Milàn l’è semper un gran Milàn: così si dice per sottolineare una sorta di eccellenza della città in diversi settori; con la locale Procura, dai primi anni ’90, vanta anche il primato nel calpestare le garanzie degli indagati: i trucchetti per eludere il termine di durata massima delle indagini prevista per legge svolgendole a totale insaputa dei destinatari, fascicoli con un unico numero di registrazione iniziale creando una sorta di discarica per centinaia di notizie di reato in cui la difesa è di fatto impossibilitata ad orientarsi adeguatamente, il “gioco a nascondino” delle prove a favore degli accusati (quello che ha determinato l’incriminazione del Procuratore Aggiunto Fabio De Pasquale è solo il più noto) sono solo alcuni dei fantasiosi metodi con cui addomesticare i rigori della legge che, nel loro complesso, hanno preso il nome di Codice Ambrosiano, rimarcando una discontinuità rispetto al resto della penisola che tanto il carnevale quanto la Messa avevano già segnato.
L’ultima tendenza è quella di indagare gli avvocati nell’ambito degli stessi processi in cui sono impegnati nella difesa: ecco così, poco dopo il caso legato al difensore di Alessia Pifferi, una richiesta di interdizione all’esercizio della professione per un anno nei confronti di due professionisti, collegata ad un’inchiesta per traffico di stupefacenti nella quale risultano assistere alcuni dei presunti trafficanti.
Tale richiesta costituisce un attacco concentrico alle garanzie processuali, alla libertà dell’avvocato e all’esercizio del diritto di difesa che non sono generiche enunciazioni di principio ma canoni costituzionali.
Ai due sventurati è stato attribuito il reato di ricettazione che consiste nel fatto di chi riceve denaro o altri beni provenienti da reato per procurare a sé o ad altri un profitto e ne sono sospettati per aver ottenuto il compenso per l’attività professionale svolta da parte di soggetti che si presume commercino droga.
Impressiona per la sua natura l’ipotesi di accusa a carico di clienti che – probabilmente – non presentano il Modello Unico all’Agenzia delle Entrate ma che dire, allora, se la difesa riguardasse un manager imputato di falso in bilancio o un imprenditore con il vizietto della bustarella, piuttosto che il produttore di salumi che falsamente certifica l’appartenenza al consorzio “Prosciutto di Parma” (sì, può essere un reato anche questo): gli esempi si sprecano e qui si arrestano per questioni di brevità.
Fortunatamente, non solo a Berlino ma anche a Milano qualche giudice si trova ancora ed in questo caso il Giudice per le Indagini Preliminari cui era stata avanzata la richiesta l’ha rigettata con una motivazione ricca di riferimenti alla giurisprudenza, alle prove ed al buon senso laddove rimarca che il difensore dovrebbe addirittura rinunciare totalmente ai propri compensi allorquando l’assistito sia reo confesso.
L’iniziativa della Procura, al di là della condivisibile decisione del giudice chiamato a vagliarla, ha determinato una ferma reazione dell’Ordine degli Avvocati di Milano, della Giunta dell’Unione e della Camera Penale di Milano rimarcando la prassi giudiziaria in inarrestabile deriva da quei principi costituzionali, che la magistratura sistematicamente disattende con buona pace della “cultura della giurisdizione” alla quale si dice appartenere anche il pubblico ministero.
Emerge, viceversa una pericolosa assimilazione della difesa dell’indagato a quella del reato, se non ad una condivisione implicita di scelte criminali.
Novelli influencers del diritto e della pubblica opinione, è bene che i P. M. si rendano conto che sono lontani i tempi di Mani Pulite e delle manifestazioni davanti al Palazzo di Giustizia con i cartelli “Di Pietro, Davigo, Colombo, fateci sognare”, che la schiera dei loro followers si sta drasticamente riducendo e tra questi non mancano i giudici.