infortunio

  • L’Inail equipara il coronavirus all’infortunio sul lavoro, ma limita la responsabilità del datore di lavoro

    Con una propria circolare, l’Inail ha stabilito che il contagio da coronavirus va considerato un infortunio sul lavoro. “Le patologie infettive (vale per il COVID-19, così come, per esempio, per l’epatite, la brucellosi, l’AIDS e il tetano) contratte in occasione di lavoro sono da sempre inquadrate e trattate come infortunio sul lavoro poiché la causa virulenta viene equiparata alla causa violenta propria dell’infortunio, anche quando i suoi effetti si manifestino dopo un certo tempo” si legge nella circolare.

    La circolare n. 22 dell’ente su ‘Tutela infortunistica nei casi accertati di infezione da coronavirus’ precisa inoltre che il riconoscimento dell’origine professionale del contagio da Covid-19 non comporta peraltro alcuna responsabilità civile e penale del datore di lavoro; quest’ultima sussiste solo in caso di violazione della legge o di obblighi derivanti dalle conoscenze sperimentali o tecniche. Nel caso dell’emergenza epidemiologica da Covid-19, si legge nel documento, violazione della legge o di obblighi derivanti dalle conoscenze sperimentali o tecniche “si possono rinvenire nei protocolli e nelle linee guida governativi e regionali di cui all’articolo 1, comma 14 del d.l. 16 maggio 2020, n.33”. “Il rispetto delle misure di contenimento, se sufficiente a escludere la responsabilità civile del datore di lavoro – si legge ancora nella circolare – non è certo bastevole per invocare la mancata tutela infortunistica nei casi di contagio da Sars-Cov-2, non essendo possibile pretendere negli ambienti di lavoro il rischio zero. Circostanza questa che ancora una volta porta a sottolineare l’indipendenza logico-giuridica del piano assicurativo da quello giudiziario”.

  • In attesa di Giustizia: vite in pericolo

    Recentemente sono stati pubblicati i dati forniti dall’INAIL  relativi agli infortuni sul lavoro che consegnano numeri allarmanti per uno dei Paesi più industrializzati del mondo che dovrebbe avere a cuore la salute dei lavoratori e disporre di strumenti e risorse per marginalizzare i rischi collegati alla igiene e sicurezza sul luogo di impiego: 1.218 incidenti mortali nel 2018 – cui si sommano quelli con lesioni di varia entità, anche molto gravi – e già 685 nei primo otto mesi del 2019 a fronte di oltre 400.000 denunce per infortuni e malattie professionali, 17.000 mila decessi negli ultimi dieci anni: un bollettino di guerra.

    Landini, nell’occasione, non ha mancato di lamentare la mancanza di presidi normativi in materia, la cui dislocazione sarebbe opportuna con finalità preventive e dissuasive rispetto ad una minore attenzione dedicata tanto alla formazione del personale, quanto alla cura degli ambienti di lavoro ed – ovviamente – alla dotazione di adeguati dispositivi di protezione individuale.

    Il ragionamento di Landini non è del tutto condivisibile fatta la doverosa premessa che è inaccettabile una media di quasi tre caduti al giorno sul lavoro: il che segnala inequivocabilmente che qualcosa, più di qualcosa, si registra in termini di carenza nel delicato settore della sicurezza frutto probabilmente di risparmi delle imprese nella formazione, nell’utilizzo di mano d’opera a basso costo ma non specializzata,  e della fornitura delle protezioni (caschi, guanti, occhiali, cinture di sicurezza, mascherine ecc.), inadeguata preparazione degli addetti alle mansioni più a rischio, scarso presidio dei responsabili.

    Il sindacalista ha ragione anche nel rilevare che il numero degli Ispettori del Lavoro è inadeguato essendosi dimezzato negli ultimi anni senza che si sia provveduto ai rimpiazzi ma una normativa che potrebbe svolgere una funzione utile esiste già ed è prevista dal decreto legislativo 231/2001 che prevede, oltre alla già prevista responsabilità penale di imprenditori e addetti alla sicurezza, quella dell’impresa in cui si siano verificati infortuni mortali o con conseguenze lesive gravi per colpa nella organizzazione ed in particolare proprio per avere conseguito vantaggi economici risparmiando nei modi descritti.

    La disciplina è molto severa, prevede che l’accertamento delle colpe dell’impresa sia affidato alla magistratura penale e che le sanzioni possano essere molto severe, principalmente di natura economica senza la possibilità di avere sconti  o di evitare di pagare una volta intervenuta la condanna.

    Il punto è che, misteriosamente, l’A.G. applica molto di rado il decreto legislativo 231/01 sebbene preveda la responsabilità delle aziende anche per altri reati di comune commissione da parte dei suoi manager/dipendenti, come la corruzione: basti dire che nel 2017 la Sede Giudiziaria che ha applicato il numero maggiore di volte questa legge (soprattutto in occasione di crimini contro la Pubblica Amministrazione) è stata quella di Milano in 27 casi e ci sono Tribunali dove in quasi vent’anni non è stata mai applicata, come a Treviso, nell’operoso Nord Est. Si dirà, come mai? Le ragioni sono diverse ma quella fondamentale risiede nel fatto che l’azione contro le imprese – che sono persone giuridiche – non è di natura penale (che sarebbe vietata dalla Costituzione) e, quindi, obbligatoria ma è a carattere amministrativo, come tale eludibile.

    Resta quasi isolata l’iniziativa giudiziaria nella tragedia torinese che colpì i lavoratori della Tyssen, ormai alcuni anni addietro.

    E siamo, dunque, alle solite: le leggi ci sono, basta applicarle senza ricorrere a nuovi strumenti o prevedendo innalzamenti di pene. Una normativa che colpisce l’azienda è sicuramente più efficace del codice penale che tocca solo singole persone fisiche, sostituibili e – a volte – sacrificabili: se ne faccia uso  e l’attesa di Giustizia non sarà vana.

     

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