indipendenza

  • Usa, UK, Israele, Eau e altri 17 pronti a riconoscere l’indipendenza del Somaliland

    Stati Uniti, Regno Unito, Israele, Emirati Arabi Uniti e altri 17 Paesi sono nelle fasi finali di un accordo per concedere il riconoscimento ufficiale all’autoproclamata repubblica del Somaliland nei prossimi mesi. Lo riferiscono fonti citate dal sito d’informazione “Middle East 24”, secondo cui si prevede che anche il Somaliland aderirà presto agli Accordi di Abramo, segnando un importante sviluppo diplomatico nel Corno d’Africa e nella più ampia regione del Medio Oriente. La questione del riconoscimento del Somaliland, che ha autoproclamato la sua indipendenza dalla Somalia nel 1991, è da tempo al centro di speculazioni e trattative diplomatiche. Da tempo l’amministrazione della regione separatista sta facendo pressioni sugli Stati Uniti affinché la sostengano nel suo percorso verso il riconoscimento internazionale, dicendosi disposta ad offrire a Washington una base militare strategica all’ingresso del Mar Rosso e minerali essenziali come parte dell’accordo.

    Nel luglio scorso, in un’intervista rilasciata a “Bloomberg”, il presidente del Somaliland, Abdirahman Mohamed Abdullahi alias “Irro”, aveva espresso interesse nel raggiungere un accordo con gli Usa per garantire il riconoscimento ufficiale dello Stato separatista somalo. “Se gli Stati Uniti sono interessati a sbarcare in Somaliland, sono i benvenuti”, ha affermato Irro, aggiungendo che la sua amministrazione sarebbe anche pronta a proporre un accordo che coinvolga minerali essenziali, tra cui il litio. Il presidente del Somaliland ha rivelato di aver recentemente tenuto colloqui con diplomatici e funzionari militari statunitensi ad Hargeisa, la capitale del Somaliland. Tuttavia, in risposta alle crescenti speculazioni, il dipartimento di Stato Usa ha ribadito la sua posizione di lunga data, affermando di riconoscere solo “una Somalia” e di continuare a sostenere la sovranità, l’unità e l’integrità territoriale del Paese. “Abbiamo discusso di modalità e mezzi per collaborare in materia di sicurezza, commercio e stabilità regionale”, ha affermato Irro. Alla domanda sulla possibilità di istituire una base militare statunitense nel territorio, ha aggiunto: “Stiamo ancora discutendo. Ci aspettiamo che questa discussione dia i suoi frutti in futuro”.

    In quest’ottica, nei mesi scorsi Irro ha tenuto dei colloqui con una delegazione statunitense di alto livello Guidata guidata dall’ambasciatore Richard Riley e affiancata dal comandante generale del Comando usa per l’Africa (Africom), Michael Langley, insieme ad alti ufficiali e diplomatici militari statunitensi, in visita ad Hargheis. Sebbene i dettagli specifici rimangano riservati, la visita segnala il crescente interesse degli Stati Uniti per la regione separatista, che dal 1991 cerca un riconoscimento internazionale. La visita della delegazione a Berbera, sede di un importante porto e di una base militare finanziata dagli Emirati Arabi Uniti, ha anche alimentato le voci sui piani di Washington di espandere la propria presenza militare nel Corno d’Africa. Nessuna delle due parti ha confermato tali intenzioni. Il Somaliland, situato strategicamente lungo il Golfo di Aden, cerca da tempo di sfruttare la sua importanza geografica e le sue risorse minerarie inutilizzate nell’ambito della sua continua campagna per la legittimità internazionale ed è da tempo al centro delle mire di diverse potenze regionali.

    La regione è affacciata sul Golfo di Aden, non lontano dallo Stretto di Bab el Mandeb – attraverso cui transita circa il 12 per cento del commercio mondiale – e a pochi chilometri dalla costa dello Yemen, controllata in larga parte dalle milizie sciite filo-iraniane degli Houthi. Non è dunque un caso se negli ultimi tempi si siano moltiplicati i tentativi di accaparrarsi lo specchio di mare che si estende per 740 chilometri dal confine con Gibuti, a ovest, a quello con il Puntland, a est. Se negli ultimi mesi la regione è stata al centro dei riflettori per via del controverso memorandum d’intesa siglato nel gennaio 2024 tra le autorità di Hargheisa e il governo dell’Etiopia, che consentirebbe a quest’ultima di ottenere l’agognato accesso al Mar Rosso attraverso la concessione di 20 chilometri di costa intorno all’area del porto di Berbera, più di recente il Somaliland sembra essere finito nelle mire di Israele che, per il tramite degli Emirati Arabi Uniti, sarebbe interessato a costruirvi una base navale militare da cui poter contrastare con maggior efficacia le sortite dei ribelli Houthi nel Golfo di Aden.

    Nell’ottobre dello scorso anno il portale “Middle East Monitor” era stato tra i primi organi di stampa a riferire dell’interesse di Israele per il Somaliland, rivelando gli sforzi segreti dello Stato ebraico per stabilire una base militare nella regione indipendentista somala, che consentirebbe a Israele di lanciare attacchi preventivi su obiettivi Houthi e di scoraggiarne di ulteriori, in cambio del riconoscimento ufficiale di Hargeisa e di maggiori investimenti finanziari nella regione. Citando fonti diplomatiche, il sito web ha affermato che gli Emirati starebbero mediando tra le due parti, avendo già assicurato anche il finanziamento del progetto. La notizia è stata confermata più di recente dal quotidiano israeliano “Haaretz”, secondo cui le capacità operative dimostrate dagli Houthi hanno costretto Israele a trovare le contromisure per sconfiggere la minaccia dei miliziani sciiti yemeniti, vista la non sostenibilità di inviare i suoi jet da combattimento in raid lunghi e costosi sullo Yemen ogni volta che un drone esplode all’interno del Paese. La strategia militare di Israele, del resto, si è a lungo concentrata sulla garanzia di profondità strategica in regioni instabili. Nel Mediterraneo, lo Stato ebraico ha fatto affidamento su Cipro per il supporto operativo. Il Somaliland rappresenterebbe, in tal senso, un’opportunità simile nel Mar Rosso, consentendo a Israele di monitorare e rispondere alle minacce provenienti dallo Yemen.

    Il ruolo attivo degli Emirati nel facilitare l’espansione militare israeliana evidenzia peraltro le ambizioni dello Stato del Golfo di dominare le rotte marittime strategiche. L’influenza di Abu Dhabi si estende oltre il Somaliland fino all’arcipelago di Socotra, nello Yemen, dove gestisce una struttura militare e d’intelligence congiunta con Israele sull’isola di Abdul Kuri. L’iniziativa di una base israelo-emiratina in Somaliland sarebbe dunque in linea con gli interessi strategici più ampi degli Emirati nella regione del Mar Rosso, dove Abu Dhabi ha mantenuto una presenza militare e commerciale dal 2017 attraverso il porto di Berbera e la sua infrastruttura associata. Il coinvolgimento degli Emirati include anche investimenti finanziari sostanziali, come un progetto da 440 milioni di dollari per sviluppare il porto e l’aeroporto, che fungono da “hub” strategici per le operazioni militari emiratine nello Yemen. Israele e gli Emirati condividono infatti un’ostilità reciproca nei confronti del gruppo Houthi, che rappresenta una minaccia strategica per i loro interessi. Certo, l’istituzione di una base militare israeliana in Somaliland rischierebbe d’altro canto di destabilizzare la già volatile regione del Mar Rosso. L’Egitto, ad esempio, potrebbe vedere questo sviluppo come una potenziale minaccia alla sua sovranità e alla sicurezza del Canale di Suez.

    Il progetto israelo-emiratino potrebbe trovare una sponda importante da parte dell’amministrazione del presidente degli Stati Uniti, Donald Trump. Sono molte, infatti, le voci secondo cui Trump sarebbe intenzionato a riconoscere l’indipendenza di Hargheisa. A pensarla così sono diversi ex funzionari ed esponenti dei think tank vicini ai repubblicani Usa tra cui Peter Pham, l’ex inviato per l’Africa durante il primo mandato di Trump, secondo il quale il corretto svolgimento del processo democratico delle recenti elezioni presidenziali in Somaliland ha “dimostrato la sua attrattiva come partner per gli Stati Uniti e altri Paesi”. Di recente anche l’ex segretario alla Difesa del Regno Unito, Gavin Williamson, ha dichiarato che Trump dovrebbe prendere in considerazione il riconoscimento formale dell’indipendenza del Somaliland, auspicando che la nuova amministrazione Usa affronterà la questione. Un primo, concreto atto in questa direzione è arrivato lo scorso 12 dicembre, quando il deputato repubblicano Scott Perry, membro della Camera dei rappresentanti Usa, ha presentato al Congresso un disegno di legge che invita il governo statunitense a estendere il riconoscimento formale dell’indipendenza del Somaliland. La risoluzione sostiene un cambiamento nella politica degli Stati Uniti per riconoscere l’indipendenza del Somaliland, considerato come un partner strategico in una regione in cui Cina e Russia continuano ad espandere la loro influenza.

  • Fronte Polisario pronto a dialogare col Marocco sul Sahara occidentale

    A pochi giorni dalla discussione al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite sul rinnovo del mandato della missione Minurso, il Fronte Polisario ha presentato al segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, una nuova proposta ampliata di soluzione politica, definita come un gesto di “buona volontà” e in risposta alla risoluzione 2756 (2024). L’iniziativa giunge in un momento di forte fermento diplomatico, mentre i membri del Consiglio negoziano una bozza di risoluzione che, per la prima volta, riconoscerebbe la proposta di autonomia del Marocco del 2007 come “base più credibile e realistica” per una soluzione duratura del conflitto nel Sahara Occidentale. La proposta del Polisario, trasmessa da Brahim Ghali, presidente dell’autoproclamata Repubblica araba sahrawi democratica (Rasd), è intitolata “Proposta del Fronte Polisario per una soluzione politica reciprocamente accettabile che preveda l’autodeterminazione del popolo del Sahara occidentale e il ripristino della pace e della stabilità regionale”. Il documento riafferma la disponibilità del movimento sahrawi a negoziare direttamente con il Regno del Marocco, “sotto gli auspici delle Nazioni Unite e in conformità con la Carta dell’Onu e l’Atto costitutivo dell’Unione africana”.

    Secondo la rappresentanza del Polisario a New York, la proposta mira a “permettere al popolo sahrawi di esercitare il proprio diritto inalienabile all’autodeterminazione attraverso un referendum libero e supervisionato dalle Nazioni Unite e dall’Unione africana”. Ghali sottolinea inoltre la volontà della parte sahrawi di “condividere i costi della pace” e di costruire “un futuro basato sul rispetto reciproco, sul buon vicinato e sulla cooperazione regionale”. Il comunicato del Polisario descrive l’iniziativa come una risposta diretta all’appello del Consiglio di sicurezza a “superare lo stallo negoziale” e ad “ampliare le proprie posizioni”. “Crediamo che una soluzione pacifica, giusta e duratura del conflitto sia non solo urgente, ma anche possibile, se esiste una volontà politica autentica di superare lo status quo e le imposizioni unilaterali”, si legge nella nota.

    Il rilancio della via referendaria da parte del Polisario sembra tuttavia collocarsi in un quadro diplomatico che si sta muovendo in direzione opposta. La bozza preliminare di risoluzione che sarà discussa nei prossimi giorni a New York introduce infatti un cambio di paradigma: proroga il mandato della Minurso fino al 31 gennaio 2026, ma ne ridefinisce le priorità politiche, indicando il piano di autonomia marocchino come la “base più fattibile” per una soluzione di compromesso. Secondo quanto appreso da “Agenzia Nova”, il testo – promosso dagli Stati Uniti – invita Marocco, Fronte Polisario, Algeria e Mauritania ad avviare “negoziati immediati e senza precondizioni”, con l’obiettivo di giungere entro tre mesi a un’intesa politica “che garantisca una genuina autonomia all’interno dello Stato marocchino, in conformità con i principi della Carta delle Nazioni Unite e del diritto all’autodeterminazione”.

    Si tratta di un passaggio che segna un chiaro cambio di tono rispetto alle precedenti risoluzioni, recependo le raccomandazioni avanzate dall’inviato personale del segretario generale, Staffan de Mistura, che lo scorso 10 ottobre ha sollecitato un calendario realistico e vincolante per il rilancio del dialogo. La bozza menziona inoltre il sostegno espresso da diversi Stati membri al piano di Rabat, presentato nel 2007 al segretario generale dell’Onu come quadro di riferimento per un’autonomia del Sahara sotto sovranità marocchina, e lo definisce “la via più realistica e credibile per una soluzione giusta e duratura”. Una formulazione che conferma la convergenza crescente della comunità internazionale verso la posizione di Rabat, sostenuta apertamente da Washington, Parigi e Madrid. La bozza elogia anche “la leadership statunitense nel dossier” e riconosce “l’impegno del presidente Donald Trump” nella ricerca di una soluzione, richiamo che potrebbe tuttavia generare riserve da parte di Russia e Cina. Entrambi i Paesi, pur avendo recentemente aperto alla possibilità di un sostegno al piano marocchino, hanno vincolato la loro posizione al rispetto del principio di autodeterminazione del popolo sahrawi e alla necessità di una soluzione accettata da tutte le parti, inclusa l’Algeria.

    Per il Polisario, al contrario, l’iniziativa statunitense rappresenta un “pericoloso arretramento politico e giuridico”, poiché – secondo i sahrawi – ometterebbe qualsiasi riferimento al processo di decolonizzazione riconosciuto dall’Onu fin dal 1963. Il movimento teme inoltre che il testo riduca di fatto la Minurso a un mero strumento tecnico di monitoraggio, escludendo il referendum dall’agenda e trasferendo la mediazione sotto l’egida diretta di Washington. “Il destino del popolo sahrawi non è nelle mani né degli Stati Uniti né della Francia, ma nelle sue stesse mani”, ha dichiarato il rappresentante del Polisario all’Onu, Sidi Mohamed Omar, ribadendo che “l’unica via legittima resta il referendum di autodeterminazione”. Il risultato della prossima sessione a New York potrebbe quindi segnare una svolta storica e un nuovo punto di equilibrio (o rottura) per la regione del Maghreb.

  • I pm belgi vogliono processare un ex diplomatico per l’omicidio di Lumumba nel 1961

    I procuratori belgi hanno dichiarato di voler processare un ex diplomatico di 92 anni, Etienne Davignon, per il suo presunto ruolo nell’omicidio dell’eroe dell’indipendenza congolese Patrice Lumumba, avvenuto nel 1961. Davignon è accusato di essere coinvolto nella “detenzione e trasferimento illegali” di Lumumba al momento della sua cattura e del suo “trattamento umiliante e degradante”, ha dichiarato la procura in una nota. L’udienza del processo è stata fissata al prossimo gennaio. La figlia di Lumumba, Juliana, ha accolto con favore la notizia, dichiarando all’emittente belga “Rtbf”: “Ci stiamo muovendo nella giusta direzione. Quello che cerchiamo è, prima di tutto, la verità”. Davignon è l’unico sopravvissuto tra i dieci cittadini belgi accusati di complicità nell’omicidio di Lumumba. All’epoca dell’assassinio era un diplomatico tirocinante e negli anni ’80 fu vicepresidente della Commissione europea. Un magistrato deciderà se processarlo o meno.

    Nel 2011 i figli di Lumumba hanno sporto denuncia in Belgio per chiedere giustizia dopo l’omicidio del padre, avvenuto all’età di 35 anni. Fu fucilato da un plotone di esecuzione con il tacito appoggio del Belgio, ex potenza coloniale del vasto Stato africano ricco di risorse minerarie, oggi noto come Repubblica democratica del Congo (Rdc). Il suo corpo fu sciolto nell’acido, ma rimase un dente con una corona d’oro che le autorità belghe hanno consegnato alla famiglia di Lumumba nel 2022. Nel 2001 una commissione parlamentare d’inchiesta belga concluse che il Belgio aveva la “responsabilità morale” dell’assassinio e un anno dopo il governo presentò delle scuse alla famiglia di Lumumba e alla nazione congolese. Lumumba divenne primo ministro quando il Congo ottenne l’indipendenza nel 1960, ma la nazione sprofondò nel caos poco dopo. In seguito venne rimosso dall’incarico e giustiziato da un plotone di esecuzione. Sia il Belgio sia gli Stati Uniti furono accusati di essere complici del suo omicidio. Il suo corpo venne poi seppellito in una fossa poco profonda, riesumato, trasportato per 200 chilometri, seppellito di nuovo, riesumato e poi fatto a pezzi e infine sciolto nell’acido.

    Il percorso di Lumumba da primo ministro a vittima di assassinio durò meno di sette mesi. Poco dopo l’indipendenza, il Congo fu colpito da una crisi secessionista quando la provincia sud-orientale del Katanga, ricca di minerali, dichiarò che si sarebbe staccata dal resto del Paese. Nel caos politico che seguì, le truppe belghe furono inviate con il pretesto di proteggere i cittadini belgi, ma in realtà contribuirono anche a sostenere l’amministrazione del Katanga, considerata più accondiscendente all’influenza belga. Il capo di Stato maggiore dell’esercito, il colonnello Joseph Mobutu, prese il potere poco più di una settimana dopo che il presidente Joseph Kasa-Vubu aveva destituito Lumumba dall’incarico di primo ministro. Lumumba venne quindi posto agli arresti domiciliari, evase e venne nuovamente arrestato nel dicembre 1960, prima di essere detenuto nella parte occidentale del Paese. La sua presenza lì fu vista come una possibile fonte di instabilità e il governo belga ne incoraggiò il trasferimento nel Katanga. Durante il volo del 16 gennaio 1961 fu aggredito e picchiato al suo arrivo, mentre i leader del Katanga riflettevano su cosa farne. Alla fine si decise di farlo processare da un plotone di esecuzione e il 17 gennaio fu fucilato insieme a due alleati.

  • Le sconfinate ambizioni del nuovo zar

    Putin ha ribadito che la sicurezza della Russia non è negoziabile, corretto, ogni Paese ha il diritto di difendere il proprio territorio ma nessuno ha mai messo, né mette in discussione, la sicurezza della Russia, anzi molti Stati europei hanno sempre intrattenuto con lui e con il suo Paese rapporti economici e politici di rilievo. Quando il presidente russo dichiara al mondo che la sicurezza della Russia non è negoziabile non può stupirsi che altrettanto legittimamente l’Ucraina abbia lo stesso diritto di difendere i suoi i confini e la sua sicurezza. Non esistono, almeno dove vi è il rispetto delle leggi, due pesi e due misure, quello che Putin rivendica come suo diritto è lo stesso diritto che hanno gli altri Stati e lui è il primo ed unico ad aver violato questo diritto prima annettendo la Crimea e poi sostenendo per anni gli insorti nel Donbas. La sua non è una iniziativa difensiva dovuta ad un pericolo, potrebbe essere un’azione preventiva secondo il vecchio detto latino “se vuoi la pace prepara la guerra”? Putin di fatto è già in guerra perché ha avallato otto anni di guerra nel Donbas dopo aver annesso, senza colpo ferire, la Crimea. Un’azione preventiva anche quella? Azione preventiva che si sviluppa annettendo territori o creando stati fantoccio che poi riconosce come alleati erodendo inesorabilmente l’Ucraina e spostando i confini della Federazione russa sempre più avanti, sempre più vicini ai Paesi europei e Nato?

    In verità Putin ha deciso che questo è il momento per tentare di coronare il suo sogno: passare alla storia come uno zar dei tempi moderni, il federatore di territori immensi e stati diversi, il creatore di un nuovo impero russo che renda l’Europa sempre meno influente e la Cina consapevole di non poter continuare essa stessa ad espandersi nel mondo diventando di fatto la prima super potenza. La Cina, che è il nuovo grande alleato di Putin, è però un alleato scomodo perché diventa, di momento in momento, sempre più potente con le sue diramazioni, proprietà, interessi economici vitali nella maggior parte del mondo. Questo è il momento ideale per Putin per dare corpo al suo sogno, è ancora abbastanza giovane e potente al suo interno, dove rende gli avversari inoffensivi imprigionandoli, e varie contingenze sembrano essergli favorevoli: l’Europa non ha una politica comune, neppure quella per gli approvvigionamenti energetici, e i costi di gas e petrolio stanno mettendo in grave crisi famiglie e produzioni mentre l’economia e la pubblica opinione sono ancora  scossi per i problemi conseguenti la pandemia, la Germania non ha più un forte cancellierato, l’Italia soffre per le risse tra i partiti in vista delle elezioni nazionali, in Francia sono imminenti le elezioni per la presidenza, gli Stati Uniti, reduci dal disastro dell’Afghanistan soffrono di gravi incertezze per una presidenza di fatto debole e per l’aggravarsi di problemi razziali ancora irrisolti, la Nato può intervenire eventualmente solo per difendere il territorio di Stati membri e per altro non ha mai particolarmente brillato per successi, in concreto nessuno manderà soldati all’Ucraina, solo armi e soldi e non si sa fino a quando. Le mosse di Putin hanno reso l’Ucraina debolissima sul piano economico, chi vorrebbe oggi investire in un Paese così a rischio? Solo qualche oligarca russo o legato alla Russia che in questo modo potrebbe facilmente impossessarsi di gran parte dei suoi gangli economici più importanti. L’Ucraina ha sopportato la perdita della Crimea e la guerra del Donbas in pratica senza poter fare nulla di utile alla, almeno parziale, risoluzione dei tanti problemi. A questo aggiungiamo che molti Paesi europei non possono dare sanzioni che taglino l’arrivo del gas, in effetti anche Putin ha necessità di venderlo perché è una delle più importanti entrate della Russia e per questo ha siglato un nuovo accordo con Pechino aumentando considerevolmente le sue forniture di gas verso la Cina. Se aggiungiamo che le sanzioni che l’Europa metterà porteranno un danno anche a noi europei, sia per le mancate esportazioni verso la Russia che per l’evidente calo nel settore turistico, si comprende bene perché sia questo il momento migliore per Putin per sferrare la sua offensiva militare e diplomatica. Che fare allora? Certamente continuare con la diplomazia ma cercando di avere ben chiaro cosa vuole Putin e cosa si può concedergli ottenendo in cambio altre concessioni che garantiscano la sicurezza e l’indipendenza non solo dell’Ucraina ma anche di tutti gli stati che, avendo cittadini di lingua russa o di origini russe, potrebbero un domani entrare nel mirino del nuovo zar.

    Diplomazia ed accordi, compromessi onorevoli che impediscano azioni con risultati irreversibili e tragici. Un problema che anche Putin, speriamo non accecato da eccessivo orgoglio e onnipotenza, deve comprendere prima di insanguinare ulteriormente il suolo ucraino e prima di vedere tornare in Russia le bare dei suoi soldati perché in questo caso l’amore, il rispetto del suo popolo potrebbe tramutarsi in odio. E i soldati russi è bene che comincino a capire che se sarà guerra anche loro moriranno in tanti, vittime sacrificali al sogno di grandezza di Putin

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