilla a Londra. La crisi è palese e minaccia d’aggravarsi con il voto negativo del parlamento del 15 gennaio prossimo. Una Brexit senza trattato d’uscita sarebbe certamente un disastro. E ancora possibile porvi rimedio? L’estensione dell’art. 50, che richiede l’approvazione dei 27 Stati dell’UE, sembra difficile da raggiungere. A meno che la decisione di un secondo referendum, oppure le elezioni anticipate a causa di una crisi del governo May non rappresentino della buone ragioni per rinegoziare il trattato.

  • Dopo quasi trent’anni, il Regno Unito ammette: non esistono razze canine pericolose

    (Cremona, 22 ottobre 2018)- Con un dettagliato rapporto parlamentare, la Commissione Ambiente di Westminster ha dichiarato che non ci sono prove scientifiche sufficienti per vietare alcune razze canine per “intrinseca pericolosità”. Una presa di posizione che punta a rivedere il Dog Dangerous Act del 1991, sulla base di proposte gestionali alternative ai divieti di razza e molto vicine al modello di prevenzione italiano.

    Il modello italiano vigente a tutela dell’incolumità pubblica dalle aggressioni di cani, infatti, non si basa sul divieto di razze, grazie all’intervento dei Medici Veterinari Italiani, in particolare degli specialisti in medicina veterinaria comportamentale; più di dieci anni fa l’allora Ministro Sirchia emanò un elenco di razze canine vietate che fu poi ritirato grazie alla mobilitazione dell’ANMVI. Inoltre, già allora i Medici Veterinari italiani paventavano il rischio di abbandoni e di soppressioni indiscriminate ai danni di cani innocui solo in virtù della loro razza, un rischio che si è puntualmente verificato nel Regno Unito secondo i parlamentari inglesi.

    Ma anche il modello italiano, basato sull’educazione dei proprietari, va rivisto. L’ANMVI ha proposto la traduzione in legge della vigente ordinanza ministeriale sulle aggressioni canine, ritenendo inefficace l’offerta formativa volontaria da parte dei comuni e inattuabili le misure di intervento ad episodio avvenuto.

    Inoltre,  proprio come il documento di Westminster,  anche l’ANMVI chiede una puntuale registrazione degli eventi di morsicatura, di aggressione e dei relativi danni alle vittime, sia umane che di altri consimili.

    In assenza di una epidemiologia puntuale, non sono programmabili le risorse finanziarie necessarie alla prevenzione e alla gestione del fenomeno, che- va sottolineato- in Italia è stato collocato fra i Livelli Essenziali di Assistenza.

    Fonte: Comunicato stampa ANMVI

  • Libero scambio: quale modello?

    La libera circolazione delle merci non gravata di alcun tipo di tassazione aggiuntiva rappresenta lo scenario ideale ed ovviamente teorico al quale i vari accordi commerciali tra le diverse realtà economiche e  politiche timidamente tendono ad avvicinarsi. Nel mondo reale infatti la concorrenza non comincia tra prodotti (piuttosto tra filiere produttive), e quindi tra sistemi normativi relativi alla fiscalità, alla tutela del lavoro e della produzione e, ultimamente, anche alla sostenibilità. Questi sistemi si confrontano poi attraverso i prodotti (e le filiere), e quindi  la sola ricerca di un aumento della produttività non può certamente compensare i dumping sociali, fiscali ed economici tra Paesi evoluti ed in via di sviluppo. Una delle ricette più banali proposte da oltre quindici anni dal mondo accademico italiano per combattere l’invasione di prodotti a basso costo provenienti dai Paesi del Far East.

    In questo contesto così articolato di un mercato globale che pone in concorrenza beni di consumo ed intermedi, espressione di culture e normative assolutamente diverse tanto diventare esse stesse fattori competitivi, recentemente si è innescata una nuova situazione politica ed economica con  l’esito del referendum in Gran Bretagna relativo all’uscita dall’Unione stessa. La gestione della Brexit infatti rappresenta una nuova opportunità in relazione alle politiche commerciali di libero scambio che vede contrapposte l’Unione Europea alla Gran Bretagna. Il punto d’arrivo dichiarato all’Unione stessa può venire indicato in due obiettivi: il  primo relativo ad un accordo di libero scambio, quindi con zero quote, zero tariffe, ed un secondo, forse ancora più qualificante, relativo al riconoscimento delle oltre tremila specificità o, meglio, tremila indicazioni geografiche per le quali l’Europea chiede la protezione all’interno del mercato britannico.

    In questo ambito la posizione dell’Italia è assolutamente preminente in quanto quasi un terzo (935) di queste protezioni richieste rappresenta appunto l’indicazione di prodotti italiani che vanno dal prosecco al parmigiano reggiano. Questo punto rappresenta una scelta molto qualificante, e potremmo aggiungere assolutamente tardiva, da parte della Unione Europea. In questo senso, infatti, vanno ricordate le critiche che vennero altrettanto giustamente mosse all’accordo relativo e flussi commerciali tra Unione Europea e Canada (il Ceta) all’interno del quale la tutela delle specificità geografiche italiane si fermò al misero numero di quarantatre. In altre parole nel Ceta hanno trovato una propria tutela  poco più del 4% di quei prodotti espressioni della specificità geografica e culturale italiana che invece rappresentano l’obiettivo attuale nella trattativa con la Gran Bretagna. Nella scelta della trattativa tra Gran Bretagna ed Unione Europea la tutela del prodotto inteso come il risultato finale di una filiera produttiva, e quindi espressione contemporanea della cultura di un determinato Paese, pare abbia trovato finalmente una propria espressione e tutela.

    Tornando quindi agli obiettivi raggiungibili in riferimento al Ceta, tutte le critiche risultarono assolutamente corrette e nulla avevano a che fare, come qualcuno disse, in base ad una contrarietà culturale con gli accordi relativi ai flussi commerciali ed al libero mercato. Quest’ultimo rappresenta certamente un traguardo che indica una direzione più che un punto da raggiungere.

    Tale direzione può essere indicata ancora meglio non attraverso l’omogeneizzare delle diverse espressioni culturali che i prodotti esprimono ma fornendo una tutela aggiuntiva a quella nazionale per offrire successivamente la possibilità al consumatore di scegliere liberamente attraverso il proprio acquisto.

    In fondo la semplice condizione  per rendere un libero mercato viene rappresentata dalla conoscenza e quindi dalla certificazione della filiera produttiva.

  • Un buffone non può diventare re

    Chi si aspetta che nel mondo i diavoli vadano in giro con le corna e
    i buffoni coi sonagli, sarà sempre loro preda e il loro zimbello.

    Arthur Schopenhauer

    Il 6 luglio 2018 a Londra, durante la riunione del consiglio dei ministri, la premier britannica Theresa May ha presentato il suo programma della “Linea morbida sulla Brexit”. Programma che era stato pubblicato un giorno prima come “Libro Bianco” (White Paper). Un programma che non poteva essere condiviso e approvato da alcuni importanti membri del suo governo, ben noti come euroscettici.

    Il 9 luglio scorso le agenzie britanniche dell’informazione, e poi tutte le altre, diffondevano due notizie importanti. Di mattina presto veniva pubblicamente confermato che il ministro per la Brexit David Davis aveva rassegnato le sue dimissioni. Nel primo pomeriggio è arrivata l’altra notizia importante, quella delle dimissioni del ministro degli Esteri Boris Johnson. Tutti e due, da tempo, non condividevano il modo con il quale la premier Theresa May voleva trattare i futuri rapporti tra la Gran Bretagna e l’Unione europea.

    Un giorno dopo, e cioè il 10 luglio e sempre a Londra, in una simile scombussolata situazione politica britannica, si è svolto il vertice, ad alto livello, dei rappresentanti delle istituzioni dell’Unione europea e di alcuni Stati dell’Unione, con i rappresentanti dei sei paesi dei Balcani occidentali. Un vertice, nell’ambito di quello che ormai è ufficialmente noto come il Processo di Berlino, per l’allargamento dell’Unione europea con i paesi balcanici. Il momento però, non è stato per niente appropriato. Anche per il semplice fatto che colui il quale doveva dare formalmente il benvenuto agli ospiti, cioè il ministro Johnson, un giorno prima aveva rassegnato le dimissioni. Un fatto, di per se, molto significativo. Sembrava quasi surreale e grottesco parlare di allargamento a Londra. Proprio lì, dove un giorno prima due importanti ministri avevano rassegnato le loro dimissioni perché non credevano più nella bontà dell’Unione europea, nonché nelle sue istituzioni e politiche. Mettendo così in primo piano l’eurosetticismo e offuscando il vero obiettivo del vertice. Il caso ha voluto che si doveva parlare d’allargamento, nell’ambito del Processo di Berlino, proprio nella capitale di uno Stato il quale, a fine marzo 2019, non farà più parte dell’Unione europea, in seguito al referendum del 23 giugno 2016 sulla Brexit. Perché, comunque sia, non si può non pensare ormai che la Gran Bretagna rappresenti più un paese che possa credibilmente sostenere la causa dei Padri Fondatori dell’Unione europea. Sono stati questi significanti simbolismi, che non potevano ispirare per niente ottimismo. Ragion per cui non dovrebbe essere stata sentita bene neanche la premier May, durante il sopracitato vertice, quando dichiarava che “La Gran Bretagna si sta allontanando dall’Unione europea” ma che comunque rispetterà “le responsabilità che ha per i paesi balcanici”.

    Il 13 luglio scorso a Londra è arrivato il presidente statunitense Donald Trump, una visita che non è stata per niente facile e, men che meno, amichevole. Visita durante la quale non sono mancati gli incontri imbarazzanti e le dichiarazioni provocatorie. In un’intervista rilasciata al noto quotidiano britannico “The Sun”, il presidente Trump apprezzava il dimissionario ministro degli Esteri Boris Johnson, convinto che lui “sarebbe un ottimo primo ministro”. Una sfida aperta alla premier May, con la quale si è incontrato in seguito. Ma anche la May non è rimasta a bocca chiusa. Dopo l’incontro con il presidente statunitense, lei, “maliziosamente”, ha rivelato alla BBC: “Mi ha detto che dovrei citare in giudizio l’Unione europea, non negoziare con loro, [ma] denunciarli”.

    Il presidente Trump era arrivato a Londra da Bruxelles, dopo il vertice NATO (11 – 12 luglio). Anche in quel vertice non sono mancate le minacce, le provocazioni e le dichiarazioni “forti”. Alcune delle quali “aggiustate” e “convenzionalmente ammorbidite” in seguito. Come quella del presidente Trump “di uscire dalla NATO” se gli alleati non dovessero rispettare le spese militari richieste dagli Stati Uniti. Secondo l’agenzia Associated Press, Trump avrebbe detto però, in un altro momento, che “gli Alleati della NATO abbiano deciso di aumentare le spese per la difesa oltre i precedenti obiettivi”. Affermazione contraddetta subito dal presidente francese Macron, secondo il quale non c’è stato “nessun accordo sull’aumento delle spese militari”. Per poi arrivare alle posizioni finali degli alleati. Queste sono state soltanto alcune discrepanze e contrarietà verificate e rese pubbliche mentre si svolgeva il vertice NATO a Bruxelles.

    Nello stesso periodo anche il primo ministro albanese, nelle sue vesti istituzionali, era presente in due dei sopracitati vertici. Era presente al vertice di Londra, nell’ambito del Processo di Berlino per l’allargamento dell’Unione europea con i paesi balcanici. Era presente anche al vertice NATO a Bruxelles. Considerando sia il clima in cui sono stati svolti questi vertici, che l’importanza e l’impatto reale sui futuri sviluppi politici e geopolitici nei singoli paesi e a livello internazionale, allora si potrebbe facilmente immaginare la posizione ed il “ruolo” del primo ministro albanese in simili avvenimenti. Sia per il peso dell’Albania nella movimentata schacchiera internazionale, sia per altri, ormai pubblicamente noti motivi, anche a livello internazionale e per niente positivi. Per queste ovvie e comprensibili ragioni il primo ministro albanese si è trovato completamente trascurato da tutti, sia a Londra, che a Bruxelles. Il che per lui rappresenta un’enorme sofferenza. Perché, discreditato ormai in patria, cerca disperatamente “sostegni” internazionali. Non importa come e a quale prezzo. Anche perché le scelte si riducono sempre di più. Mentre la realtà politica e sociale albanese si aggrava ogni giorno che passa, riconoscendo in lui il principale responsabile, con tutte le probabili conseguenze.

    A fatti compiuti, risulterebbe, con ogni probabilità, che l’unico obiettivo della presenza del primo ministro albanese, sia a Londra che a Bruxelles, è stato quello di “strappare” almeno un sorriso e/o, magari, una stretta di mano di quelche “pezzo grosso” internazionale e fissare tutto in qualche fotografia. Poco importava se, così facendo, poteva diventare lo zimbello di tutti. Non a caso, commentando la fotografia ufficiale del sopracitato vertice di Londra, la BBC, con la solita ironia britannica, annotava che “qualcuno aveva dimenticato le scarpe”. Si riferiva alle scarpe da tennis bianche che portava il primo ministro albanese. Poco importava per lui, se per realizzare il suo unico obiettivo, poteva sembrare un mendicante che elemosinava un sorriso, una stretta di mano di passaggio, da immortalare subito in una fotografia. Buffonate del genere si fanno soltanto quando uno si trova in serie difficoltà di sopravvivenza.

    Chi scrive queste righe è convinto che il primo ministro albanese, dopo aver causato tanto male in patria, sta cercando disperatamente di fare il buffone all’estero, per ottenere qualsiasi supporto propagandistico. Egli, condividendo la saggezza popolare, secondo la quale un asino resta sempre un asino anche se lo ricopri d’oro, rimane altresì convinto che un buffone non può diventare re.

  • Si dimette anche il ministro degli Esteri Boris Johnson

    Anche Boris Johnson, ministro degli Esteri del governo May, si dimette a due giorni di distanza dalle dimissioni del ministro per la Brexit David Davis. Al suo posto è stato nominato Jeremy Hunt, 51 anni, al governo ininterrottamente dal 2010, per sei anni ministro della Sanità. E’ stato anche ministro dello Sport e responsabile delle Olimpiadi di Londra del 2012. Già in questa settimana Hunt dovrà occuparsi di un evento molto importante, come la visita di lavoro del presidente americano Donald Trump in programma da giovedì sera. Al suo posto, alla Sanità, la May ha nominato Matt Hancok, 39 anni, che abbandona il ministero della Cultura, al quale è stato designato Jeremy Wright, 45 anni, finora Procuratore generale. Con Steve Baker, suo ex numero due, salgono a tre i ministri dimissionari del governo May e gli ultimi due per dissensi con la linea considerata troppo morbida nei negoziati per la Brexit. L’uscita di Johnson rappresenta il tentativo di mettere in ulteriore difficoltà la May, nell’ipotesi di costringerla a cambiare le linee del suo piano. Ma per ora inutilmente. La premier difende a spada tratta il suo progetto di futura relazione con l’UE e sostiene che esso getta la basi per negoziati “responsabili e credibili” con Bruxelles. Alla Camera dei Comuni ha tuttavia dichiarato che il governo deve essere pronto per ogni possibile evenienza, compresa l’ipotesi che non si trovi nessun accordo. Ed ha aggiunto che il governo ha concordato che la proposta (per la quale i ministri Davis e Johnson si sono dimessi) deve essere migliorata, ricordando che nel frattempo il tempo stringe. Il disaccordo con i ministri dimissionari riguarda il modo di gestire il processo di uscita del RU dall’UE e a questo proposito la May ha commentato: “Siamo in disaccordo sul modo migliore per tener fede all’impegno comune di onorare i risultati del referendum” del giugno 2016, quando il 52% dei cittadini britannici ha votato a favore dell’uscita. La May ha comunque difeso la nuova strategia, che prevede nuove intese doganali con l’UE e un’apertura all’ipotesi di un’area di libero scambio con regole comuni almeno per i prodotti industriali e per l’agricoltura. Questo piano – ha spiegato la May – punta a mantenere rapporti commerciali senza attriti e getta una base responsabile e credibile nei negoziati con Bruxelles. Johnson non usa giri di parole: “Il sogno della Brexit sta morendo, soffocato da dubbi inutili”… “Ci avviamo ad assumere lo status di una colonia dell’UE”. E’ il tono di una chiamata alle armi del fronte Tory euroscettico contro il premier Theresa May. E’ l’annuncio della battaglia per sfidare la linea dell’attuale primo ministro in seno al partito conservatore. Il leader dell’opposizione laburista non si lascia scappare l’occasione e ridicolizza la nuova posizione sulla Brexit della May: Il governo è nel caos, ceda il passo! E’ incapace di raggiungere un accordo con l’UE e deve cedere il passo a chi è capace – evocando un cambio della guardia a favore del suo partito, il Labour. E continua: “Non fa chiarezza su nessuno dei punti chiave, non garantisce un confine aperto in Irlanda e lascia il Paese prigioniero della guerra civile Tory, come confermano le dimissioni recenti”.

    La sterlina intanto effettua una brusca inversione di rotta e la politica è in fermento. Donald Tusk, presidente del Consiglio europeo, si rammarica che l’dea del divorzio tra Regno Unito e UE non vada via con Davis e Johnson: “i politici vanno e vengono, ma i problemi che hanno creato per le persone restano. Posso rammaricarmi che l’dea della Brexit non sia andata via con loro”

  • Dimissioni a Londra del ministro della Brexit

    Tutto sembrava calmo e tranquillo sul fronte della Brexit a Londra, dopo che venerdì scorso la May era riuscita ad imporre al Consiglio dei ministri una strategia più conciliante nei confronti dell’Unione europea. Lo stesso ministro David Davis, responsabile per il governo britannico dei negoziati sulla Brexit, aveva sottoscritto il compromesso proposto da Theresa May due giorni prima. Sembrava una pausa ragionevole dopo le vivaci polemiche dei mesi scorsi all’interno del partito conservatore tra i fautori di una uscita drastica dall’UE e quelli più favorevoli ad un’uscita conciliante (tra una hard Brexit ed una soft Brexit). Gli sforzi impiegati dalla premier May per negoziare una separazione accomodante sembravano aver raggiunto un risultato positivo, con la conseguenza di tacitare la conflittualità interna al partito e di presentarsi a Bruxelles con una disponibilità non conflittuale, aperta all’ipotesi di creare una zona di libero scambio post Brexit, con regole comuni per il settore industriale e per l’agricoltura, e di definire nuove intese doganali con l’UE. Ma i conti sono stati fatti senza l’oste, rappresentato in questo caso proprio dal ministro negoziatore che, probabilmente ha deciso, dopo due giorni di riflessione, di non poter accettare la nuova strategia. Le dimissioni del ministro attendono l’ufficializzazione di Downing Street e la nomina di un sostituto che sarà Dominic Raab, 44 anni, attualmente viceministro della Giustizia e in passato elemento di punta per l’uscita dall’UE durante la campagna referendaria del 2016.

    Davis, 69 anni, fa parte della corrente Tory euroscettica e con il suo gesto esprime la contrarietà alle concessioni della May, interpretate dalla corrente dei falchi come un cedimento, anche se inizialmente la premier sembrava aver ricomposto una pur fragile unanimità, ora rotta dalle dimissioni. Questa polemica uscita di scena rischia di creare un effetto domino – dicono gli osservatori – ed il primo a seguire potrebbe essere il ministro degli Esteri, Boris Johnson, Questo effetto manderebbe a pezzi l’esecutivo, la maggioranza e la compattezza del Partito Conservatore, con all’orizzonte lo spettro delle elezioni anticipate e l’incertezza del dopo Brexit, in mancanza di accordi sul negoziato con l’UE. Molti plausi sono giunti al ministro dimissionario dal fronte dei “brexiteers” per il suo gesto coraggioso e rispettoso dei principi, e per converso, molti osservatori danno per scontata una sfida imminente alla leadership della May in seno al partito.

     

  • Britons dash to become German before Brexit

    BERLIN (Reuters) – Driven by the prospect of Britain’s withdrawal from the European Union next year, the number of British passport holders who became German citizens jumped by 162 percent last year, Germany’s Federal Statistics Office said on Wednesday.

    Nearly 7,500 Britons acquired German citizenship last year. This follows a 361 percent rise in 2016, bringing the total for the two years to around 10,400. This is more than double the number of Britons who became Germans in the 15 years from 2000.

    “A link to Brexit is obvious,” said the Office, adding Britons were the second biggest group to be granted German citizenship last year after nearly 15,000 Turks.

    With no Brexit deal yet in sight, despite a leaving date of March 2019, many Britons are worried they will lose the right to live and work in Europe’s biggest economy, which is enjoying an unusually long period of growth and record low unemployment.

    Britons usually need to have lived in Germany for eight years to qualify. Applications take more than six months to process and Britons can take up dual citizenship while Britain is still an EU member.

    Overall, the number of people becoming German rose by 1.7 percent last year to 112,200, the highest level since 2013.

    Reporting by Madeline Chambers; Editing by Raissa Kasolowsky

  • Brexit: la conferma indiretta del reshoring

    Dal momento della sorpresa per l’esito del referendum che stabilì l’uscita della Gran Bretagna dall’Europa non risulta un commento o una previsione da parte del mondo economico, accademico e politico europeo, Italia inclusa, che abbia saputo valutare o perlomeno prevedere gli esiti economici di tale referendum. Si è assistito ad un fiume di dichiarazioni che prevedevano il disastro economico e finanziario unito a quello immobiliare (per la sola città di Londra), a cominciare dal Presidente del FMI Christine Lagarde alla quale si sono accodate via via tutte le compagini politiche ed economiche italiane ed europee.

    Ricordo di aver scritto un pezzo nel quale avanzavo dei dubbi relativamente agli eventi catastrofici che avrebbero dovuto attendere l’economia inglese semplicemente proponendo due fattori economici molto importanti. La Gran Bretagna innanzitutto non faceva parte dell’Euro, di conseguenza gli effetti economici dell’esito sorprendente del referendum si sarebbero rivelati molto più limitati rispetto a quelli di un altro paese che avesse fatto parte della moneta unica. A questo si aggiunga che il rapporto tra debito pubblico e PIL due anni fa risultava al 89%, assolutamente sostenibile e di conseguenza poteva far prevedere un’uscita tutto sommato indolore per l’economia  anglosassone.

    Arriviamo però ad un terzo conclusivo e fondamentale fattore economico: ricordavo come  il primo ministro Cameron avesse investito oltre 400 milioni di sterline al fine di favorire il “reshoring produttivo”, cioè la riallocazione di produzioni una volta delocalizzate nei paesi dell’est Europa o in  estremo Oriente. Una strategia talmente fondamentale ed importante proprio in rapporto agli effetti  sostanziali per la crescita economica britannica che dovrebbe fungere da esempio per le politiche economiche italiane. L’unico che riconobbe la mia posizione come una vera rarità fu Riccardo Ruggeri che mi citò  nel suo intervento su Italia Oggi mentre oggi i suoi acuti interventi sono leggibili all’interno del quotidiano La Verità.

    Tornando al reshoring produttivo, tale strategia economica di sviluppo, che riporta centrale il mondo dell’industria realizzata dal governo Cameron oltre quattro anni addietro, sta ottenendo il proprio risultato come viene confermato dagli investimenti sul territorio inglese delle aziende italiane di macchinari utensili e macchinari di precisione. Dall’economia inglese infatti si sta assistendo ad un nuovo impulso legato alle aziende che hanno riallocato la loro produzione e quindi stanno investendo nell’innovazione di processo utilizzando di conseguenza il know-how di primissimo livello italiano. Questo dimostra, ancora una, volta come l’intera nomenclatura economica europea ed italiana abbia clamorosamente fallito ogni previsione relativa agli esiti economici della Brexit, tanto è vero che a due  anni di distanza, una volta stabilizzate le incertezze legate alla situazione economico-politica assolutamente nuova del  mercato inglese, il sistema economico britannico sta ricominciando ad investire come a diventare un mercato di sbocco per le nostre produzioni di alto livello. Infatti il vero costo della Brexit è oggi legato all’incertezza della situazione assolutamente nuova ed unica, ammortizzata tuttavia dagli investimenti di governi precedenti all’esito del referendum.

    Ancora una volta emerge come le competenze espresse dalle organizzazioni economiche internazionali e nazionali abbiano dimostrato la propria impreparazione ma soprattutto l’incapacità di scindere le proprie convinzioni politiche dalle valutazioni economiche al fine di elaborare un pensiero economico il più possibile obiettivo. Convinzioni ed appartenenze a determinati ambiti politici che probabilmente hanno causato anche la loro ascesa a tali incarichi internazionali e nazionali. Una ulteriore conferma indiretta del declino culturale del nostro Paese e dell’Europa nella sua articolata complessità.

  • Londra cerca una sponda nella Turchia per il business post-Brexit

    In corsa per la rielezione, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha fatto  una visita ufficiale di tre giorni a Londra domenica per provare a superare alcune battute d’arresto nella sua campagna elettorale mentre la lira turca continua a precipitare e le prospettive economiche complessive del Paese sono precarie.

    Le speranze di Erdogan di organizzare manifestazioni elettorali nelle capitali europee sono state preventivamente bloccate dalle nazioni europee ma il Regno Unito ha dimostrato un approccio pragmatico: la Turchia è l’undicesimo partner commerciale della Gran Bretagna, mentre il Regno Unito è il decimo della Turchia. Nel 2016, il valore del commercio bilaterale si è attestato intorno ai 14,2 miliardi di euro, con buone prospettive di crescita. Inoltre, sebbene ora stia per lasciare l’Ue, il Regno Unito è sempre stato un sostenitore dell’adesione della Turchia all’Unione ed stato uno dei primi Paesi ad esprimere solidarietà dopo il tentato colpo di stato del luglio 2016 che il governo turco attribuisce al movimento Gulen e ai seguaci del predicatore statunitense Fetullah Gulen. Anche i il ministro degli esteri britannico Boris Johnson, nonostante abbia scritto un poema dispregiativo su Erdogan, ha chiesto un accordo di libero scambio con la Turchia dopo la Brexit e il primo ministro Theresa May ha firmato l’anno scorso un contratto da 100 milioni di sterline (113 milioni di euro) per BAE Systems, per lo sviluppo di un nuovo jet da combattimento turco.

    Londra ritiene che mercati come la Turchia siano di vitale importanza per il mantenimento del marchio Global Britain durante il processo Brexit. A differenza degli altri partner commerciali europei come la Germania, la Svezia e i Paesi Bassi, il Regno Unito non ha una presenza gulenista forte e apertamente attiva, che è il nemico pubblico numero uno di Ankara. Né il Regno Unito è un hub centrale per il Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK), a capo di un’insurrezione contro lo stato turco per 30 anni.

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