Lira

  • La complessità negata

    Alle soglie del 2023 e come tutte le economie europee in forte difficoltà per le conseguenze della crisi energetica, la Gran Bretagna si presenta con un rapporto debito pubblico/Pil di  oltre il 100%.

    La Sterlina, storica valuta dell’ex impero coloniale, dopo la Brexit aveva perso circa il 10% per poi  recuperare grazie alla crescita della economia britannica che nel 2021 ha segnato un +6,5%.

    In queste condizioni di relativo equilibrio espresso dai fondamentali economici, il semplice annuncio della nuova Premier Litz Truss di un drastico abbassamento delle aliquote sugli utili d’impresa e della tassazione dei redditi ha determinato un crollo immediato della Sterlina del -5%. Contemporanea ha reso necessario l’intervento della Bank of England la quale ha acquistato fino a cinque miliardi al giorno di titoli dello Stato britannico per calmierare la bufera finanziaria espressione di una forte contrarietà alla sostenibilità finanziaria della politica annunciata dalla nuova leader. Il successivo ritiro da parte del Premier britannico di queste proposte ha riportato un minimo di serenità finanziaria.

    Si pensi ora ad uno Stato che abbia un debito pubblico pari a 2.775 miliardi di euro, con un rapporto debito pubblico e Pil al 152%, il quale abbia deciso precedentemente di ritornare alla Lira e quindi ottenere la agognata “sovranità monetaria”. Esattamente come per la Gran Bretagna, la reazione dei mercati si dimostrerebbe molto dura, basata solo sulla semplice analisi dei fondamentali economici (debito pubblico/spesa pubblica improduttiva/crescita economica/) del nostro Paese e non certo come espressione dei “poteri forti” invocati sempre a sproposito dal variegato mondo del sovranismo monetario. In più ora questo Paese, non più sostenuto da una valuta condivisa, si troverebbe nella medesima situazione della Gran Bretagna ma con aspetti maggiormente devastanti, assumendo i connotati del default argentino.

    Quanto accaduto al governo di Londra dimostra ancora una volta come il valore di una valuta nazionale non dipenda dalla cifra stampata sulla banconota. Il valore dipende dalla credibilità dello Stato di emissione valutaria riconosciuta dal mondo finanziario, al quale ci si rivolge per finanziare il debito pubblico, sulla base della valutazioni dei fondamentali economici nazionali.

    In questo contesto si rende ancora più ridicolo il mantra politico ed economico il quale indica, come fondamentale per la rinascita della nostra economia, una ritrovata autonomia o sovranità monetaria invece espressione di una banalizzazione del complesso sistema economico e finanziario  nel quale opera il nostro Paese.

    Non riconoscere una complessità contemporanea  indica chiaramente il ritardo culturale ed economico di chi continua a proporre improbabili ritorni alla Lira o peggio l’introduzione di valute parallele, da utilizzare nei rapporti con la Pubblica amministrazione.

    La complessità la si può anche ignorare, ma di certo non la si può negare.

  • La lira turca va a picco, Erdogan caccia il governatore della Banca centrale

    L’aveva messo a capo della Banca centrale di Turchia neppure un anno e mezzo fa perché seguisse i suoi dettami, abbattendo drasticamente i tassi d’interesse, definiti “la madre e il padre di tutti i mali”. E Murat Uysal, sino ad allora vice del rigorista Murat Cetinkaya, ha eseguito fedelmente. Ma di fronte alla peggiore crisi della lira turca da quando è al potere, Recep Tayyip Erdogan ha fatto fuori anche il suo uomo, ultimo capro espiatorio di un tracollo imputato di volta in volta a complotti internazionali e sabotaggi interni.

    Dall’inizio dell’anno, la divisa di Ankara ha perso circa un terzo del suo valore, toccando i minimi storici contro il dollaro e scavallando nelle scorse ore l’ennesima soglia simbolica delle 10 lire per 1 euro. Una caduta progressiva accelerata dall’ultima riunione di politica monetaria, il mese scorso, che ha lasciato invariato al 10,25% il tasso di riferimento, infliggendo l’ennesimo schiaffo alle attese degli economisti, che puntavano su un credito meno facile in cambio di maggiore stabilità. La situazione si è fatta allarmante, con l’inflazione ufficiale all’11,89% e molte imprese fortemente indebitate in valuta estera a rischio bancarotta. Ma la coperta sempre più corta non ha convinto il presidente turco a rinunciare alla sua campagna contro il “triangolo del diavolo di tassi d’interesse, tassi di cambio e inflazione”. E così dopo appena 16 mesi è arrivato un nuovo ribaltone. Alla guida della Banca centrale andrà il responsabile strategico del budget presidenziale Naci Agbal 52 anni, già ministro delle Finanze tra il 2015 e il 2018. È a lui che Erdogan affida la missione che appare sempre più impossibile di coniugare crescita ed equilibrio finanziario, mentre cresce l’allarme per il deficit delle partite correnti e il crollo delle riserve in valuta forte. Al fianco del presidente resta intoccabile il genero e super-ministro del Tesoro Berat Albayrak, che insiste nel negare ogni difficoltà. Anzi, assicura, la Turchia – dove non c’è mai stato un lockdown totale e un blocco del sistema produttivo – ha già iniziato la ripresa e beneficerà di un vantaggio competitivo dopo la pandemia di Covid-19. Un’ennesima scommessa azzardata con le prossime elezioni nel mirino, previste nel 2023. Ma per il primo test basterà attendere il 19 novembre, con la prima riunione di politica monetaria guidata dal nuovo governatore. I mercati attendono inquieti.

  • La politica monetaria e la depatrimonializzazione del risparmio

    Prima della creazione di un mercato globale successivo all’ingresso della Cina all’interno del Wto le politiche monetarie portate avanti dalle singole banche centrali nazionali, in concerto con la direzione politica governativa, potevano sortire degli effetti nel breve e forse nel medio termine.

    In questo senso basti pensare, a cavallo tra gli anni ottanta e novanta, alla svalutazione competitiva tanto richiesta dalla classe politica e dirigente che assicurava un “plus” all’export come semplice applicazione della svalutazione della lira. Nessuno allora, come del resto oggi tra i sostenitori del ritorno alla Lira, e di conseguenza ad una politica di svalutazione, prese in considerazione la depatrimonializzazione dei beni mobili ed immobili che venivano ovviamente espressi nella valuta soggetta alla perdita di valore (svalutazione).

    All’interno di un mercato globale, viceversa, le politiche monetarie che vengono portate avanti dalla Bce e dalla statunitense Fed si pongono l’ambizioso obiettivo di giungere ad un punto di equilibrio tra il sostegno alla crescita (quantitative easing, Ttlro e Tassi minimi) e, soprattutto in Europa, ad una copertura finanziaria e quindi alla sostenibilità del crescente debito in particolare dei paesi del Sud Europa.

    Il diverso esito di queste politiche monetarie sostenute dalla BCE e dalla Fed, riscontrabile tra Europa, dove la crescita continua a rimanere troppo bassa in rapporto all’immissione di nuove risorse finanziarie, e Stati Uniti risulta molto semplicemente in buona parte legato al raggiungimento dell’indipendenza energetica dell’economia statunitense.

    In Europa, tuttavia, questa politica monetaria fortemente espansiva della quale hanno beneficiato soprattutto gli stati a forte debito, come l’Italia, sta riportando ad una situazione paradossale relativa al risparmio, e di conseguenza per i risparmiatori, già evidenziata e simile ai tempi della svalutazione competitiva.

    I tassi negativi attraverso i quali determinati stati e aziende riescono a finanziarsi, se rappresentano un reale sostegno alla sostenibilità del debito sovrano per i primi e allo sviluppo per i secondi, tuttavia creano un danno patrimoniale per il risparmio privato. In altre parole, il valore nominale espresso in euro o altra valuta risulta sempre stabile ma all’interno di un eccesso di liquidità perde progressivamente valore in rapporto e come diretta conseguenza della immissione di nuove risorse finanziarie nel mercato. Prova ne siano le bassissime marginalità che le gestioni del risparmio privato riescono ad assicurare ai propri sottoscrittori.

    Quindi ogni politica monetaria presenta dei costi che non vengono mai valutati al momento della  propria introduzione, come negli anni ottanta e novanta avvenne per la svalutazione competitiva.

    Non  fu valutata la perdita di ricchezza complessiva legata alla depatrimonializzazione dei beni immobiliari e mobiliari espressi nella valuta oggetto della perdita di valore: la lira. Allo stesso modo ora la politica monetaria fortemente espansiva offre uno scenario, nel breve termine, di sostenibilità tanto al debito degli Stati quanto un minimo sostegno alla crescita economica finanziando le imprese, non tiene, tuttavia, in alcuna considerazione la perdita del valore del risparmio privato e soprattutto della propria redditività.

    Due esempi a distanza di quasi quarant’anni che dimostrano ancora una volta come la politica monetaria possa assicurare un approccio finanziario con un orizzonte vantaggioso solo ed esclusivamente nel brevissimo termine. I costi tuttavia di tale strategia monetaria si riverberano completamente all’interno del variegato settore del risparmio privato. La politica monetaria, in altre parole, rappresenta una scelta di minimo respiro i cui costi vengono scaricati interamente nel medio lungo termine sulle spalle dei risparmiatori. O ci si illude ancora che “stampare moneta” non presenti alcun costo come taluni ancora oggi affermano?

     

  • Il senso dello Stato

    Quale differenza passa tra una persona consapevole del ruolo istituzionale che ricopre ed un altrettanto convinto esponente del mondo accademico ma assolutamente irresponsabile in relazione agli effetti delle proprie dichiarazioni? 300 punti di spread che la nostra Borsa di Milano segna a causa proprio, e  non solo, delle polemiche tra l’Unione Europea ed  il governo in carica, ma anche e soprattutto per l’affermazione da parte di un esponente autorevole di questa maggioranza di governo circa l’intenzione di realizzare il Piano B, cioè l’uscita dall’euro rappresentata dallo schema teorico del ministro Savona inneggiato dal prof. Borghi.

    Le idee sono sempre una legittima espressione di intelligenza qualunque esse siano, ma proprio in rapporto alla figura istituzionale che una persona ricopre in un determinato periodo devono essere valutate anche negli effetti che possono causare per la Nazione per la quale si lavora e che ovviamente si rappresenta. Non comprendere questa differenza dimostra ancora una volta come la classe politica degli ultimi vent’anni (esattamente come quella attuale) non risulti in grado neppure di comprendere il valore simbolico e istituzionale che si rappresenta, ignorando gli evidenti effetti delle proprie dichiarazioni.

    La ribalta mediatica che offre una carica pubblica ed istituzionale, anche solo rappresentativa del governo in carica, non può limitarsi solo ed esclusivamente ad  un palcoscenico nel quale esprimere la propria opinione rinforzata dalla carica istituzionale o dall’essere ispiratore della maggioranza di governo. Questo privilegio in entrambi i casi inevitabilmente comporta anche degli obblighi di responsabilità nei confronti di quella nazione che questo palcoscenico ha offerto.

    In un paese normale, dotato di un minimo di sensibilità, le proprie idee invece di venire espresse in un momento di difficoltà come quello attuale, per gli evidenti contrasti con l’Unione Europea, troverebbero un secondo momento per la propria declinazione, una volta superata la crisi contingente. Questo atteggiamento di responsabilità può essere considerato “il senso dello Stato“, in altre parole, manifestazione della capacità ma anche della sensibilità istituzionale di valutare eventuali effetti, anche perversi e non voluti, provocati dalle proprie dichiarazioni e anteporre le priorità del proprio status alla propria idea. Viceversa, l’ennesimo comportamento irresponsabile di questo esponente politico dimostra ancora una volta come il declino culturale nostro Paese sia ormai irreversibile.

  • Sei mesi al gennaio 2019

    Solo sei mesi, questi sono gli ultimi sei mesi del 2018 in cui l’Italia potrà giovarsi del Quantitative Easing che ci ha permesso di vivere in assoluta sospensione dalla valutazione dei nostri parametri economici e finanziari, quindi in sospensione dalla realtà. Una situazione assolutamente anomala, nata dalla crisi finanziaria del novembre 2011 e protrattasi fino a tutto il 2018 e  che ci ha permesso di creare 346 (!) miliardi di nuovo debito pubblico non per finanziare la ripresa o fattori competitivi ma semplicemente per sgravi fiscali lasciando completamente inalterata le dinamiche della pubblica amministrazione che rappresentano il vero problema della mancanza di crescita italiana. E qualcuno ha pure il coraggio di affermare che l’Italia viveva in un clima di austerità imposto dall’Europa quando gli ultimi sette anni dimostrano essenzialmente come siano le modalità della spesa e non la spesa in quanto tale ad essere il problema italiano.

    In altre parole, esattamente come quando la Banca d’Italia finanziava il debito pubblico per legge (una visione tanto cara i nuovi sovranisti del ritorno alla Lira), dal 2011 in poi la Bce ha acquistato  a scatola chiusa e senza batter ciglio il nostro debito pubblico ad interessi progressivamente inferiori grazie all’inondazione di  nuova liquidità sui mercati finanziari. Una condizione favorevole ed assolutamente nuova dal dopoguerra ad oggi per i vari governi in carica che avrebbe dovuto spingere i governi Letta, Renzi e Gentiloni, grazie ai risparmi sul costo al servizio del debito, ad utilizzare appunto tali risparmi per la riduzione debito stesso. Invece di ridurre il debito il governo Renzi è riuscito addirittura a raddoppiare la velocità di crescita del debito pubblico rispetto al governo precedente: da 2230 euro/secondo ai 4463, sempre al secondo.

    Ora da dicembre, o meglio da gennaio 2019, il presidente Mario Draghi ha confermato che sospenderà il Q.E., magari riducendolo gradualmente aggiungiamo noi. Allora l’Italia tornerà sulla terra e verrà di nuovo sottoposta all’analisi dei fondamentali economici in rapporto alla sostenibilità del debito. In questo ritrovato contesto di normalità risulterà interessante capire e vedere chi finanzierà il nostro debito pubblico e soprattutto quali saranno gli interessi che verranno richiesti agli operatori finanziari, anche in considerazione del fatto che dall’otto giugno 2018 i titoli del debito pubblico vengono considerati più a rischio di quelli della Grecia!

    Un fatto di una gravità epocale che non ha suscitato nessuna reazione del mondo politico, sia espressione della maggioranza che dell’opposizione. Ancora oggi si illude il Paese parlando di  riforme relative alla flat Tax, al ritorno alla Lira, alla riduzione delle accise e al mantenimento dell’Iva attuale quando il contesto macroeconomico relativo alla sostenibilità del debito pubblico italiano si sta deteriorando davanti ai nostri occhi. Basteranno sei mesi per comprendere quale sia la reale situazione economico-finanziaria del nostro Paese che già ora viene percepito come a rischio in quanto i tassi di interesse sul finanziamento al nostro debito continuano a crescere.

    Logica conseguenza di questa situazione che si aggraverà progressivamente e renderà necessaria sicuramente, se non alla fine di quest’anno ma nei primi tre mesi all’anno successivo, una ulteriore manovra correttiva che permetta di trovare la copertura finanziaria per sostenere l’aumento dei tassi di interesse sul debito.

    Sei mesi. Solo sei mesi per il ritorno alla realtà economica ordinaria. Sei mesi che seguono vent’anni di ordinaria follia.

  • Il fattore competitivo della valuta

    Sono passati quasi ventisei anni da quella notte tra il 9 e 10 luglio 1992 durante la quale fu prelevato il 6 per mille da tutti quanti i conti correnti depositati presso il sistema bancario italiano dal  governo Amato, in crisi di liquidità e che non riusciva a stampare la carta e contemporaneamente svalutava la moneta italiana.

    In questo senso il confronto tra il debito pubblico di allora, espresso in euro, può indicare l’andamento nella gestione della spesa pubblica e le varie responsabilità diffuse. Nel 1993 il debito pubblico risultava essere di 959 milioni di euro e rappresentava in rapporto al PIL un andamento imbarazzante in quanto figurava, già nel 1992, al 98,6% per arrivare alla fine del 1992 al 105,5% ed esplodere durante il 1993 arrivando alla quota terribile del 115,7%.

    Questi ventisei  anni sembrano essere passati inutilmente, considerando il livello ma soprattutto i contenuti della polemica economica e politica che contrappone ancora oggi i favorevoli ai contrari alla moneta unica, cioè all’euro. Sembra incredibile come tutta la tensione intellettuale venga rivolta al fattore valutario, cioè al rapporto valoriale con le altre valute in circolazione, considerato ancora adesso dai sostenitori del ritorno alla lira come il fattore fondamentale per riacquisire competitività e rendere possibile un nuovo sviluppo e un miglioramento anche dei conti pubblici. Contemporaneamente ci si illude di riequilibrare in questo modo il rapporto tra PIL e debito pubblico che nel frattempo continua a crescere ad un ritmo di 4463 euro (8.641.573 lire per i sostenitori della lira) al secondo, una velocità che è raddoppiata rispetto a quella precedente con l’arrivo del governo Renzi .

    Sempre in ventisei  anni non si é riusciti ad elaborare una teoria ma soprattutto una strategia economica innovativa che potesse  individuare per il prossimo futuro uno sviluppo, anche sostenibile, del sistema economico italiano.

    L’errore di base che rappresenta un’incapacità imbarazzante da parte di chi sostiene queste discussioni viene rappresentato dalla mancanza di consapevolezza di un mercato globale che ha cambiato radicalmente tutte le leggi dell’economia e soprattutto gli effetti.

    In altre parole la politica economica, ma soprattutto la politica monetaria, ha perso ogni capacità di incidenza (se non nell’immediato periodo) come  di trasformazione di un proprio valore quale fattore competitivo. La globalizzazione permette di individuare ed acquisire i più diversi fattori competitivi e così di  inserirli nel ciclo produttivo, anche se appartenenti a sistemi economici distanti migliaia di chilometri, annullando  in questo modo qualsiasi effetto  stabile alla variazione valutaria. Questo non significa che un mercato nel quale il Made in Italy esporta le proprie eccellenze non presenti delle variazioni, anche sostanziali,  in relazione alla quotazione in rapporto al dollaro, per esempio, nel mercato degli Stati Uniti.

    Nell’arco degli ultimi anni, in presenza di un dollaro forte, evidentemente le aziende hanno potuto ottenere dei margini di contribuzione superiori che venivano viceversa limati nel momento in cui il dollaro aveva perso valore  nel rapporto con l’euro, costringendo le aziende stesse a diminuire i propri margini al fine di mantenere le quote e magari aumentarle anche solo di qualche decimale.

    La fotografia  del rapporto, nel caso specifico, tra euro e dollaro ha registrato nell’ultimo decennio delle oscillazioni notevoli legate soprattutto all’andamento delle due economie, statunitense ed europea, ma anche soprattutto in rapporto alle politiche nazionali come alle situazioni internazionali e all’andamento delle quotazione delle materie prime.

    Le profonde oscillazioni della valutazione e del rapporto tra euro e dollaro successivamente si possono osservare dal primo grafico, mentre il secondo, relativo all’andamento delle esportazioni unito a quello delle importazioni, dimostra senza possibilità di interpretazioni come le esportazioni, a parte il periodo tra il secondo semestre del 2008 e il 2009 (il massimo picco della crisi economico-finanziaria partita degli Stati Uniti ), abbiano avuto sempre una costante crescita. Un andamento relativo alla crescita costante delle esportazioni del sistema industriale italiano che va interamente attribuito  esclusivamente al merito delle aziende e  degli imprenditori come  delle professionalità  che operano all’interno di queste filiere che vengono apprezzate in tutto il mondo e che nonostante l’oscillazione della valuta riescono comunque sempre a strappare un aumento costante negli anni.

    Da questo  confronto dei due diversi andamenti evidenziati  dai grafici emerge evidente come la politica monetaria e soprattutto il fattore competitivo legato alla svalutazione presentino degli effetti minimali per quanto riguarda lo sviluppo, specialmente nel medio e lungo termine. Partendo quindi da questa  deduzione anche il concetto di valuta e della propria importanza all’interno di un sistema economico  dovrebbe non più venire considerata in rapporto al tasso di cambio con le altre valute internazionali.

    Il nuovo concetto di fattore competitivo legato alla valuta in un mercato competitivo e globale come quello attuale viene rappresentato dal concetto di “STABILITÀ”. Al pari dell’importanza che viene attribuita nella valutazione di un investimento al sistema  fiscale di un paese il medesimo concetto di fattore competitivo  viene riconosciuto alla stabilità di quella valuta di un determinato paese che può così assicurare nell’arco degli anni dell’investimento di programmare il Roe (Return of Investiment).

    Di conseguenza, in questo contesto ipercompetitivo di un mercato globale, il fattore valutario esce completamente dal concetto e soprattutto nell’aspetto applicativo come fattore scatenante una possibile ripresa economica. Viceversa la sua centralità viene riacquisita e intesa come elemento di stabilità nella valutazione e nella possibilità di elaborare investimenti e politiche economiche di sviluppo.

    Un concetto purtroppo sconosciuto ma talvolta addirittura negato da buona parte di quel mondo economico che ancora oggi crede nella politica monetaria ed affida la soluzione dei nostri problemi alla semplice applicazione dei principi monetaristici.

    Ventisei  anni sono passati dal 1992 e nel mezzo due crisi finanziarie, economiche ed  istituzionali, come quella del 1992 e del 2011, ma questi terribili episodi uniti alla crisi che attualmente il nostro Paese si trova a vivere non hanno avuto la forza di sviluppare alcuna nuova strategia economica che non fosse quella monetaria.

    Ormai il pensiero economico e le strategie che ne scaturiscono non sono frutto di analisi e valutazioni o pensieri economici, magari in evoluzione, in rapporto alla velocità con la quale il mercato si evolve sempre più rapidamente; le convinzioni in ambito economico altro non sono che l’applicazione di un’ideologia che di per se stessa, come la storia del novecento insegna, risulta  quasi sempre perversa. L’azzeramento del valore storico del ventesimo secolo, inteso anche come la base per la ricerca di nuove politiche anche in ambito economico, rappresenta in modo cristallino il declino culturale del nostro Paese.

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  • Granitiche illusioni

    Sembra incredibile come nessuno dei programmi presentati dai partiti alle prossime elezioni del  4 marzo tragga ispirazione dalle due maggiori economie mondiali come quelle statunitense e cinese.

    Probabilmente sarà passata inosservata la scelta del governo cinese di limitare le operazioni finanziarie dei gruppi nazionali al di fuori dei confini della Repubblica Popolare, con l’intenzione dichiarata ed evidente di mantenere e sviluppare gli asset interni in modo di favorire lo sviluppo dell’economia nazionale. Questa strategia tradotta in termini, o meglio, in parametri economici significa favorire le operazioni che dimostrino una ricaduta occupazionale o possano diventare un fattore competitivo per le aziende cinesi che competono nel mercato globale.

    Tra le righe emerge una posizione perlomeno dubbiosa riguardante il postulato del mercato assolutamente cara alla visione ultraliberista che vede automaticamente nel principio o nel postulato in base al quale tutto quanto fornisca reddito e dividendi agli azionisti un volano per lo  sviluppo economico generale. Paradossale in questo senso allora il giubilo della classe politica italiana quando i nostri asset risultano oggetto di acquisizioni, magari proprio da operatori cinesi, non comprendendo neppure il senso della perdita del controllo di questi importanti poli industriali logistici infrastrutturali ma anche immobiliari nella futura elaborazione delle strategie di sviluppo economico.

    In più  l’Italia prima l’Europa adesso hanno intenzione di togliere i dazi per esempio sul riso asiatico ponendo in ulteriore difficoltà settore della risicoltura a causa della concorrenza sleale, espressione dell’ effetto del dumping fiscale, normativo e igienico sanitario di cui godono i paesi asiatici.

    La sintesi di questi due aspetti, come la vendita di asset e l’apertura a prodotti espressione evidente di dumping,  è espressione della fede assoluta nella “filosofia o meglio dottrina economica” di matrice bocconiana – liberista che vede nella completa apertura dei mercati senza nessuna azione  compensativa ad equilibrare l’effetto dumping. Questa fede poi colpevolmente pone il trade come espressione massima della catena di creazione del valore quando invece risulta evidente come la filiera intesa nella sua articolata complessità di know how industriali e  professionali contribuisca in massima parte alla creazione del valore (anche culturale, come espressione della cultura contemporanea di una nazione). Viceversa, questa dottrina pseudo-liberista (che annulla i traguardi dello sviluppo economico, industriale e culturale occidentale) esprime un ulteriore limite quando indica nella ricerca di una maggiore produttività la chiave di lettura per compensare gli effetti devastanti del dumping sociale, normativo e retributivo.

    Tornando al contesto elettorale italiano poi si inseriscono le varie riforme fiscali le quali da una parte prevedono un abbassamento del cuneo fiscale di un punto all’anno, una scelta i cui effetti risultano assolutamente marginali relativamente invece ad una riduzione, anche minima, del carico fiscale sulle imprese. La scelta invece della riduzione del cuneo fiscale conferma e sottende la volontà della classe politica di mantenere il proprio potere che viene esercitato essenzialmente attraverso la spesa pubblica finanziata dal carico fiscale il quale con questa riforma rimane invariato. Logica conseguenza infatti ci indica che ogni riduzione del carico fiscale automaticamente determina una riduzione della capacità di spesa e di conseguenza di centralità della politica all’interno del perimetro economico.

    Se poi si aggiunge che parallelamente alla diminuzione di un punto di cuneo fiscale si obbliga l’azienda alla sottoscrizione di un fondo di compensazione per lavoratori disagiati del 0 5% si comprende chiaramente come questa cosiddetta riforma fiscale a favore delle PMI altro non rappresenta che il gioco delle tre carte che lascia sostanzialmente invariata la pressione fiscale.

    Evidentemente anche  in questo caso la politica seguita dalla amministrazione statunitense, che ha ridotto decisamente la Corporate Tax con effetti benefici sia per gli azionisti che per l’economia reale – avendo aumentato i dividendi per azione ma contemporaneamente avendo avviato una nuova politica di  bonus elargiti dalle aziende anche con nuove assunzioni, frutto di nuovi piani di investimento liberati dalla riduzione fiscale statunitense – non viene presa in considerazione.

     

    Viceversa il combinato tra flat tax e reintroduzione della lira con un disavanzo di oltre 68 miliardi che verrebbe coperto dall’ennesimo condono, questa volta fiscale (che la storia insegna come i risultati dei condoni siano sempre al di sotto delle aspettative) rappresenterebbe una miscela esplosiva in quanto il valore di una valuta viene stabilito in rapporto ai fondamentali economici del paese, alla stabilità economica, alla sua crescita unita alla gestione del debito e della spesa pubblica.

    La stessa politica monetaria tanto invocata (il vecchio sogno della svalutazione competitiva che viene indicato come la soluzione di ogni problema di crescita)  per giustificare il ritorno alla lira non trae alcun insegnamento dai risultati eccezionali ottenuti dalla economia svizzera la quale, a fronte di una rivalutazione del franco svizzero (e divenuto valuta di rifugio, quindi con un conseguente apprezzamento) lasciato libero di fluttuare sul mercato della banca centrale di Berna, ha comunque permesso risultati in regola per il 2016/17 relativi all’export. A dimostrazione, ancora una volta, che la politica monetaria ha un influsso minimo rispetto invece al ruolo attribuibile alla sintesi felice di una buona amministrazione pubblica che opera in favore delle PMI.

    In questo senso si ricorda sempre agli illustri economisti che mentre nel 2014 il debito pubblico cresceva ad un ritmo di  2100 euro al secondo, nel 2017 la crescita del debito pubblico risulta quasi raddoppiata, raggiungendo l’impressionante cifra di 4463 euro al secondo e portandosi ormai alla soglia dei 2300 miliardi di debito, ai quali ovviamente vanno aggiunti i 55 miliardi di deficit fuori bilancio che automaticamente fanno salire la somma, dal 2011, di 355 miliardi di nuovo debito.

    Un mix di fattori assolutamente esplosivi che andrebbero ad incrementare il costo del debito immediatamente dopo l’entrata in vigore di tali riforme azzerando in sei mesi il valore di tutti quanti i risparmi posseduti in lire.

    Una sintesi micidiale, anche in considerazione del fatto che dal 1996 al 2006 l’andamento dell’inflazione risulta in aumento del 40%  mentre la pressione fiscale dell’80%. Per cui, al di là della buona fede che deve essere assolutamente riconosciuta a tutti gli ideatori delle proposte di politiche economiche, rimane evidente che gli impatti di queste “strategie” non vengano considerati in un contesto internazionale nel quale i potenziali finanziatori del nostro nuovo debito chiederebbero sicuramente maggiori contropartite economiche in rapporto alla sottoscrizione del debito.  Anche perché comunque entro il 2018 sarà necessaria una manovra aggiuntiva di 30 miliardi di cui 18-20 per annullare l’aumento dell’Iva ed un’altra di circa 5 – 10 miliardi per far fronte alla crescita dei tassi di  interesse per sottoscrivere i titoli del nostro debito. Mai come ora le granitiche illusioni vendute dai programmi dei contendenti elettorali distolgono l’attenzione dalle vere problematiche relative al contesto internazionale nel quale il nostro paese si troverà ad operare qualsiasi sarà l’esito elettorale.

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