Immigrazione

  • Identità condivise

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Dario Rivolta.

    Vi domandate perché i sentimenti anti-élite e anti politica si stiano diffondendo in tanti Paesi del mondo? Forse non capite perché i Trump di turno raccolgano consensi tra quasi la metà degli elettori delle cosiddette democrazie?  E vi stupite pure che a gestire la politica siano sempre più numerosi i buoni a nulla senza arte né parte mentre chi ha un minimo di competenze si tiene prudentemente da parte?

    Ebbene, se cercate qualche risposta, potete cominciare a trovarla leggendo di due recenti vicende legali, una della Corte di Giustizia europea contro lo Stato Italiano e l’altra di un tribunale francese contro lo scrittore Renaud Camus.

    Nel primo caso la Corte ha sentenziato che l’INPS italiana debba essere obbligata a riconoscere il pagamento degli assegni familiari ai parenti dei cittadini extra-comunitari che lavorano ufficialmente in Italia anche se i loro parenti non vivono nel nostro Paese. Naturalmente, farà testo lo Stato di famiglia rilasciato dal Paese di provenienza dell’immigrato e chi ha redatto la sentenza non ha dubbi sulla correttezza di quel documento poiché dà per scontato che l’efficienza, la precisione e la correttezza di quei sistemi anagrafici siano indiscutibili. Resta il problema qualora il soggetto richiedente, forse un musulmano, abbia più mogli e, magari, figli da tutte loro. Avranno tutti diritto agli assegni familiari?

    Il secondo caso è ancora più emblematico perché rientra contemporaneamente nel filone del “politically correct” e del buonismo verso gli immigrati clandestini. Il Procuratore del tribunale di Parigi che si occupa dei reati a mezzo stampa il 27 novembre scorso ha chiesto che lo scrittore fosse condannato a 4 mesi di prigione e 5000 euro di multa più le spese processuali a suo carico. L’accusa è nata da un esposto della Lega Internazionale contro il Razzismo e l’Antisemitismo e la sentenza è attesa per il 10 febbraio 2021. Quali sono le frasi razziste pronunciate dal settantaquattrenne francese? Eccole: “Una scatola di profilattici offerti in Africa significa tre annegati in meno nel Mediterraneo, centomila euro di risparmio per la CAF (una specie di INPS francese), due celle di prigione liberate e tre centimetri di banchisa di ghiaccio conservati”.  Razzista? Sono calcoli falsi? Il Camus ha forse sostenuto una presunta superiorità razziale dei francesi su non meglio identificati africani? Probabilmente ha solamente descritto una lapalissiana verità, confermata dalla costatazione dei fatti. Non è forse vero che l’esplosione demografica in Africa (venticinque anni fa 750 milioni di abitanti, oggi un miliardo e trecento milioni, nel 2050 i demografi prevedono due miliardi) e la pressione migratoria che ne consegue contribuiscono a mettere a rischio non solo la stabilità pacifica delle nostre società ma anche l’equilibrio ecologico del mondo? Purtroppo, le élite dominanti nei media e nella politica non tollerano più nemmeno il buon senso comune e impongono un pensiero unico piattamente buonista che esclude ogni dissenso critico, anche quando basato sull’evidenza. Alla faccia della libertà d’espressione!

    Ovviamente, il “pensiero unico” che si è fatto strada sull’onda del terzomondismo e si nutre di assurdi sensi di colpa storici instillati a forza nelle menti degli europei non spiega tutti i perché del dilagare dell’astio contro le classi dominanti. La sfiducia del cittadino medio verso chi dovrebbe rappresentarlo è una realtà antica e già nelle commedie di Aristofane della Grecia antica se ne aveva sentore. Oggi, tuttavia, il fenomeno assume dimensioni tali da portare a dubitare della tenuta della stessa forma democratica. I fatti nuovi che si aggiungono ai due esempi sopra riportati vanno ricercati anche in cause economiche e nel sempre più diffuso senso di estraneità che pervade i cittadini di tutti i Paesi occidentali.  Occorre ricordare che la tenuta di una qualunque società si basa sulla percezione di identità condivise e sul confidare, da parte degli strati economicamente più svantaggiati, della possibilità di realizzare un’ascesa sociale, se non per sé, almeno per i figli.

    Il trovare la propria identità nel gruppo sociale in cui si vive è reso più difficile dall’arrivo, in poco tempo e in spazi relativamente ristretti, di grandi quantità di “diversi” che necessitano di molti anni prima di potersi integrare con la popolazione autoctona (sempre che lo vogliano fare). Arrivi più sparpagliati (e diversificati al loro interno) hanno consentito quasi sempre ai nuovi arrivati di integrarsi e di sentirsi parte, a tutti gli effetti, della società in cui sono entrati. Numeri più importanti in tempi brevi spingono a reazioni di rigetto e penalizzano perfino gli ex-“diversi”. La voce ufficiale espressa dal buonismo imperante nell’élite non vuole prendere in considerazione questo disagio e colpevolizza il senso comune e le sue naturali reazioni psicologiche. Di conseguenza, la distanza tra il sentire del cittadino qualunque e la “morale” imposta dagli attuali “padroni del vapore” non può che ingigantirsi e spinge al sentimento di lontananza verso ogni forma di autorità. Come sentirsi parte di uno Stato che non protegge più nemmeno i propri confini territoriali e applica le leggi soprattutto verso i propri cittadini mentre tollera (e protegge) qualunque straniero che arriva abusivamente?  Come accettare di sentirsi parte di una comunità se chi dovrebbe rappresentarla non pratica più differenza tra essere cittadini di uno Stato o infrangerne le leggi cominciando con l’entrarvi illegalmente?

    A tutto ciò si aggiunge (e non è la minor cosa) il costante impoverimento delle classi medie causato, tra l’altro, da una globalizzazione che fu presentata come un’opportunità per tutti ma ha finito per privilegiare soprattutto le multinazionali e le attività finanziarie-speculative. Il calo del potere d’acquisto dei settori intermedi della società e il loro lento, ma costante, impoverimento ha ridotto la fiducia nel miglioramento individuale e familiare. Ed era proprio quella speranza nel futuro che aveva nutrito le popolazioni europee e consentito gli sviluppi economici che hanno caratterizzato tutte le democrazie occidentali dal dopoguerra fino agli anni ottanta.

    Non possiamo nasconderci che sarebbe irrazionale attribuire tutte le cause di questo decadimento globale soltanto ai politici e agli pseudo-intellettuali dei nostri giorni. Tendenze come quelle in corso hanno radici profonde e maturano in lustri (se non in decenni) che fanno da incubatori ai cambiamenti futuri. Tuttavia, è altrettanto evidente che le élite attuali, con la loro ipocrisia, rappresentano la perfetta personificazione di un declino che potrebbe diventare inarrestabile: la mancanza di qualunque carisma, l’incompetenza, l’ignoranza, la corruzione, il clientelismo e, soprattutto, il divario tra il comune sentire (anche se non sempre è palesemente espresso) e le prese di posizione ufficiali riempiono le nostre giornate. Come riuscire a resistere al rifiuto di queste classi dirigenti?

  • I Longobardi? Erano immigrati, arrivarono dall’Ungheria

    I Longobardi raggiunsero l’Italia settentrionale dall’Ungheria e si insediarono progressivamente
    nei nuovi territori. A rileggere e a supportare le conoscenze storiche sulla migrazione dei Longobardi in Italia un nuovo studio coordinato dal Laboratorio di Paleoantropologia e bioarcheologia della Sapienza, in collaborazione con il Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr), l’Università di Parma
    e l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, ha ricostruito le dinamiche con cui i Longobardi arrivarono nella nostra penisola dopo la caduta dell’Impero Romano e si stanziarono sul territorio. I risultati del lavoro, pubblicati sulla rivista Scientific Reports, sono stati ottenuti attraverso analisi biomolecolari su denti e ossa di individui rinvenuti nella necropoli longobarda di Povegliano Veronese.

    La grande marcia dei Longobardi nella nostra penisola comincia nel 568 d.C., quando i guerrieri dalle lunghe barbe cominciarono a premere imponentemente alle porte delle Alpi alla conquista di nuove terre. Seguendo l’antica via Postumia, fondarono una serie di insediamenti, tra i quali Povegliano Veronese (VR), la cui area sepolcrale è stata oggetto di numerose indagini durante gli scavi archeologici condotti fra gli anni ’80 e ’90.  Oggi, un nuovo studio pubblicato su Scientific Reports, risultato di una missione coordinata da Mary Anne Tafuri del Laboratorio di Paleoantropologia e bioarcheologia della Sapienza, ha ricostruito le dinamiche con cui i Longobardi arrivarono nella nostra penisola dopo la caduta dell’Impero Romano e si stanziarono sul territorio.

    Il lavoro, svolto in collaborazione con il Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr), l’Università di   Parma e l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, si è basato su analisi biomolecolari effettuate sui fossili di alcuni individui rinvenuti nella necropoli longobarda di Povegliano Veronese, con l’obiettivo di indagare la mobilità della popolazione germanica e gli aspetti socioculturali che ne sono conseguiti. Nello specifico, Mary Anne Tafuri e il suo team hanno esaminato la concentrazione di stronzio e ossigeno e dei loro isotopi stabili (atomi con numero di massa variabile) all’interno di ossa e denti di un “campione” di 39 individui inumati e 14 animali, selezionati fra i reperti emersi dalla necropoli.

    L’ossigeno e lo stronzio, come tutti gli elementi naturali, hanno una distribuzione isotopica ben precisa che può però essere alterata da fattori biochimici e ambientali. L’aspetto interessante è che i valori relativi tali alterazioni risultano caratterizzanti per una determinata area geografica piuttosto che per un’altra. “Rilevando questi dati biomolecolari – spiega  Mary Anne Tafuri – abbiamo potuto evidenziare all’interno del campione una eterogeneità di valori ed effettuare una suddivisione statistica in tre “sotto-popolazioni”, distinte da  firme geochimiche differenti: gli autoctoni, ovvero coloro che  hanno trascorso a Povegliano Veronese tutta la vita; gli  alloctoni, che arrivano nel Veronese nel corso della vita e gli outliers, individui con valori al di fuori della variabilità osservata nei primi due gruppi”.

    I ricercatori hanno poi approfondito la provenienza e le dinamiche di mobilità di quella parte di comunità, circa il 26%, che non nacque a Povegliano, ma vi migrò nel corso della vita, comparando i dati isotopici di questo gruppo con quelli di individui provenienti da altre necropoli longobarde. I valori isotopici degli alloctoni di Povegliano sono risultati compatibili con quelli dei Longobardi sepolti nella necropoli ungherese di Szo’la’d, una delle ultime località occupate dai Longobardi prima del loro arrivo in Italia, confermando la ricostruzione effettuata dagli studiosi. Inoltre, grazie alle datazioni fornite dalle strutture tombali in cui sono rinvenuti gli individui e dagli oggetti di corredo, è stato possibile distinguere tra sepolture ascrivibili alla più antica fase d’uso della necropoli (fine VI – inizio VII secolo d.C.) e a quelle più recenti (prima metà VII – prima metà VIII secolo d.C.), cioè fra individui appartenenti alle prime generazioni di coloni e a quelle successive. “Abbiamo dimostrato che tutti gli individui alloctoni rinvenuti nell’area sepolcrale di Povegliano Veronese appartenevano alle prime generazioni – aggiunge Mary Anne Tafuri – in quanto accompagnati da un corredo databile alla prima fase d’uso della necropoli, mentre quelli autoctoni, dunque nati e morti a Povegliano, sono caratterizzati da corredi più tardi”. I risultati dello studio, che combina dati archeologici e isotopici, costituiscono un tassello importante nella ricostruzione delle dinamiche di insediamento e di mobilità dei Longobardi nel loro insieme, ma anche sulle modalità con cui questo popolo di guerrieri si è  integrato nel contesto di una civiltà, dando vita a una cultura nuova, capace di coniugare la tradizione germanica con quella classica e romano-cristiana.

  • A ottobre record di richieste di protezione internazionale alla Ue

    Record ad ottobre di richieste di protezione internazionale presentate in Europa, secondo quanto rende noto l’agenzia europea di asilo Easo, spiegando che ad ottobre è arrivato il numero più alto di domande (60.500) del 2018, ma nonostante il picco, sull’anno sono più basse del 2017. Siria, Afghanistan, Iraq, Iran e Turchia sono, in quest’ordine, i Paesi di origine della maggior parte delle richieste di ottobre, seguendo un trend che va avanti da tre anni. Il numero di iraniani che chiede protezione ad ottobre è salito fino ai picchi del 2015-16, e anche quello dei turchi è aumentato significativamente.

    Il Parlamento europeo ha intanto dato via libera alla proposta di introduzione dei visti umanitari europei con l’obiettivo di diminuire le morti e migliorare la gestione dei flussi dei rifugiati. L’iniziativa legislativa è stata approvata con 429 sì, 194 no e 41 astensioni (maggioranza assoluta). Una simile proposta non aveva raggiunto la maggioranza assoluta necessaria al Parlamento europeo alla plenaria di novembre per un errore tecnico durante le votazioni.

  • L’immigrazione globalizzata si affronta con regole e leggi e non con proclami

    In un reportage di novembre il settimanale Sette, del Corriere della Sera, affronta, con articoli e dati, il problema dell’immigrazione in varie aree del Pianeta. Nell’articolo si parla dei 7.000 migranti che dal centro America si affollano presso le frontiere degli Stati Uniti, dei 21.000 entrati in Bosnia da inizio anno, dei 178.000 sfollati maliani e nigeriani ai 164.000 sfollati interni del Niger che hanno lasciato i loro villaggi a causa della violenza, e dei 500 venezuelani che ogni giorno attraversano a piedi i confini per sfuggire alla fame e alla disperazione che ormai da tempo attanaglia un paese che potrebbe ‘essere florido’. A questi dati noi aggiungiamo le decine di migliaia di migranti che hanno già raggiunto il cuore dell’Europa e l’Italia, le migliaia che sono reclusi nei lager libici e le decine di migliaia che vivono in condizioni disumane, da tantissimi anni, nei villaggi e nei campi profughi e pensiamo a coloro che hanno subito e subiscono la guerra in Siria ed il terrorismo islamista in Somalia, solo per fare qualche esempio.

    La situazione è drammatica a livello mondiale e la globalizzazione della disperazione e della paura è ormai evidente, le conseguenze saranno drammatiche: territori spopolati ed altri sovraffollati, famiglie distrutte, intelligenze e forza lavoro perdute, intere generazioni decimate, i superstiti delle quali resteranno segnati per sempre da quanto hanno vissuto.

    Molte volte abbiamo cercato di proporre ipotesi di lavoro, alle autorità europee ed italiane, per evitare l’espandersi di quel terrorismo che ha impedito la costruzione di sistemi più moderni ed umani sia in termini di governo che di economia e che ha portato alla fuga milioni di persone. Ma le cose dette sono dette e gli errori fatti sono fatti ed oggi non sarà con le recriminazioni e neppure con le battute o i proclami che si potrà affrontare il problema di una emigrazione globalizzata che ripropone quanto nella storia si è già più volte verificato modificando, stravolgendo, culture e modi di vita. Dagli esodi biblici alle conquiste militari della Grecia, dell’Egitto e di Roma, da Alessandro a Cesare, dalle invasioni di barbari, di longobardi e visigoti, dagli unni ai tartari, fino al secolo scorso, siamo stati abituati, di generazione in generazione, a vedere l’invasione di nazioni libere da parte di eserciti che cambiavano in parte il loro modo di vita.

    Un detto popolare, e vox  popoli è vox dei, diceva viva la Franza viva la Spagna  basta cas’ magna, ed in Italia spagnoli, francesi, austriaci sono stati in parte i nuovi Attila, in parte i promotori di nuovo sviluppo culturale e sociale. Per molti anni italiani, spagnoli, portoghesi, irlandesi hanno trovato, in altre nazioni lontane, quelle opportunità che in patria erano state negate e ciascuno di quei migranti ha dovuto lottare contro pregiudizi e difficoltà di accoglienza ed integrazione. Il problema che si pone oggi rimane ancora quello di trovare regole che possano essere immediatamente conosciute e rispettate da chi arriva con la necessità di clausole che portino all’espulsione chi non le rispetta. Queste regole se fossero conosciute prima, anche con i mezzi di comunicazione che ormai raggiungono qualunque paese via internet o via televisione, potrebbero dissuadere molti, che non si sentono di condividerle e di accettarle, a cercare di entrare in Italia, in Europa.

    Il divieto alla macellazione rituale, il divieto a coprirsi il volto o ad esercitare per strada le proprie credenze, l’obbligo alla conoscenza della lingua sono solo alcune delle leggi che sarebbe facile promulgare e far applicare ma la verità è, che ancora oggi, manca l’esatta presa di coscienza dell’enormità del problema e la conseguente volontà politica di affrontarlo seriamente.

  • La vulnerabilità dei sistemi democratici

    Molti si chiedono se con l’avvento al potere in diversi paesi dell’Unione europea di partiti detti populisti, i regimi democratici siano diventati più vulnerabili, con la riduzione di un certo tasso di democrazia. Le risposte, come è ovvio, non sono unanimi, ma è interessante il contributo al dibattito offerto dall’Istituto europeo di Relazioni internazionali di Bruxelles (INRI), che qui riportiamo.

    La teoria della società di massa – afferma l’INRI – adotta due spiegazioni opposte per identificare la vulnerabilità dei sistemi democratici, una oligarchica e l’altra democratica. La prima pone l’accento, come causa del populismo, sulla perdita dell’esclusività del potere da parte delle élites, un potere che passa di mano, di cui se ne appropriano delle personalità antisistema, la seconda spiegazione attribuisce l’avvento della partecipazione popolare all’autonomizzazione della società e alla mobilitazione di individui isolati sotto l’influenza di nuove élites, che accede al sistema politico attraverso una larga riforma ed un forte interventismo statale.

    La vulnerabilità dei sistemi post-democratici proviene dall’assenza di fondamenti dell’integrazione dei gruppi che compongono le società occidentali moderne. Il problema centrale di queste società è l’alienazione culturale che nello stesso tempo è sociale, razziale e religiosa. Nel contesto di queste società, l’alienazione delle élites è mondialista, quella delle classi medie è burocratica, quella delle classi popolari è statalista e quella degli esclusi e degli emarginati delle periferie è nichilista. E’ una alienazione sprovvista di valori d’appartenenza comuni, dovuta alla mancanza d’influenza delle gerarchie tradizionali, incapaci di unificare e di gestire la frammentazione dei gruppi. Ai fini degli obiettivi sociali, l’azione di massa delle classi intermedie è condannata al riformismo, quella delle élites mondialiste all’integrazione sopranazionale, l’orientamento delle élites antisistema al populismo e l’inerzia degli esclusi ai solidarismi altermondialisti in rivolta, invaghiti di tentazioni sinistro-djihadiste. Ai giorni nostri la vita urbana e delle periferie smembrano i gruppi sociali tradizionali, individualizzano le classi medie impiegatizie, eliminano la partecipazione sociale e annichiliscono le capacità di direzione delle élites mondialiste, sconnesse da ogni legame sociale, rendono vana e illusoria ogni solidarietà universale. L’umanitarismo filosofico incorona questa alienazione generale delle società e dei gruppi, con la decostruzione critica del razionalismo illuminista e con l’abbandono di ogni politica liberale, che rinvia alla filosofia universalista dei diritti umani. Su questo insieme disperso regna il concetto di competizione, di spoliticizzazione e di Stato assistenziale in difficoltà. L’idea di uguaglianza e di democrazia, come convergenza etica, inspirata da una finalità comune o da una volontà generale alle appropriazioni contese, definisce un ideale sorpassato, che appartiene ormai alla letteratura sociale del XIX e del XX secolo. L’autoesclusione delle comunità immigrate dall’insieme del “popolo”, come corpo politico della nazione e la resilienza di queste comunità come influenze straniere di lingua, di spirito, di costumi e di religione, trasforma queste comunità in riserva di ribelli, in una vera “quinta colonna” del nemico, pronta all’esplosione e alla violenza.

    Il richiamo agli interessi del popolo e la vulnerabilità sociale

    La vulnerabilità sociale ed etica più importante dei sistemi democratici odierni è l’immigrazione, che ha per origine la finzione dell’uguaglianza, per modo d’esistenza l’apartheid e per correlato solidarista l’assistenza. Essa ha anche per fondamento una utopia teocratica, che predica la fusione dell’unità tra potere e religione, sotto l’autorità di quest’ultima. E’ l’auto-istituzione immaginaria delle periferie nel mito del “Califfato”. Se la nozione di “popolo” designa correntemente una delle tre componenti dello Stato (popolo, governo, territorio), ogni comunità che condivide il sentimento di una durevole appartenenza, deve disporre di un passato comune, d’un territorio comune, d’una religione comune e di un comune sentimento d’identità, per potersi definire, ai fini dell’avvenire, come “comunità di destino”. Questo gruppo sociale può considerarsi come “nazione” o come entità sovrana, se rivendica il diritto politico specifico di erigersi in Stato o in Repubblica.  Niente di tutto ciò, per le masse immigrate, non integrate, straniere alla città politica e a ogni forma di governo o di regime politico, salvo a quello, ugualitario per principio, che promette loro vantaggi e risorse e che si identifica , salvo eccezioni, alla sinistra. Queste masse incolte, reagenti e violente, rivendicano una solidarietà senza reciprocità, apatiche al lavoro, invischiate nel loro ambiente di residenza nei traffici illeciti, combattendo per altri Dei, sono a carico della comunità dei cittadini in maggioranza ostili alla loro presenza.

    Se la politica privilegiata del “popolo” (“demos”) è la democrazia, il richiamo demagogico ai “veri” interessi del “popolo” si chiama populismo, un’apparente forma di salvezza, contro i mali della società e una specie di salvaguardia contro le élites corrotte.

     

     

  • Soluzione per il Lago Ciad discussa all’ONU tra il presidente delle Nigeria e il sen. Iwobi eletto a Bergamo

    Guardando ieri sera la rubrica televisiva di Rete 4 “Stasera Italia”, gestita da Barbara Palombelli, sono andato col pensiero all’incontro che ha avuto luogo a New York, a margine dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite del 25 settembre scorso, tra il presidente della Nigeria, Muhammadu Buhari, e una delegazione guidata da Toni Iwobi, il primo rappresentante di colore eletto al Senato italiano nelle liste della Lega. Tema dell’incontro era il progetto denominato “Transacqua”, relativo al ripristino del Lago Ciad. Perché questo ricordo? Perché nel corso della trasmissione televisiva ad un certo punto è campeggiata una scritta che chiedeva, retoricamente, se l’Italia è un Paese razzista, con riferimento ad un’intervista ad una ragazza di colore che si lamentava, giustamente, di essere stata rifiutata per un posto di cameriera dal padrone di un ristorante di Venezia per il colore della sua pelle. Gli ospiti dello show, tra i quali il direttore del quotidiano La Repubblica, Mario Calabresi, hanno detto la loro: “no, l’Italia non è razzista”, con un interlocutore solo che affermava che in realtà il caso della ragazza in questione non era isolato, perché succede spesso che si rifiuti lavoro a chi non è bianco. Insomma, gli ospiti della Palombelli erano divisi sul problema di sapere se l’Italia è razzista o no. Mi innervosii nell’ascoltare le motivazioni degli uni e dell’altro e ricordai a questo punto l’incontro avvenuto all’Assemblea dell’Onu, nel corso della quale Buhari ha avuto parole di apprezzamento per l’Italia e “il suo rispetto per la razza umana, a prescindere dal colore o dalle inclinazioni geopolitiche“, secondo il Daily Nigerian. “Le mie congratulazioni a Lei e ancor più all’Italia“, ha detto Buhari a Iwobi. L’elezione di quest’ultimo “mostra il grande rispetto degli italiani per gli esseri umani a prescindere dal colore. È impressionante!”. Mi inchino davanti all’opinione del presidente della Nigeria nei confronti dell’Italia e sorrido alle polemiche di parte che ogni sera ascoltiamo alla televisione sulle negate virtù e sulle nefandezze razziste dell’Italia.

    Il presidente Buhari era all’Onu per affrontare le cause del terrorismo e dell’emigrazione in Africa, fra le quali ha indicato “le conseguenze di un lago Ciad drasticamente ristrettosi e l’inaridimento di terre già fertili e coltivabili” come uno dei principali fattori dell’emigrazione, sollecitando “un rinnovato impegno internazionale per accelerare gli sforzi di ripresa nel bacino del Lago Ciad e affrontare le radici del conflitto nella regione”. “Il lago era un’importante fonte di sostentamento per oltre 45 milioni di abitanti della regione – ha affermato il presidente – e il suo prosciugamento ha significato la perdita di reddito per larghe fasce di popolazione che sono diventate povere e quindi molto vulnerabili all’attività di gruppi estremistici e terroristici. L’instabilità così causata nella regione ha intensificato la migrazione interna conducendo, tra le altre cose, a un’intensa competizione specialmente tra agricoltori e allevatori“. Nel febbraio di quest’anno ad Abuja, capitale delle Nigeria, si è svolta una Conferenza internazionale sul Lago Ciad, alla presenza dei leader di otto Stati africani, nel corso della quale è stato formalizzato l’accordo con il governo Italiano di co-finanziamento dello studio di fattibilità del progetto Transacqua. I partecipanti alla Conferenza scelsero Transacqua come unico progetto che offre una soluzione. Buhari all’Assemblea dell’Onu non ha fatto il nome di Transacqua, il grande progetto per ripristinare il Lago Ciad con un sistema di bacini artificiali e di canali che, oltre a trasferire un’ingente quantità d’acqua dal bacino del Congo, porterà alla creazione di un’infrastruttura di trasporto, di produzione idro-elettrica e di sviluppo agro-industriale (ne abbiamo parlato in un articolo pubblicato su Il Patto il 23 febbraio 2018). Di Transacqua, tuttavia, ne ha discusso con il sen. Iwobi, nel corso dell’incontro al quale abbiamo accennato più sopra. Il sen. Iwobi, che è di origine nigeriana, si è battuto a favore di Transacqua sin dal suo ingresso a Palazzo Madama, sollecitando le procedure di formalizzazione dell’accordo tra governo italiano e Commissione per il Bacino del Lago Ciad, a seguito della decisione di Roma di co-finanziarne lo studio di fattibilità. Come ha riferito il consigliere speciale del Presidente nigeriano, Femi Adesina, in una dichiarazione all’indomani dell’incontro, Buhari e Iwobi “hanno discusso temi come l’immigrazione clandestina e come fermarla con investimenti in Africa e il ripristino del Lago Ciad con il trasferimento idrico tra i due bacini”. La dichiarazione cita il sen. Iwobi, il quale ha affermato che “L’Africa non ha bisogno della carità ma di collaborazione per lo sviluppo“. In risposta, Buhari ha attribuito l’immigrazione clandestina alla mancanza di sicurezza, di istruzione e di sistemi sanitari, tra le altre cose. E’ a questo punto che il presidente Buhari ha avuto l’apprezzamento per l’Italia che abbiamo ricordato all’inizio. Ed è puntando su questi apprezzamenti che l’Italia potrà svolgere una sua funzione d’equilibrio in Africa, da un lato sostenendo progetti di sviluppo come Transacqua e dall’altro stabilendo accordi per il controllo dell’emigrazione attraverso il Mediterraneo, senza litigare inutilmente sul razzismo che in Africa non le viene riconosciuto e senza privilegiare soluzioni neo-coloniali, come la Francia sta imperialmente facendo.

  • I controlli sull’immigrazione nella Ue fanno chiudere un occhio sui regimi che bloccano i flussi

    Il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker ha affermato che l’Ue può celebrare “solidi progressi” che hanno drasticamente ridotto gli arrivi irregolari di immigrati, ma il bilancio proposto dalla Commissione il 2 maggio mostra che la migrazione non è certamente scivolata lungo l’elenco delle priorità.

    In effetti, l’aumento di 6 volte del bilancio di Frontex (da 320 milioni a 1,87 miliardi di euro nel 2027) e un corpo di guardie di frontiera permanente da 10.000 persone attestano che l’Europa sta portando avanti gli sforzi in essere già dal 1992 che, con un ritmo accelerato dal 2015, la vedono impegnata ad agire nei confronti di Paesi terzi, soprattutto in Africa, perché fungano da avamposti di sicurezza alle frontiere, impedendo di raggiungere persino le frontiere esterne dell’Ue. Le organizzazioni olandesi Transnational Institute e Stop Wapenhandel hanno analizzato l’impatto di queste politiche di esternalizzazione delle frontiere ed evidenziato che su 35 Paesi cui l’Unione europea dà la priorità per l’avanzamento dei controlli sulle migrazioni, quasi la metà sono retti da un governo autoritario che pongono rischi estremi o elevati per l’esercizio dei diritti umani. Mentre però l’Ue e i suoi Stati membri stanno impiegando risorse limitate per finanziare costose tecnologie e sistemi di sicurezza e sorveglianza alle frontiere, il contenimento dell’immigrazione affidato a Stati dittatoriali inducono i migranti ad intraprendere rotte migratorie più pericolose: la percentuale di decessi registrati agli arrivi nel 2017 è stata oltre 5 volte più alta rispetto al 2015 e molte altre morti in mare e nei deserti in Nord Africa non vengono mai registrate.

    Per molti anni il presidente sudanese Omar al-Bashir è stato un paria internazionale, ricercato dalla Corte penale internazionale per crimini di guerra durante la guerra del Darfur (principali responsabili di questi crimini erano i combattenti della milizia Janjaweed, che ora fanno parte delle Forze di supporto rapido, la guardia di frontiera ufficiale), ma l’Ue sta ora fornendo sostegno a queste autorità di confine sudanesi e ha iniziato a portare il regime di al-Bashir fuori dall’isolamento internazionale.

    La combinazione di sostegno per i governi autoritari e la diversione delle risorse dalla spesa tanto necessaria per l’istruzione, l’assistenza sanitaria, l’adattamento climatico alimenta una situazione insostenibile, minacciando lo sviluppo economico, la sicurezza e la stabilità interna in molti Paesi.

    Ancora, l’Ue ha finanziato l’acquisto di veicoli corazzati dalla compagnia turca Otokar e imbarcazioni dal costruttore olandese Damen per la sorveglianza delle frontiere da parte della Turchia. La Germania ha fornito alla Tunisia una vasta gamma di attrezzature per la sicurezza delle frontiere, principalmente dal gigante europeo delle armi Airbus e da Hensoldt, la sua ex divisione di sicurezza delle frontiere. Aziende come Gemalto, che presto saranno rilevate dalla società armatoriale francese Thales, Veridos, una joint venture tedesca, e la francese OT-Morpho, hanno esportato sistemi di identificazione (biometrici) e documenti di identità digitali nei Paesi africani.

  • Italia Paese dell’Unione più generoso nel concedere la cittadinanza

    Quasi un milione di persone ha ottenuto la cittadinanza in uno dei Paesi membri dell’Ue nel 2016, con dati in crescita rispetto agli anni precedenti (841mila nel 2015; e 889mila nel 2014). In termini assoluti, con l’ok a 201.591 cittadinanze l’Italia è al primo posto in Europa; seguita da Spagna, 150.944; e Regno Unito, 149.372. Dei 201.591 nuovi cittadini italiani, i principali beneficiari sono albanesi (18,3%), marocchini (17,5%) e romeni (6,4%). Lo comunica Eurostat.

    In particolare, l’Italia, che ha accordato il 13% di cittadinanze in più rispetto al 2015, ha naturalizzato il 34,8% dei 101.300 marocchini che hanno ottenuto cittadinanza in Ue; il 54,7% dei 67.500 albanesi; il 43,6% dei 29.700 romeni; il 54,9% dei 15.400 provenienti dal Bangladesh; il 44,9% degli 11.300 senegalesi; e il 40,7% dei ghanesi. Delle 995mila persone che hanno acquisito una nuova cittadinanza in uno dei Paesi dell’Unione solo il 12% proveniva da un altro Stato membro, principalmente romeni (29.700) e polacchi (19.800).

    A febbraio 2018 intanto si è registrato un calo del 14% rispetto a gennaio (e del 22% rispetto a febbraio 2017) delle richieste di asilo presentate a Paesi dell’Unione, Svizzera e Norvegia: sono state 45.908 (il numero più basso degli ultimi 12 mesi) secondo quanto rende noto l’Agenzia europea di sostegno all’asilo (Easo). A ricevere il maggior numero di richieste è stata la Germania, seguita da Francia, Italia, Grecia e Spagna. Un richiedente su tre proviene da Siria, Iraq, Afghanistan, Nigeria o Pakistan.

  • Sicurezza e investimenti per la ricerca: parte da qui il semestre di Presidenza bulgara dell’UE

    I cittadini e le loro richieste, politiche di sicurezza e di difesa, garanzie per i giovani, attenzione particolareggiata alla realtà dei Balcani, ridisegnare il rapporto con il Regno Unito dopo la Brexit, sviluppare intelligenze artificiali ed estendere il processo di digitalizzazione. Questi gli obiettivi principali che la Bulgaria si propone di realizzare durante il suo primo semestre di presidenza del Consiglio dell’Unione europea. In un incontro che si è svolto a Milano, organizzato dalle Rappresentanze del Parlamento europeo e della Commissione europea, Console ed Ambasciatore bulgari hanno presentato l’agenda che Sofia intende sviluppare durante questi sei importantissimi mesi in cui è chiamata ad avere un ruolo da protagonista. Come più volte è stato sottolineato durante l’incontro bisogna affrontare delle vere e proprie sfide cruciali per l’intero progetto europeo, a partire dall’emergenza immigrazione, sicurezza, controllo dei confini. La Bulgaria, geograficamente, ha un’importanza strategica perché da più di 1300 anni è un ponte tra l’Europa e l’Oriente e da millenni è la culla dell’incrocio tra culture (non a caso è la patria dell’alfabeto cirillico). Questa posizione eccezionale diventa perciò di vitale importanza anche per le nuove sfide che l’Europa, di cui la Bulgaria è Stato membro dal 2007, si appresta ad affrontare, in primis rivestire un ruolo chiave negli scenari mondiali. Fondamentale è perciò la cooperazione tra i Paesi dell’UE che garantirebbe la stabilità e la realizzazione di una adeguata politica di difesa che, stando a quanto espresso dai due rappresentanti, garantirebbe quella sicurezza chiesta a gran voce dai cittadini. Una politica di difesa, intesa anche come ‘rapporti di buon vicinato’, che significherebbe anche affrontare in maniera più concreta e immediata le questioni legate all’immigrazione grazie ad un sistema di gestione e di efficace politica di rimpatrio intensificando il dialogo con i Paesi Terzi.

    Non solo sicurezza però. Di vitale importanza è infatti il futuro dell’Europa e della sua stabilità garantita dall’adeguato uso dei Fondi strutturali, da ripensare anche dopo i programmi 2020, che devono essere sfruttati sempre più per investire in ricerca e cultura. I due ambiti, infatti, oltre a creare opportunità di lavoro per tanti giovani, garantiscono il miglior processo di integrazione. Non è un caso che il governo bulgaro proporrà a Bruxelles l’aumento del  numero dei partecipanti al progetto Erasmus+.

    Revisione della PAC e maggiore attenzione ai cambiamenti ambientali le altre due priorità. La prima va sicuramente rivista (e l’Italia da anni chiede delle migliorie!) e aggiornata anche con un alleggerimento delle pratiche di accesso, meno burocratiche e fruibili per tutti i cittadini. Strettamente connessa alla politica agricola è l’attenzione all’ambiente, anche in seguito ai cambiamenti climatici che non hanno risparmiato l’Europa negli ultimi anni, con adeguati progetti che possano garantire il mantenimento degli standard richiesti dalla Conferenza di Parigi e dai cittadini di tutta l’Unione.

    A margine dell’incontro, per sottolineare l’importanza di un’Europa che punta sempre più al rispetto dei diritti umani e della pace, è stata inaugurata la mostra fotografica sui 30 anni del Premio Sacharov intitolata ‘I difensori delle nostre libertà’, organizzata dal Parlamento europeo in collaborazione con l’agenzia fotografica Magnum. Visitabile fino al 23 febbraio (C.so Magenta, 59), l’esposizione è un viaggio a 360 gradi nella vita quotidiana di due uomini e due donne che si battono per i diritti umani in Cambogia, Tunisia, Etiopia e Bosnia-Erzegovina.

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