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  • In attesa di Giustizia: rimedi peggiori del male

    Il cosiddetto “Avvocato degli Italiani” (uno da cui non farsi scrivere neppure una diffida al vicino di casa che ascolta i Rolling Stones ad alto volume in orario notturno) ha tolto il disturbo e vi è da sperare che la politica politicante non abbia la meglio imponendo, tra l’altro, al Premier incaricato la permanenza di Fofò Bonafede al Ministero della Giustizia… salvo che non possa rendersi utile per fare delle fotocopie.

    Il cambio della guardia in via Arenula con una figura di ben altro ed alto profilo è tanto auspicabile quanto necessaria al fine di mettere in campo una riforma radicale della giustizia che è rivendicata altresì tra i presupposti fondamentali per garantirsi il riconoscimento dei fondi europei destinati a sostenere la rinascita del Paese dopo l’emergenza sanitaria.

    Al momento il legislatore (l, rigorosamente minuscola) ha elaborato un disegno di legge delega per migliorare l’efficienza del processo penale che si può definire – tanto per utilizzare un eufemismo – per nulla convincente e risolutivo se confrontato con la attuale crisi di autorevolezza ed effettività della giurisdizione. Del resto, dall’homo ridens e dalla sua compagnia di giro non poteva attendersi di meglio.

    Un progetto innovativo deve innanzitutto prevenire l’attuale irragionevole durata del processo che – con la attuale disciplina della prescrizione – ha perso certezza dei tempi. L’obiettivo può raggiungersi solo con la previsione di termini tassativi per la ultimazione delle diverse fasi e sanzioni nel caso che non vengano rispettati. Inadeguata, in proposito, appare la via ipotizzata della sanzione disciplinare – vista anche l’inaffidabilità dell’Organo preposto, quel C.S.M. ostaggio degli interessi correntizi e clientelari –  e sarebbe preferibile prevedere equi indennizzi in caso di proscioglimento se non l’improseguibilità dell’azione penale.

    E’, inoltre, necessario riaffermare la centralità del dibattimento che, attualmente, è sbilanciato a tutto vantaggio delle indagini preliminari in contrasto con lo spirito informatore del codice del 1989; si badi che il progetto di riforma prevede addirittura l’eliminazione sostanziale di termini di durata per inchieste legate a specifiche ipotesi di reato ritenute di maggiore allarme sociale cioè a dire una variabile inconciliabile con le certezze richieste da una materia che incide sulla libertà dei cittadini.

    In quest’ottica, appare irragionevole per non dire apertamente incostituzionale la previsione di una specie di “federalismo giudiziario” che rimette la selezione di criteri di priorità di trattazione dei reati da perseguire ad una casistica disomogenea e variabile misurata sui diversi uffici giudiziari presenti nel territorio nazionale.

    Cercando di sintetizzare ed esemplificare il più possibile argomenti e concetti per “i non addetti ai lavori”, non si può, infine, trascurare la mortificazione tendenziale del giudizio di appello trasformato in un simulacro della giurisdizione: meglio sarebbe, piuttosto, stabilire un regime rigoroso di inammissibilità delle impugnazioni sul modello del processo civile. Non è la soluzione ottimale ma – se non altro – offrirebbe maggiori possibilità di una trattazione più approfondita e ragionata dei processi che superino tale sbarramento.

    Tant’è: l’auspicio in questi giorni è per un “Governo dei migliori” ma basterà? Perché con le attese dei politici e la funzione parlamentare bisogna pure fare i conti e nei banchi di Montecitorio e Palazzo Madama non è che sieda proprio il meglio del Paese e una buona parte dei membri di quelle Assemblee prende ordini da una misteriosa piattaforma e da un comico che fa ridere solo il suo (ex) Ministro della Giustizia.

  • Referendum sulla riduzione del numero dei parlamentari

    Si scrive “referendum”, si legge “trappola”.

    Quando si voterà per alcune regioni, alcuni comuni e per elezioni suppletive in pochi collegi, è molto probabile che il cosiddetto “election day” richieda anche il voto per un referendum confermativo della modifica costituzionale che prevede la riduzione del numero dei parlamentari.

    A differenza dei referendum abrogativi, che per essere validi devono raggiungere il quorum della maggioranza degli aventi diritto, il referendum di tipo approvativo si considera valido anche qualora vi partecipasse una minima parte dei cittadini.

    Mettendo da parte le ragioni puramente demagogiche che hanno spinto la maggioranza dei politici a votarlo, sono la data di questo referendum e il suo abbinamento con le altre elezioni che suscitano molte perplessità.  Tanti costituzionalisti storcono il naso sul fatto che elezioni politiche o amministrative possano coincidere con una consultazione referendaria perché la Costituzione prevede, addirittura, che in caso di elezioni per il Parlamento (e s’intende anche per qualunque altra elezione) un referendum, perfino se già indetto, sia posticipato di un anno o due. La ragione è che sia la campagna a favore o contro un quesito referendario non debba essere contaminata da una campagna elettorale evidentemente animata da tutt’altri obiettivi.

    A ben guardare, tuttavia, i problemi sono anche altri e purtroppo non sembra che se ne parli sufficientemente. Gli osservatori della politica sembrano convinti che la maggioranza dei votanti al referendum sia già orientata ad approvare la riduzione. Ebbene, qualora ciò avvenisse, le nuove elezioni politiche per Camera e Senato non potrebbero aver luogo prima che si realizzino altri passaggi. In particolare, per evitare intoppi o pasticci istituzionali, servirà una nuova legge elettorale che tenga conto del cambiamento del numero degli eletti. Sempre che la sostanza della nuova legge mantenga il metodo attuale che toglie agli elettori ogni possibilità di scegliersi i propri rappresentanti, servirà comunque ridisegnare i collegi elettorali. Attualmente, la discussione in merito non è neppure cominciata e nessuno può sensatamente ipotizzare quanto tempo sarà necessario per trovare un accordo. Ancora più complicate, sia nel merito sia nel tempo necessario, saranno le successive modifiche della Costituzione che si renderanno necessarie. Senza contare le modifiche ai rispettivi regolamenti interni di Camera e Senato che coinvolgeranno in totale almeno quarantasei articoli.

    Le modifiche costituzionali da approvarsi dopo la possibile approvazione di questo referendum (e prima di nuove elezioni politiche) riguardano il superamento della base regionale per l’elezione dei senatori a favore di una base circoscrizionale e la riduzione da tre a due dei delegati regionali che parteciperebbero di diritto all’elezione del Presidente della Repubblica. Tra le condizioni chieste dalle sinistre per approvare la riduzione dei parlamentari c’era anche, per il Senato, l’abbassamento a 25 anni dell’elettorato passivo e a 18 per quello attivo. I 46 articoli dei Regolamenti di Camera e Senato da cambiare riguardano invece il funzionamento dei lavori interni. Essi vanno dalla modifica al numero legale richiesto per certe attività, a quale numero di parlamentari debba essere necessario per ottenere che un voto sia segreto e, in genere, a tutte quelle attività che richiedono esplicitamente un numero specifico e definito di deputati e senatori.

    Se queste ultime modifiche sono modificabili con tempi relativamente veloci poiché interne alle singole camere, le modifiche costituzionali necessarie richiederanno, invece, tempi piuttosto lunghi. Per modificare la Costituzione è necessario che le votazioni siano essere almeno due per ogni camera (Senato- Camera e poi ancora Senato-Camera o viceversa) e che tra il primo turno e il secondo passino almeno tre mesi. Inoltre, qualora il risultato favorevole fosse inferiore alla soglia dei 2/3 degli aventi diritto è possibile che, come successo nel caso attuale, si debba superare lo scoglio di uno, o più, nuovi referendum popolari confermativi da approvarsi prima che le modifiche possano entrare in vigore.

    E’ interessante ricordare che nei primi passaggi parlamentari sulla riduzione del numero dei rappresentanti del popolo, sia il Partito Democratico, sia Liberi e Uguali avevano votato contro il provvedimento, salvo sacrificare il proprio orientamento pur di entrare in maggioranza e sostenere un nuovo governo Conte. Se ora decidessero di tornare alle loro prime convinzioni e invitassero i propri elettori a votare NO, ciò implicherebbe la rottura dell’attuale maggioranza e quindi la caduta del Governo. La cosa sembra quindi altamente improbabile.

     

    Il vero problema è che, una volta che il referendum fosse approvato, sarà impossibile avere nuove elezioni politiche fino a che sia i regolamenti interni delle Camere, sia la Costituzione non siano adeguatamente corretti.

    Che questo voto rappresenti una “assicurazione sulla vita” per l’attuale Parlamento?

    Il sospetto è forte e non si può escludere che proprio questo sia il calcolo di qualcuno. E’ vero che, dal punto di vista strettamente tecnico, tutte le procedure potrebbero risolversi in pochi mesi ma occorrerebbe una forte volontà politica che è difficile attribuire all’attuale maggioranza. Com’è possibile immaginare che chi si trova oggi in Parlamento si precipiti a redigere e approvare una nuova legge elettorale che implicherebbe la fine della legislatura e l’improbabilità di essere rieletto? E come si potrebbe ipotizzare che tutti si precipitino a votare a raffica la stessa legge di modifica costituzionale, due volte alla Camera e due al Senato, per ottenere poi il risultato di andarsene a casa? Non hanno già lasciato tutti intendere che, comunque vadano le cose, vorranno essere sempre loro a votare per il nuovo Presidente della Repubblica?

    Certamente tutto può succedere, ma è molto probabile che chi voterà favorevolmente al referendum per ridurre il numero dei Parlamentari convinto di fare un ennesimo atto di “antipolitica” contro la “casta”, contribuirà invece a garantire agli attuali “rappresentanti” di poter godere un po’ più a lungo dei benefici che godono attualmente. Benefici che molti di loro non riuscirebbero mai più a ottenere quando ritorneranno alla vita “civile”.

  • La Svezia multa con 7 milioni di euro Google per violazione del “diritto all’oblio”

    L’autorità svedese per la protezione dei dati (DPA) ha deciso di imporre un’ammenda di 75 milioni di corone svedesi (7 milioni di euro) a Google per non aver rispettato il diritto all’oblio come previsto dal regolamento generale sulla protezione dei dati (GDPR).

    La normativa europea del 2014 sul “diritto all’oblio” è stata progettata per aiutare le persone a eliminare determinate pagine Web che contengono informazioni potenzialmente “dannose”. Da quando è entrato in vigore, Google ha ricevuto milioni di richieste simili, ma meno della metà è stata soddisfatta.

    Dopo un audit del 2017, che mirava a valutare la gestione da parte di Google dei diritti delle persone a rimuovere le schede dei risultati di ricerca che includevano il loro nome, il DPA ha concluso che un certo numero di schede dei risultati di ricerca deve essere rimosso e ha ordinato a Google di farlo.

    L’audit di follow-up di DPA nel 2018 ha rilevato che Google non aveva rispettato gli ordini di rimozione degli elenchi di ricerca e ha dichiarato perciò che avrebbe emesso una multa nei confronti dell’azienda.

    Un portavoce ha riferito ai media che Google non è d’accordo con la decisione e ha pianificato di presentare ricorso. Il colosso americano del web adesso ha tre settimane di tempo per farlo, prima che la decisione entri in vigore.

  • Appalti, qualche miglioramento alla nuova disciplina è stato apportato

    La normativa sugli appalti e subappalti è stata profondamente incisa dal DL 124 del 2019 che ha modificato le modalità di versamento delle ritenute e dei contributi sui redditi da lavoro dipendente. Come ricorderete, avevamo scritto, a ridosso della pubblicazione del decreto, evidenziando criticità e discriminazioni insite nella nuova norma e auspicando interventi legislativi risolutori.

    In effetti, qualche miglioramento nella versione definitiva è stato apportato, anche se siamo lontani dai canoni di semplicità e snellimento burocratico che servirebbero a far ripartire il sistema economico del nostro Paese.

    Veniamo alla normativa in vigore dal 1° gennaio 2020. L’art 17 bis del Dlgs 241 del 1997, introdotto dal citato DL 124, ha previsto l’obbligo, a determinate condizioni che vedremo, per le imprese appaltatrici e subappaltatrici, di versare le ritenute operate sui redditi da lavoro dipendente e assimilati e i relativi contributi, escludendo la possibilità di compensarle con eventuali posizioni creditorie, in deroga alle regole comuni.

    Dall’altro lato, al committente è stata attribuita una funzione di controllo sul corretto operato dell’impresa appaltatrice, dovendo verificare la corrispondenza dei conteggi dei modelli F24 con l’elenco dei lavoratori impiegati presso di sé, il dettaglio delle ore lavorate, la retribuzione corrisposta e le ritenute operate. In caso di discrepanze il committente dovrà sospendere il pagamento dei corrispettivi fino alla concorrenza del 20% del valore dell’opera, o fino al minor importo non versato, e dovrà effettuare un’apposita segnalazione all’agenzia delle entrate entro 90 giorni.

    L’art.17 bis del citato Dlgs si applica ai committenti che affidano l’esecuzione di una o più opere o servizi ad un’impresa appaltatrice per un importo complessivo annuo superiore a duecentomila euro.

    Vengono presi in considerazione tutti i contratti di appalto o subappalto, comunque denominati, caratterizzati dal prevalente utilizzo di manodopera presso le sedi di attività del Committente con impiego di beni strumentali di proprietà di quest’ultimo o ad esso riconducibili.

    La normativa in questione potrà essere disapplicata purché l’impresa appaltatrice, nell’ultimo giorno del mese precedente a quello della scadenza del versamento, soddisfi i seguenti requisiti:

    1)            sia in attività da almeno tre anni, sia in regola con gli obblighi dichiarativi e abbia eseguito nel corso dell’ultimo triennio versamenti complessivi nel conto fiscale per un importo non inferiore al 10% dell’ammontare dei propri ricavi;

    2)            Non abbia iscrizioni a ruolo o accertamenti esecutivi o avvisi di addebito (per imposte sui redditi, IRAP, ritenute e contributi previdenziali) per importi superiori a cinquantamila euro.

    La sussistenza di detti requisiti dovrà risultare da un idoneo certificato rilasciato dall’Agenzia delle Entrate con validità di quattro mesi. Da questo punto di vista, pertanto, rimangono inalterati i possibili effetti discriminatori nei confronti delle imprese neo costituite già rilevati a ridosso dell’emanazione del decreto legge.

    I miglioramenti apportati sono veramente limitati, rispetto alla versione originaria della norma che aveva suscitato sgomento negli addetti ai lavori, e si riducono, in realtà, nell’aver eliminato l’inversione dell’onere di versare le somme delle ritenute operate che era stato inizialmente traslato in capo al committente.

    In effetti, resta, in primis, l’impossibilità di versare le ritenute compensando eventuali posizioni creditorie, con evidenti ricadute negative per la gestione finanziaria delle imprese, già fortemente compromessa dal lungo periodo di credit crunch a cui sono state sottoposte da parte degli istituti bancari. Si complica, inoltre, la gestione delle ritenute e dei relativi versamenti che dovranno essere fatti in maniera distinta per la parte attribuita a ciascun committente al fine di consentire i controlli di cui abbiamo detto.

    Qualche difficoltà, non da poco, potrebbe derivare dal fatto che il limite di duecentomila euro annui si riferisce a tutti i contratti stipulati e, quindi, potrebbe generare l’obbligo di rispettare la normativa in questione in maniera retroattiva con evidenti criticità. Si pensi al caso di due imprese legate da rapporti di appalto che stipulano vari contratti in corso d’anno e solo con la sottoscrizione dell’ultimo superano detto limite: ebbene la normativa si applica a tutti i contratti stipulati e non solamente all’ultimo. Questa almeno la chiave di lettura proposta dall’Agenzia delle Entrate in occasione del forum di Italia Oggi. Gli evidenti problemi legati alla possibile retroattività potrebbero essere risolti facendo decorrere la normativa solo dal momento successivo al superamento del limite e, ovviamente, ai contratti ancora in essere.

    Un altro aspetto problematico è legato al luogo di svolgimento del contratto: la norma parla di quelli caratterizzati dal prevalente utilizzo di manodopera presso le sedi di attività del Committente. A tale proposito come verranno identificati i cantieri esterni? L’applicazione letterale sembrerebbe escluderli (almeno se di durata minima), anche se, probabilmente, la ratio posta a base della norma porterebbe a ricomprenderli.

    Non si dimentichi, infine, che la novella fa riferimento all’uso di beni strumentali del committente, indipendentemente dal valore degli stessi. Se ne dovrebbe desumere che, un contratto di appalto a prevalente uso di manodopera svolto presso la sede del committente ma utilizzando beni strumentali, ancorché di modico valore, di proprietà dell’appaltatrice sia escluso dalla disciplina. A tal proposito si immagini l’impresa di pulizia che svolge il servizio presso il committente utilizzando scope e ramazze proprie: siamo certi che l’esclusione sarebbe legittima e genuina nonché sposi le motivazioni che hanno indotto il legislatore al varo della nuova disciplina?

    Come anticipato, quindi, la complessità della legge è evidente e non adeguata alle esigenze di semplificazione del sistema da più parti auspicate e necessita, senza dubbio, di ulteriori chiarimenti ufficiali che sarebbe opportuno arrivassero prima della metà di febbraio, quando scadrà il termine per il versamento delle ritenute operate nel mese di gennaio.

  • Stampelle in sostegno del male

    Non c’è nulla sotto il sole di cui non si possa abusare e di cui non si sia abusato.

    Karl Popper

    Il nostro lettore la settimana scorsa ha avuto modo di informarsi sulle consapevoli, continue e gravi violazioni della Costituzione in Albania. E quelli che lo hanno fatto sono stati e sono tuttora i rappresentanti della maggioranza governativa. Lo hanno fatto ubbidendo agli ordini partiti dai più alti livelli politici. Eseguendo e soddisfacendo così le ambizioni e le volontà del primo ministro per controllare tutto e tutti. Ma quanto sta accadendo in questi ultimi giorni in Albania evidenzia, tra l’altro, quel male che sta cercando di divorare anche quel poco che potrebbe essere rimasto ancora di sano nella politica e nella società albanese.

    In questi ultimi giorni si sta ulteriormente intensificando lo scontro tra il presidente della Repubblica e il primo ministro. Scontro che sta dimostrando, per quello che realmente è, tutto il marcio che, sempre più pericolosamente, sta soffocando le istituzioni statali e non solo. Il presidente della Repubblica, con il diritto e il dovere del rappresentante della più alta istituzione dello Stato, sta accusando il primo ministro e alcuni dirigenti delle istituzioni del sistema della giustizia. L’accusa è molto grave: violazioni intenzionali e continue della Costituzione albanese con lo scopo di controllare completamente e per lungo tempo tutte le istituzioni del sistema della giustizia. Riferendosi a questa grave e allarmante realtà, il 15 novembre scorso il Presidente della Repubblica ha dichiarato che egli “ha l’obbligo di dire al popolo che qui (in Albania; n.d.a.) è tutto finito con lo Stato del diritto”. Secondo il Presidente, se svanisse anche questo sforzo che lui stia facendo per difendere la Costituzione, e cioè se “il primo ministro e i suoi catturassero e controllassero anche la Corte Costituzionale”, allora al popolo rimangono soltanto tre scelte: “o prendere le armi”, cosa che è inaccettabile per il Presidente, o accettare la situazione e “sottoporsi ad una dittatura”, oppure “andare via dall’Albania”.

    In seguito, il 22 novembre scorso, il Presidente, durante una conferenza stampa, dichiarava che la Costituzione della Repubblica d’Albania “si sta palesemente e violentemente calpestando, con un solo scopo: quello di concentrare tutti i poteri nelle mani del primo ministro attuale”. Secondo il Presidente, in Albania “il governo non rende conto a nessuno” e che “il potere esecutivo è [ormai] unificato con quello legislativo”. E per di più, il Parlamento sta violando palesemente la Costituzione, diventando così lui stesso un’istituzione anticostituzionale, perché da qualche mese non ha più la possibilità di avere 140 deputati, come prevede la Costituzione. Però nel frattempo il Parlamento ha approvato più di venti leggi, non decretate dal Presidente della Repubblica, perché giudicate come anticostituzionali e che impattano vistosamente con l’interesse pubblico. E visto che ormai sta diventando consuetudine che in Parlamento si approvano delle risoluzioni che non hanno potere obbligatorio, ma servono soltanto da facciata per la propaganda governativa, il presidente della Repubblica ammoniva il 22 novembre scorso che “L’Albania non si governa con le risoluzioni, ma soltanto con la Costituzione!”. Durante la stessa conferenza stampa, considerando con la massima responsabilità istituzionale l’allarmante situazione, il presidente della Repubblica ha dichiarato che egli chiederà “l’appoggio di tutto il popolo albanese tramite un Referendum per difendere la Repubblica”! Perché, secondo il Presidente, “sarà il popolo albanese, e soltanto lui, a decidere se accettare di ritornare alla dittatura, oppure di difendere la democrazia”. Il Presidente è convinto che con il Referendum il popolo si può esprimere direttamente e consapevolmente e che la decisione diretta del popolo è al di sopra di ogni altra decisione. Una proposta, quella del Referendum, che il Presidente sta articolando in questi ultimi giorni sempre con più determinazione e forza. Venerdì scorso ha promesso che oggi tratterà dettagliatamente questo argomento, in modo che tutti i cittadini possano capire meglio e rendersi responsabili del loro potere. Di fronte a queste forti e dirette accuse, la reazione del primo ministro e/o dei suoi ubbidienti e sottomessi luogotenenti rimane sempre la solita: battute banali in politichese, cercando, come di consuetudine, di schivare le dirette responsabilità istituzionali e/o personali.

    Durante questi ultimi giorni il Presidente della Repubblica, oltre al primo ministro e alcuni alti dirigenti delle istituzioni del sistema “riformato” della giustizia, ha accusato, senza mezzi termini e come mai era accaduto prima, anche i soliti e ben presenti “rappresentanti internazionali”. Sia quelli diplomatici che quelli delle istituzioni internazionali, soprattutto le rappresentanze in Albania dell’Unione europea e dell’OSCE (l’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa). Per il Presidente loro sono diventati degli “stracci nelle mani del primo ministro”. Proprio essi, che con il loro operato, in palese violazione della Convenzione di Vienna, hanno dimostrato di essere semplicemente dei “corrotti”, dei “pagliacci internazionali”, “ridicoli” e “buffoni”. In più il Presidente, con una lettera ufficiale ha informato l’Ufficio dell’Assemblea Parlamentare dell’OSCE, dando anche le sue spiegazioni, che dal 18 novembre 2019 il loro rappresentante in Albania “non era più benaccetto presso l’Istituzione del Presidente della Repubblica”.

    Sono stati proprio loro, i soliti “rappresentanti internazionali”, che hanno, in vari modi, aiutato il primo ministro a “personalizzare” la riforma della giustizia, facendola diventare, nolens volens per loro, un’impresa fallita nel suo obbiettivo primario e fondamentale. E cioè una riforma che doveva garantire la divisione definitiva e l’indipendenza del sistema della giustizia dagli altri poteri, nonché a renderlo “insensibile” da qualsiasi influenza e/o ubbidienza politica. Invece e purtroppo è successo proprio il contrario. Grazie anche al sempre presente appoggio pubblico dei soliti “rappresentanti internazionali” al primo ministro, nella sua irresponsabile e pericolosa corsa verso la restaurazione di una nuova dittatura. E grazie anche a loro adesso, fatti alla mano, il primo ministro controlla tutto. L’ultimo baluardo, l’ultima roccaforte da prendere è ormai la Corte Costituzionale. E con essa anche alcune altre istituzioni del sistema della giustizia, ancora da costituire, come previste dalla “Riforma”.

    Nel frattempo, i soliti “rappresentanti internazionali”, per giustificare il loro fallimento totale con la “Riforma” del sistema della giustizia, hanno dichiarato e dichiarano “successi” inesistenti. Loro stanno cercando anche di giustificare i tanti milioni, in Euro e/o dollari statunitensi, che è costata per i cittadini europei e per quelli oltreoceano la “riforma”.  Purtroppo quanto loro stiano facendo, non solo li rende sempre più ridicoli e incredibili, ma grava anche sulla credibilità delle istituzioni che rappresentano, soprattutto quelle europee.

    Chi scrive queste righe, visto anche quanto sta accadendo in queste ultime settimane, valuta che tutte le persone responsabili, non solo in Albania, dovranno, unite, far fronte e bloccare ogni ulteriore tentativo del primo ministro di controllare totalmente il sistema della giustizia. Egli è convinto che bisogna fare tutto il possibile per impedire che ciò possa realmente accadere. Impedire anche ai soliti “rappresentanti internazionali” di diventare delle stampelle in sostegno del male, in cambio di chissà cosa. Aveva ragione Karl Popper: non c’è nulla sotto il sole di cui non si possa abusare e di cui non si sia abusato.

  • In attesa di Giustizia: vite in pericolo

    Recentemente sono stati pubblicati i dati forniti dall’INAIL  relativi agli infortuni sul lavoro che consegnano numeri allarmanti per uno dei Paesi più industrializzati del mondo che dovrebbe avere a cuore la salute dei lavoratori e disporre di strumenti e risorse per marginalizzare i rischi collegati alla igiene e sicurezza sul luogo di impiego: 1.218 incidenti mortali nel 2018 – cui si sommano quelli con lesioni di varia entità, anche molto gravi – e già 685 nei primo otto mesi del 2019 a fronte di oltre 400.000 denunce per infortuni e malattie professionali, 17.000 mila decessi negli ultimi dieci anni: un bollettino di guerra.

    Landini, nell’occasione, non ha mancato di lamentare la mancanza di presidi normativi in materia, la cui dislocazione sarebbe opportuna con finalità preventive e dissuasive rispetto ad una minore attenzione dedicata tanto alla formazione del personale, quanto alla cura degli ambienti di lavoro ed – ovviamente – alla dotazione di adeguati dispositivi di protezione individuale.

    Il ragionamento di Landini non è del tutto condivisibile fatta la doverosa premessa che è inaccettabile una media di quasi tre caduti al giorno sul lavoro: il che segnala inequivocabilmente che qualcosa, più di qualcosa, si registra in termini di carenza nel delicato settore della sicurezza frutto probabilmente di risparmi delle imprese nella formazione, nell’utilizzo di mano d’opera a basso costo ma non specializzata,  e della fornitura delle protezioni (caschi, guanti, occhiali, cinture di sicurezza, mascherine ecc.), inadeguata preparazione degli addetti alle mansioni più a rischio, scarso presidio dei responsabili.

    Il sindacalista ha ragione anche nel rilevare che il numero degli Ispettori del Lavoro è inadeguato essendosi dimezzato negli ultimi anni senza che si sia provveduto ai rimpiazzi ma una normativa che potrebbe svolgere una funzione utile esiste già ed è prevista dal decreto legislativo 231/2001 che prevede, oltre alla già prevista responsabilità penale di imprenditori e addetti alla sicurezza, quella dell’impresa in cui si siano verificati infortuni mortali o con conseguenze lesive gravi per colpa nella organizzazione ed in particolare proprio per avere conseguito vantaggi economici risparmiando nei modi descritti.

    La disciplina è molto severa, prevede che l’accertamento delle colpe dell’impresa sia affidato alla magistratura penale e che le sanzioni possano essere molto severe, principalmente di natura economica senza la possibilità di avere sconti  o di evitare di pagare una volta intervenuta la condanna.

    Il punto è che, misteriosamente, l’A.G. applica molto di rado il decreto legislativo 231/01 sebbene preveda la responsabilità delle aziende anche per altri reati di comune commissione da parte dei suoi manager/dipendenti, come la corruzione: basti dire che nel 2017 la Sede Giudiziaria che ha applicato il numero maggiore di volte questa legge (soprattutto in occasione di crimini contro la Pubblica Amministrazione) è stata quella di Milano in 27 casi e ci sono Tribunali dove in quasi vent’anni non è stata mai applicata, come a Treviso, nell’operoso Nord Est. Si dirà, come mai? Le ragioni sono diverse ma quella fondamentale risiede nel fatto che l’azione contro le imprese – che sono persone giuridiche – non è di natura penale (che sarebbe vietata dalla Costituzione) e, quindi, obbligatoria ma è a carattere amministrativo, come tale eludibile.

    Resta quasi isolata l’iniziativa giudiziaria nella tragedia torinese che colpì i lavoratori della Tyssen, ormai alcuni anni addietro.

    E siamo, dunque, alle solite: le leggi ci sono, basta applicarle senza ricorrere a nuovi strumenti o prevedendo innalzamenti di pene. Una normativa che colpisce l’azienda è sicuramente più efficace del codice penale che tocca solo singole persone fisiche, sostituibili e – a volte – sacrificabili: se ne faccia uso  e l’attesa di Giustizia non sarà vana.

     

  • In attesa di Giustizia: Roma caput mundi

    La notizia sarà probabilmente sfuggita ai più ma nei giorni scorsi, a Roma, ancora a Roma, si è annotato un episodio particolarmente grave: sono state intercettate conversazioni telefoniche di un avvocato in spregio del diritto assoluto alla riservatezza che assiste il rapporto tra il professionista e il cliente. Tranne che non siano presunti complici…ma non è questo il caso.

    La regola vuole che in queste situazioni gli addetti all’ascolto interrompano la captazione e che quanto eventualmente già registrato sia espunto dagli atti di indagine e – comunque – non sia utilizzabile. Invece, no: si è andati avanti e senza porsi alcun problema e, anzi, le conversazioni sono state trascritte e per non farsi mancare nulla anche commentate in una informativa finale della Polizia Giudiziaria che ha persino offerto considerazioni opinando che, in quei colloqui, l’indagato apparisse preoccupato.

    La dinamica delle intercettazioni vuole che le stesse – salvo deroghe autorizzate da un giudice – siano eseguite presso gli impianti in dotazione alle singole Procure e presso di esse installati: ciò per assicurare una più agevole supervisione da parte dell’Autorità Giudiziaria di un metodo di indagine tecnica molto invasivo al fine di evitarne abusi. Autorità Giudiziaria, il Pubblico Ministero nello specifico, che poi riceve costanti aggiornamenti dagli agenti sull’esito degli ascolti, i brogliacci, le annotazioni di servizio; Autorità Giudiziaria che in questo caso (purtroppo non è l’unico divenuto noto) si è serenamente disinteressata di arginare una gravissima violazione del codice di procedura e del diritto di difesa come postulato dalla Costituzione.

    Sarà perché ormai dobbiamo considerarci tutti, in qualche modo, sotto intercettazione e, perciò, sfuma il disvalore dell’invasione nella sfera privata? Telecamere, carte di credito, bancomat, palmari, navigatori, telepass, persino le carte fedeltà dei supermercati tracciano ormai ogni momento della quotidianità e raccontano dove si è stati, cosa ci piace, cosa si è fatto, con chi e per quanto tempo. Tuttavia, se c’è un presidio rigoroso a garanzia di un diritto così sensibile come quello di difesa, la indifferenza di chi dovrebbe assicurarne il rispetto allarma e – senza dimenticare che sono moltissimi coloro che svolgono le loro funzioni con lealtà, competenza e impegno – contribuisce ad un calo di fiducia nella Magistratura.

    Sono passati i tempi degli striscioni che, per le strade di Milano, inneggiavano a Di Pietro e anche L’Italia dei Valori, figlia di quel consenso, sembra essersi disciolta.

    Un recente sondaggio Ipsos rileva che a seguito della vicenda Palamara/CSM solo un italiano su tre (35%) dichiara di aver fiducia nella Magistratura mentre il 55% non ne ha: escludendo coloro che non esprimono un giudizio è il valore più basso di sempre.

    In un sistema che, come ricorda il titolo di questa rubrica, non garantisce certo il massimo dell’efficienza non si sentiva certo il bisogno di un danno reputazionale che investe l’intero settore compromettendone la credibilità e alimentando per il futuro il dubbio che le regole siano fatte per essere infrante o che una qualsiasi inchiesta o sentenza che coinvolga uno o più politici possa essere considerata dall’opinione pubblica come frutto di un conflitto tra poteri dello Stato.

    Insomma, ci mancava solo che l’attesa di Giustizia si trasformasse, potenzialmente, in attesa di ingiustizia.

  • In attesa di Giustizia: adelante Pedro, con juicio

    Il titolo di questa rubrica sottende che tratti problematiche che affliggono in forma endemica il nostro sistema giustizia: da una normazione sciatta e disorganica, passando per decisioni giudiziarie quanto meno singolari, effetti perversi di pulsioni sociali e – naturalmente, parlando di attesa – di tempi.

    La Costituzione, facendo proprio un enunciato dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, ha previsto il principio di ragionevole durata del processo: ottima cosa, tanto è vero che con la legge 89/2001, nota come “legge Pinto” dal nome del Parlamentare che ne fu estensore,  è stato previsto il diritto a richiedere allo Stato un’equa riparazione per il danno (patrimoniale o non) subito per la irragionevole durata del processo. Si è così introdotto un ricorso interno, di competenza delle Corti d’Appello che deve avviarsi prima di eventualmente rivolgersi alla Corte di Strasburgo.

    Difesa corporativa, tutela delle casse dello Stato perennemente esauste? Fatto sta che alla applicazione della legge sono state opposte iniziali resistenze e sono stati ri-appellati i singoli casi alla CEDU per disapplicazione dei parametri di una materia disciplinata a livello convenzionale; infine è dovuta intervenire la Cassazione stabilendo che i giudici nazionali devono applicare i criteri di Strasburgo nel valutare i ricorsi proposti in base alla legge Pinto.

    Con il c.d. “Decreto Sviluppo” risalente al Governo Monti, successivamente, è stata anche semplificata la procedura del ricorso in sede nazionale e precisato un tetto oltre il quale la durata del processo deve considerarsi irragionevole: sei anni complessivi per i tre gradi di giudizio.

    Con la legge di Stabilità del 2016 sono stati, inoltre, fissati  gli indennizzi…ed in termini non certo generosi: da un minimo di 400 ad un massimo di 800 euro per anno o frazione di anno superiore ai sei mesi eccedenti il termine di “ragionevolezza” con possibilità di aumenti fino al 40% a seconda dello sforamento del tempo limite.

    Insomma, se proprio si deve lavorare sulla interpretazione degli aggettivi, quei tetti di indennizzo più che equi  appaiono miserabili.

    Ciononostante, con una decisione recentissima, la Corte d’Appello di Napoli ha rigettato totalmente una richiesta risarcitoria ai sensi della legge Pinto proposta da due avvocati coinvolti a titolo personale in un giudizio che solo tra primo e secondo grado di giudizio è durato nove anni. La motivazione? E’ sotto due profili, uno più inquietante dell’altro.

    Il primo è che i ricorrenti hanno lo studio in una zona elegante di Napoli e – di conseguenza – sono presuntivamente ricchi. Il sottinteso è che non avrebbero bisogno di alcun indennizzo. Come se qualche biglietto da cento euro possa cambiare la vita di chiunque…la ratio della disciplina è certamente un’altra e si fonda su una questione di principio.

    Il secondo esplicita una volta di più come al peggio non ci sia limite: trattandosi di avvocati sono abituati alle lungaggini processuali e non avrebbero neppure dovuto proporre ricorso.

    Adelante Pedro, cum juicio, potremmo dire richiamando un passo celebre dei Promessi Sposi: l’efficienza del sistema giustizia può essere stimolata, anche dettando criteri temporali certi per mettere un punto fermo sulla ragionevole durata del processo. Ma senza esagerare.

  • In attesa di Giustizia: passatempi costituzionali

    Chi ha la pazienza di seguire questa rubrica ben sa che la Costituzione ed il suo rispetto sono un riferimento costante e quando si parla di qualche intervento sulla Carta Fondamentale dello Stato vengono i brividi freddi: culmine della preoccupazione fu l’ampia riforma a trazione renziana, fortunatamente abortita in sede referendaria.

    Ora, spigolando qua e là tra i disegni di legge in gestazione, emerge dai lavori parlamentari una proposta di modifica dell’articolo 111, quello – per intendersi meglio – che regolamenta il cosiddetto “giusto processo”: ed è già un po’ inquietante che si sia sentito il bisogno di enunciare come principio cardine dell’ordinamento quell’equità che del giudizio dovrebbe essere una componente ovvia e naturale. Quando tale intervento fu fatto a fine millennio, peraltro, c’erano delle ragioni sulle quali non è necessario oggi dilungarsi, il legislatore fece un saggio copia e incolla dell’art. 6 della CEDU e nessuno ha avuto sino ad ora da lamentarsi.

    Il 4 aprile, di iniziativa dei Senatori Patuanelli e Romeo, è stato comunicato alla Presidenza della Camera Alta una proposta di integrazione dell’art. 111 composta da due soli commi, eccoli:

    Nel processo le parti sono assistite da uno o più avvocati. L’avvocato ha la funzione di garantire l’effettività della tutela dei diritti e il diritto inviolabile della difesa. In casi tassativamente previsti dalla legge è possibile prescindere dal patrocinio dell’avvocato, a condizione che non sia pregiudicata l’effettività della tutela giurisdizionale.

    L’avvocato esercita la propria attività professionale in posizione di libertà autonomia e indipendenza.

    Tutto scontato, penserà il cittadino privo di specifiche competenze tecniche, e avrebbe assolutamente ragione. Rimarrebbe forse un po’ sorpreso dalla riserva di legge sulla autodifesa ma anche ciò è già previsto in limitati casi come, per esempio, nei ricorsi al Giudice di Pace contro le contravvenzioni al codice della strada.

    Insomma, principi noti anche nelle discussioni da bar sport. Scrivono i Senatori proponenti che l’intenzione è quella di rendere espressi principi già impliciti nella Costituzione (l’allusione è all’art. 24, chiarissimo tra l’altro) ed enunciati chiaramente nell’Ordinamento della Professione Forense (art. 1 l. 31/12/2012 n. 247), ma anche in una Risoluzione del Parlamento Europeo (Atto P6_TA(2006)0108).

    E, allora, dov’è la novità, dove l’utilità? Mistero. Sembrerebbe di essere al cospetto di un innocua interpolazione e altro non sovviene per giustificare questa iniziativa di legge costituzionale che – tuttavia – comporterà laboriosi passaggi in Commissione e Aula: tempo che, forse, sarebbe meglio impiegare altrimenti, magari per dar seguito alle indicazioni del Capo dello Stato sulla necessità di colmare rapidamente lacune evidenti nella recente modifica della legittima difesa.

    In attesa di Giustizia, di leggi più comprensibili e utili, accontentiamoci di passatempi costituzionali.

  • In attesa di Giustizia: il conte Attilio

    Sapete da cosa si capisce se, in un incidente stradale, è rimasto vittima un cane oppure un avvocato? Nel caso dell’avvocato non ci sono tracce di frenata…è una delle freddure da cui si ricava – paradigmaticamente – l’impopolarità di questa categoria di professionisti sebbene la funzione dell’avvocato abbia un riconoscimento nella Costituzione laddove, all’art. 24 reca che la difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento, con ciò intendendosi qualsiasi genere di giudizio: civile, amministrativo, contabile, tributario piuttosto che penale.

    Ma tant’è: gli avvocati sembrano non godere di grandi simpatie, soprattutto negli ultimi tempi: si è levata per prima la voce del SINAPPE, che è il Sindacato di categoria della Polizia Penitenziaria, scagliatosi con un comunicato in cui si lamentano alcune recenti modifiche dell’Ordinamento Penitenziario che, tra l’altro, conterrebbero “un regalo agli avvocati finanziato dai cittadini col gratuito patrocinio” lamentando in particolare la facoltà data ai carcerati di richiedere un risarcimento per le inaccettabili condizioni detentive (stigmatizzate, peraltro, dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo) che sarebbe il frutto normativo avvelenato di un Parlamento in cui è massiccia la presenza dell’avvocatura, regista occulta di simili manovre volte a far proliferare l’attività della categoria remunerata, spesso e benevolmente, dal patrocinio concesso dallo Stato. Insomma, un lobbismo da cialtroni che agevola degli accattoni.

    Ma non basta e c’è di peggio: monta, infatti, la polemica – anche interna, a livello di compagine governativa –  in merito alla proposta di sospendere definitivamente il corso della prescrizione dei reati dopo il giudizio di primo grado e, a tacere delle criticità anche di ordine costituzionale (magari ci ritorneremo in dettaglio con un prossimo articolo) che conseguirebbero ad un siffatto intervento, gli epigoni della riforma non hanno perso l’occasione per parlare a sproposito e  per di più offendendo l’Avvocatura.

    Infatti un Senatore M5S, tale Urraro, ha affermato che la riforma porterà ad un abbreviamento dei processi perché gli imputati non avranno più interesse ad allungarne i tempi per arrivare alla prescrizione.

    Gli ha fatto eco e dato supporto il Guardasigilli Bonafede condividendone il pensiero ed aggiungendo che in questo modo si porrebbe finalmente un freno agli espedienti che – secondo lui –  gli avvocati azzeccagarbugli metterebbero in campo per conseguire il traguardo della impunità per i loro assistiti.

    Urraro e Bonafede sono avvocati, così almeno risulta dalla biografia di entrambi, e dovrebbero ben sapere due cose entrambi e tre il Ministro: che la percentuale in assoluto preponderante di reati estinti per  prescrizione si registra nella fase delle indagini preliminari, cioè quando il dominus assoluto del processo è il Pubblico Ministero; quest’ultimo – oberato di fascicoli – spesso opta per trascurarne alcuni a vantaggio di altri aventi maggiore priorità e lasciando così prescrivere reati peraltro bagatellari.

    Dovrebbero, poi, sapere che qualsiasi allungamento del processo causato dal difensore o dall’imputato genera già adesso  per legge la sospensione della prescrizione e – quindi – questi espedienti quasi truffaldini cui hanno fatto riferimento sono del tutto inutili a determinare l’estinzione del reato per decorso del tempo.

    Il Ministro, poi, spingendosi a definire gli avvocati azzeccagarbugli dovrebbe sapere – essendo lui stesso avvocato – che una simile aggettivazione, oltre che ingiustificata, è diffamatoria e dunque integra un reato.

    Bonafede, criticatissimo da più parti per questa infelice uscita,  si è poi scusato, ha spiegato che non voleva offendere e che la sua frase è stata equivocata.

    Sarà: all’apparenza – se la lingua italiana ha ancora un senso – spazio agli equivoci non se ne ravvedono e dopo queste infelici espressioni aggiunte agli impropri argomenti di sostegno alla proposta di legge viene piuttosto da pensare a quel Conte Attilio dei Promessi Sposi che, spavaldo ed arrogante altrove, alla tavola di Don Rodrigo esprimeva tutta la sua subalternità di fronte proprio ad Azzeccagarbugli.

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