Inquinamento

  • Nuovo grido d’allarme sul clima

    Il rapporto annuale dell’Organizzazione meteorologica delle Nazioni Unite, che ha sede in Svizzera, lancia un nuovo preoccupante grido d’allarme sul clima.

    Nel 2023 le temperature hanno superato tutti i record precedenti, la situazione è stata particolarmente drammatica per la continua erosione dei ghiacciai, anche nelle montagne più alte e nelle aree più fredde del pianeta, e per il sensibile aumento delle temperature dei mari con la conseguente morte o collasso, in diversi posti, non solo dei pesci ma anche delle barriere coralline e la conseguenza è stata un nuovo stravolgimento dell’ecosistema marino.

    Secondo il rapporto l’anno scorso, ultimo di 10 anni di caldo sempre in crescendo, la temperatura media è stata ormai vicinissima alla soglia che, nell’accordo di Parigi del 2015, gli Stati avevano stabilito di non superare.

    “È un allarme rosso per il mondo“, ha detto Andrea Celeste Saulo, capo dell’Omm, sottolineando che è motivo di ancor maggior preoccupazione la perdita del ghiaccio marino antartico e del 19% dei ghiacciai alpini.

    Mentre i ghiacciai marini si sciolgono, con le conseguenze evidenti anche per la flora e la fauna, si alzano ovviamente i livelli degli oceani.

    I cambiamenti climatici, basti pensare al prolungato caldo torrido di questi giorni in Brasile ed alle alte, ed assolutamente inconsuete, temperature in Spagna e nel Regno Unito, stanno mettendo a dura prova le popolazioni colpite anche, dopo la grande calura, gli incendi e la siccità, da altri eventi estremi come le piogge torrenziali,i tornado e le inondazioni.

    Le conseguenze sono ormai purtroppo note ed in continuo peggioramento: insicurezza alimentare o carestie, grave perdita  di biodiversità ,sia nel campo della flora che della fauna, mentre continuano i rischi per patologie vecchie e nuove, epidemie e rimangono i problemi legati ai molti virus per ora silenti.

    Il grave inquinamento e surriscaldamento non si può combattere solo in un continente o guardando ad alcuni aspetti ignorandone altri, se ad esempio bisogna ridurre notevolmente le fonti fossili è altrettanto evidente che lo smaltimento di immondizie e residui rimane un problema aperto e la corsa all’elettrico non è una soluzione che, al momento, è in grado di garantire sicurezza ed effettivo risparmio di anidride carbonica ed altre sostanze  pericolose per l’aria.

  • La Commissione adotta metodologie per combattere la presenza di microplastiche nell’acqua potabile

    La Commissione ha adottato una metodologia standardizzata per misurare la presenza di microplastiche nell’acqua e un atto delegato per garantire il riutilizzo sicuro delle acque reflue trattate per l’irrigazione agricola. Queste due nuove misure contribuiranno a rafforzare la resilienza idrica e a migliorare la qualità e la quantità di acqua in tutta l’Ue.

    Questa metodologia armonizzata e standardizzata aiuterà gli Stati membri a raccogliere informazioni sulla presenza di microplastiche nella propria catena di approvvigionamento idrico. Ciò renderà il confronto e l’interpretazione dei risultati ottenuti più facili rispetto alla situazione attuale in cui gli Stati membri utilizzano metodi differenti.

    La normativa sul riutilizzo delle acque chiarisce la procedura che le autorità nazionali dovranno seguire per gestire in modo proattivo i rischi connessi all’uso delle acque reflue per l’irrigazione. Si tratta in particolare di individuare tali rischi.

    Queste nuove norme relative alle acque si aggiungono a un avviso pubblicato all’inizio di questa settimana per aiutare gli Stati membri a definire il “buono stato ecologico” degli oceani. Ciò aiuterà in particolare gli Stati membri a sostenere gli attori economici nell’uso sostenibile del mare, evitando al contempo danni significativi o irreversibili alla vita o agli habitat marini.

    Il commissario Sinkevičius ha dichiarato: «Vogliamo garantire che l’acqua che utilizziamo, dalle bevande all’irrigazione, soddisfi sempre gli standard di sicurezza più elevati. Grazie alle norme attuali i cittadini avranno la certezza che l’acqua potabile sarà attentamente controllata per scongiurare la presenza di microplastiche, che qualsiasi acqua riutilizzata sarà sicura e che verrà limitata l’estrazione eccessiva di acqua, contribuendo a ripristinare il ciclo dell’acqua interrotto. Tuttavia, per ripristinare realmente questo ciclo dobbiamo anche proteggere i nostri mari. Conto quindi sugli Stati membri per garantire che le nostre ambizioni in materia di uso sostenibile dell’ambiente marino si concretizzino nelle loro prossime strategie in questo ambito».

  • L’insostenibilità economico-ambientale

    Qualsiasi esito di una strategia si basa sulla valutazione del pieno o parziale raggiungimento dell’obiettivo indicato anche in ragione dei costi sostenuti per il suo conseguimento, il tutto inserito in un contesto temporale.

    Questo principio vale soprattutto nella considerazione di una strategia economica all’interno di una macro area come l’Unione Europea, la quale si confronta con le dinamiche di un mercato sempre più globale.

    Ogni obiettivo strategico la cui valutazione si basi su parametri diversi, determina inevitabilmente l’ingresso di un ipotetico fattore ideologico come termine di riferimento. Ed è esattamente quello che sta accadendo in Europa con il settore Automotive.

    Da anni tanto a livello europeo quanto nazionale l’automobile rappresenta il nemico pubblico espressione anche di un becero individualismo e quindi da combattere non solo per l’inquinamento ma anche sulla base di valutazioni prettamente etiche.

    In questo senso si può interpretare la virata della Commissione europea la quale ha individuato nell’articolato mondo dell’Automotive il primo vero responsabile del cambiamento climatico quando invece questo rappresenta solo l’1% delle già risibili emissioni dell’Unione Europea che rappresentano il 6,7/7 % del totale delle emissioni europee.

    Inoltre questi cambiamenti climatici probabilmente possono ritenersi conseguenza non tanto dell’attuale livello di emissioni quanto di quelle dei decenni precedenti in quanto le automobili hanno ridotto negli ultimi vent’anni di oltre il 92% le proprie emissioni.

    Di conseguenza si considera legittimo ed assolutamente proficuo cercare di ridurre l’1% dell’inquinamento attribuibile all’automobile, un settore che rappresenta il 6,7% della occupazione europea.

    Contemporaneamente si rinuncia, sempre e solo sulla base di parametri ideologici, ad oltre il 7% del PIL e a 396 miliardi di tasse che il settore, nel suo complesso, versa nelle casse delle Nazioni e della stessa Unione Europea.

    Non paghi della apocalisse prossima ventura gli esperti di economia ambientalista sostengono come il supporto fiscale assicurato dal settore Automotive dovrebbe venire caricato alle società petrolifere, un delirio la cui sola idea creerebbe un tracollo finanziario molto simile a quello del ’29 e che non risparmierebbe alcun settore.

    La stessa crisi di Volkswagen, la quale ora si vede costretta a tagliare il 10% del proprio personale a causa degli avventati investimenti nell’auto elettrica come espressione della propria strategia speculativa che aveva adottato il delirio ambientalista della Commissione, ne rappresenta una pericolosa anteprima.

    In altre parole, quando pretendi di combattere l’1% di emissioni di un complessivo 6,7% dell’inquinamento attribuibile all’Europa, sacrificando scientemente il 7% del PIL espressione di un know how frutto di decenni di investimenti industriali e professionali, quando pretendi di lasciare senza lavoro oltre il 6,7% degli occupati assicurati dal settore Automotive e rinunciando a 394 miliardi di tasse, in più utilizzando le risorse fiscali per incentivare automobili made in China prodotte con l’energia assicurata dalle centrali al carbone a fortissimo impatto ambientale, allora è necessario assumersi le responsabilità del proprio delirio di fronte ai lavoratori ed ai cittadini europei.

    (*) https://amp24.ilsole24ore.com/pagina/AE8MlslB

  • Centrali nucleari: il dibattito dovrebbe essere più prudente

    Nel dicembre 2023, nel Regno Unito, un’inchiesta del Guardian accusava i vertici della società che gestisce il sito Sellafield dopo la fuga radioattiva da quello che è più grande deposito di plutonio al mondo. In Cumbria, nel nord dell’Inghilterra, nell’impianto per la smaltimento di scorie nucleari si erano create crepe in un serbatoio dei fanghi tossici e l’impianto non era stato messo in sicurezza. Secondo alcuni dati la fuoriuscita del liquido radioattivo, che non è finita e non finirà a breve, ha causato i più alti rischi nucleari nella storia del Regno Unito. I problemi sono connessi alla contaminazione delle falde acquifere ed a un rischio cumulativo oltre che per scorie nucleari, per l’amianto e per la mancanza di corretti sistemi anti incendio. Secondo quanto citato dal giornale vi sono pericoli riguardo alla possibilità concreta che hacker e spie di paesi stranieri possano aver avuto accesso a materiali segreti all’interno di un sito che occupa quasi 4 milioni di metri quadrati. Il governo ovviamente è intervenuto pur sottolineando che deve essere l’autorità indipendente britannica, per la gestione del settore, a stabilire se sia stata compromessa la sicurezza pubblica ma sono molti anni che si lavora con i responsabili di Sellafied per garantire i miglioramenti necessari e non ancora attuati.

    Ancora oggi ci sono conseguenze per la tragedia che si è verificata in Giappone, nel 2011, a causa dell’esplosione del reattore n. 1 della centrale nucleare di Fukushima e molte tensioni vi sono stare e vi sono tra il Giappone e i paesi confinanti via mare dopo la decisione, nel 2023, di sversare nell’Oceano Pacifico le acque radioattive.

    La preoccupazione per questi dati, già di per se molto gravi, e l’incendio che l’11 febbraio 2024 si è verificato in Francia, nella centrale nucleare di Chinon, incendio per il quale due reattori sono stati spenti, dovrebbero portare, almeno su tutto il territorio europeo, ad una verifica sull’effettivo stato di funzionamento e di sicurezza delle centrali nucleari attive, dei siti dismessi e di quelli per lo stoccaggio delle scorie.

    Anche se l’agenzia francese per la sicurezza nucleare ha assicurato che terrà sotto monitoraggio la rete delle acque meteoriche sui due reattori spenti, mentre nella centrale nucleare rimangono attivi altri due reattori, sappiamo come già altri incidenti di sono verificati in altre centrali francesi.

    La guerra in Ucraina sta mettendo a rischio altre centrali nucleari a dimostrazione di quanto, in caso di guerra, alcuni paesi, come la Russia, non abbiano timore di tenere in ostaggio non solo la popolazione locale ma anche gran parte del mondo con la paura di disastri globali.

    Forse il dibattito sul nucleare, a fronte di questi avvenimenti, e di altri che non citiamo, dovrebbe essere meno entusiasta e più prudente nelle future decisioni specie in Italia dove ancora non è chiaro come siano state messe in sicurezza le scorie di Caorso.

  • Troppi italiani scelgono il crematorio. Ambientalisti in ansia per l’aria

    Allerta dei medici sul boom di cremazioni e i possibili rischi per la salute e l’ambiente. In Italia “oggi ci sono 87 forni crematori, soprattutto nel Centro-Nord, mentre il fenomeno è meno diffuso al Sud. La moltiplicazione delle richieste di nuovi impianti, spesso sovradimensionati rispetto al fabbisogno del territorio su cui dovrebbero installarsi”, preoccupa per il “possibile impatto di un numero rapidamente in crescita di cremazioni e quindi di punti di emissioni da combustione”. Lo spiega l’Isde, Associazione italiana dei medici per l’ambiente, che ha pubblicato “il primo position paper italiano sui possibili effetti ambientali e sanitari della realizzazione di forni crematori in aree urbane”. Un approfondimento scientifico che indica come colmare lacune normative e tecniche, “affinché la cremazione non costituisca un’ulteriore fonte di inquinamento con conseguente impatto sulla salute dell’uomo”.

    “In Italia, come in molte altri Paesi – affermano Agostino Di Ciaula, Maria Grazia Petronio, Giovanni Ghirga, Ferdinando Laghi e Roberto Romizi, curatori del documento – il dibattito sull’inquinamento atmosferico è sempre più al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica e scientifica per le notevoli implicazioni di tipo sanitario ed economico. I forni crematori sono impianti destinati alla cremazione dei defunti e/o di carcasse animali”, ricordano. “Tale processo comporta l’incenerimento attraverso trattamento termico a temperature elevatissime. Questo rende indispensabile considerare il rischio ambientale e sanitario correlato alle emissioni di questi impianti”, ammoniscono gli esperti. “Tale rischio – precisano – è aggravato dall’assenza di una specifica normativa di settore, e dalla carenza di efficienti e adeguate misure di monitoraggio per numerosi degli inquinanti emessi. Questi due aspetti, normativo e tecnico, vanno necessariamente colmati”, esorta l’Isde.

    “Gli agenti inquinanti derivanti dalla combustione ad elevate temperature – evidenziano i medici per l’ambiente – si diffondono nell’aria anche per lunghe distanze e nel corso del tempo si depositano sul suolo, accumulandosi in questa matrice e causando un’alterazione dell’equilibrio chimico-fisico e biologico del terreno. Le particolari caratteristiche di alcune sostanze non facilmente biodegradabili possono determinare contaminazione di un terreno per periodi variabili, con possibile passaggio degli inquinanti nelle falde acquifere e nella catena alimentare”.

    “Il position paper” dell’Isde, “oltre ad analizzare le problematiche ambientali e sanitarie, fornisce anche le indicazioni basilari, facendo proprie anche quelle già suggerite da esperti dell’Ispra”, Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, “per la realizzazione dei forni crematori affinché siano il meno impattanti possibile. Si tratta di un documento che potrà essere utile a tutti i cittadini e, soprattutto, agli amministratori locali – auspicano i medici – per poter prendere decisioni consapevoli basate sulla conoscenza dei problemi e per far pressione sul parlamento affinché stabilisca regole adeguate».

  • L’acqua in bottiglia contiene molte più nanoplastiche di quanto si credeva

    Che l’acqua in bottiglia contenga micro e nano plastiche, frammenti di materiale dalle dimensioni di una cellula batterica, ma che possono avere effetti nocivi sulla salute e sull’ambiente è noto, ma una recente ricerca americana fa emergere che il problema è molto più grave di quanto si sapesse finora. La ricerca, condotta da un gruppo di scienziati americani e pubblicata di recente sulla rivista statunitense Proceedings of the National Academy of Sciences (Pnas), ha evidenziato che in ogni litro d’acqua sono presenti una media di 240mila minuscole particelle, un numero da 10 a 100 volte superiore alle stime pubblicate in precedenza. Avvalendosi di una potente tecnica per l’analisi rapida delle nanoplastiche, in grado di rilevare granuli di plastica con una grandezza che va dai 50 ai 100 nanometri, i ricercatori hanno analizzato le bottiglie di tre aziende produttrici di acqua minerale, scoprendo che ogni litro d’acqua analizzato conteneva tra le 110mila e le 370mila particelle di plastica: il 90% erano nanoplastiche e il 10% microplastiche. Il tipo più comune era il nylon, probabilmente proveniente dai filtri di plastica usati per purificare l’acqua, seguito dal polietilene tereftalato (pet), usato per produrre le bottiglie.

    Le micro e le nano plastiche sono presenti non solo nelle bottiglie, ma anche nei flaconi di prodotti cosmetici, nei capi d’abbigliamento in pile e in tessuti sintetici, hanno implicazioni per la salute umana perché sono in grado di passare attraverso il tratto gastrointestinale e i polmoni ed una volta entrati nel flusso sanguigno possono depositarsi nel cuore e nel cervello e possono persino attraversare la placenta nei bambini non ancora nati. Per ora, quello che sembra certo è che chi beve l’acqua del rubinetto tende ad avere meno contaminazione da plastica rispetto a chi beve acqua in bottiglia.

  • I romani si fidano degli autobus, i milanesi vanno in macchina

    Su base nazionale l’utilizzo dei mezzi privati per gli spostamenti cala di due punti percentuali, passando dal 72% al 70%. E così cala, seppur di un solo punto percentuale rispetto allo scorso anno, passando dal 66% al 65%, l’uso di auto e moto per gli spostamenti a Roma. Lo stesso non vale per Napoli e Milano. Il capoluogo campano vede una crescita di un punto percentuale, e passa dal 64% al 65%, dell’uso dei mezzi privati, auto e moto, per gli spostamenti. Il capoluogo lombardo invece registra un aumento di tre punti percentuali nell’uso di auto e moto e va dal 55% del 2022 al 58% del 2023. Al lieve calo del mezzo privato, a Roma, fa eco una leggera e parallela crescita, sempre dell’1%, dell’uso dei mezzi del trasporto pubblico. Anche su base nazionale cresce l’uso del trasporto pubblico: registra un +3% (passa dal 13% al 16%). Così l’andamento in salita è rintracciabile a Roma, dove si va dal 19% del 2022 al 20% del 2023 nell’utilizzo di bus, tram e metropolitane. In controtendenza, quindi in lieve calo, l’uso del Tpl, invece, a Milano e Napoli: nel capoluogo lombardo si va dal 25% dello scorso anno al 24% attuale, in quello campano si passa dal 19% del 2022 al 18% del 2023. La fotografia è stata scattata dall’ultimo rapporto di Legambiente realizzato in collaborazione con Ipsos.

    E nel complesso delle ore trascorse a spostarsi, a Roma, il sondaggio rileva un calo di 8 punti percentuali del tempo trascorso in auto o in moto: si va dal 62% dello scorso anno al 54% attuale. Il calo su base nazionale è di 2 punti percentuali (dal 66% al 64% il tempo trascorso in auto o in moto per gli spostamenti) e più marcato a Milano e Napoli dove si registrano rispettivamente un -4% e -6%: nel primo caso si passa dal 49% al 45% del tempo di spostamento a bordo di un veicolo privato, nel secondo caso la variazione è dal 61% al 55%. In media a Roma “sono 6,6 le ore di spostamenti settimanali, degli intervistati, con un mezzo privato: un dato sopra la media nazionale di 5,8 ore – spiegano da Legambiente -. I motivi, emersi dalla ricerca, per utilizzare maggiormente l’automobile sono legati a mezzi che non coprono lo spostamento da compiere, alla loro insufficienza e agli orari inaffidabili”. Tra le opinioni rilevate nella ricerca emerge come sia il 60% degli intervistati romani a dirsi pienamente o abbastanza favorevole a vietare progressivamente la circolazione dei mezzi inquinanti in città, il 65% è favorevole a dare priorità a bici, pedoni e trasporto pubblico nella progettazione delle strade. Per quanto riguarda l’idea di estendere le “zone 30” nelle città, il sondaggio mostra una marcata divisione di opinioni: il 32% è favorevole, il 49% è contrario e il 19% non ha una posizione definita.

  • Scelte prudenti per salvare il Pianeta

    Durante la Cop 28 ben 22 Paesi hanno espresso la volontà di accelerare sul nucleare, nel frattempo nel Regno Unito si è diffuso l’allarme per quanto sta accadendo da tempo, nel silenzio degli incaricati al controllo, al nord dell’Inghilterra, a Sellafield, l’ex impianto per la produzione di energia atomica.

    Secondo un’inchiesta del Guardian i vertici della società di gestione non hanno avvertito che il sito, da tempo usato per lo smaltimento delle scorie nucleari, è ormai fatiscente con crepe nel serbatoio dei fanghi tossici e la conseguente fuoriuscita di liquido radioattivo.

    La notizia sembra aver creato tensioni con altri Stati in considerazione dell’alta tossicità e del gravissimo rischio nucleare.

    Non è certo il primo problema che si è posto in tema sia di gestione delle centrali nucleari che di smaltimento delle scorie, anche in Italia non è chiaro cosa stia succedendo a Caorso, come abbiamo scritto tempo fa sul Patto Sociale (Smaltire, tacere, ascoltare – 28 febbraio 2023).

    Energia pulita non può voler dire energia ad alto rischio, pericolosa per le persone di oggi e di domani e per il territorio, nei suoi molteplici aspetti, che, se inquinato, per decenni non potrà né essere abitato né essere produttivo.

    La guerra in corso in Ucraina, con i settimanali allarmi per le centrali nucleari che i russi hanno occupato, o vogliono occupare, con il conseguente vicino e continuo bombardamento da entrambe le parti, dimostra come questi impianti siano fonte di grave rischio comune sia per azioni di guerra che di sabotaggio e terrorismo, terrorismo che è ben presente, non solo in Europa, al di là di azioni belliche ufficiali.

    Salvare il pianeta, e perciò l’ecosistema che ne garantisce la vita, significa essere molto prudenti nelle scelte, queste devono essere prese tenendo in considerazione non solo gli eventuali vantaggi immediati ma anche le conseguenze a lungo termine in tutti i possibili scenari: dalla incuria umana agli attacchi alla sicurezza.

  • L’auto elettrica è un affare per la Cina e molto meno per l’ambiente

    L’auto elettrica è un gigantesco affare per la Cina, come emerge da un reportage dell’inchiesta che il giornalista del Financial Times ha condotto per dare alle stampa il volume «Il prezzo della sostenibilità».

    La Cina è oggi il principale esportare di auto elettriche del pianeta e produce il 75% delle batterie di litio che fanno funzionare tali vetture, ma questo primato è stato conseguito con scarsa attenzione verso l’ambiente, che è il vero propulsore delle vendite di auto elettriche, e non di rado anche verso i lavoratori.

    Zeng Yuqun, ha fondato Catl nel 2011 a Ningde, e 8 anni dopo ha creato la prima gigafactory di batterie in Germania, a Arnstadt, per garantire le forniture a Mercedes Benz e Bmw. Nel 2020 la Catl forniva le batterie a quasi tutti i produttori di auto elettriche compresa la Tesla, controllando con le sue partecipazioni i giacimenti di litio in Argentina e Australia, di nichel in Indonesia e di cobalto nella Repubblica Democratica del Congo. In questo modo la Cina puntava a diventare il primo fabbricante di auto elettriche nel mondo.

    Parallelamente, la Ganfeng di Xinyu nella Cina centrale è diventata il più grande produttore di idrossido di litio estratto in Australia (e poi in Argentina) e trattato in Cina (con poco scrupolo per l’ambiente). In Congo le ditta cinesi operano nell’estrazione del cobalto e alle scarse cautele ecologiche si affiancano condizioni di lavoro nelle miniere decisamente cattive.

  • Il dilemma africano tra fossili e rinnovabili

    L’Africa paradiso mondiale delle energie rinnovabili, che attraverso i “crediti di carbonio” si fa finanziare i suoi progetti green dai paesi più ricchi. Oppure l’Africa nuova frontiera delle fonti fossili, petrolio e gas, sempre più ricercate da un mondo in crisi energetica. Quindi, puntare sulle rinnovabili o sulle fossili per sostenere lo sviluppo del continente? E’ questo il dilemma intorno al quale ruota il primo Africa Climate Summit, che si è aperto a Nairobi. Un vertice sul clima al quale partecipano gli stati africani, ma anche leader dei Paesi ricchi che nel continente possono e vogliono investire.

    Al summit di Nairobi va in scena lo scontro fra i Paesi che non hanno grossi giacimenti di idrocarburi, e quindi puntano sulle rinnovabili, come Kenya, Sudafrica, Egitto ed Etiopia, e quelli che invece hanno ricche riserve di gas e petrolio, e vogliono sfruttarle per sostenere il loro sviluppo, come Nigeria, Senegal, Angola e Mozambico. I primi vogliono sviluppare in Africa il mercato dei Carbon Credit, cioè il finanziamento di progetti green nel continente per compensare le emissioni dei paesi ricchi, e vogliono imporre una carbon tax a livello globale, per sostenere la finanza verde. Gli stati africani ricchi di oil&gas invece non vogliono perdere questa bonanza, e chiedono vincoli meno stringenti sulle emissioni e nessuna carbon tax.

    I Paesi africani producono solo il 4% della CO2 mondiale, ma sono i più colpiti dagli effetti del riscaldamento globale, cioè desertificazione ed eventi climatici estremi. Fenomeni che in quei paesi provocano morte, miseria, guerre, e migrazioni. L’Africa, continente assolato e ricco di foreste, ha enormi potenziali per lo sviluppo delle fonti rinnovabili, che potrebbero dare energia a buon mercato e milioni di posti di lavoro ai suoi abitanti. Alla Cop27 di Sharm el-Sheikh dell’anno scorso, Paesi africani e istituzioni finanziarie hanno lanciato la Africa Carbon Markets Initiative: un’alleanza per arrivare nel 2030 all’emissione nel continente di 300 milioni di crediti di carbonio all’anno, per generare 6 miliardi di dollari di reddito annui. Ma al tempo stesso, molti Paesi africani galleggiano su gas e petrolio, ricercatissimi dai paesi ricchi, e ancora più da quelli emergenti. Fonti fossili che peggiorano l’effetto serra, ma che generano ricchezza immediata. Una ricchezza che permette di far uscire dalla miseria larghi strati della popolazione africana, e quindi generare consenso politico ai governanti.

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