Italia

  • Crollano del 10% le semine di grano duro

    Crollano le semine di grano duro in Italia dove si stimano per il 2024 appena 1.134.742 ettari coltivati in calo del 10% a livello nazionale, con punte del 17% nel centro Italia e di oltre l’11% nel sud Italia e nelle isole rispetto all’anno precedente secondo l’incontro sulle previsioni di semina che si è svolto al Ministero dell’agricoltura e della sovranità alimentare il 22 febbraio scorso.

    Si tratta di un calo significativo con le superfici coltivate che sono scese mai così basse negli ultimi 6 anni. Un andamento spinto secondo l’analisi della Coldiretti dalle basse quotazioni favorite da un incremento record delle importazioni proveniente da Paesi extra europei nel 2023 (+130% su base tendenziale) secondo le analisi del centro studi Divulga che evidenzia che Turchia e Russia, sono divenute rispettivamente secondo e terzo fornitore italiano, seguite da Canada, che ha registrato un +83% e resta comunque il primo fornitore.

    L’Italia è stata invasa nel 2023 da un’ondata di grano duro russo (+1164%) e turco (+798%), mai registrata prima, che ha fatto calare le quotazioni del prodotto nazionale del 15%. Stazionarie invece sono le superfici seminate a grano tenero pari a 606.653 ettari (+1,4%) mentre in calo dell’8% la superficie dedicata alla semina dell’orzo per un totale di 267.078 ettari.

  • L’Italia chiede una revisione mirata del suo piano per la ripresa

    L’Italia ha presentato alla Commissione una richiesta di revisione mirata del proprio piano per la ripresa e la resilienza. Le modifiche proposte sono di natura tecnica e fanno seguito alla revisione completa del piano adottata dal Consiglio l’8 dicembre 2023.

    Il piano italiano per la ripresa e la resilienza ha una dotazione totale di 194,4 miliardi di euro, di cui 71,8 miliardi di euro in sovvenzioni e 122,6 miliardi di euro in prestiti. Il piano prevede 66 riforme e 150 investimenti. Ad oggi la Commissione ha erogato oltre il 50% dei fondi assegnati all’Italia nell’ambito del dispositivo per la ripresa e la resilienza, vale a dire oltre 102 miliardi di euro.

  • L’Autonomia Differenziata legalizza la discriminazione territoriale degli italiani

    E’ giunto il momento di dire basta alle manipolazioni e alle bugie, alla luce del testo del Senato sull’Autonomia Differenziata, che si presenta perfino peggiorata rispetto al disegno di legge iniziale.

    In primo luogo che fine hanno fatto gli emendamenti di FdI che “avrebbero migliorato la legge Calderoli e confermato il diritto alla parità sui LEP?” Spariti, nelle parti che avrebbero dovuto garantire LEP uguali per tutti, mentre rimangono solo le affermazioni di pura propaganda, prive di contenuti reali.

    In realtà la riforma è stata incredibilmente peggiorata nelle parti che penalizzeranno il Sud, ma farà pagare un prezzo altissimo anche al Nord.

    Per raggiungere l’obiettivo della “scissione dei ricchi” e consentire alle Regioni sottoscrittrici delle Intese di tenersi le risorse erariali nel proprio territorio, Calderoli ha creato il sistema dei “due binari a velocità differenziata”, che sono il vero strumento con cui si sancisce con legge dello Stato la discriminazione dei diritti degli Italiani del Sud, e non solo.

    Infatti, premesso che non è mai stata prevista alcuna uguaglianza dei cittadini sui LEP, anche perché non ci sarebbe mai stata la disponibilità finanziaria per garantirli, quantificata in non meno di 80-100 miliardi l’anno, la discriminazione che crea i Paria nel nostro Paese è nella modalità mortificante con cui il Disegno di legge stabilisce, in base alla ricchezza, i “due binari a velocità differenziata”. E quindi, con il “binario dell’Alta velocità”, garantire il conseguente diritto delle Regioni sottoscrittrici delle Intese di gestire da subito ed in totale autonomia, nonché rinnovare ogni anno, i LEP; mentre, con il “binario dei treni regionali”, le altre Regioni non sottoscrittrici delle Intese saranno condannate a ben altre tempistiche e, soprattutto per lungo tempo, e forse per sempre, alla spesa storica.

    Ma come funziona il sistema dei “due binari a velocità differenziata”? Semplice, le regioni firmatarie delle Intese, appena definita la procedura e pubblicati i disegni di legge di approvazione delle Intese, da subito, grazie al combinato disposto degli articoli 3, 5 e 8 del disegno di legge, potranno definire i propri LEP e operare il loro assalto alla diligenza delle risorse erariali dello Stato. E potranno aumentarne il valore, modificarli e inserire nuovi LEP con cadenza annuale. Questo, come è noto, provocherà la riduzione delle risorse erariali statali e, quindi, la fine di ogni principio di solidarietà e di perequazione, in pratica la fine dell’Unità Nazionale. Come un ritorno al passato, all’Italia preunitaria. Le altre Regioni, non sottoscrittrici delle Intese, invece dovranno attendere l’adozione dei decreti legislativi, quindi 24 mesi dall’approvazione della riforma, e cioè verso marzo-aprile 2026, e che saranno basati sulla Spesa Storica dei costi e fabbisogni Standard, mentre le regioni ricche avranno aumentato i loro LEP già per due anni consecutivi. Ma non finisce qui, perché l’aggiornamento dei costi e fabbisogni standard, per le regioni non sottoscrittrici delle Intese, è previsto a cadenza triennale e a condizione che prima o contemporaneamente alla emissione dei decreti DPCM siano stati emessi i decreti di stanziamento delle risorse per consentire tali aggiornamenti. Il che vuol dire che, se non ci saranno tali disponibilità finanziarie (cosa del tutto probabile), non ci sarà neanche l’aggiornamento. Un po’ come, parafrasando i condannati all’ergastolo, “fine attesa mai”. Ma ciò che in assoluto appare indecente è la inaccettabile disparità tra Regioni che avranno tutto con cadenza annuale, a differenza di decine di milioni di italiani, non solo del Sud, che dopo i 24 mesi iniziali, dovranno attendere almeno altri tre anni, e cioè non prima di marzo-aprile del 2029, l’aggiornamento dei LEP, ma solo se a quella data ci saranno anche le necessarie risorse a copertura dei costi di aggiornamento. Questa non è una riforma, ma una condanna alla marginalizzazione di quasi la metà della popolazione italiana, che non può e non deve subire questa mortificazione.

    Se a ciò si aggiunge che tale riforma ha almeno dieci violazioni della Costituzione, prima fra tutti l’abolizione del Fondo di Perequazione imposto dall’Articolo 119, terzo comma della Costituzione, e che non risulta dimostrata la copertura finanziaria del provvedimento, come evidenziato nel dossier della Camera, si ha evidente l’impossibilità di approvare una norma che non si comprende e, alla luce di tali carenze, come possa essere stata approvata dal Senato. L’approvazione di questa riforma in pratica, nel violare svariati principi costituzionali, contabili, etici e di ragionevolezza oltre che di doverosa e umana solidarietà, sarebbe la prima norma di legge della Repubblica italiana a sancire legalmente il principio della discriminazione su base territoriale dei cittadini italiani, e questo sarebbe un reato da Corte Internazionale di Giustizia. In ogni caso appare evidente che nessun parlamentare eletto nelle Regioni non sottoscrittrici delle Intese, di qualsiasi componente politica, può ignorare tali gravissime penalizzazioni dei diritti costituzionali dei cittadini del Sud, e non solo, e quindi operare con doverosa coscienza nel rispetto dei suoi doveri costituzionali, di rappresentanza e difesa dei cittadini italiani e dei territori a rischio di gravissima discriminazione dei loro diritti Costituzionali.

  • Italia terzo maggior investitore straniero in Tunisia

    L’Italia è il terzo investitore estero della Tunisia dopo Francia e Qatar. È quanto emerge dai dati dell’Agenzia tunisina per la promozione degli investimenti (Fipa) visti da “Agenzia Nova”. Alla fine dello scorso anno, il flusso di investimenti esteri in Tunisia ha raggiunto l’importo di 2,522 miliardi di dinari, equivalenti a circa 750 milioni di euro, con variazioni positive del 13,5 per cento rispetto al 2022, del 34,4 per cento rispetto al 2021 e del 33,7 per cento rispetto al 2020. Gli investimenti diretti esteri (Ide) hanno raggiunto nel 2023 l’importo di 712 milioni di euro. Questi investimenti hanno registrato un aumento del 7,7 per cento rispetto al 2022, del 29,3% rispetto al 2021 e del 30% rispetto al 2020.

    Gli Ide in Tunisia hanno riguardato in particolare i settori dell’energia, dell’industria manifatturiera, dei servizi e dell’agricoltura. Secondo la Fipa, il flusso degli Ide non energetici registrato nel corso dell’anno 2023 in Tunisia ha consentito di realizzare 638 operazioni di investimento per un valore complessivo di 572 milioni di euro, consentendo la creazione di 14.746 nuovi posti di lavoro. La classifica degli investitori esteri in Tunisia vede la Francia al primo posto con 182 milioni di euro, il Qatar al secondo con 89 milioni di euro, l’Italia al terzo con 78 milioni di euro, la Germania al quarto con 81 milioni di euro e il Giappone in quinta posizione con 22 milioni di euro.

  • L’Italia lentamente si adegua alla necessità di spese militari come richiesto dall’Alleanza

    Riproposto brutalmente da Donald Trump, l’obbligo di destinare alle spese militari almeno il 2% del Pil da parte di ciascun Paese aderente alla Nato deriva da un accordo informale del 2006 dei Ministri della Difesa dei Paesi membri dell’Alleanza poi confermato e rilanciato al vertice dei Capi di Stato e di Governo del 2014 in Galles (obiettivo da raggiungere entro il 2024), in cui si è anche indicata una quota del 20% di tale spesa da destinarsi ad investimenti in nuovi sistemi d’arma.

    Nel bilancio 2023 dello Stato: il ministero della Difesa italiana ha ottenuto 27 miliardi e 748 milioni di euro, cui vanno aggiunti gli stanziamenti di ministero dell’Economia e delle Finanze e ministero delle Imprese e del Made in Italy alle spese militari. Come emerge dal dossier (pubblicato il 6 luglio scorso) della Documentazione parlamentare della Camera le spese militari sono passate dai 19,9 miliardi di euro del 2016 ai 21,4 del 2019 fino ai 24,5 del 2021. Nel 2022 il Sipri di Stoccolma, uno dei più prestigiosi istituti di studi sulla pace, stimava che in tutto il mondo le spese militari ammontassero a 1.981 miliardi di dollari annui, 1.103 dei quali (il 56% del totale) erano riconducibili all’Allenza Atlantica. All’undicesimo posto nel mondo e tra i primi 5 in Europa per questo tipo di spese nel 2022, l’Italia col bilancio 2023 ha portato le sue spese militari a oltre il 3% de Pil  (gli Stati Uniti, primi nella classifica mondiale, nel 2022 hanno destinato a questo settore 766 miliardi di dollari, pari al 3,74% del loro Pil).

    Le maggiori risorse alla Difesa nel 2023 rispetto al 2022, 1,792 miliardi di euro in più rispetto alimentano in particolare la “Funzione difesa” che sfiora i 20 miliardi con un aumento superiore all’8%. Nell’arco di 15 anni l’Italia spenderà quasi 13 miliardi di euro col “Fondo relativo all’attuazione dei programmi di investimento pluriennale per le esigenze di difesa nazionale”. E fino al 2036 sono previsti altri 3,8 miliardi di euro per le “Politiche di sviluppo dei settori ad alta valenza tecnologica per la difesa e la sicurezza nazionale”. Il capitolo 7421 della Difesa ha stanziato 877,9 milioni per “interventi per lo sviluppo delle attività industriali a tecnologia dei settori aeronautico e aerospazio in ambito difesa e sicurezza nazionale”: dal programma Forza Nec per abbattere i tempi di comunicazione, agli elicotteri Hh-101 e Nh-90 e agli aerei da caccia Eurofighter e Tornado.

    L’Italia partecipa con oltre 7mila soldati a 35 missioni internazionali nell’ambito di coalizioni multinazionali, sotto l’egida di Onu, Nato e Unione Europea o accordi bilaterali. E nello scenario di guerra sul “fianco est” della Nato altri 1.250 militari sono in Lettonia, Ungheria e in Bulgaria. In Romania una task force dell’Aeronautica è impegnata con Ef-2000 “Typhoon” nella sorveglianza degli spazi aerei alleati. A queste missioni, finanziate dal ministero dell’Economia, nel 2023 sono stati destinati 1,7 miliardi di euro. L’anno precedente sono stati spesi 137.259.170 di euro nella Coalizione internazionale di contrasto alla minaccia terroristica del Daesh; 106.585.294 per United Nations Interim Force in Lebanon (Unifil); 70.068.735 alla partecipazione a Nato Joint Enterprise nei Balcani; 55.427.196 nell’operazione “Mare Sicuro” e nella missione di supporto alla Marina libica, cui si sommano altri 11.848.004 euro per il controllo dei confini in “assistenza” alle istituzioni libiche; infine 24.598.255 al “potenziamento” del fianco sudorientale della Nato. Per il 2023 sono state finanziate 4 nuove mission: l’European Union Border Assistance Mission in Libya, l’iniziativa di partnership militare dell’Ue in Niger, la missione bilaterale in Burkina Faso e soprattutto Eumam Ucraina.

  • La politica assente davanti ai disagi di cittadini e imprese per la continua chiusura di sportelli bancari

    Aumentano le preoccupazioni degli utenti, privati od imprese, per la inesorabile, continua chiusura degli sportelli bancari, come aveva già avevamo scritto sul Patto Sociale in un articolo del 21 gennaio 2024.

    Anche Wall Street Italia si è occupato del problema segnalando che il 41% dei comuni italiani è rimasto privo di una presenza bancaria, secondo l’analisi della Fondazione Fiba di First CISL, con un evidente danno anche per le 225 mila imprese che risiedono in quei comuni privi di sportello.

    Sempre secondo l’analisi e la ricerca di Fiba nel 2023 gli sportelli chiusi sono stati 826 a fronte dei 677 dell’anno precedente, dimostrazione evidente che le banche più grandi, o quelle che comunque non sono veramente legate ai legittimi interessi del territorio dove sono nate, continuano a chiudere sportelli, licenziare dipendenti, negare ai clienti quei servizi che gli stessi pagano profumatamente per il loro conto corrente.

    Le previsioni per il 2024 fanno temere un ulteriore accelerazione con altre chiusure, visti i piani d’impresa di molti istituti di credito.

    La cosiddetta desertificazione bancaria non avviene solo nei comuni minori, come abbiamo già scritto,ma anche nelle grandi città dove, ad esempio, l’UniCredit ha eliminato dalle agenzie gli sportelli per le operazioni di prelievo, deposito etc. lasciando solo le casse automatiche. Diversa è invece l’attenzione di quelle banche, come la Banca di Piacenza, che hanno rifiutato gli accorpamenti e, pur aprendo nuove filiali anche in grandi città, rimangono legate al territorio dove sono nate garantendo la presenza di loro agenzie anche nei  piccoli comuni.

    Non ci si giustifichi la chiusura di tante filiali con la possibilità di avere conti on line, il modo di gestire il proprio conto deve essere una libera scelta e non un obbligo e non sempre l’on line offre la garanzia ed il servizio necessari, specie alle persone più anziane o meno informatizzate. La diffusione del digitale non può consentire alle banche, per migliorare i propri utili e quelli degli azionisti, di chiudere sportelli per tagliare i loro costi, negando servizi e creando problemi sia ai privati che alle imprese, per altro soltanto il 50% degli utenti usa l’internet banking.

    Siamo stupiti dall’assenza della politica su questo problema che aumenta non solo il disagio ma anche i rischi per molte persone costrette ad utilizzare, per lunghe distanze, la macchina o i mezzi pubblici per poter raggiungere uno sportello bancario con un funzionario in carne ed ossa.

    Mentre in Italia chiudono sportelli e filiali ben diversa è l’impostazione negli Stati Uniti dove si agisce all’opposto aprendo nuove agenzie per rendere più vicina la banca ai cittadini rendendo così non solo un servizio alla collettività ma anche ai propri bilanci.

  • Le forze russe ‘costruiscono’ una barriera di 30 km nel Donetsk e gli hacker filorussi attaccano i siti italiani

    L’Istituto per lo studio della guerra (Isw) ha affermato, citando immagini satellitari e canali Telegram ucraini, che le forze russe stanno assemblando una barriera di vagoni ferroviari che si estende per 30 chilometri nell’oblast di Donetsk. La barriera, soprannominata il «treno dello zar» e costruita con oltre 2.100 vagoni merci, servirebbe come linea difensiva contro futuri assalti ucraini. Dalle immagini satellitari la linea di vagoni ferroviari si estende da Olenivka, a sud della città di Donetsk, a Volnovakha, a nord di Mariupol.

    La barriera che, secondo una fonte ucraina – come riporta l’Isw -, sarebbe stata assemblata a partire da luglio 2023, sembrerebbe essere una nuova linea difensiva russa, ma per l’Istituto le forze di occupazione potrebbero avere in mente «altri scopi».

    La mire russe non si fermano però solo al territorio ucraino.  E’ di questi giorni la notizia di cyberattacchi da parte del gruppo filorusso Noname contro siti italiani “in supporto agli agricoltori che stanno protestando”.

    Ad aiutare i Noname altre tre gruppi: Folk’s CyberArmy, 22C e CyberDragon. Si tratta di attacchi di tipo Ddos (Distributed denial of service) che consistono nell’inviare un’enorme quantità di richieste al sito web obiettivo che, non potendo gestirle, non è in grado di funzionare correttamente. L’Agenzia per la cybersicurezza nazionale sta monitorando la situazione che al momento sembrerebbe gestibile. Sul canale Telegram di Noname si legge: “Gli agricoltori sono stanchi delle politiche sbagliate delle autorità italiane, che sponsorizzano con tutte le loro forze il regime criminale di Zelenskyj e non cercano nemmeno di risolvere i problemi interni del Paese, fregandosi dei propri cittadini. Gloria alla Russia!”. Tra gli obiettivi che gli hacker sostengono di aver colpito, ci sono l’Agenzia del demanio, Credem, Bper, le aziende del trasporto pubblico di Siena, Torino, Palermo Cagliari e Trento. La Polizia postale sta lavorando con l’Agenzia per ripristinare la funzionalità dei siti colpiti, tra i quali quelli dell’Esercito, del Sistema centralizzato di identificazione automatizzata Siac della Difesa, dell’azienda A2A, della fatturazione elettronica verso l’Amministrazione dello Stato, del servizio di pagamento delle tasse on line dell’Agenzia delle entrate.

  • Ok a Terna: si farà l’elettrodotto sottomarino tra Marche e Abruzzo

    Il ministero dell’Ambiente e della Sicurezza energetica ha autorizzato con decreto del 31 gennaio 2024 la realizzazione dell’Adriatic link, l’elettrodotto sottomarino di Terna che unirà le Marche e l’Abruzzo. E’ quanto si legge in una nota. L’opera di sviluppo, inserita tra gli interventi previsti dal Pniec (Piano nazionale integrato per l’energia e il clima) e riconosciuta come strategica per il sistema Paese anche dall’Autorità di regolazione, rafforzerà lo scambio di energia nella parte centrale della Penisola rispondendo alle esigenze di sicurezza e flessibilità del sistema elettrico nazionale e agli obiettivi di incremento di energia da fonti rinnovabili.

    Il collegamento elettrico, all’avanguardia dal punto di vista tecnologico e ambientale, sarà costituito da 2 cavi sottomarini di circa 210 chilometri, posati a una profondità massima di 100 metri, e da 2 cavi terrestri di 40 chilometri. Le stazioni di conversione saranno realizzate nelle vicinanze delle esistenti stazioni elettriche di Cepagatti Pescara, in Abruzzo, e di Fano (Pesaro-Urbino), nelle Marche. Il collegamento consentirà di incrementare di circa mille megawatt la capacità di scambio tra le zone Centro-Sud e Centro-Nord del Paese abilitando l’integrazione e il trasferimento dell’energia prodotta dagli impianti eolici e fotovoltaici del Mezzogiorno verso i centri di consumo del Nord.

    Tramite tale opera strategica – continua la nota – sarà garantito non solo un miglioramento dei requisiti di affidabilità e sicurezza del servizio di trasmissione lungo la dorsale adriatica, ad oggi costituita da un’unica direttrice a 400 chilovolt tra Marche e Abruzzo, ma anche un migliore sfruttamento del parco di generazione nazionale ed una crescente integrazione della generazione rinnovabile.

    Su tale opera, il ministro Gilberto Pichetto Fratin ha dichiarato: “Con l’autorizzazione ministeriale dell’Adriatic link si pone un altro tassello del percorso intrapreso dallo Stato con Terna per raggiungere gli obiettivi eurounitari di decarbonizzazione del sistema energetico italiano in coerenza con gli obiettivi delineati dal Piano nazionale integrato energia e clima”. “Siamo molto soddisfatti del via libera ottenuto dal ministero dell’Ambiente e della Sicurezza energetica per l’Adriatic link, una delle opere fondamentali del Piano di sviluppo decennale di Terna – ha dichiarato Giuseppina Di Foggia, amministratore delegato e direttore generale di Terna -. L’infrastruttura, per la quale investiremo circa 1,3 miliardi di euro, aumenterà la sicurezza e la resilienza della rete elettrica di trasmissione nazionale e contribuirà al raggiungimento degli obiettivi previsti dal Piano nazionale integrato per l’energia e il clima, a conferma del ruolo dell’Italia di hub energetico europeo e del Mediterraneo”. L’autorizzazione – si legge nella nota – è il risultato della costante interlocuzione tra il ministero e Terna e del lungo percorso di confronto avviato dall’azienda con il territorio. Dal dicembre 2020, infatti, il dialogo nelle fasi di progettazione e di consultazione pubblica si è concretizzato in oltre 120 incontri svolti con amministrazioni regionali e comunali, associazioni e cittadini.

  • Egitto pronto ad aiutare l’Italia nella missione per mantenere l’ordine nel Mar Rosso

    Secondo quanto apprende l’agenzia di stampa Nova, Giorgia Meloni e il presidente dell’Egitto, Abdel Fattah al Sisi, si sono sentiti almeno un paio di volte tra l’ultima settimana di gennaio e la prima di febbraio, per discutere della delicata situazione del Medio Oriente, incluso il fascicolo relativo al Mar Rosso. L’Italia, infatti, avrà il comando tattico della missione militare aeronavale europea Aspides (“scudo” in greco) volta a proteggere il traffico marittimo dalle incursioni dei ribelli yemeniti Houthi, che attaccano le navi commerciali occidentali nel tentativo di esercitare pressione su Israele per porre fine al conflitto a Gaza. Situato strategicamente sulle coste del Mar Rosso, l’Egitto ha oggettivamente un interesse nel porre fine agli attacchi alle navi che attraversano il vitale Canale di Suez, fonte di entrate valutarie annue per il Cairo stimabili intorno ai 10 miliardi di dollari. Nonostante il Cairo non abbia ancora annunciato ufficialmente la propria partecipazione alle operazioni militari contro gli Houthi, temendo di essere trascinato in conflitti prolungati nella regione e di urtare la sensibilità dell’opinione pubblica, fonti di “Agenzia Nova” suggeriscono che l’Egitto potrebbe fornire supporto logistico o consulenza ai suoi alleati. Negli ultimi anni, il Paese delle piramidi ha investito 1,2 miliardi di dollari per acquistare due fregate Fremm dell’ex Marina italiana, Ems Bernees (ex Emilio Bianchi) e Ens Al Galala (ex Spartaco Schergat) rispettivamente nell’aprile 2021 e nel dicembre 2020, per rafforzare la sicurezza delle proprie acque territoriali, contrastare l’emigrazione clandestina e proteggere le risorse energetiche offshore dove opera, tra gli altri, anche Eni.

  • Cosa c’è dietro

    Quando comperiamo le arance o i peperoni, gli asparagi o i carciofi, la pasta, il pane, il riso, quando mangiamo una fetta di carne, mettiamo il latte nel caffè o nella tazza di un bambino, l’olio nell’insalata e beviamo un bicchiere di vino ci viene mai in mente cosa c’è dietro?

    Quante sono le ore di lavoro, quanta la fatica per combattere la siccità o le bombe d’acqua, sappiamo vagamente come alcuni prodotti della terra abbiano bisogno di molte cure, di raccolte ancora manuali, chini sul campo, o di macchinari costosi, sia se si comperano che se li si prende a noleggio?

    Gli asparagi nascono all’alba e vanno raccolti subito, a mano, ogni giorno e la raccolta dura poche settimane per anno. Il dicembre scorso, in Sicilia, gli agricoltori hanno dovuto dare acqua agli aranceti assetati mentre, non solo in Puglia, in estate ed in autunno, le olive e le uve sono state decimate dalle avversità del tempo.

    In Romagna peri e meli sono coperti dalle reti antigrandine da srotolare e riavvolgere ogni volta, le pecore vanno portate a pascolare su e giù per monti e pianure, nelle stalle il letame va raccolto, le mucche nutrite e pulite prima della mungitura ed i veterinari eseguono controlli costanti e ovviamente non gratuiti.

    Ogni volta che acquistiamo un prodotto e poi lo cuciniamo, che lo abbiamo acquistato su una bancarella o al supermercato (i piccoli negozi sono ormai quasi del tutto spariti), ci viene mai in mente quale lavoro c’è dietro il nostro piatto di pasta con le cime di rapa, la cotoletta alla milanese, le lasagne o un arancino di riso, melanzane e pomodoro? Tanto lavoro e passione che la stragrande parte degli agricoltori, dei contadini, degli allevatori mettono ogni giorno.

    Mentre beviamo un bicchiere di vino, con un po’ di pane e prosciutto, coppa o salame, mortadella o pancetta, pensiamo solo alle calorie, preoccupati di non esagerare, al costo di quello che stiamo mangiando o pensiamo, per un attimo, anche a cosa c’è dietro, a tutti i passaggi necessari per arrivare alla nostra tavola?

    Probabilmente pensiamo ai prezzi che sono cresciuti ma non all’ormai decennale problema dei mega distributori che, in tutta Europa, si accaparrano tutte le produzioni, decidono quanto e come pagare, dopo avere distrutto i piccoli distributori regionali, portando chi coltiva e chi alleva a dover subire la potenza di monopoli che non lasciano scampo: o vendi sottocosto o non vendi.

    Lo sanno bene anche i floricultori italiani e francesi costretti a chiudere le serre per la concorrenza che arriva da paesi lontani dove non si controllano gli usi dei pesticidi più nocivi e si affamano i lavoratori.

    Così sui cargo arrivano i pomodori cinesi e il problema non è l’emergenza per il grano ucraino ma la consuetudine di avere qui quello russo o di sapere che il latte delle mucche italiane non è pagato a sufficienza perché qualche “furbo” trasformatore utilizza quello in polvere che dovrebbe servire solo per l’alimentazione degli animali.

    Chiedere che i prodotti che arrivano in Europa abbiano lo stesso standard qualitativo e di sicurezza alimentare di quelli europei, che la rincorsa ai carburanti alternativi ed alle energie rinnovabili non sia fatto a scapito dell’agricoltura rendendo inutilizzabili migliaia di ettari coltivabili, combattere la eccessiva cementificazione del suolo ed incentivare il recupero abitativo di vecchie case e strutture dismesse, volere che i letti ed i greti dei fiumi siano ripuliti dai tronchi e dalle immondizie, che aumentano la pericolosità delle piene, non vuol dire stare dalla parte degli agricoltori ma stare dalla parte di tutti.

    Bisogna Impedire l’attuale strapotere dei monopolisti della grande distribuzione, difendere il nostro sistema alimentare, evitare che col cibo accada quanto già accaduto con il gas.

    Essere favorevoli a sgravi fiscali per chi produce in sicurezza quanto ci occorre per nutrirci e per esportare la nostra qualità, le nostre peculiarità e diversità, impedire che si proponga di pagare per non coltivare, per non produrre, proprio in un momento nel quale, per le guerre ed i cambiamenti climatici, c’è la necessità che ogni paese cerchi di avere quanto è indispensabile al sostentamento della sua popolazione, non è essere contro l’Europa ma essere capaci di ricondurla con i piedi per terra.

    Saper convivere tra noi umani, saper comprendere e rispettare le semplici ma severe regole della natura non è un optional e le donne, gli uomini che vivono a più contatto con la terra ci ricordano anche questo, non si può mangiare il cemento, dipendere dalle importazioni, pensare che per avere più progresso si debba distruggere il presente ed ipotecare il futuro.

    Quando iniziamo a mangiare pensiamo un attimo che la maggior parte di quello che abbiamo pagato per quel cibo non va a chi oggi, in tutta Europa, sfila sui trattori e si vede invece riconosciuto un prezzo ben inferiore ai costi di produzione.

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