magistrati

  • In attesa di Giustizia: attacco alle garanzie

    Milàn l’è semper un gran Milàn: così si dice per sottolineare una sorta di eccellenza della città in diversi settori; con la locale Procura, dai primi anni ’90, vanta anche il primato nel calpestare le garanzie degli indagati: i trucchetti per eludere il termine di durata massima delle indagini prevista per legge svolgendole a totale insaputa dei destinatari, fascicoli con un unico numero di registrazione iniziale creando una sorta di discarica per centinaia di notizie di reato in cui la difesa è di fatto impossibilitata ad orientarsi adeguatamente, il “gioco a nascondino” delle prove a favore degli accusati (quello che ha determinato l’incriminazione del Procuratore Aggiunto Fabio De Pasquale è solo il più noto) sono solo alcuni dei fantasiosi metodi con cui addomesticare i rigori della legge che, nel loro complesso, hanno preso il nome di Codice Ambrosiano, rimarcando una discontinuità rispetto al resto della penisola che tanto il carnevale quanto la Messa avevano già segnato.

    L’ultima tendenza è quella di indagare gli avvocati nell’ambito degli stessi processi in cui sono impegnati nella difesa: ecco così, poco dopo il caso legato al difensore di Alessia Pifferi, una richiesta di interdizione all’esercizio della professione per un anno nei confronti di due professionisti, collegata ad un’inchiesta per traffico di stupefacenti nella quale risultano assistere alcuni dei presunti trafficanti.

    Tale richiesta costituisce un attacco concentrico alle garanzie processuali, alla libertà dell’avvocato e all’esercizio del diritto di difesa che non sono generiche enunciazioni di principio ma canoni costituzionali.

    Ai due sventurati è stato attribuito il reato di ricettazione che consiste nel fatto di chi riceve denaro o altri beni provenienti da reato per procurare a sé o ad altri un profitto e ne sono sospettati per aver ottenuto il compenso per l’attività professionale svolta da parte di soggetti che si presume commercino droga.

    Impressiona per la sua natura l’ipotesi di accusa a carico di clienti che – probabilmente –  non presentano il Modello Unico all’Agenzia delle Entrate ma che dire, allora, se la difesa riguardasse un manager imputato di falso in bilancio o un imprenditore con il vizietto della bustarella, piuttosto che il produttore di salumi che falsamente certifica l’appartenenza al consorzio “Prosciutto di Parma” (sì, può essere un reato anche questo): gli esempi si sprecano e qui si arrestano per questioni di brevità.

    Fortunatamente, non solo a Berlino ma anche a Milano qualche giudice si trova ancora ed in questo caso il Giudice per le Indagini Preliminari cui era stata avanzata la richiesta l’ha rigettata con una motivazione ricca di riferimenti alla giurisprudenza, alle prove ed al buon senso laddove rimarca che il difensore dovrebbe addirittura rinunciare totalmente ai propri compensi allorquando l’assistito sia reo confesso.

    L’iniziativa della Procura, al di là della condivisibile decisione del giudice chiamato a vagliarla, ha determinato una ferma reazione dell’Ordine degli Avvocati di Milano, della Giunta dell’Unione e della Camera Penale di Milano rimarcando la prassi giudiziaria in inarrestabile deriva da quei principi costituzionali, che la magistratura sistematicamente disattende con buona pace della “cultura della giurisdizione” alla quale si dice appartenere anche il pubblico ministero.

    Emerge, viceversa una pericolosa assimilazione della difesa dell’indagato a quella del reato, se non ad una condivisione implicita di scelte criminali.

    Novelli influencers del diritto e della pubblica opinione, è bene che i P. M. si rendano conto che sono lontani i tempi di Mani Pulite e delle manifestazioni davanti al Palazzo di Giustizia con i cartelli “Di Pietro, Davigo, Colombo, fateci sognare”, che la schiera dei loro followers si sta drasticamente riducendo e tra questi non mancano i giudici.

  • In attesa di Giustizia: fine pena mai

    Si è concluso il processo a carico di Alessia Pifferi accusata dell’omicidio della piccola Diana, sua figlia, e si è concluso secondo un copione che sembrava già scritto prima ancora che iniziasse e che accadesse l’imprevedibile con la inusitata ed opinabile scelta del Pubblico Ministero di indagare – ad udienze in corso e con grande risalto – il difensore dell’imputata e le psicologhe di San Vittore sospettate di aver alterato gli esiti della osservazione diagnosticando disturbi della personalità che avrebbero potuto condurre ad una sentenza quantomeno mitigata dalla infermità di mente.

    Ma il popolo italiano (quello nel cui nome sono, o dovrebbero essere, pronunciate le sentenze), animato dal vizio populista di reclamare la forca una decisione l’aveva già presa senza abbandonare quello di etichettare gli avvocati e senza bisogno di essere ulteriormente condizionati.

    Sola nelle scelte tecniche e strategiche cruciali, criticata, indagata, insultata e minacciata, Alessia Pontenani ha mostrato un impegno come difensore che richiama al ricordo le parole di Ettore Randazzo – un grande avvocato che ora non c’è più – riferite ai colleghi che assistevano i presunti assassini di un collega ucciso per non essersi piegato ai desiderata di una cosca. Quelle frasi intense e intrise di sensibilità sono tornate alla mente modificate ed attualizzate: “non la invidio: difende una madre accusata di avere assassinato la sua bimba. La invidio: sventola il vessillo della Toga, ancora più bello e orgoglioso quando svetta tra le avversioni e le ostilità”.

    L’avvocato Pontenani ha fatto del suo meglio, optando per una difesa tecnica per nulla banale e scontata che era ed è l’unica coerente con la logica e le prove: ha sostenuto che si trattasse di un caso di morte come conseguenza non voluta di altro reato. Se quella madre avesse voluto sopprimere la sua creatura, vista come un ostacolo alla sua quotidianità, lo avrebbe potuto fare in moltissimi altri modi e momenti, ma non vi è prova che fosse quella la sua intenzione. Scellerata, anaffettiva, libertina…della Pifferi si possono certamente dare giudizi molto severi che possono essere tenuti in conto come contributo non esclusivo nella misurazione della pena e solo dopo avere attribuito la responsabilità per fatti penalmente rimproverabili correttamente qualificati secondo i parametri della legge: e quello della piccola Diana non è un omicidio voluto ma la conseguenza dell’abbandono –(fatto spregevole, non v’è dubbio, ed è un reato infamante anche quello) per dedicarsi altrove al fidanzato del momento – circostanza eticamente riprovevole, nessun dubbio anche in ordine a ciò – e non era neppure la prima volta. Pessima cosa, ma non era mai successo niente in passato e per una persona affetta da evidenti deficit cognitivi pur non essendo una malata di mente è stato sufficiente per riprovarci “alzando l’asticella”.

    E la volontà di uccidere la bimba da cosa si ricava, dov’è la prova di quello che si chiama “dolo di intenzione”? Colpevole, ma di un crimine diverso dall’omicidio volontario che prevede comunque pene severe.

    Alessia Pontenani, sostenendo questa tesi giuridicamente sensata ha sicuramente fatto riflettere i due giudici togati, sicuramente ha non ha convinto i sei “giurati” che, esprimendo il proprio voto, hanno seguito percorsi argomentativi diversi, impressionati dal fatto in sé, dalla crudezza dei dettagli; e non è colpa loro se per nulla si intendono di sovrapponibilità della fattispecie concreta a quella astratta ai fini della qualificazione giuridica del fatto, elemento psicologico del reato, differenza tra dolo eventuale e colpa cosciente: questioni non sempre di agevole soluzione anche per i giuristi e complicatissime da chiarire in una camera di consiglio arroventata dalle emozioni, in una manciata di ore, con parole semplici.

    Alla fine, è parere del curatore di questa rubrica, ha prevalso la visione di una giustizia più da Stato Etico che da Stato di Diritto.

    La decisione della Corte deve, comunque, essere rispettata e se non condivisa la si appella. Indigna – invece – l’ondata di insulti e odio riversata sul difensore dalla solita accolita dei “leoni da tastiera” che, a modo loro, distinguono il mondo tra buoni e cattivi spostando l’asse dal mondo delle idee e del pensiero a quello degli schieramenti contrapposti.

    Alessia Pontenani che ha unicamente fatto il suo dovere non merita tutto questo come la sua assistita, forse, non meritava l’ergastolo: molti nemici molto onore, avrebbe detto qualcuno ma non è politically correct e, allora, a questo coraggioso avvocato sia dedicato in omaggio il pensiero di Bertold Brecht: “abbiamo scelto di sedere dalla parte del torto perchè da quella della ragione i posti erano tutti occupati”.

  • In attesa di Giustizia: chi tocca i fili muore

    E’ questo l’avvertimento affisso ai piloni che sorreggono condotte di elettricità ad alta tensione ed un analogo monito viene rivolto a chi si permette di far buon governo del diritto di critica nei confronti della magistratura; monito che – come i lettori possono constatare – scivola senza attrito sui binari della indifferenza della redazione de Il Patto Sociale.

    Da ultimo è capitato ad Ermes Antonini, ottimo redattore del Foglio, che si è permesso di esprimere il proprio pensiero su un paio di P.M. fiorentini già titolari di indagini tanto strampalate quanto grottescamente insistite.

    Basti dire che uno di questi ha imbastito per anni un’inchiesta su una fondazione supponendo che avrebbe costituito il travestimento di una corrente di partito creato ad hoc per eludere la disciplina sul finanziamento pubblico: si è perso il conto di quante volte la Cassazione, annullando sequestri a raffica, ha ribadito che si trattava di un’idea quantomeno bislacca; alla quarta tirata di orecchi si è aggiunta una decisione della Corte Costituzionale che riteneva illegittimo l’uso che aveva fatto delle intercettazioni di un parlamentare poiché prive di autorizzazione della Camera di appartenenza. Ma il magistrato ha proseguito imperterrito.

    Il Procuratore Capo di Firenze, mentre vengono preannunziate querele, ha chiesto che il C.S.M. apra una pratica a tutela del proprio ufficio perché il giornalista avrebbe fatto trasparire una volontà persecutoria. Forse avrebbe fatto meglio a riflettere sul fatto che siano taluni comportamenti dei sui sostituti a delegittimare la Procura. Un caso quasi affascinante di dispercezione della realtà, di inversione della logica delle cose.

    E dire che, solo una settimana, fa “Giustizia Insieme”, la rivista che si propone l’ambizioso progetto di realizzare una piattaforma di confronto tra avvocati, magistrati e studiosi del diritto, ha organizzato un convegno dedicato al sacrificio di Giacomo Matteotti nel corso del quale si è discusso civilmente di libertà della magistratura e dei criteri di valutazione della professionalità: peraltro, questo subitaneo fiorire di lamenti e querele di alcuni magistrati contro gli autori di articoli di stampa riportano alla dura realtà e quando si nega il diritto alla parola non tira una buona aria. Proprio Matteotti pagò con la vita, un pericolo che oggi fortunatamente non si corre ma anche la minaccia di una azione giudiziaria che si gioca sul “terreno amico” è qualcosa che fa a pugni con la democrazia e quella libertà che si invoca per se stessi: meglio sarebbe considerare che le critiche possono essere costruttive.

    Ciononostante, la magistratura sembra esserne impermeabile se non apertamente irritata, incapace di una seria autocritica come dimostrano le incredibili motivazioni (depositate in questi giorni) con cui la Corte di appello di Roma ha accolto la revisione di quel Beniamino Zuncheddu di cui la rubrica si è già occupata, riconosciuto innocente dopo oltre trent’anni di carcere.

    Neanche due parole di scusa (figurarsi) in quelle pagine in cui ritorna il  leit-motiv del colpevole che l’ha fatta franca e dalle quali traspare il fastidio di aver dovuto riaprire questa vicenda riconoscendo un errore giudiziario marchiano al quale si tenta, tuttavia, di trovare una giustificazione arrivando a sostenere che “la già esile speranza di poter pervenire ad una ricostruzione veritiera ed attendibile dello svolgimento dei fatti dopo trent’anni è stata gravemente pregiudicata dalla forte attenzione mediatica riservata a questa vicenda, tale per cui sono state divulgate disinvolte ricostruzioni dei fatti arricchite da discutibili commenti, giudizi personali, congetture, valutazioni unilaterali prive del dovuto contraddittorio (e quindi lacunose e parziali) che hanno inciso sulla genuinità dei testi, che invece avrebbero forse potuto offrire qualche spiraglio di verità se fosse stato lasciato libero il campo alla memoria di ciascuno di essi, non influenzata da narrazioni preconfezionate”.

    Si sarebbe, quindi, dovuto tacere e non vedere? Zuncheddu non avrebbe dovuto gridare la sua innocenza per trentatre anni? il Partito Radicale e la garante dei detenuti della Sardegna non se ne sarebbero dovuti occupare e i giornali – sempre dopo decenni di sofferenze – non avrebbero dovuto scriverne? È loro la colpa se si sono intorbidate le acque al punto che è “esile speranza” quella di pervenire a una ricostruzione “veritiera e attendibile”. Il fatto che non ci siano prove contro Zuncheddu, che quelle prodotte a suo carico siano state fabbricate, è responsabilità di tutti, ma non dei magistrati che hanno gestito indagini e processo. La Corte, mostrando di dubitare fortemente della innocenza, ha rimarcato che l’assai tardiva assoluzione di questo pover’uomo interviene per quella che una volta si chiamava insufficienza di prove, formula inopportunamente evocata laddove risultano effettivamente subornazioni dei testimoni, ma all’epoca dei fatti e da parte degli inquirenti sardi ed accertamenti investigativi quantomeno carenti. Tanto nessuno paga mai per errori ed orrori giudiziari, neppure davanti al C.S.M. dove la parola magica per addomesticare la giustizia disciplinare è “fatto di scarsa rilevanza” locuzione utilizzata con abitualità che vuol dire tutto e niente. Soprattutto niente e colpevoli che la fanno franca.

    Lasciate allora perdere le querele, le pratiche e a tutela ed al procuratore Gratteri che si chiede perché avere paura di lui e dei suoi colleghi il suggerimento è che si faccia seriamente e non retoricamente la domanda e si dia con serietà una risposta.

  • In attesa di Giustizia: alterum non laedere

    “Diciamo che le cose che vi dobbiamo chiedere le sappiamo già…vogliamo vedere che risposte ci date: se quello che voi ci dite non converge ve ne andate dritti in galera”, “Tua moglie lo sa cosa hai fatto? Tu, mo’ ti puoi alzare, te ne vai, e poi ci rivediamo tra un mesetto però in una diversa posizione: tu dietro le sbarre”, “Noi le vogliamo bene, ha visto che città stupenda è Trani? E noi vogliamo farla tornare però in galera e dal carcere c’è una vista spettacolare sul mare”.

    Questo intercalare, definito nell’accusa “con modalità intimidatorie, minacciose, irridenti ed irrispettose”, è quello con cui due schietti gentiluomini, i Pubblici Ministeri di Trani, Michele Ruggero ed Alessandro Pesce, interrogavano i testimoni, in particolare tre dirigenti di azienda approfittando del fatto che quali persone informate sui fatti non erano assistite da un avvocato come gli indagati: il tutto nell’ambito di un’indagine relativa a presunti appalti truccati e questi fatti risalgono al 2015. Ci sono voluti nove anni tra giudizio penale per violenza privata (condannati) e disciplinare per arrivare ad una sanzione definitiva sebbene le intimidazioni, di cui abbiamo dato un saggio molto riassuntivo, fossero addirittura scolpite nei verbali di interrogatorio.

    Parliamone: sei mesi di reclusione per il primo, quattro per il secondo e con la condizionale per entrambi; la sentenza disciplinare, invece, ha previsto due anni di sospensione per Ruggero e nove mesi per Pesce…nel frattempo sono solo stati trasferiti a Bari ed hanno continuato a svolgere le loro funzioni incassando ogni mese e senza ritardo il meritato stipendio. Al termine della sospensione, che sta per iniziare, saranno ulteriormente trasferiti uno a Torino e l’altro a Milano a fare, però, i giudici civili e riprenderanno a macinare promozioni con il semplice passare degli anni e con esse aumenti salariali.

    “Alterum non laedere”  è uno dei principi fondanti del diritto romano che sembra essere stato dimenticato proprio dai rappresentanti della legge e se è vero che l’Ordine Giudiziario non è costituito interamente da campioni come questi (o altri di cui questa rubrica ha narrato le gesta) e neppure da simpatici burloni come il Marchese di Popogna, la cui nobile figura è stata tratteggiata nel numero della settimana scorsa, un minimo comune denominatore caratterizza queste decine di casi che hanno provocato danni, a volte irreparabili, ai cittadini e di immagine al sistema giustizia: la lunghezza dei giudizi, con la quale vengono accompagnati verso sanzioni miti rispetto alle malefatte o ad una confortevole pensione quando il giudizio disciplinare non si conclude per “raggiunto limite di età” facendo salve liquidazioni da centinaia di migliaia di euro (ultimo stipendio, intorno ai 9000 abbondanti al mese, moltiplicato per almeno quarant’anni di servizio) e trattamento di quiescenza misurato sempre sull’ultima retribuzione.

    Allo sventurato Giudice Andrea Paladino, un galantuomo che ha subito una via crucis giudiziaria prima di essere assolto da accuse infamanti di corruzione (anche di lui e della sua vicenda umana si trovano tracce su questo settimanale), viceversa è stata avviata un’azione disciplinare che sta per concludersi ed è stata chiesta la radiazione. Radiato per non aver commesso il fatto: cosa ci sarà dietro questo scempio richiesto dal Procuratore Generale della Cassazione? Forse la non appartenenza ad una corrente della magistratura oppure ad una minoritaria? O, semplicemente, la condanna viene chiesta per non aver compreso il fatto? Mistero.

    A volte, invece, tutto fila via velocissimo come nel caso di Luca Palamara, destituito prima ancora che si concludesse l’indagine penale e dopo avergli mutilato la lista dei testimoni a difesa nel disciplinare mentre nel processo a Perugia una modifica delle imputazioni dell’ultimo momento ha consentito di patteggiare: cioè a dire, un altro giudizio evitando di ascoltare testimoni e – soprattutto – senza dare la parola a lui che nel frattempo aveva mandato clamorosi segnali di allerta pubblicando con Alessandro Sallusti due libri andati a ruba, trecentomila copie vendute solo del primo, nei quali scoperchiava il vaso di Pandora della magistratura…ma non del tutto, un po’ per volta fino ad essere zittito almeno nelle sedi in cui doveva rispondere da incolpato.

    Perché al clamore iniziale suscitato dall’affaire Palamara è seguita la consegna del silenzio? Una lettura postuma degli atti rivela una genesi quantomeno oscura di queste investigazioni e dei suoi sviluppi; e di chi era quella manina che ha guidato lo spegnimento del captatore informatico inserito proprio nel cellulare di Palamara e proprio in occasione di alcune conversazioni molto critiche? Un captatore informatico (o trojan che dir si voglia) inoculato nel telefono di Palamara in assenza dei presupposti di legge, così come era impalpabile l’accusa originaria di corruzione rivoltagli sulla cui debolissima struttura sono state inizialmente richieste le intercettazioni tradizionali. Sarà interessante ritornare su questi argomenti.

    Sembra di essere al cospetto di un generale regolamento di conti ed a pensar male si fa peccato (a volte nemmeno quello) ma non si sbaglia: l’unica certezza è che l’amministrazione della giustizia in questo sventurato Paese è un’area non sorvegliata della democrazia.

  • In attesa di Giustizia: il marchese di Popogna ed altre storie

    “Se per qualsiasi infermità giudicata permanente o per sopravvenuta inettitudine un magistrato non può adempiere convenientemente ed efficacemente ai doveri del proprio ufficio, è dispensato dal servizio previo parere conforme del Consiglio Superiore della Magistratura”.

    Fascisti, carogne, tornate nelle fogne! Sembra già di sentir tuonare la Giunta dell’ANM ma…ma questo non è il testo del tanto avversato disegno di legge che mira ad introdurre i test psico attitudinali, bensì il primo comma dell’articolo 3 del decreto legislativo n. 511/1946 che declina le Guarentigie della Magistratura, approvato su proposta e firmato dal Guardasigilli dell’epoca, Palmiro Togliatti. Ed è tutt’ora vigente.

    Le leggi ci sono e basta applicarle. Le Guarentigie non ne parlano ma i test psicoattitudinali appaiono indispensabili per darvi attuazione: con cadenza periodica oppure secondo le necessità nel corso della carriera; il testo licenziato dal Consiglio dei Ministri è sicuramente migliorabile e dovrebbe essere proprio l’ANM ad offrire utili contributi prendendo le mosse proprio dalle Guarentigie senza fingere di ignorarne le disposizioni più scomode; quanto alla opposizione, è il momento di ispirarsi, in generale,  al pensiero di grandi statisti del passato piuttosto che a quello di nuovi campioni della sinistra come Fedez e Sumahoro.

    Ed il Marchese di Popogna cosa c’entra in tutto questo? Sembra il titolo di un film di Alberto Sordi ma è il titolo nobiliare, per l’esattezza “Marchese di Popogna e dello Andirivieni” di un magistrato autoproclamatosi tale, che pretendeva di farsi chiamare “Marchese” dagli avvocati e si era fatto stampare biglietti da visita con tanto di corona a dodici perle, uno che fece proposta di nozze ad una giovane insegnante con il garbato approccio: “Signorina, siete bona e mi avete fatto eccitare”: fu sospeso dopo una visita medica disposta dal Capo del suo Ufficio ma solo per un anno…infine, dopo altri tre anni, si dimise ma solo a condizione (esaudita) di essere insignito del titolo di Commendatore della Repubblica al Merito.

    Vi sono molti altri esempi di appartenenti all’Ordine Giudiziario che, in virtù della garantita inamovibilità e della mancanza di test, prima di essere dispensati dal servizio hanno dispensato giustizia a modo loro per anni: ce ne sono voluti dieci al CSM per decidere il caso di uno che aveva accumulato un arretrato di quasi novecento fascicoli, mai esaminati, e che al concorso per la Polizia di Stato era stato scartato proprio perché, sottoposto ai test (in quel caso previsti) aveva evidenziato “fragilità emotiva”.

    Un altro ancora, ufficialmente dichiarato infermo di mente nel corso di un giudizio, prima che si concludesse l’iter per la destituzione, collezionando con il passar del tempo una promozione dopo l’altra, è andato a riposo per raggiunti limiti di età con il titolo onorifico di Primo Presidente aggiunto della Corte di Cassazione.

    C’è stato anche chi si era convinto che nel ristorante in cui si recava abitualmente gli mettessero i chiodi nella minestra e aveva denunciato il titolare. E che dire di quello che si aggirava per il suo tribunale gridando “A noi le belle femmine, schiaffoni per tutti” ed in udienza annunciava che “il santo ha detto che oggi sono schiaffoni per tutti”?

    Finiamola qui, sono solo alcuni dei molti esempi. Purtroppo l’infermità non può consistere (almeno per il C.S.M.) in semplici estri o bizzarrie ma deve essere conclamata come un irreversibile disturbo della personalità: senza i test ciò è di fatto impossibile perché nessuno psicoterapeuta si presterebbe a formulare una simile diagnosi in assenza di un quadro normativo che regoli la materia e con il rischio – in caso di errore – di essere chiamato a rispondere delle conseguenze.

    A gennaio si è concluso il reclutamento del Comando Subacqueo degli Incursori della Marina e su oltre 1.300 candidati meno dell’1% ha ottenuto il brevetto e la consegna del prestigioso basco verde dei COMSUBIN: tutti sono stati sottoposti a severi test tra cui quelli psicoattitudinali e nessuno – nemmeno tra le centinaia ritenuti non idonei – si è lamentato. Ma questa è un’altra storia.

  • In attesa di Giustizia: quando la giustizia è stupefacente

    Continua a tener banco la querelle sui test psico attitudinali per i magistrati e quel buontempone di Nicola Gratteri, Procuratore della Repubblica di Napoli, si è detto favorevole a condizione che vengano introdotti anche per altre categorie “a rischio” tra qui – neanche a dirlo – i politici e con l’aggiunta di alcol e narco test.

    La storia che stiamo per raccontarvi gli dà (in un certo senso) ragione e anche a chi, come chi scrive, sostiene che i test dovrebbero essere periodici e non solo somministrati al momento di entrare in servizio dopo il superamento del concorso. Accade in Calabria, proprio la terra in cui Gratteri è nato ed ha esercitato le funzioni per la quasi interezza della sua carriera, che un giudice sia stato appena riammesso in ruolo dopo una sospensione di un anno  seguita ad un certificato abuso di droga, cocaina ed anfetamine…e non era il primo provvedimento disciplinare inflitto a costui che, dal 2003 (sì, ventuno anni!) quando, ubriaco alla guida, ha anche percosso un passante: più volte segnalato per avere guidato in stato di ubriachezza e, per non farsi mancare nulla, di violenza e minacce nei confronti di appartenenti alle Forze dell’Ordine.

    Non vogliamo né possiamo giudicare: la evidente fragilità di quest’uomo, i problemi personali irrisolti che lo hanno condotto nel baratro delle dipendenze suggeriscono quella pietas di romana memoria…però è sconcertante che, a fronte di fenomeni di recidiva, gli sia stato consentito di proseguire nel suo delicatissimo ministero amministrando giustizia sotto i postumi di una sbornia o di qualche altra sostanza.

    I motivi di una deriva possono essere molteplici e la vita, poi, può essere crudele: solo per fare un esempio estremo torna alla memoria il caso di un grande giudice e giurista milanese che, alla fine degli anni ’70, andandola a trovare, trovò il cadavere fatto a pezzi a colpi di scure della anziana madre; il delitto rimase irrisolto, e divenne un alcolizzato: la umana comprensione non si discute, non fu destituito ma assegnato ad un ruolo (in collegio con altri due) nel quale non poteva nuocere ma, anzi, portare la sua esperienza e competenza che continuavano ad affiorare nei momenti di lucidità non infrequenti.

    Ed allora, Procuratore Gratteri, suvvia Presidente dell’ANM, è più responsabile riconoscere che i magistrati non sono superuomini e soffrono delle medesime debolezze e patologie di tutti, soprattutto di tutti coloro che devono giudicare; fu Davigo, negli anni ’90, a sostenere che i giudici sono il meglio della società ed i pubblici ministeri il meglio del meglio del meglio: infatti si è vista la fine che ha fatto.

    Per par condicio è giusto riferire che il Consiglio di Disciplina di Bologna ha di recente sospeso dalla professione un’avvocata che remunerava le sue praticanti (forse bisognerebbe definirle “aspiranti”) con generose righe di cocaina e questo accadimento consente di stagliare la differenza con il destino analogo di un magistrato: per un avvocato una lunga sospensione comporta non solo perdita di avviamento ma anche prestigio ed affidabilità pur senza sapere le ragioni del provvedimento perchè la selezione la fa il “mercato”, un politico è sottoposto al giudizio degli elettori mentre un magistrato è sostanzialmente inamovibile grazie, in buona misura, alla tradizionale indulgenza della Sezione Disciplinare del C.S.M..

    In questo quadro desolante, nei giorni di Pasqua, la splendida preghiera del penalista scritta dall’Avvocato Francesco Maisano di Bologna può aiutare ad alimentare la speranza in quella giustizia cui i difensori offrono un contributo essenziale:

    O Signore, Tu che hai detto “Beati i perseguitati a causa della giustizia” fai che io possa assolvere con spirito di fratellanza e carità il compito di difendere chi si affida a me; fai che sia, per chi mi cerca nel bisogno, quel che il Cireneo fu per te lungo la via dolorosa. Assistimi quando prenderò le ragioni di chi spera e lascia che io stesso speri in te quando la tua amorosa difesa mi salverà dal male.

  • In attesa di Giustizia: bene ma non benissimo

    Carlo Nordio ha preannunciato che questa settimana porterà in Consiglio dei Ministri la bozza di disegno di legge che prevede la somministrazione di test psico attitudinali per i magistrati che dovrebbero consistere sostanzialmente in una terza prova da sostenere dopo avere superato quelle scritte e l’orale del concorso.

    L’ Associazione Nazionale Magistrati, non c’è bisogno nemmeno di dirlo, strepita sostenendo che si tratti di una prova irragionevole e – forse – non ha tutti i torti seppure per ragioni diverse da una trasparente tutela della casta.

    In effetti – se quello nei termini riassunti sarà il criterio – la modalità è poco convincente: innanzitutto, se proprio si deve, sembrerebbe meglio che i test vengano somministrati prima di partecipare al concorso e non dopo per così evidenti ragioni che non vale neppure la pena di enumerarle: se, poi, il neo magistrato dovesse mostrare segni di un sopravvenuta inidoneità o squilibrio tutto ciò potrà ben essere rilevato durante il periodo di tirocinio da coloro a cui è affidato con le necessarie conseguenze.

    In secondo luogo, non è da escludere che una deriva psico fisica si possa verificare più avanti nel corso della carriera ed, allora, una soluzione maggiormente sensibile all’esigenza di garantire che il destino giudiziario dei cittadini sia affidato a magistrati compos sui può essere quella ipotizzata già molti lustri addietro da un avvocato piacentino, Carlo Tassi, e proposta senza fortuna nella sua veste di deputato del Movimento Sociale.

    Per quello che, con una certa frequenza, si annota in questa rubrica casi meritevoli di un check up non mancano e, del resto, è nella natura delle cose che un uomo possa subire un decadimento mentale o fisico che lo renda inabile a determinate mansioni: non c’è nulla di cui sgomentarsi, test analoghi sono previsti in altri Paesi come la Francia e la Germania, nel nostro li fanno i militari, gli appartenenti alle forze dell’ordine e nessuno si indigna se viene richiesto di rinnovare periodicamente la patente di guida o il porto d’armi: si tratta solo di prendere le misure necessarie a bilanciare il principio di inamovibilità dei funzionari pubblici prendendo le dovute distanze dal pur brillante pensiero espresso da Erasmo da Rotterdam nel suo “Elogio della follia”.

    Nel frattempo prende quota l’indagine della Procura di Perugia sugli accessi abusivi alle banche dati e il possibile “dossieraggio” ad opera di un militare della Guardia di Finanza distaccato alla Direzione Nazionale Antimafia e dal suo superiore, il P.M. Antonio Laudati: tra sussurri e grida, più che altro uno scaricabarile tra i personaggi coinvolti, spicca la scelta di quest’ultimo di avvalersi della facoltà di non rispondere all’interrogatorio  opportunamente disposto dal Procuratore Capo umbro, Raffaele Cantone.

    Lo abbiamo chiarito più volte: il diritto al silenzio per l’accusato è un canone costituzionale implicito nel secondo comma dell’articolo 27 ed espressamente previsto dal codice; essendo l’interrogatorio un atto di natura essenzialmente difensiva, ognuno ha diritto di difendersi come ritiene più opportuno, anche tacendo.

    L’esercizio di questo diritto spetta, ovviamente, anche a Laudati ma non è trascurabile il dettaglio che al silenzio di fronte a Cantone abbia fatto seguire la distribuzione, tramite il suo avvocato, di una nota scritta in cui, viceversa, risponde dettagliatamente alle contestazioni che erano state formulate nell’invito a comparire in Procura e che avrebbero costituito il fil rouge dell’interrogatorio senza trascurare qualche bordata all’indirizzo dell’allora Procuratore Nazionale…ed il trasferimento di una delicata fase investigativa, che dovrebbe essere scongiurato, dalle aule di tribunale alla stampa a “redazioni unificate” è servito.

    Bene ma non benissimo, anche questa settimana ed in attesa di giustizia le ombre sono più delle luci: non c’era da aspettarsi nulla di buono, particolarmente in periodo di Passione quando si celebra il ricordo del più clamoroso errore giudiziario della storia.

    Buona Pasqua a tutti.

  • In attesa di Giustizia: lo show dei record

    Ci sono primati da Guinness di cui si farebbe volentieri a meno ma tant’è, se non proprio celebrati, devono almeno essere documentati.

    Il merito, si fa per dire, questa volta va ascritto al P.M. anglo-partenopeo Henry John Woodcock, già campione europeo di competenza creativa ai tempi in cui era in servizio a Potenza quando, saccheggiando le riviste di gossip piuttosto che informative (peraltro inesistenti) della Polizia Giudiziaria diede vita alla celeberrima indagine nota come “Vallettopoli”: un feuilleton in salsa Dagospia, frantumatosi in rivoli investigativi distribuiti a manciate in diverse Procure della Repubblica che, dopo aver sbirciato dal buco della serratura delle discoteche alla moda cosa facevano nel tempo libero veline, calciatori, nani e ballerine, ha esitato qualche modesta condanna per piccole cessioni di cocaina ad uso “socializzante” ed, in compenso, uno sputtanamento ad alzo zero per fatti  totalmente privi di rilevanza penale.

    Ma è con l’indagine “CONSIP” che sono stati raggiunti risultati da pessima gestione investigativa posti su vertici che mai nessuno aveva mai osato scalare: tutti assolti gli imputati e condannati solo i responsabili delle indagini…game, set, match! Nemmeno quelle Procure che nascondono i testi a discarico, almeno per ora, erano riuscite a tanto.

    Qualche esempio può illustrare plasticamente la manettara approssimazione con cui è stato utilizzato il materiale raccolto, tra l’altro, invadendo l’esistenza dei cittadini con migliaia di costose quanto inutili intercettazioni: secondo Johnny Woodcock in una di queste – sfruttata come caposaldo dell’accusa – sarebbe risultato che in un’azienda fosse stato addirittura istituito il ruolo di “responsabile del crimine”, dunque un’impresa  a matrice esclusivamente delinquenziale.

    Da un magistrato bilingue ci si sarebbe aspettato di meglio: un riascolto dell’intercettazione ha chiarito senza lasciare spazio a dubbi che la funzione cui si alludeva era quella di “responsabile cleaning”, cioè a dire l’addetto alle pulizie. Ci sarebbe da ridere, tutti tranne Woodcock che all’evidenza, ha una conoscenza spannometrica anche dell’inglese, se non fosse che c’è chi sulla base di accertamenti tanto grossolani ha subito mesi di carcerazione come l’imprenditore Romeo: sei in galera ed altrettanti agli arresti domiciliari. Complimenti vivissimi anche al GIP che ha accolto le domande di arresto, per non parlare di quello che ha disposto rinvii a giudizio fondati su di un vuoto torricelliano…

    L’evanescenza dell’impianto probatorio, forse, era palese anche agli inquirenti e sin da subito tanto è vero che sono stati chiamati in soccorso i più fidati lacchè della carta stampata, con fuga pilotata di notizie che avrebbero dovuto restare riservate (inutile fare nomi delle redazioni destinatarie: possono facilmente immaginarsi e, comunque, risultano dalla sentenza): ecco, allora, i titoli cubitali e gli articoli copia e incolla di una informativa degli uomini di Woodcock contenente grossolane falsità.

    Su questa melma sono state scritte paginate di disinformazione e persino un libro; è uno Show dei record che fa inorridire ma non è finita: conclusa questa prima tranche  del processo a Roma, una seconda è ancora in corso a Napoli con immutati protagonisti ed interpreti e può immaginarsi con quale credibilità agli occhi del Tribunale, a tacere del fatto che il P.M. – sempre Enrico l’Inglesino – non ha più l’interesse a stabilire la verità ma quello di ottenere condanne per provare a salvare se stesso.

    E il C.S.M.? Tutto tace, mentre i cittadini si pongono delle domande: che garanzie si potranno mai avere se si dovesse diventare bersaglio in una delle sbilenche inchieste di un magistrato incorso in incidenti di percorso così gravi e senza precedenti nel mondo Occidentale? Se Roma piange, Sparta non ride ma questa è una piccola consolazione solo per la devastata Repubblica della Procura di Milano.

  • In attesa di Giustizia: terno, quaterna, cinquina?

    Anche questa settimana ci sarebbe più materia di commento di quanto lo spazio della rubrica – se non dell’intero Patto Sociale – possa ospitare: del trasferimento di Chico Forti per scontare la pena in Italia, sul quale si è mosso qualcosa che ha offerto più una concreta speranza, tratteremo senz’altro quando il nostro concittadino tornerà in Italia ma il Governatore della Florida ha già firmato il corrispondente provvedimento.

    A Lucca, salta fuori da un fascicolo una sentenza già scritta prima ancora che sia concluso il processo: non è una novità ma la dice lunga sulla insofferenza di ampie fasce della magistratura rivolta alla funzione difensiva vista più come un ostacolo che un contributo a rendere giustizia.

    A tal proposito, naturalmente, meriterebbe almeno qualche riga la vicenda milanese che vede una donna imputata di aver lasciato morire di stenti la propria bimba mentre trascorreva uno spensierato week end con il fidanzato del momento: storia orribile peggiorata dalla scelta inaudita del Pubblico Ministero di indagare il difensore e due psicologhe del carcere di San Vittore supponendo che abbiano cercato di pilotare gli esiti della perizia psichiatrica; detto francamente, non si fa così: si attende la fine del processo e con tutti gli elementi a disposizione si apre un altro fascicolo senza sollevare clamore mediatico ed il rischio di condizionare soprattutto i giudici popolari oltre che il perito nel frattempo incaricato dalla Corte. In Procura sono volati gli stracci, la P.M. coassegnataria, in aperto dissenso con il collega (da cui non era stata neppure informata della iniziativa) ha restituito la delega al Procuratore Capo e gli avvocati di Milano hanno proclamato una giornata di sciopero indicendo nello stesso giorno un dibattito dall’eloquente titolo “Il processo alla difesa, la difesa del processo”.

    Nel frattempo a Perugia, accompagnata dalla tradizionale fuga di notizie, si allarga l’indagine sul presunto dossieraggio commissionato non si sa da chi e finalizzato non si sa a che cosa ad opera di funzionari della Direzione Nazionale Antimafia con il coinvolgimento del P.M. Laudati. Ricorda un po’ lo scandalo Telecom di qualche anno fa (in quel caso il capro espiatorio fu Giuliano Tavaroli, responsabile della sicurezza dell’azienda, un altro che dei dossier non se ne sarebbe fatto nulla) e vedremo come andrà a finire.

    E, mentre a Brescia si apre la fase preliminare del processo di revisione a carico di Olindo Romano e Rosa Bazzi, il C.S.M., dando un buon esempio di cui questa volta non si sentiva il bisogno e ad una velocità sinora sconosciuta ha già comminato la censura a Cuno Tarfusser, il magistrato che aveva osato presentare la richiesta di revisione senza interpellare prima il suo superiore. Colpevole di lesa maestà per il mancato rispetto di bizantine circolari interne di cui non è nemmeno certa l’esistenza. Qualcun altro, per marachelle più sostanziose sta, invece, attendendo in pensione un pronunciamento dell’Organo di autogoverno che varrà meno della carta su cui è scritto: non luogo a sanzione perché non più appartenente all’Ordine Giudiziario.

    Tuttavia, la giustizia quando vuole trionfa: Marco Travaglio è stato condannato per una evidentissima diffamazione nei confronti dell’attuale Vice Direttore del TG1 Grazia Graziadei sebbene ci sia voluto un po’ di tempo, per l’esattezza quattordici anni. Anni serviti per vedere uscire prima il terno sulla ruota di Roma con tre sentenze consecutive di assoluzione in udienza preliminare ed altrettanti annullamenti dalla Cassazione.

    Solo al quarto tentativo c’è stato un rinvio a giudizio ma non è bastato: condannato in primo grado, l’assoluzione è arrivata in appello ma ha subito un ulteriore annullamento della Cassazione (roba da Guinness dei primati) e nel giudizio di rinvio vi è stata una nuova condanna…non ancora definitiva.

    La decisione è teoricamente ricorribile in Cassazione questa volta, facendo cinquina, dal paladino della libertà di stampa che spesso confonde con quella di diffamare. Dunque, dopo quasi tre lustri, potrebbe non essere ancora finita e del resto come dicono gli americani “un bravo avvocato conosce la legge, un ottimo avvocato conosce i giudici” e la cricca del Fatto Quotidiano, autentico house organ delle Procure, li conosce molto bene tanto è vero che il pluripregiudicato Direttore continuerà a predicare la morale e la verità sulle colonne del suo giornale e nelle ospitate televisive senza che nessuno noti la stranezza di intere trasmissioni in cui i conduttori pendono dalle labbra di un diffamatore seriale.

    In attesa di Giustizia, noi de Il Patto Sociale, se anche dovessimo rimanere gli ultimi, andiamo avanti con il nostro sorriso ed il coraggio di raccontare e combattere.

  • Separazione delle carriere: se ne parlerà a Milano in occasione della presentazione del libro del Sostituto Procuratore Generale alla Corte d’Appello di Caltanissetta, Gaetano Bono

    Mercoledì 6 marzo 2024, dalle ore 15.30 alle ore 17.30, presso la Biblioteca “Avv. Giorgio Ambrosoli” al Palazzo di Giustizia di Milano sarà presentato il libro Meglio separate. Un’inedita prospettiva sulla separazione delle carriere in magistratura, del dott. Gaetano Bono, Sostituto Procuratore Generale alla Corte d’Appello di Caltanissetta, incentrato sulla divisione delle carriere dei Magistrati.

    Dialogheranno con l’autore l’Avv. Antonino La Lumia, Presidente dell‘Ordine degli Avvocati di Milano, il Dott. Fabio Roia, Presidente del Tribunale di Milano, il Dott. Marcello Viola, Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Milano, l’Avv. Valentina Alberta, Presidente Camera Penale di Milano, il Dott. Giuseppe Santalucia, Presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, l’Avv. Giovanni Briola, Consigliere Tesoriere dell’Ordine degli Avvocati di Milano. L’incontro sarà Introdotto dall’Avv. Daniele Terranova, Commissione Giustizia Tributaria dell’Ordine Avvocati Milano e moderato dall’Avv. Alessandro Mezzanotte, Consigliere dell’Ordine degli Avvocati di Milano.

    L’evento, gratuito, è organizzato dall’Ordine degli Avvocati di Milano attraverso la Fondazione Forense, nell’ambito del programma di formazione continua per gli Avvocati.

Pulsante per tornare all'inizio