inflazione

  • Le vere ragioni dell’inflazione. Il bilancio della Fed è più che raddoppiato in due anni

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi pubblicato su ItaliaOggi il 10 giugno 2022

    Che la pandemia e la guerra in Ucraina abbiano causato grandi turbolenze economiche globali non è in discussione. Non è vero, però, che siano le sole cause dell’inflazione nel mondo e dell’incipiente recessione economica. Non si può nascondere sotto il «tappeto» della pandemia e della guerra tutta «l’immondizia speculativa finanziaria» che ci trasciniamo da decenni.

    Anche i recenti avvisi di crisi fatti da alcuni esponenti della finanza non devono trarre in inganno. Jamie Dimon, amministratore delegato di JP Morgan, si aspetta «un uragano economico» provocato dalla riduzione del bilancio della Fed e dalla guerra in Ucraina.

    Lorsignori sono preoccupati della bolla finanziaria che hanno creato più che delle sorti dell’economia. È come il grido di un drogato che non ha più accesso alla droga.

    Basta analizzare il bilancio della Federal Reserve per comprendere meglio il problema. Dai 900 miliardi di dollari precrollo della Lehman Brothers, esso era arrivato a 4.500 miliardi nel 2014. C’è stata un’imponente immissione di liquidità per salvare il sistema. Poi, dall’inizio della pandemia si è passati da 4.100 agli attuali 9.000 miliardi di dollari. Più del doppio in due anni!

    Questo comportamento è stato replicato dalla Bce e dalle altre banche centrali.

    Negli Usa una parte rilevante è andata a sostenere «artificialmente» le quotazioni di Wall Street e i corporate debt, cioè i debiti delle imprese spesso vicini ai livelli «spazzatura».

    A ciò si aggiunga la politica del tasso zero e negativo che ha favorito l’accensione spregiudicata di nuovi debiti, con il rischioso allargamento del cosiddetto «effetto leva», e ha generato titoli, pubblici e privati, per decine di migliaia di miliardi a tasso d’interesse negativo.

    Di fatto la Fed, e in misura minore le altre banche centrali, è diventata una vera «bad bank». L’impennata dell’inflazione ha reso il loro accomodante modus operandi non più sostenibile.

    L’aumento del tasso d’interesse e la riduzione dei quantitative easing stanno facendo saltare il banco.

    Anche la narrazione della crescita dell’inflazione non regge. Non basta sostenere che sia l’effetto degli squilibri generati dalla ripresa economica e dalla guerra. Sarebbe stupido negarne l’effetto. La narrazione, però, fa sempre perno sul meccanismo «imparziale e oggettivo» della domanda e dell’offerta. Cosa che però non si è pienamente manifestata con la diminuzione dei prezzi quando la domanda era scesa all’inizio del Covid.

    Nei mesi della pandemia non c’è stata una smobilitazione industriale mondiale tanto grande da giustificare le forti pulsioni inflattive generate da una modesta ripresa economica e dei consumi. Anche il rallentamento delle «catene di approvvigionamento» è stato esagerato da una certa propaganda interessata.

    Occorre mettere in conto l’effetto dell’enorme liquidità in circolazione e la necessità per il sistema finanziario di generare a tutti i costi dei profitti, anche con la speculazione. Ecco alcuni dati per una più corretta valutazione dell’inflazione.

    Riguardo all’indice dei Global Prices of Agriculture Raw Materials, le derrate alimentari, la Fed di St Louis riporta che mediamente era di 91 punti ad aprile 2020, 114 un anno dopo e 123 ad aprile 2022. Il prezzo del petrolio Wti, che era 18 $ al barile ad aprile 2020, aveva già raggiunto i 65 $ un anno dopo. A maggio 2022 superava i 114 dollari.

    Simili andamenti sono riportati dal Fmi per l’indice delle commodity primarie che sale progressivamente dai 60 punti del 2020 per poi crescere vertiginosamente negli ultimi mesi fino a raggiungere i 150 punti. Evidentemente gli effetti della guerra e delle sanzioni incidono non poco sull’impennata dei prezzi di detti prodotti.

    L’indice dei prezzi dei fertilizzanti della Banca mondiale, che nell’aprile 2020 era 66,24 a dicembre 2021 era esploso a 208,01. L’aumento del 60% negli ultimi due mesi del 2021 ha devastato gli agricoltori di tutto il mondo.

    Ancora una volta la fa da padrone la speculazione. È singolare che si chieda l’immediata sospensione delle attività belliche e non s’intervenga contro la speculazione i cui effetti devastanti si riverberano a livello globale.

    *già sottosegretario all’Economia **economista

  • La scolastica inflazione

    Fino a pochi giorni fa l’avvento dell’inflazione nell’economia italiana veniva da buona parte della nomenclatura economica indicato come un fenomeno positivo in prospettiva in quanto indicato in grado di ridurre il valore del debito pubblico nella propria progressiva crescita.

    Questa interpretazione, prettamente scolastica, dell’azione dell’inflazione viene in più applicata ad un sistema economico ideale caratterizzato da fattori a valore costante (1. andamento consumi interni, 2.tassi di interessi nazionale ed internazionali, 3.crescita Pil, 4.andamento debito pubblico, 5.entità spesa pubblica, 6. Saldo import-export,  7.contesti internazionali economici e politici, 8.quotazione della valuta) ed, ancora una volta, viene clamorosamente smentita nella capacità di incidere proprio di questi fattori (1-8)all’interno di una reale e dinamica visione del sistema economico.

    La spirale inflattiva europea, ed in particolare quelli italiana, non si manifesta come espressione di uno sviluppo  economico, e quindi legata ad una crescita dei consumi, ma semplicemente risulta come il terribile effetto combinato e determinato da un aumento dei prezzi legato ad una diminuzione della disponibilità (2021) di merce e materie imputabili alla esplosione degli acquisti della Cina unito alle problematiche legate nelle gestione della supply chain di filiere estreme.

    La stessa crescita del PIL italiano nel 2021, come già dimostra  la  caduta del primo trimestre del 2022 con .0,4%, era sostenuta dall’esplosione della spesa pubblica che ha oltrepassato i 1000 miliardi dei quali buona parte a debito (fattore 4).

    In questo contesto la visione, o ancora peggio la convinzione, di un “benefico” impatto dell’inflazione nasce dalla presunzione di un mantenimento di tassi di interesse, di costi di servizio al debito, sempre vicino allo zero se non addirittura negativi (fattore 2) garantito il Quantitive Easing dell’allora presidente della Bce  Mario Draghi ed il mantenimento del valore di cambio della valuta (fattore  8) .

    In un simile contesto, poi, la  strategia monetaria espansiva della massima autorità monetaria europea, finalizzata ad incrementare i mezzi finanziari per un aumento della  crescita economica, ha invece contemporaneamente creato una vera e propria “sospensione dalla realtà” illudendo le massime istituzioni nazionali in un mantenimento di queste condizioni macroeconomiche (fattori 2 e 8).

    Il complesso contesto internazionale da oltre un anno, invece, indica come questa politica monetaria espansiva abbia subito una inversione proprio a causa dell’inflazione crescente ed abbia indotto le massime autorità delle banche centrali a rivedere la strategia elaborando quindi una politica monetaria restrittiva e perciò con una progressiva crescita dei tassi.

    La fine di questa sospensione dalla realtà di tassi irrisori se non negativi  e una crescita economica già ferma nel primo trimestre2022 non sono stati sufficienti a rivedere l’elaborazione di questa scolastica sicurezza la quale si infrange contro il volgere dinamico di una complessa realtà economica.

    in più, al netto della terribile conseguenza della guerra cominciata il 24 febbraio, l’inflazione già indicata oltre il 5% non poteva non determinare che un aumento dei tassi di interesse anche in relazione alla scena internazionale con un’economia statunitense in crescita tanto da indurre la stessa Fed per prima ad un aumento dei tassi di interesse.

    Inevitabilmente la disparità sui tassi di interesse tra le due sponde dell’oceano ha spinto gli investitori a spostare nel dollaro buona parte delle risorse, anche grazie ad una economia in crescita, la quale ora offre tassi di interesse più alti ma con una conseguente svalutazione dell’euro: il record della valuta statunitense sull’euro  lo conferma ampiamente.

    La sintesi terribile tra l’inflazione ed i  diversi fattori prima indicati (1-8) pone le condizioni per un’ulteriore crescita del debito pubblico con buona pace di chi pensava che l’inflazione lo avrebbe  ridotto dimenticando come il  sistema economico attuale rappresenti un complesso articolato alla ricerca di un equilibrio senza mai raggiungerlo e non dipenda da una banale alchimia contabile tra tasso di inflazione ed interesse.

    Il fatto, poi, che questa “benvenuta” inflazione risulti la tassa più iniqua in assoluto in quanto colpisce le fasce più deboli della popolazione risulta assolutamente ininfluente alle brillanti menti che la invocano.

  • L’inflazione non è transitoria

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi pubblicato si ItaliaOggi il 4 febbraio 2022

    La politica dei soldi facili ha drogato la finanza e l’economia, facendo aumentare i debiti e la propensione per maggiori rischi, e ha determinato la crescita dell’inflazione.

    Dopo molto tempo anche la Federal Reserve ha ammesso di aver sottovalutato l’impennata inflazionistica, che è più ampia e persistente delle previsioni. Ora, per tutte le grandi economie, la sfida è come correggere le azioni dettate dall’inflazione che troppo a lungo è stata interpretata come transitoria.

    Le banche centrali da anni, in merito all’inflazione, si basano su tre principi molto soggettivi e poco scientifici. Il primo è il target arbitrario del 2% annuo. Il secondo riguarda le aspettative di inflazione. I banchieri affermano che sono le aspettative a muovere l’inflazione e che le banche centrali guidano le aspettative. Perciò tutto, secondo loro, sarebbe sotto controllo. Il terzo è il cosiddetto forward guidance, una guida anticipata attraverso, per esempio, il controllo della curva dei rendimenti dei titoli pubblici.

    Con la Grande Crisi Finanziaria prima, e con la pandemia poi, le banche centrali bene hanno fatto ad aprire i rubinetti della liquidità con salvataggi immediati e necessari per il sistema. A lungo andare, però, i rischi di inflazione sono inevitabili. Infatti, già la scorsa estate, sarebbe stato opportuno riconoscere che i fattori cosiddetti transitori erano accompagnati da problemi strutturali. Non si può giustificare tutto con gli effetti della pandemia.

    Oltre le irrisolte speculazioni sulle commodities, le aziende, in verità, descrivevano la natura persistente delle interruzioni nelle loro catene di approvvigionamento e la mancanza di manodopera specializzata.

    Gli imprenditori, a differenza di molti economisti accademici, affermavano che questi problemi non sarebbero stati risolti in tempi brevi. Le banche centrali certamente non hanno tutti gli strumenti per sbloccare le catene di approvvigionamento e il reperimento della forza lavoro. Ma rimanere nella “mentalità inflazionistica transitoria”, rischia di mettere in moto quelle aspettative con tassi di inflazione non facilmente tollerabili dall’economia.

    Anche i crescenti risparmi dei mesi passati, erosi da un’inflazione del 6% o più, potrebbero essere spinti con forza verso l’acquisto di beni, ma troppo velocemente per trasformarsi in nuovi investimenti e in maggiori produzioni, alimentando così la stessa inflazione.

    Non si può aspettare. Si rischia una più marcata recessione. È un modello conosciuto: dentro la trappola della curva dell’inflazione c’è il rischio di inasprire la politica monetaria in modo brusco, colpendo duramente la domanda e l’occupazione e mettendo fuori gioco le imprese già in difficoltà. Per i mercati si prospetterebbero situazioni d’illiquidità destabilizzante.

    In verità, già a novembre, il governatore della Fed, Jerome Powell, ha fatto un improvviso cambiamento di politica monetaria, annunciando una riduzione degli acquisti mensili di attività, quello che si chiama in gergo il «tapering» del quantitative easing.

    Da parte sua, la Banca centrale europea ha ancora una posizione attendista, credendo fermamente nella «transitorietà» dell’inflazione, che alla fine dovrebbe ritornare al fatidico 2%.

    Se le pressioni inflazionistiche dovessero, però, diventare generalizzate, non si può escludere una qualche frenata disordinata nella politica monetaria.

    In questa situazione, secondo noi, le principali banche centrali dovrebbero comunicare con puntualità le proprie azioni politiche in modo da non innescare confusione o una overreaction dei mercati. A differenza del positivo sincronismo pre pandemico, l’attuale disallineamento tra la Fed e la Bce non è di buon auspicio.

    D’altra parte, se l’inflazione diventasse più alta rispetto alle previsioni, si ridurrebbero anche i redditi reali, innescando un inevitabile scontro sociale, in particolare sui salari e le pensioni.

    Indubbiamente, non vi sono facili soluzioni. Però, se nei passati 15 anni le banche centrali sono state super interventiste, non possono adesso diventare troppo attendiste. In questa situazione sono i governi e i parlamenti a dover entrare in gioco con decisione e definire le priorità degli interventi. Sono chiamati a favorire attivamente l’economia reale, le imprese produttive, l’occupazione e i redditi dei cittadini e svincolarsi dalla “presa” prolungata e soffocante della grande finanza.

    *già sottosegretario all’Economia **economista

  • Le due diverse genesi inflattive

    L’inflazione trae le proprie peculiari caratteristiche e determina diversi effetti in rapporto alle ragioni della sua genesi. Gli stessi rimedi con cui la politica monetaria cerca, spesso con ritardo, di attenuarne le problematiche per l’economia reale risultano diversi a fronte di un’inflazione di natura endogena, cioè causata da fattori economici interni al proprio mercato, oppure esogena, quindi determinata da problematiche esterne al controllo della stessa politica monetaria delle banche centrali.

    Gli Stati Uniti hanno già da tempo adottao, in termini di strategia monetaria, il “tapering “progressivo, ovvero la diminuzione dell’acquisto dei titoli del debito pubblico Usa e successivamente avviato una graduale crescita dei tassi di interesse per frenare la spirale inflattiva arrivata al + 7%.

    L’economia statunitense ha dimostrato nel 2021 un tassi di crescita del +5,7% (+6,9 % nell’ultimo trimestre) e contemporaneamente ha già raggiunto da tempo la piena occupazione con un tasso di disoccupazione al 3,8%. Come logica conseguenza le retribuzioni stanno crescendo (+8,7% nel penultimo trimestre) quindi tutti questi dati inducono la Fed a confermare ed inasprire una politica monetaria restrittiva anche a causa dei consumi in salita del +12% e con l’indice dei prezzi al +6%.

    E’ evidente come l’origine dell’inflazione made in Usa risulti prevalentemente endogena anche perché la più grande potenza mondiale guidata dal Presidente Joe Biden rimane l’unica dell’emisfero occidentale ad avere raggiunto l’indipendenza energetica, è quindi al riparo dall’esplosione dei prezzi delle fonti energetiche ed in grado addirittura di esportare nello specifico momento notevoli quantità di shale gas verso l’Europa stretta viceversa nella morsa energetica.

    Al di qua dell’Atlantico la complessa situazioni dell’Unione Europea presenta un medesimo fenomeno inflattivo ma con delle origini decisamente differenti. In Europa, ed in particolare in Italia, è stata scelta una politica “energetica” basata sulla assoluta e piena dipendenza da fonti energetiche estere, rendendo quindi il nostro Paese soggetto a dinamiche internazionali economiche ma anche politiche fuori da un nostro possibile controllo.

    In più si è progressivamente quasi azzerata l’attività estrattiva del gas (solo nel 2021, e quindi già in piena crisi energetica, è diminuita del 18%) arrivando nel 2021 con soli tre (3) milioni di mq prelevati, quando nel 1991 avevamo raggiunto i ventuno (21) milioni, e lasciando ogni riserva della sempre più preziosa materia prima ad esclusivo approvvigionamento della Croazia.

    Il governo Draghi, con un “solo” anno di ritardo dall’inizio dell’escalation energetica, ha finalmente deciso di raddoppiare le estrazioni i cui benefici si otterranno, va ricordato, nel breve” termine di 12/18 mesi, dimostrando, ancora una volta, come una maggiore tempestività avrebbe se non risolto certamente ridotto l’impatto devastante di questa vera pandemia energetica.

    In questo contesto la spirale inflattiva europea arriva ad un livello del +5,1% mentre quella italiana si “fermerebbe” ad un +4,8% ma nel caso europeo ed italiano in particolare la genesi va ricercata tra le fonti esterne.

    A differenza del modello economico statunitense in Europa la disoccupazione registra un 7,1% (3,8% negli Usa si ricorda) mentre in Italia raggiunge il 9% (26,8 % tra i giovani), quindi ben lontani dalla piena occupazione indicata con un tasso di disoccupazione inferiore al 5% (disoccupazione frizionale).

    All’interno quindi di uno scenario economico politico sostanzialmente agli antipodi rispetto a quello d’oltreoceano sembrerebbe sicuramente assurdo adottare le medesime politiche monetarie con l’obiettivo di frenare un fenomeno (inflazione) simile ma determinato da cause diverse. Nel nostro Paese, in più, si aggiungono anche gli effetti di una politica di sviluppo che parte da due assiomi assolutamente superati e comunque falsi. Sulla base del primo l’attività di governo invece di avere un approccio organico e complessivo allo sviluppo del Paese ha scelto di privilegiare uno specifico settore (edilizio) come beneficiario dei maggiori interventi finanziari (bonus fiscali), espressione della convinzione di “un effetto traino” in grado cioè di riavviare l’intera economia generale. Una scelta risibile il solo pensare che un singolo privilegiato settore possa determinare una crescita complessiva ma di certo ha dato vita NON solo ad una rinascita dell’inflazione ma ANCHE alla creazione di una aspettativa di inflazione per tutti gli altri comparti economici.

    Il secondo assioma assolutamente fuorviante è quello relativo ad un altro effetto traino per l’intera economia attributo questa volta alla semplice crescita della spesa pubblica, quasi rappresentasse il motore stesso dell’economia nazionale.

    In trent’anni di esplosione della spesa pubblica, finanziata con l’aumento della pressione fiscale e del debito pubblico, il reddito disponibile per i contribuenti italiani si è ridotto del -3,7% a fronte di una crescita in Germania del +34,7 % e di oltre il +24% in Francia. Direbbe quindi il poeta “perdete ogni speranza voi che attendete gli effetti economici della spesa pubblica” soprattutto all’interno di una pseudo-transizione energetica priva di ogni base economica di sostenibilità la quale, va ricordato, viene sovvenzionata da quarant’anni (40) con oneri nelle bollette, a tutt’oggi in grado di raggiungere la quota di rinnovabili al 18% ma pretendendo di arrivare al 50% nel 2030, cioè in otto (8) anni. L’adozione, quindi, di una politica monetaria restrittiva da parte della Bce determinerebbe solo l’effetto di frenare ulteriormente il tentativo di ripresa economica rendendo più oneroso l’accesso al credito e probabilmente con effetti nulli sul principale problema come l’inflazione stessa. Gioverebbe ricordare, infatti, come all’interno di un mercato globale le politiche monetarie regionali (l’Europa altro non è in un contesto mondiale) abbiano già fallito nel recente passato.

    In questo senso basti ricordare come dal 2015 l’allora presidente della Bce Mario Draghi abbia inaugurato il Quantitive Easing con l’obiettivo di fornire un supporto finanziario alla crescita economica e alla produzione ma anche scongiurare la deflazione che avrebbe messo in seria difficoltà il sistema finanziario e bancario.

    Fino alla esplosione della terribile pandemia nel 2020 nessun indicatore economico aveva registrato una ripresa dell’inflazione, legata all’enorme quantità di risorse finanziarie disponibili sul mercato, anche a causa della stagnazione sostanziale dei consumi ed alla diminuzione del prezzo medio dei beni acquistati provenienti da zone a basso costo di manodopera.

    Nella situazione opposta la medesima politica monetaria ma di segno opposto non frenerebbe l’inflazione (come detto esogena) ma ridurrebbe ulteriormente le opportunità di crescita e garantirebbe solo una maggiore e pericolosa stagnazione economica già in atto (*) riducendo anche drasticamente il potere di acquisto di intere fasce di popolazione a basso reddito ma anche del ceto medio. Con on queste caratteristiche e parametri economici non esistono quindi le condizioni per una politica monetaria restrittiva quando invece l’unica soluzione dovrebbe venire individuata in una sostanziale ed omogenea riduzione del carico fiscale avviata sia dallo stato centrale, cominciando a rendere disponibile le risorse del Fiscal Drag, quanto dagli enti locali i quali hanno aumentato il proprio prelievo fiscale negli ultimi dieci anni del 111%.

    Una riduzione della pressione fiscale sarebbe assolutamente di per sé deflattiva (**) ed a favore delle fasce meno abbienti di contribuenti (***) riducendo il potere delle classi politiche e dirigenti che vivono di spesa pubblica anche per finanziare il proprio consenso elettorale.

    (*) dicembre 2021: produzione industriale -0,7% – gennaio 2022: produzione industriale -1,3%

    (**) si pensi alla riduzione del costo del gasolio nel trasporto delle merci e quindi al benefico effetto per i costi di trasporto e, di conseguenza, del prezzo dei beni di consumo

    (***) esattamente il contrario di quanto ottenuto con la rimodulazione delle aliquote Irpef del governo Draghi

  • La sorgente inflattiva

    La politica monetaria espansiva nell’Unione Europea è cominciata nel 2015 con la Presidenza della BCE di Mario Draghi ed il governo Renzi ed ha avuto il merito di abbassare quasi a zero i tassi di interesse e, di conseguenza, i costi del servizio al debito con punte di rendite negative per i Bund tedeschi.

    Il nostro Paese, come sempre governato con una visione prospettica al massimo di quindici (15) giorni, invece di ridurre la massa debitoria grazie al risparmio di oltre 30 miliardi l’anno di interessi ha sempre aumentato la spesa pubblica fino alla pandemia alla quale si è presentato con il 135% di rapporto debito sul Pil pari a 2.409 miliardi e già alla fine del primo anno di pandemia segnava un aumento di oltre 160 miliardi.

    Quello che risulta interessante, tuttavia, è come la politica monetaria espansiva delle autorità monetarie europee e di quelle oltre oceano, pur ideata con la funzione di fornire strumenti finanziari per una ripresa di fronte alla stagnazione complessiva della economia europea e statunitense, di fatto non abbia prodotto alcun effetto collaterale (inflazione). L’effetto complessivo assolutamente marginale di questa strategia monetaria, infatti, veniva non solo confermato dal perdurare della stagnazione economica e contemporaneamente dei consumi quanto confermata da tassi di inflazione sempre vicini, se non addirittura inferiori al punto percentuale. In più il consumo complessivo, come espressione della stessa stagnazione e della sua aspettativa, ha determinato acquisti di beni a minore valore aggiunto anche per la presenza sempre più massiccia di presenza di prodotti provenienti dall’estremo Oriente, espressione delle delocalizzazioni.

    La mancanza di un tasso di inflazione perlomeno prossima al 2% preoccupava le varie classi politiche, ed in particolare quella italiana, le quali vedevano ogni aumento della spesa pubblica (trend assolutamente inarrestabile) riverberarsi in un sensibile peggioramento del rapporto debito Pil (quindi di difficile giustificazione) il quale nel caso, invece, di un tasso di inflazione vicino o superiore al 2% avrebbe raggiunto un equilibrio migliore.

    Il mercato globale, quindi, ha dimostrato sostanzialmente come una politica monetaria espansiva abbia determinato degli esiti quantomeno marginali e contemporaneamente con effetti quasi nulli rispetto alle dinamiche di un mercato complesso la cui globalità determina inevitabilmente la perdita di potere ed efficacia dei vecchi strumenti di indirizzo come le politiche monetarie.

    Viceversa la spesa pubblica (vera ed unica costante in questo mondo in continua evoluzione) ha conosciuto un ulteriore incremento, quasi le risorse disponibili a bassi interessi NON venissero più considerate come un debito.

    Successivamente la terribile pandemia ha bloccato e stravolto l’economia mondiale, dando inizio ad un’altra ed ancora più impegnativa elaborazione di una nuova strategia di politica economica di contrasto al disastroso trend economico. In questo frangente, tuttavia, le economie occidentali si trovano di fronte ad un’impennata dei costi di beni intermedi e strumentali e della gestione delle filiere o supply chain la cui somma finale inevitabilmente si riverbera sulla crescita dei prezzi finali al consumatore. Nel mondo delle imprese, addirittura, questa spirale inflattiva sta portando alla chiusura di attività imprenditoriali (vetrerie Murano-Venezia) o alla sospensione della produzione per mancanza di margine in rapporto alle esplosione dei costi dell’energia la quale comunque, in Italia, prima della pandemia risultava già superiore del 30% alla media europea.

    Sicuramente l’avvio anticipato dell’economia cinese, molto anticipata rispetto a quelle degli altri paesi, ha determinato una sostanziale scarsità di materie prime con un conseguente aumento complessivo dei prezzi. Ora risulta fondamentale, come risposta, la questione relativa alle strategie politiche, economiche e monetarie da adottare in relazione a questa impennata dei costi che minaccia intere filiere industriali ed il crollo dei consumi.

    Gli Stati Uniti hanno avviato una politica di tapering lasciando sostanzialmente invariati i tassi di interesse con una crescita sostanziale invariata mentre nell’Unione Europea si comincia a parlare di una stretta monetaria finalizzata al contrasto dell’inflazione.

    Dopo quasi due anni ormai di disastrosa crisi economica legata alla pandemia e con questa inaspettata spirale inflazionistica si dovrebbe partire considerando gli scarsi se non nulli effetti del periodo precedente della politica monetaria sia sotto il profilo del rilancio economico quanto di un riavvio dell’inflazione per scongiurare la allora tanto temuta deflazione.

    Nel caso opposto, cioè in previsione dell’adozione di una politica monetaria restrittiva, le conseguenze potrebbero addirittura rivelarsi disastrose per gli effetti sull’economia reale in quanto ridurrebbe, come sempre e per l’ennesima volta, il potere di acquisto (soprattutto per le fasce meno abbienti) e darebbe l’illusione alla classe politica di “avere ridotto” il debito pubblico quando a beneficiarne sarebbe solo il rapporto tra valori nominali (debito/Pil) amplificati dall’effetto inflattivo.

    Mai come ora l’unica soluzione, compatibilmente con le varie realtà finanziarie dei singoli paesi ma inseriti in un mercato globale e con filiere sotto stress, dovrebbe essere quella di un “ammorbidimento fiscale” successivo ad una rimodulazione della spesa pubblica finalizzata a recuperare gli oltre 200 miliardi di sprechi certificati dalla Cgia di Mestre. Solo per offrire un esempio, se si volesse veramente mantenere inalterato il potere di acquisto delle fasce più deboli della popolazione si diminuirebbero le accise sui carburanti, specialmente quelle sul gasolio, in considerazione del fatto che oltre l’82% delle merci viaggia su gomma.

    Il solo modo, ormai, per ridare ossigeno all’economia è quello di riconsegnare un maggiore potere d’acquisto alle domande interne del continente europeo attraverso una diminuzione delle pressioni fiscali in seguito anche alla diminuzione delle spese correnti e contemporaneamente offrire uno scenario di certezza normativa fiscale ed economica. Invece, specialmente in Italia, si continua con le politiche dei bonus che privilegiano una categoria in nome di un’uguaglianza sempre più lontana ed espressione di arbitrarie attenzioni e quindi da un approccio politico nazionale sostanzialmente divisivo.

    Questa “ricerca” della uguaglianza, attraverso il perverso strumento della spesa pubblica, risulta invece talmente ideologica da ottenere negli ultimi trent’anni la diminuzione del reddito disponibile del -3,7% mentre nel medesimo periodo è cresciuta del +34,7% nella vicina Germania.

    La consueta richiesta di una stretta monetaria a fronte di una spirale inflazionistica della quale non si considera la sorgente dimostra come, ancora oggi, non sia compresa l’assoluta inconcludenza della politica monetaria in quanto il mercato globale ha cambiato le potenze di fuoco delle diverse teorie economiche in particolare della politiche monetarie. Ora più che mai, di fronte al pericolo di una politica monetaria restrittiva come azione deflattiva, sarebbe vitale comprendere come l’unico effetto si confermerà quello di penalizzare ancora una volta le fasce più deboli della popolazione lasciando inalterata la scellerata politica di espansione della spesa pubblica finanziata da un continuo aumento delle pressione fiscale.

    Si parla di globalizzazione senza ancora avere compreso le dinamiche complesse delle politiche economiche e soprattutto come la globalizzazione abbia disarmato le politiche monetarie all’interno di un sistema alla continua ricerca di un equilibrio il quale, per le complesse ed infinite variabili della globalità, non potrà mai venire raggiunto.

  • Chi paga l’inflazione

    Alla fine l’inflazione esogena* è arrivata con grande e malcelata soddisfazione da parte della classe politica e dirigente italiana. Di per se l’inflazione può divenire un indicatore di situazioni diverse tra loro. Un valore, infatti, attorno al +2-3% può esprimere un paese in crescita economia, quindi sintesi contemporanea di aumenti del Pil e dei consumi, e rappresenta un valore positivo certificando una crescita complessiva, non solo legata all’export.

    La medesima crescita del +2-3% di inflazione, ma in questo caso importazione, quindi legata l’andamento dei prezzi delle materie prime, dovrebbe indurre il governo in carica a tamponarne gli effetti attraverso un reale alleggerimento fiscale sia per l’utenza privata che per le imprese con l’obiettivo di evitare di deprimere consumi e crescita economica.

    L’aumento, Infatti, del solo valore nominale dei prodotti manifatturieri (come sintesi finale dell’impennata dei prezzi delle materie prime e di quelle energetiche a monte della filiera) e dei servizi migliora nel breve termine il rapporto con il debito pubblico. Non va in dimenticato, infatti, come il debito pubblico, indipendentemente dal contesto, continui la propria esplosione avendo raggiunto quota 2.727 miliardi di euro anche per effetto dei primi finanziamenti europei legati all’attuazione del PNRR. La previsione legata agli effetti dell’aumento dell’inflazione risulta quindi quella di passare, nel rapporto tra debito pubblico e PIL, da un recente 160% al 158/155% nel breve periodo.

    Da parecchi giorni, a dimostrazione di quanto detto, si nota come una parte degli esponenti del governo, spalleggiato da servili quotidiani, parli impropriamente di una “discesa del debito pubblico”, quando invece è in discesa il solo rapporto con il Pil.

    Dopo stagioni di crescita zero dei prezzi fino alla soglia della deflazione, “finalmente” la tanto agognata inflazione permette allo storytelling governativo di “testimoniare” l’esito positivo delle strategie governative e il proprio entusiasmo vantando una “riduzione” del debito pubblico quando invece si ottiene la riduzione del rapporto del debito sul PIL, in buona parte legata all’avvio dell’inflazione (3%)**.

    Ovviamente questo incremento del tasso di inflazione verrà interamente pagato dai cittadini in quanto a margine di una minima riduzione dell’incremento delle bollette elettriche e del gas attraverso una manovra fiscale rimangono assolutamente escluse da questi benefici fiscali ovviamente le medie e grandi imprese e quindi viene drasticamente ridotta la loro competitività. Ed ovviamente non si pensa assolutamente di ridurre le accise sui carburanti (scelta invece operata dal governo tedesco).

    In questo contesto una manovra fiscale con la riduzione del carico fiscale sull’utenza rappresenterebbe l’unico modo per mantenere invariato il potere d’acquisto.

    L’inflazione, infatti, rappresenta la perdita di potere d’acquisto e, di conseguenza, la possibilità di avere un incremento dei consumi il quale unito ad una crescita del PIL rappresenta l’unica forma di crescita economica.

    Uno scenario ancora molto lontano da quello raccontato dal ministro Brunetta il quale inneggia ad un nuovo boom economico semplicemente legato ad un aumento della produzione industriale (+7%???) e comunque già in discesa a settembre (-0,5%) il cui valore comunque è espressione della splendida versione export-oriented della manifattura italiana ma non certo una crescita sostanziale e complessiva del Paese.

    Alla fine come sempre, ancora una volta, i costi del maggior debito (2.727) verranno scaricati, anche attraverso l’artificio contabile che l’inflazione permette, interamente sui cittadini italiani con una sostanziale riduzione del loro potere di acquisto.

    Francamente, invece di incontrare Greta Thunberg, sarebbe molto meglio preoccuparsi degli effetti devastanti sul reddito disponibile che l’inflazione al 3% determinerà.

    (*) malefica perché di importazione e non espressione di una crescita economia e dei consumi

    (**) un maquillage contabile agognato anche dal ministro Padoan e v.ministro Calenda da sempre favorevoli all’aumento dell’Iva nei governi Renzi e Gentiloni

  • L’inflazione Usa è già al 3,1%

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi pubblicato su ItaliaOggi il 14 luglio 2021.    

    Il rischio di una ripresa dell’inflazione c’è oppure no? Non si tratta di una questione accademica che tiene impegnati economisti e giornalisti del settore. E’ in gioco la tenuta del sistema già provato da due pesantissime crisi economiche e finanziarie in poco più di un decennio. La discussione si è aperta anche all’interno del G30, il gruppo di esperti che hanno coperto le più alte cariche delle istituzioni monetarie e finanziarie internazionali.

    L’ex governatore della Bank of England, Mervyn King, senior member del G30, sostiene che «per la prima volta dagli anni Ottanta coesistono due fattori che rendono l’inflazione un rischio serio: un eccessivo stimolo monetario e fiscale e una debole resistenza politica alla minaccia inflattiva». È la stessa analisi espressa anche da Larry Summers, ex segretario al Tesoro americano, per quanto riguarda la situazione negli Usa e non solo.

    I lockdown hanno avuto un forte impatto sulla domanda e sull’offerta. I dati raccolti dal 2019 indicano che in UK la fluttuazione della produzione è stata grande, ma si è mantenuta in linea con l’andamento in calo della domanda. Oggi si stima che il gap di produzione sia dell’1% nel primo trimestre del 2021 e dovrebbe azzerarsi all’inizio del 2022. Sia chiaro.

    Nessuno mette in discussione il fatto che i governi e le banche centrali intervengano a sostegno delle economie, delle imprese e dei lavoratori. Se non fosse stato fatto, il mondo sarebbe sprofondato in una crisi economica e sociale senza precedenti. La questione è come gestire gli interventi futuri senza compromettere lo sforzo fatto finora. Il livello d’inflazione tollerabile è, quindi, cruciale.

    Si ricordi che l’aumento della spesa pubblica è finanziato non da tasse, ma dalla creazione di moneta da parte delle banche centrali, tanto che da marzo 2020 a giugno 2021 il bilancio della Bce è cresciuto da 5.000 a 7.900 miliardi di euro e quello della Fed è raddoppiato, passando da 4.200 a 8.100 miliardi di dollari.

    È vero quanto sostiene Draghi circa la differenza tra il debito buono, che crea nuova ricchezza, e quello cattivo, che copre le spese correnti e i buchi di bilancio. La questione si porrà quando si avranno dei tassi d’interesse più elevati e un’inevitabile contrazione dei bilanci delle banche centrali. Senza un aumento delle tasse, che nessun governo vorrebbe fare, come si finanzieranno i disavanzi? Si rischia una risposta troppo lenta ai segnali di aumento dell’inflazione. Anche un’eventuale brusca correzione del mercato avrebbe effetti preoccupanti per l’economia.

    Negli Usa il tasso d’inflazione di aprile su base annua è stato del 3,1%. I responsabili delle politiche della Fed hanno più volte affermato che considerano qualsiasi picco d’inflazione sopra la gamma accettabile, cioè il cosiddetto target del 2%, come puramente «transitorio». Tenendo presente le valutazioni sbagliate e le negative esperienze passate, «transitorio» è un aggettivo si dovrebbe attentamente evitare.

    Se la Fed si sbaglia nel ritenere che l’attuale aumento dell’inflazione sia transitorio, il resto del mondo non rimarrà incolume. Un rapido aumento dei tassi d’interesse statunitensi si tradurrà in un dollaro attraente rispetto ad altre valute. Le economie emergenti potrebbero sperimentare un rapido deflusso di capitali verso i mercati americani in cerca di rendimenti più elevati, creando una maggiore volatilità nei loro mercati, con tassi più elevati, una crescita più lenta e il rischio di una nuova recessione. I debiti in dollari diventeranno più costosi e cresceranno le difficoltà dei rimborsi.

    C’è anche chi, come l’ex economista capo del Fmi, Kenneth Rogoff della Harvard University, anche lui membro del G30, da anni sostiene che il toccasana per l’economia e per l’abbassamento del debito sarebbe un forte tasso di «inflazione controllata» del 4-6 % annuo per diversi anni per abbreviare il periodo di «doloroso deleveraging (riduzione del debito) e di crescita lenta». Ricette un po’ superficiali ma molto rischiose. Un vecchio proverbio popolare dice che a giocare con il fuoco ci si scotta.

    *già sottosegretario all’Economia **economista

  • Le due inflazioni e le imbarazzanti deduzioni

    Grande risonanza hanno ottenuto, all’interno dei maggiori quotidiani nazionali, le deduzioni dai dati statistici presentati dall’Istat relativi al tasso di inflazione differenziale tra famiglie maggiormente e meno abbienti. A queste analisi statistico/numeriche, poi, sono seguiti altri imbarazzanti commenti riscontrabili nei maggiori media nazionali, anche economici.

    L’Istituto di Statistica (ISTAT) rileva come alle spese energetiche (gas, benzina, gasolio, bollette elettriche) le famiglie con minori risorse destinino il 14.5% del proprio reddito mentre per le spese alimentari oltre il 17% con un tasso di inflazione combinato e complessivo dell’1,8%.

    Viceversa le famiglie che appartengono alle fasce di reddito superiore destinano alle spese energetiche circa il 6,6% del proprio reddito mentre per quelle alimentari circa l’8,1%: con un conseguente tasso di inflazione combinato e complessivo del 1,3%.

    E’imbarazzante soprattutto il quadro complessivo dei commenti e delle analisi a questi dati in quanto emergerebbe scontata ed evidente (da una semplice preparazione di base) la considerazione secondo la quale le spese energetiche rappresentino delle “spese  incomprimibili” alle quali nessuna famiglia possa sottrarsi indipendentemente dal reddito. Logica conseguenza evidenzierebbe, in modo inequivocabile, come il valore delle percentuali destinate per tali costi incomprimibili  dipendano fondamentalmente dal reddito disponibile. Una considerazione talmente elementare che non dovrebbe suscitare alcun commento a livello statistico e tantomeno economico ma da considerarsi come accettata.

    Leggermente più complesso il confronto tra le diverse percentuali di reddito disponibile destinato alla spesa alimentare. Da un semplice confronto emerge evidente come il differenziale percentuale tra le due tipologie di spesa (energetica ed alimentare) aumenta nel caso di quella destinata ai generi alimentari: mentre il differenziale relativo alla sola spesa energetica è del 7,9% (14,5% e 6,6% tra famiglie appartenenti alle due fasce di reddito) nella spesa alimentare questo cresce fino all’ 8,9% (17% e 8,1% per fasce di reddito).

    All’interno infatti della rilevazione statistica per le spese alimentari ma soprattutto nelle analisi conseguenti NON si dovrebbe dimenticare la legge di Engel. Questa dimostra come al crescere del reddito della percentuale di reddito aggiuntivo cresca progressivamente quello destinato al consumo di altri beni diversi da quelli alimentari. In altre parole, al crescere del reddito disponibile non aumenta in modo proporzionato la spesa destinata ai generi alimentari perché buona parte del reddito aggiuntivo viene impiegato nel consumo di altri beni di non prima necessità.

    In più nelle fasce di reddito più basse l’alimentazione acquisisce una caratteristica di “consumo consolatorio” finalizzato al supporto di una condizione economica disagiata: risulta quindi percentualmente maggiore il differenziale con le fasce di popolazioni più agiate.

    Tornando alle Rivelazioni Statistiche che tanto interesse hanno suscitato emerge evidente come quello che per molti rappresenta un quadro statistico “nuovo ed articolato” altro non è che un consolidato schema supportato da un minimo di conoscenza delle regole economiche di base.

    I due diversi dati relativi alle due inflazioni o, meglio, il peso delle spese incomprimibili per fasce di reddito rappresentava per molti un fattore acquisito.

    L’imbarazzo nasce dalla semplice considerazione come non lo fosse per tutti. Anzi per troppi.

  • La crescita dei depositi bancari in dieci anni: +75%

    Negli ultimi dieci anni, sicuramente gli anni più difficili dal dopoguerra per la crisi economica originata dalla crisi finanziaria negli Stati Uniti ma arrivata da noi nella sua massima espressione nel novembre 2011 e nella quale ancora il nostro Paese si trova, il sistema bancario ha aumentato i propri depositi del 75%. Un dato sicuramente impressionante se confrontato con altri della economia reale in quanto a tale crescita di risorse depositate non ha fatto riscontro alcun aumento dell’attività bancaria istituzionale. Non da oggi l’accesso al credito, specialmente per le Pmi, vede un forte rallentamento degli investimenti anche nelle zone economiche (distretti industriali) che risultando export oriented e come tali rappresentano il modello vincente di economia (per visone dei dati completi anche riferiti agli ultimi quattro anni, https://www.ilpattosociale.it/2018/10/11/gli-istituti-bancari-abbandonano-i-distretti-industriali-massima-espressione-contemporanea-del-made-in-italy/).

    La crescita dei depositi poi dimostra in modo inequivocabile come l’incertezza, prima legata alla crisi economica internazionale successivamente alla solita politica italiana priva di ogni strategia economica di sviluppo, blocchi la propensione all’acquisto mortificando a sua volta la domanda interna e quindi l’economia stessa. I dati in questo senso sono sconfortanti. A fronte di una crescita del debito come della spesa pubblica, inarrestabili dal 2012 in poi, l’ultima rilevazione statica impietosamente dimostra, ancora una volta, l’assoluto fallimento delle politiche economiche dei governi Monti, Letta, Renzi, Gentiloni e Conte/Salvini/DiMaio.

    La crescita del Pil nell’ultimo trimestre è di + 0%, il che rende un miraggio il raggiungimento del 1,1% (sceso dalla previsione del +1,4% previsto “dall’esperto” Padoan), mentre i consumi risultano arretrati del 2,5%, con un calo allarmante degli acquisti dei beni alimentari dello -0,6% (prima volta dal 2012).

    I dati poi delle crescite precedenti del PIl sono attribuibili solo alla crescita della domanda delle filiere internazionali nelle quali per la grande capacità di innovazione le nostre Pmi vengono inserite assumendo dopo il confronto di quelli attuali e dimostrando la assoluta inconsistenza reale delle politiche dei governi precedenti. Solo un mese addietro il direttore di una società della grande distribuzione affermò come la crisi del consumi fosse da attribuire interamente alla diversità di tipologie di contratti negli ultimi anni. A tal fine, infatti, si ricorda come dal settembre 2017 al 2018 risultino diminuiti di 184.000 unità i contratti a tempo indeterminato mentre quelli a tempo determinato siano aumentati di 368.000 unità.

    Il saldo positivo di 184.000 contratti, quindi, sotto il profilo statistico si riverbera come un fattore fortemente negativo se venisse valutato l’effetto economico delle due tipologie di contratto sull’andamento dei consumi. Quindi, in attesa di entrare in una fase di recessione, il nostro paese vive da due trimestri una fase di stagflazione (https://www.ilpattosociale.it/2018/10/31/lincubo-stagflazione/) nella quale la crescita del Pil rimane abbondantemente al di sotto della crescita del Pil ed il cui differenziale si traduce in una perdita di potere di acquisto dei consumatori.

    In questo contesto economico quindi anche il settore del credito al consumo, ed in particolare quello relativo ai prestiti personali che indica una crescita del+2,7% per l’anno in corso, indica come una parte dei cittadini, sempre più incerti nella propria visione futura, da una parte mantenga liquido in banca parte del proprio reddito (riducendo la domanda interna) mentre l’altra ricorra sempre più al credito al consumo per “finanziare” la gestione quotidiana della propria vita. In questo contesto allora la crescita dei depositi bancari del 75% diventa un insulto alla economia reale.

    Il sistema bancario in altre parole certifica per l’ennesima volta il tradimento della propria funzione istituzionale non finanziando l’economia delle Pmi e dei distretti industriali ma utilizzando le immeritate nuove risorse finanziarie a disposizione per sostenere la deriva finanziaria del sistema nel suo complesso.

    Quando un sistema bancario cresce a discapito e durante una profonda crisi economica e finanziaria come quella italiana (che dura da 10 anni, unico paese del mondo!) dimostra il tradimento della propria funzione economica, come di quella istituzionale, con la complicità di una classe politica che al riparo da qualsiasi ricaduta diretta economica che la possa coinvolgere dimostra la propria incompetenza se non complicità.

  • Crescita, inflazione, consumi: gli effetti dei differenziali di crescita

    Oltre al sostegno al debito pubblico fortemente sostenuto dalla iniezione di liquidità della BCE con il Q.E., uno dei desideri reconditi inconfessabili del presidente della Banca Centrale Europea rimaneva  quello di stimolare non solo la ripresa economica ma anche parallelamente l’inflazione. Un desiderio inconfessabile condiviso anche dalla componente economica dei governi Renzi e Gentiloni i quali addirittura erano favorevoli all’aumento dell’IVA considerata strumento idoneo all’aumento dell’inflazione che ne sarebbe scaturita. Questi desideri nascevano dalla possibilità legata alla ripresa dell’inflazione di rendere inevitabilmente meno pesante il fardello del debito pubblico in costante crescita di circa 56 miliardi all’anno anche se veniva professata l’austerità che sarebbe stata imposta  dall’Europa. In altre parole si tentava con l’artificio valutario di coprire i disastri della gestione della spesa pubblica dei governi Renzi e Gentiloni.

    Tutto sommato con le opportune diversità questo pensiero o desiderio risulta simile a quello  dei sovranisti che vedono nel ritorno alla Lira e nella conseguente immediata esplosione dell’inflazione l’unico metodo per togliere peso al debito pubblico in aggiunta anche alla considerazione, assolutamente infantile in un contesto competitivo, che la stessa inflazione si trasformasse in  fattore competitivo per le stesse imprese e export oriented.

    Nel luglio 2018 tutte le tre, diverse per genesi ma coincidenti per fini desideri di inflazione, possono considerarsi soddisfatte. Dopo gli avveniristici indicatori di crescita coniati dal governo Gentiloni, supportati come sempre da Confindustria, indicati in un tasso di aumento del Pil a +1,4%, due successive correzioni hanno portato il tasso di crescita per il  2018 prima all’1,3% ed ora all’1,2% e all’ 1% per il 2019. Viceversa, l’inflazione dalle ultime rilevazioni risulta del +1,3% grazie soprattutto all’aumento della quotazione del barile di petrolio come nel contingente dall’aumento dei prezzi della verdura fresca del 2,2%.

    In altre parole la strategia economica monetarista, che ha fornito esclusivamente delle sterili iniezioni di liquidità ed inflazione conseguente (peraltro molto al di sotto delle previsioni a causa della domanda interna in continua a flessione), ha portato ad una crescita nominale del PIL inferiore all’inflazione stessa. Una perversa contraddizione in termini.

    Questo ovviamente determina una perdita di capacità di spesa dei consumatori italiani. L’andamento infatti dei consumi rileva un +1.1% per il 2018 il che dimostra ancora una volta l’effetto perverso del differenziale tra  crescita inflazione e consumi. Si evidenzia, ancora una volta, come l’inflazione che non risulti legata ad un aumento della domanda (quindi espressione di un economia in crescita e comunque calcolata  mediamente entro  il  +2%) ma a fattori esogeni, e quindi importata, potrà fornire un sollievo al peso del debito il cui costo comunque ancora una volta andrà a gravare sulle capacità economiche dei cittadini. Quindi, a fronte di una perdita del potere d’acquisto attribuibile al “costo dell’inflazione” nell’economia italiana ne consegue un ulteriore calo dei consumi legato alla politica valutaria.

    Draghi, Padoan, Calenda e sovranisti nel loro complesso, in questo spalleggiati ormai dalla sempre più ridicola posizione di Confindustria, potranno essere anche entusiasti degli obiettivi raggiunti ma che  verranno pagati in termini di minore  capacità e disponibilità economica dai cittadini italiani, come tutti gli indicatori economici stanno dimostrando.

    Sembra incredibile come, mentre tutti affermino che il mercato nella sua forma odierna  risulti  cambiato in virtù della globalizzazione, ancora oggi  si cerchino facili e banali ricerche e strategie di sviluppo attraverso la semplice leva monetaria la quale sta portando il nostro Paese verso la marginalità economica mondiale.

     

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