import

  • L’UE aumenta le esportazioni di cereali

    La Commissione ha pubblicato l’ultima relazione mensile sul commercio agroalimentare, secondo la quale nel luglio 2022 le esportazioni e le importazioni agroalimentari dell’UE hanno subito un lieve rallentamento in termini di valore.

    Sebbene sia diminuito del 2% rispetto a giugno e si attesti attualmente a 19,2 miliardi di €, il valore delle esportazioni dell’UE rimane molto più elevato rispetto allo scorso anno. Nello stesso periodo anche le importazioni dell’Unione sono diminuite del 2%, raggiungendo 14,3 miliardi di € nel luglio 2022. La bilancia commerciale dell’UE rimane stabile a 4,9 miliardi di €.

    Nonostante il calo del valore complessivo delle esportazioni, quelle di cereali dell’Unione, in particolare di frumento ma anche di orzo, sono aumentate, in particolare verso il Medio Oriente e il Nord Africa (MENA). Nel luglio 2022 l’UE ha infatti esportato 1,9 milioni di tonnellate di frumento in Medio Oriente e Nord Africa, registrando un aumento del 300% rispetto al luglio dello scorso anno. In luglio le esportazioni totali di frumento verso il mondo hanno raggiunto i 3 milioni di tonnellate, con un aumento del 74% rispetto allo scorso anno.

    Le categorie che hanno registrato un calo delle esportazioni in luglio sono la frutta e la frutta a guscio (-15%) e gli ortaggi (-10%). Le esportazioni di olive e di olio d’oliva sono diminuite del 14% in luglio, principalmente a causa del calo delle esportazioni verso gli Stati Uniti. Le importazioni di uve, semi di girasole e banane sono quelle che hanno subito un calo maggiore in luglio rispetto a giugno (rispettivamente del 24%, 20% e 18%).

    Le importazioni dell’UE dall’Ucraina crescono per il quarto mese consecutivo, a seguito della liberalizzazione temporanea degli scambi e del migliore funzionamento dei corridoi di solidarietà. Anche le importazioni dell’Unione dai principali partner commerciali, come il Brasile e gli Stati Uniti, sono aumentate, in particolare per il granturco e la soia.

    La relazione mette l’accento anche sui flussi commerciali tra l’UE e il Regno Unito, che è diventato il principale partner commerciale dell’UE per i prodotti agroalimentari, raggiungendo 53,8 miliardi di € nel 2021.

  • Le materie prime sono rovinose. Chi vuole svilupparsi deve puntare sulla tecnologia

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi pubblicato su ItaliaOggi il 13 ottobre 2021

    Il rapporto «State of Commodity Dependence 2021» recentemente pubblicato dalla Unctad, Conferenza delle Nazioni Unite sul Commercio e lo Sviluppo, evidenzia l’aumento nell’ultimo decennio del numero dei paesi dipendenti dalle materie prime: da 93 paesi nel 2008-2009 a 101 nel 2018-2019.

    L’Unctad considera un paese dipendente dalle esportazioni di merci quando più del 60% del totale delle sue esportazioni è composto di materie prime e di prodotti agricoli. Più che una condizione, è una vera trappola, che blocca la crescita di molte economie.

    Il valore nominale delle esportazioni mondiali di materie prime ha raggiunto 4.380 miliardi di dollari nel 2018-2019, con un aumento del 20% rispetto al 2008-2009. La dipendenza rende i paesi più vulnerabili agli shock economici con inevitabili impatti negativi sulle entrate fiscali, sull’indebitamento e sullo sviluppo economico.

    Infatti, nel 2008-2009 la maggior parte dei paesi, il 95%, che dipendeva dalle materie prime, è rimasta tale nel 2018-2019. Naturalmente, la dipendenza tende a colpire principalmente i paesi in via di sviluppo.

    Lo sono ben 87 dei 101 emersi nel 2019. In specifico, dei 101 paesi, 38 facevano affidamento sulle esportazioni di prodotti agricoli, 32 sulle esportazioni minerarie e 31 sui combustibili.

    La dipendenza è particolarmente forte in Africa. Tre quarti dei paesi africani sono dipendenti per oltre il 70% del loro export. In Africa centrale e occidentale essa è mediamente pari al 95%.

    Anche tutti i 12 paesi del Sud America hanno un livello di dipendenza dalle materie prime superiore al 60% e per tre quarti di essi la quota supera l’80%. Nell’Asia centrale, il Kirghizistan, il Kazakistan, il Tagikistan, l’Uzbekistan e il Turkmenistan, hanno registrato una quota media delle esportazioni di materie prime sul totale dell’export di merci superiore all’85.

    Consapevole di ciò, l’Unctad ha esortato i paesi in via di sviluppo a migliorare le proprie capacità tecnologiche per sfuggire alla “trappola”. Un processo non facile in assenza di sostegni e di trasferimenti di tecnologia.

    L’analisi mostra infatti che i livelli di tecnologia sono molto bassi nei paesi succitati. Il Technology Development Index, l’indice di sviluppo tecnologico dei paesi cosiddetti commodity-dependent developing countries, è mediamente dell’1,55 rispetto al 5,17 dei paesi in via di sviluppo che non dipendono dalle materie prime, come Cina, India, Messico, Turchia e Vietnam.

    Il Frontier Technology Readiness, relativo all’utilizzo delle nuove tecnologie, dà un punteggio medio dello 0,25 ai paesi dipendenti rispetto allo 0,47 degli altri.

    Si tenga presente che l’indice dei prezzi delle materie prime, elaborato dall’Unctad, che, a causa della pandemia, nel periodo gennaio 2020 – aprile 2021 era diminuito del 36%, a luglio ha raddoppiato il suo valore e i prezzi dei prodotti alimentari sono aumentati del 41%.

    L’indice Fao sul cibo ha già raggiunto i 127,4 punti lo scorso agosto, con un aumento del 3,1% in un mese. Si ricordi che alla vigilia dell’esplosione dei prezzi dei beni alimentari del 2011, che portarono alle rivolte del pane in molti paesi, l’indice era di punti 137,1.

    Secondo l’Unctad, la correlazione tra i prezzi delle materie prime e la crescita economica può arrivare al 70%. Milioni di persone, soprattutto nelle aree rurali dei paesi in via di sviluppo, non hanno ancora accesso a cibo, elettricità, acqua e servizi igienico-sanitari. Si prevede che la domanda di cibo aumenterà del 60%, man mano che la popolazione mondiale si avvicinerà ai 10 miliardi entro il 2050.

    La trappola delle materie prime, di fatto, è il proseguimento moderno del vecchio rapporto colonialistico. Sembra di rileggere La ricchezza delle nazioni di Adam Smith, scritta prima del 1776, che, di là delle teorie economiche, come la divisione del lavoro, invitava le colonie inglesi nel Nord America a limitarsi a produrre cotone perché le manifatture e lo sviluppo industriale erano riservati all’Inghilterra.

    Si ricordi che quell’imposizione coloniale fu una delle cause principali che portarono alla Rivoluzione americana e alla nascita e all’indipendenza degli Stati Uniti.

    *già sottosegretario all’Economia  **economista

  • Covid-19 toglie la carne dalla tavola, le macellazioni calano del 19%

    La pandemia ha tolto la carne dalla tavola degli italiani e ridotto di circa un quinto le macellazioni, mandando sottosopra il sistema allevatoriale italiano. Secondo l’Istat, nel primo semestre 2020 le macellazioni di bovini diminuiscono del 17,8%, quelle dei suini del 20,2% rispetto allo stesso semestre del 2019. Nel mese di giugno, a fine lockdown, si registra un recupero del numero dei capi macellati per entrambe le categorie. Come dire, qualche bistecca alla fiorentina e grigliata mista nei ristoranti sono stati ordinati.

    Anche sull’import di carni la crisi economica dovuta alla pandemia causata dal CoV-19 ha avuto e sta avendo ancora impatto: nel primo semestre del 2020, rende noto l’Istituto di statistica, diminuisce l’importazione di bovini e bufalini (-1,2%) e, più marcatamente, quella dei suini (-21,6) sullo stesso periodo dell’anno precedente. Aumenta invece l’export sia dei capi bovini e bufalini (+15,1%) che dei suini (+2,2%).

    Sul fronte dei listini, rileva ancora l’Istat, le aziende registrano una marcata riduzione dei prezzi di vendita (-63,4%). La diminuzione dei prezzi riguarda soprattutto le aziende del Nord Italia (più del 70% delle aziende) mentre è inferiore al Centro-Sud (meno del 50%). A rivedere al ribasso i listini, precisa ancora l’Istat, circa l’87% dei grandi allevatori.

    Per il 63,6% delle aziende, evidenzia il report Istat, la pandemia ha avuto e avrà un impatto sulla propria azienda agricola (per il 64,0% gli effetti sono”sostanziali”). L’impatto è più rilevante al Nord-Ovest (68,6%delle aziende), meno importante al Centro 53,7%).La principale ripercussione subita dagli allevatori è la riduzione dei prezzi di vendita (-63,4 %); segue la riduzione della domanda (-55,3%). Ad aver risentito della diminuzione dei prezzi sembra essere soprattutto il Nord Italia, con un dato che supera il 70% delle aziende, mentre nel Centro-Sud è inferiore al 50%. Esattamente l’opposto, sottolinea l’analisi dell’Istituto di statistica, si registra per la riduzione della domanda, il cui dato nazionale del 45,9% è fortemente condizionato da Sud e Isole che si attestano a circa il 70%; cioè dovuto anche alla difficoltà del trasporto merci in questo periodo, specialmente nelle Isole: quasi il 25% delle aziende del Sud, contro un 15% nazionale, indica la consegna tra le difficoltà avute

    Per le prospettive future, le preoccupazioni principali riguardano sempre la riduzione dei prezzi di vendita (51,7% delle aziende) e la riduzione della domanda (47,2%). Anche in questo caso la riduzione dei prezzi è temuta dalle aziende ubicate nel settentrione (oltre il 55%) mentre la riduzione della domanda preoccupa quelle del Centro-Sud (circa il 60%); altra preoccupazione è la mancanza di liquidità, che viene paventata principalmente dalle aziende del Centro-Sud (37%).

  • Pil ed inflazione: chi paga il differenziale

    Sembra incredibile come ancora oggi troppi esponenti, diretta espressione della linea politica economica dei partiti, continuino imperterriti a parlare di crescita economica italiana unita al raggiungimento degli obiettivi prefissati dagli ultimi governi successivi al 2013 (quindi dal governo Monti), quando i dati consuntivi, soprattutto i numeri negativi uniti alle prospettive di crescita, delineano un quadro assolutamente diverso. Uno scenario talmente fosco da assumere le tinte di una vera e propria recessione.

    I dati relativi alla crescita economica per il 2018 parlano di una crescita del PIL pari a 1,5 % (a tal proposito si ricorda che, come sempre da oltre vent’anni,a settembre si assiste ad un ritocco decimale al ribasso). Assolombarda prevede invece la crescita dell’inflazione, sempre per l’anno 2018, pari al 1,7%. Il differenziale, cioè lo 0,2%, indica chiaramente ed inequivocabilmente la decrescita reale del potere d’acquisto dei cittadini, quindi da una vera e propria recessione del valore nominale nella capacità di acquisto, espressione forse impropria ma reale di una recessione economica. Il tutto frutto di una crescita inferiore persino al tasso di inflazione, quindi essa stessa espressione di una domanda interna e conseguentemente di una frenata anche dell’export.

    La risultante dell’incrocio di questi dati delinea una situazione paradossale se confrontata con le  teorie economiche che negli ultimi anni hanno assunto la centralità della discussione economica e politica italiana.

    Il risultato di tale aumento dell’inflazione superiore al PIL viene determinato dall’importazione dell’inflazione stessa attraverso l’aumento delle materie prime, in particolare i prodotti petroliferi, come delle tariffe pubbliche, soprattutto quelle legate ai servizi offerti dalle aziende partecipate e dagli enti locali, espressione della mancanza di concorrenza ed ancora oggi di rendite di posizione. Come non ricordare la posizione favorevole all’aumento dell’IVA dei ministri Padoan e Calenda i quali si illudevano, attraverso l’impostazione dell’IVA, di ottenere l’obiettivo di ridurre il peso del debito pubblico.

    Un’opinione questa condivisa anche dal presidente della BCE Draghi il quale, nonostante la politica monetaria fortemente espansiva, non riuscì a ottenere un sostanziale aumento dell’inflazione, addirittura dirottando  la speranza nell’aumento del prezzo del greggio e dimostrando, ancora una volta, come tanto i politici italiani quanto i presidenti europei non si siano mai posti il problema di chi avrebbe pagato differenziale tra un aumento del PIL inferiore al tasso di inflazione.

    Dall’altra parte di questa contesa politica ed economica ci sono i sostenitori dell’inflazione legata magari  ad una moneta debole la quale darebbe impulso all’esportazione rendendo competitivi i prodotti italiani. In questo senso ecco allora i sostenitori del ritorno alla liretta, visionari ma soprattutto pericolosi in quanto l’inflazione provoca una sostanziale perdita del potere d’acquisto dei cittadini a reddito fisso e, di conseguenza, la nuova competitività andrebbe tutta a carico dei cittadini stessi. Agli smemorati sostenitori di questa dottrina si ricorda come negli anni ‘70 venne introdotta la scala mobile la quale a sua volta generò  nuova inflazione tanto da dover essere abolita all’inizio degli anni ‘80 per fermare la spirale inflattiva che in pratica impoveriva il ceto medio. Senza dimenticare la problematica relativa al Fiscal Drag, cioè all’aumento del prelievo fiscale allegato all’aumento dei valori nominali delle retribuzioni.

    Per quanto riguarda invece le previsioni del 2019, il grafico nella foto riporta come la nostra decrescita economica risulterà ancora maggiore in quanto il PIL crescerà solo del +1.2% (quindi con un – 0,3% di crescita economica) al quale contemporaneamente seguirà un aumento dell’inflazione pari al +1,4%.

    Il terribile combinato di frenata della crescita del PIL, unito comunque ad una infrazione che risulta superiore dello 0,2% al PIL stesso, determinerà ancora, una volta, una perdita del potere d’acquisto dei cittadini, quindi una ulteriore flessione della domanda interna che rappresenta una delle motivazioni per la quale non si riesce a trovare una crescita stabile dell’economia del nostro Paese.

    Un quadro a dir poco allarmante per non dire disastroso che evidentemente non riesce a suscitare alcuna reazione nel mondo politico come in quello economico, entrambi rivolti verso teorie  e strategie economiche  espressione di un asset economico ormai superato dal mercato globale. Si guarda al passato per non dimostrare l’incapacità di comprendere il presente e di delineare uno scenario futuro.

Pulsante per tornare all'inizio