May

  • Niente si muove per la Brexit

    Nessuna strategia credibile emerge dalla situazione creatasi nel Regno Unito dopo il voto contrario del 15 gennaio e il voto a favore della May del giorno dopo. I 432 “no” all’accordo ottenuto con l’UE non sono una bazzecola. Sono 230 voti in più del “sì”, una differenza enorme, che non lascia dubbi sull’atteggiamento del parlamento in ordine alle regole negoziate dalla May con l’UE per normalizzare l’uscita del Regno Unito dalle istituzioni europee. “Queste regole non ci convengono e bisogna cambiarle!” L’hanno detto gli oppositori del governo, ma anche più di un centinaio di deputati facenti parte della maggioranza governativa. Nessuno però ha fatto proposte specifiche di emendamento al testo dell’accordo. C’è quindi il rischio che si arrivi al 29 marzo, giorno previsto per l’uscita, senza nessun accordo. Che fare allora? Il parlamento ha invitato la May a presentare una mozione emendabile entro il 29 gennaio, cioè fra quattro giorni. Ma a che punto è la preparazione di questa nuova mozione? Essa dovrebbe contenere norme per garantire l’assenza di una frontiera fra l’Irlanda del Nord e la Repubblica d’Irlanda e permettere eventualmente al Regno Unito di usufruire dei vantaggi d’appartenenza all’Unione doganale con l’UE. Ma come sarà possibile ottenere nello stesso tempo una botte piena e una moglie ubriaca? Sarà la grande considerazione che si ha di se stessi di poter giungere a questo risultato contro ogni possibilità reale? O sarà che ai politicanti di lungo corso sarà permesso di raggiungere l’impossibile? Comunque sia, in tutti questo tempo che ci separa dal voto negativo del 15 gennaio non è emerso nulla che possa far pensare a una nuova strategia della May. Verrebbe da dire che anche prima del voto, le scelte della Premier hanno dato l’impressione di essere state subite. Era la situazione di fatto che le determinava, giustificate a posteriori come indicative della volontà di non deludere le aspettative degli elettori che si erano pronunciati in maggioranza a favore della Brexit. Il lungo e defatigante lavoro del negoziato con i rappresentanti dell’UE sembrava l’accettazione di un sacrificio per giungere al risultato voluto dagli elettori, senza tener conto degli interessi reali del RU. Mancano quattro giorni, dicevamo, e non si vede l’ombra di un piano B. I conservatori continuano a litigare. Una minoranza non lascia passare giorno senza scagliarsi contro la leader del loro governo e del loro partito. A che cosa mirino non si sa esattamente. Si sa che disturbano, che intorpidiscono le acque, che creano confusione. Mentre si sa invece che Corbyn, il leader dei laburisti, vuole la caduta del governo per andare ad elezioni anticipate, pensando di mettere a frutto per il suo partito le incongruenze, le incertezze, le divisioni dei conservatori. Sul fronte della Brexit tergiversa. Non vuole un’uscita senza accordo, ma non dice quale accordo vuole esattamente: con l’unione doganale o senza? Con la frontiera libera all’Irlanda del Nord o chiusa? Vuole una zona di libero scambio, o meno? Il silenzio su questi temi, che sono poi quelli dl negoziato con l’UE, è di regola. Nemmeno sulla possibilità di un nuovo referendum, come è stato chiesto da deputati del suo stesso partito, si è mai pronunciato. Che vuole, allora, effettivamente? I suoi critici lamentano che sia ancora legato ai miti ottocenteschi del marxismo continentale e che la sua visione della modernità sia bloccata da questi ceppi. Comunque sia, c’è poco da espettarsi anche da lui, perché senza una visione strategica anche il socialismo inglese non va molto lontano. E allora? C’è chi ha alzato grida di gioia per le dichiarazioni fatte dalla Regina Elisabetta, in occasione del pranzo di gala offerto ai Sovrani olandesi a Buckingham Palace, con le quali ha esortato a trovare un “terreno comune” e a “non perdere mai di vista lo scenario più ampio”. Parole interpretate come un velato riferimento all’uscita del RU dall’UE e al dibattito in corso nel Paese. Nessun riferimento diretto alla Brexit, ma questo discorso è stato letto come un monito nemmeno troppo velato, all’attuale situazione politica del Reno Unito, come un appello a scegliere la strasa dell’unità, del dialogo e del superamento delle divisioni, come valori guida consigliabili a tutti. Come sempre, anche su questo intervento, il primo dopo il risultato del referendum, le opinioni divergono e cercano di portare acqua al mulino di chi le esprime. Altro che unità! Su tutto ormai ci si divide! Figurarsi su un’opinione espressa dalla Sovrana, dopo che il suo equilibrato silenzio, aveva caratterizzato questi lunghi mesi di dibattito e di divergenze! E allora? Lo ripetiamo. Siamo ansiosi  di conoscere come andrà a finire. Ci sconcerta la mancanza di strategia su entrambi i fronti. Vorremmo sperare che fosse soltanto apparente questa mancanza e che invece i contendenti avessero un asso nella manica: rinvio della data d’uscita e nuove prospettive per il negoziato, senza escludere un nuovo referendum. Che prendano tempo i britannici. Se la Brexit è un problema loro, come abbiamo affermato in altre occasioni, se la risolvano in casa. Soltanto dopo potranno dirci, con certezza, se vogliono uscire o se vogliono restare. E sarà più semplice, eventualmente, un nuovo negoziato.

  • Sempre più complicata la situazione della Brexit

    L’11 gennaio alla Camera dei Comuni inizierà il dibattito sull’accordo con l’UE approvato dal governo May e il voto dovrebbe aver luogo tra il 14 ed il 15 gennaio. Il nuovo anno non sembra aver portato novità significative. Non si sono fatti passi avanti nel tentativo di scongiurare il voto negativo, che riporterebbe la situazione al punto di partenza, vale a dire al rischio più che certo di un’uscita del Regno Unito dall’Unione europea senza accordo. Sarebbe una situazione paradossale. Il governo ha approvato l’accordo con le dimissioni di tre ministri, i conservatori pro Europa vorrebbero un secondo referendum, ma per ora non esiste nessuna iniziativa in proposito. Anche una parte dei laburisti vorrebbero un secondo referendum, ma Corbyn, il loro leader, non fa una mossa in questa direzione; si barcamena ambiguamente nella speranza di giungere alla caduta del governo e di presentarsi come candidato alla sostituzione della May. Un altro aspetto del paradosso è rappresentato dal fatto che il nodo non sciolto nell’accordo raggiunto fino ad ora è la questione del confine con l’Irlanda del Nord, una frontiera aperta con l’UE, come vogliono gli irlandesi che sono al governo con la May, o una frontiera chiusa che imporrebbe la dogana con la repubblica d’Irlanda? La prima soluzione prevede l’appartenenza dell’Irlanda del Nord all’unione doganale con l’Europa e la seconda è rifiutata dai politici che sono al governo con la May. Che fare, dunque? Prorogare la data dell’uscita, il 29 marzo, come pronostica qualcuno, oppure uscire alla data prevista e senza trattato per il dopo? Già, senza trattato! Ma è proprio questa situazione che impaurisce molti inglesi e che fa temere anche per il futuro del Regno Unito. Non a caso, infatti, si sta registrando un boom di passaporti che offrono una seconda nazionalità agli inglesi. La Germania, l’Irlanda, la Spagna e il Portogallo hanno registrato un significativo aumento  delle richieste di passaporto da parte degli inglesi. Nel 2017 in Germania sono state richieste 7.500 naturalizzazioni contro le 622 del 2015, in Irlanda c’è stato il 22% d’aumento, in Spagna il numero delle richieste è triplicato. Sono dati allarmanti che corrispondono alla paura dei cittadini inglesi di non poter più lavorare e viaggiare liberamente dopo la data fissata per l’uscita dall’Europa. Secondo un sondaggio effettuato su un campione di 25mila intervistati, solo il 22% dei cittadini britannici sostiene l’accordo raggiunto con l’UE dalla May: un dato che testimonia il grave stato d’incertezza che ha caratterizzato questi ultimi mesi e che ha scavato una profonda frattura tra il governo e l’opinione pubblica. Lo stesso governo ha organizzato una simulazione del passaggio di camion al porto di Dover, l’approdo più vicino alla Francia, nel caso di una frontiera chiusa con l’Europa e di un controllo doganale. Ogni giorno, dal porto di Dover passano circa 10.000 furgoni. Un rapporto dell’University College di Londra ritiene che il mancato accordo sulla Brexit avrebbe delle conseguenze incredibili. Un aumento minimo dei controlli alla dogana comporterebbe un’enorme peggioramento del traffico. Anche alcuni secondi farebbero una differenza enorme. Secondo il detto rapporto universitario un aumento di 40 secondi a veicolo non avrebbe alcun impatto sul traffico. Se i ritardi arrivassero invece a 70 secondi per ogni veicolo, ci sarebbero delle code di sei giorni in cui sarebbero coinvolti dai 1200 al 2724 camion. Con un ritardo di 80 secondi – spiega il rapporto – non ci sarebbero rimedi: tutto il paese rimarrebbe sconvolto e incastrato nel traffico. Se il no deal, cioè la mancanza di un trattato per dopo l’uscita, fa intravedere soltanto per il traffico doganale ostacoli e complicazioni come quelli previsti dallo studio universitario citato, non si può certamente affermare che la situazione sia tranquilla a Londra. La crisi è palese e minaccia d’aggravarsi con il voto negativo del parlamento del 15 gennaio prossimo. Una Brexit senza trattato d’uscita sarebbe certamente un disastro. E ancora possibile porvi rimedio? L’estensione dell’art. 50, che richiede l’approvazione dei 27 Stati dell’UE, sembra difficile da raggiungere. A meno che la decisione di un secondo referendum, oppure le elezioni anticipate a causa di una crisi del governo May non rappresentino della buone ragioni per rinegoziare il trattato.

  • L’Unione europea firma l’accordo per l’uscita di Londra

    Dopo due anni e mezzo dal referendum sulla Brexit, sabato 24 novembre il Consiglio europeo (cioè i 27 capi di Stato o di governo dell’Unione europea ) ha firmato l’accordo con Londra per la sua uscita. L’accordo era stato approvato dal governo di Theresa May il 13 novembre scorso, ma il giorno dopo quattro ministri si sono dimessi perché in disaccordo con alcuni punti del documento. L’Unione europea, com’era previsto, ha firmato, non ha opposto difficoltà e l’unanimità ha sanzionato il faticoso e contrastato lavoro dei negoziatori. Ora manca solo l’approvazione del Parlamento europeo e del Parlamento inglese, ma l’ironia della sorte potrebbe giocare un brutto scherzo e far saltare l’accordo proprio con un voto contrario della Camera dei Comuni. Ai voti dell’opposizione, infatti, potrebbero aggiungersi i dieci del partito nord irlandese, quelli degli scozzesi del Partito Nazionalista (Snp) e  di un consistente gruppo di conservatori (si parla di una ottantina), i quali ritengono che l’accordo concluso da May sia il peggiore possibile, in quanto disegnerebbe un quadro in cui Londra rimarrebbe soggetta alle leggi europee, ma senza più alcuna possibilità di influire sui processi decisionali. Il presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, ha sottolineato che l’accordo è il migliore possibile, mentre la cancelliera Angela Merkel si è detta triste per la tragica decisione di un Paese che lascia l’Unione dopo 45 anni. La premier Theresa May ha affermato che questo è un momento di fare un passo avanti e che lei non condivide la tristezza della collega Merkel. L’ironia consisterebbe nel fatto che l’Europa ha firmato per la Brexit, mentre i legislatori inglesi la respingerebbero. E l’uscita senza accordo complicherebbe ancor di più il dopo Brexit, cioè le relazioni commerciali del RU, e non solo, con l’UE. E’ indubbio che la premier britannica ha la grande responsabilità di affrontare un passaggio molto pericoloso per il suo governo e per il destino del suo Paese. Ha dimostrato fino ad ora carattere e volontà. In una lettera aperta agli inglesi, poco prima della riunione con il Consiglio europeo, ha promesso di mettere anima e cuore per cercare di vincere la battaglia in Parlamento e di essere convinta con ogni fibra del essere, che l’accordo è giusto. E se il Parlamento non l’ascoltasse? Che succederebbe? Darebbe le dimissioni aggiungendo la crisi di governo a quella della Brexit? Non sarebbero nemmeno escluse le elezioni anticipate.

    Ma cosa prevede l’accordo? Sono molti i punti che lo compongono. Tra i principali ricordiamo:

    • i due testi oggetto dell’intesa. Il primo, di 585 pagine, è l’accordo sul ritiro, giuridicamente vincolante, il secondo, di 26 pagine, è una dichiarazione politica che traccia a grandi linee i punti principali del futuro rapporto Ue-Ru, che non ha forza legale. Per entrare in vigore l’accordo necessita ancora della ratifica dei due Parlamenti, quello inglese e quello europeo.
    • L’Unione doganale tra Regno Unito (Irlanda del Nord compresa) e l’Unione europea nel periodo di transizione, cioè fino al dicembre 2020.
    • Il periodo di transizione, dal 29 marzo 2019 fino al dicembre 2020, per consentire di arrivare ad un’intesa commerciale futura definitiva.
    • Una clausola di salvaguardia, detta “backstop” per evitare un confine fisico tra le due parti dell’isola: il Nord Irlanda e la Repubblica d’Irlanda.
    • Il ritorno della sovranità con l’entrata in vigore della legge di ritiro dalla UE introdotta dal governo inglese nel giugno del 2018, per mettere fine, dal 29 marzo 2019, al primato della legislazione europea su quella britannica.
    • La corte europea, che rimane attiva durante la transizione. Per il dopo, sarà necessario trovare un nuovo meccanismo per dirimere le liti.
    • La questione relativa a Gibilterra è stata esclusa dai negoziati a richiesta della Spagna, che ritiene d’avere il diritto di approvare ogni futura intesa che riguarderà il territorio ora considerato d’Oltremare del Regno Unito, su cui Madrid spera di strappare una co-sovranità.
    • Il costo dell’uscita ammonta a 39 miliardi di sterline (circa 44 miliardi di euro) che corrispondono agli impegni presi quando il RU era uno Stato membro.
    • La libera circolazione. Nel rispetto del risultato del referendum del 2016, che comprende la fine della libertà di circolazione delle persone, a partire dal 2021 questa libertà verrà meno. Per risiedere stabilmente nel Regno Unito servirà un apposito permesso.
    • I diritti degli europei già residenti nel RU ( quasi tre milioni) verranno conservati. Vale i reciproco per gli inglesi residenti in Europa (circa un milione e trecento mila). I turisti potranno viaggiare senza problemi con l’esibizione del passaporto.

    Ora l’entrata in vigore dell’accordo dipende dal voto che avrà luogo a Westminster in dicembre. Se il voto sarà negativo tutto sarà messo in discussione e nuovi scenari si affacceranno, sull’esito dei quali nessuno per ora è disposto a scommettere.

  • Merkel sulla Brexit: “Abbiamo fatto molta strada”

    Dopo l’incontro della premier britannica Theresa May con il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker, Angela Merkel, cancelliera della Repubblica federale di Germania, si è dichiarata soddisfatta: “Abbiamo fatto molta strada – ha affermato – ma certamente servirà ancora discutere molto, specialmente con la Gran Bretagna”.  La Merkel preme affinché si trovi al più presto un’intesa per scongiurare una Brexit disordinata che porta risvolti negativi. Soddisfatta, dunque, ma con qualche riserva. Esprime ottimismo, invece, Theresa May,  dopo l’intesa raggiunta tra le due parti sulla bozza del testo che definisce le relazioni future tra Londra e Bruxelles. “È stato un buon incontro e abbiamo fatto ulteriori progressi (…) Spero possa condurre alla soluzione delle questioni rimaste”. Durante l’incontro – afferma anche un portavoce della Commissione – “sono stati fatti dei buoni e nuovi progressi. Il lavoro continua”. Il testo concordato, tuttavia, non rappresenta nulla di definitivo. I 27 Paesi dell’UE lo approveranno certamente in occasione della riunione del prossimo Consiglio, mentre il parlamento britannico potrebbe respingerlo. Il tentativo di far dimettere la May dopo la crisi apertasi in seno al suo partito in seguito al voto favorevole del governo sull’accordo, non è riuscito fino ad ora. Le 48 firme necessarie per presentare la sfiducia non sono state raccolte. Ne mancavano soltanto tre o quattro, ma sufficienti a bloccare la manovra contro la premier. La May resiste, indomita e tenace. L’opinione pubblica pare apprezzare questo aspetto del suo temperamento. E’ sempre stata creduta labile e indecisa. Dimostra invece, in questa vicenda burrascosa e grave del raggiungimento di un accordo con l’UE, una decisa volontà da un lato di perseguire la scelta maggioritaria dell’elettorato per l’uscita dall’UE e dall’altro di non farsi travolgere dagli avversari nel suo stesso governo e nel suo partito. Più volte ha affermato che l’accordo raggiunto è il migliore che si potesse ottenere nella situazione attuale. O questo accordo, o nessun accordo, il che sarebbe un disastro ulteriore per il Regno Unito. I suoi avversari lo sanno, ma forse proprio per questo i loro tentativi di rovesciarla non riescono. Dopo l’incontro con Juncker sulla definizione dei futuri rapporti tra RU e UE, la sterlina è stata euforica sui mercati valutari. Il superamento della difficoltà nel Regno Unito e la concordanza con l’UE, anche se non ottimale (la questione del confine con l’Irlanda del Nord non è stata risolta in via definitiva; il risultato raggiunto è solo provvisorio), non impressiona i mercati e gli investitori, per ora. Vedremo il seguito. Ma non disperiamo perché Il testo prevede inoltre l’equivalenza di trattamento per le banche del Regno Unito, e che Londra e Bruxelles si impegnino in una cooperazione doganale “profonda”. Un altro passo dunque è stato fatto dalla May nella giusta direzione, che sembra positiva anche per il mondo finanziario. Nessun sconquasso monetario, ma divisioni a non finire nel suo campo. Fino a quando resisterà?

  • Il governo della May approva accordo con l’UE

    Sembrava una vittoria della May l’approvazione da parte del governo del Regno Unito dell’accordo raggiunto per l’uscita dall’Unione europea. Le polemiche della vigilia e le dimissioni di alcuni personaggi ostili alle proposte della May decise nel corso di una riunione ai Chequers, la residenza di campagna ufficiale dei Primi Ministri britannici, si pensava fossero state superate durante le sei ore di dibattito del governo sul contenuto dell’accordo. Anche le tre ore di dibattito alla Camera dei Comuni, durante le quali la May è stata messa sulla graticola pure da deputati appartenenti al suo stesso partito, sembravano superate dalla tenace volontà del Primo Ministro di non recedere di un pollice dalle posizioni acquisite ai Chequers e nel negoziato con gli emissari dell’UE. La May ne usciva vittoriosa, sia pure a prezzo di accuse feroci e di focose polemiche. La sua leadership aveva prevalso tanto nei confronti di coloro che sono contrari alla Brexit, quanti di quelli che pur essendo a favore della Brexit, considerano l’accordo troppo debole per gli interessi del Regno Unito. La sua immagine, pur bistrattata e spietatamente attaccata, ne usciva vittoriosa, tanto come capo del governo che come presidente del partito conservatore, pur diviso sul tema della Brexit. Ciò nonostante la May si trova in una situazione veramente paradossale. Al referendum che decise l’uscita ella si schierò per restare nell’UE. Ma dopo la vittoria del “si”  e la conseguente crisi all’interno del partito conservatore, con le dimissioni di Cameron, ella si trovò alla testa del partito e del governo, impegnata a far rispettare la volontà della maggioranza vittoriosa favorevole all’uscita. E rispondendo a chi la attaccava, in seno al governo e al Parlamento, ha continuato ad affermare che si batteva per rispettare la volontà della maggioranza degli elettori e che l’accordo in questione era la formula migliore per abbandonare l’Unione europea senza traumi. Ma così non l’hanno pensato i suoi sette ministri che dopo il consenso del governo, uno dopo l’altro si sono dimessi. La vittoria della May, pertanto, si sta trasformando in una crisi che mette in forse l’approvazione dell’accordo da parte del parlamento. La situazione è in movimento e non si può prevedere dove la crisi andrà a parare.

    Il nodo della discordia è rappresentato dalla questione dell’Irlanda del Nord che non vuole un confine né con la Repubblica irlandese, né con il Regno Unito, nodo che l’accordo tanto discusso avrebbe risolto temporaneamente con il mantenimento dell’Irlanda del Nord nell’Unione doganale, estesa anche a tutto il Regno Unito, in attesa di eventuali nuove soluzioni. Questo nodo spacca l’opinione pubblica e soprattutto spacca il governo e i partiti, non solo quello conservatore, ma anche quello laburista. Da un lato e dall’altro ci sono gruppi minoritari che rifiutano le soluzioni previste dall’accordo. Le motivazioni del dissenso sono diverse, ma sono profonde ed è difficile anche per gli osservatori calcolare il numero di coloro che potrebbero ipoteticamente garantire la maggioranza alla May. Anche l’opinione pubblica rimane frastornata da questa situazione, tanto che alcuni sondaggi darebbero la maggioranza a coloro che sono contrari alla Brexit nell’ipotesi di un nuovo referendum, oggi auspicato dagli amici dell’ex premier Tony Blair. Dai dibattiti e dalle feroci polemiche in corso, emerge sempre più il timore che l’uscita rappresenti un danno per gli interessi del R.U. , interessi economici e finanziari, tanto che alcuni temono la scomparsa della capitale finanziaria mondiale da Londra. E Francoforte, sede della BCE, la banca centrale europea, sarebbe indicata come capitale competitrice. I laburisti, dal canto loro, vorrebbero che la crisi sfociasse in nuove elezioni politiche, L’aria che però qualche tempo fa soffiava a loro favore, ora è diminuita d’intensità. Il loro capo, Jeremy Corbyn, è sempre più ambiguo. Non prende decisioni precise, se non contro gli ebrei, e un leader antisemita oggi in Gran Bretagna fa risorgere vecchi e odiosi fantasmi che si credevano completamente superati. Questo suo attaccamento a vecchi miti e a visioni socialistiche ottocentesche lo fanno considerare un vecchio arnese di una visione politica superata. Sarebbe la negazione di dieci anni di socialismo moderno praticato da Tony Blair ed il ritorno ad una situazione che la mondializzazione non potrebbe più sopportare. La May è più credibile per la sua coerenza e per la sua forte volontà di rispettare il mandato degli elettori. Ma potrebbe essere ugualmente perdente nel prossimo futuro. Non ce lo auguriamo, perché l’allungarsi dei tempi per il rispetto delle procedure d’uscita potrebbe favorire un ripensamento degli elettori. Il Regno Unito fuori dall’Europa non sarebbe più quello e l’Europa senza Regno Unito sarebbe diversa, probabilmente in negativo.

  • EU leaders continue to pressure on UK deal amid rumours of earlier Brexit summit

    An evening meeting on Wednesday of EU leaders could be a critical moment in both Brussels and the UK’s efforts to end the deadlock in the ongoing Brexit negotiations as, according to a French official privy to the agenda of the meeting, a Brexit Summit could be announced earlier than the rumoured November 17-18 date that was first floated during a September summit in Salzburg, Austria.

    The November dates remain on the table but have not been finalised. An earlier summit would likely tilt in favour of UK Prime Minister Theresa May and give her more time to work a deal through Britain’s parliamentary procedures, which require a significant amount of time to finalise the ratification of any agreement that may be signed.

    According to the current assessment, the next milestone for the British administration would be the budget vote on October 29. A summit could, theoretically, be held immediately after that date provided constructive negotiations resume just after Wednesday’s meeting, but not before.

    The lack of progress at the weekend despite a last-minute visit by UK Brexit Secretary Dominic Raab’swith his European counterpart, Michel Barnier, did not allow the EU’s diplomatic chiefs to discuss the basis of a potential political declaration. The agenda and tone of Wednesday’s meeting will remain the same, though there was hope that European Parliament President Antonio Tajani and May would have more to discuss if a divorce agreement was already on the table.

    Talks will not collapse

    Thus far, according to sources with knowledge of the talks, there is no indication that the Brexit talks will collapse.

    European Commission President Jean-Claude Junckeris expected to brief the EU-27 on the EU executive’s preparations for a so-called ‘no-deal’ scenario. in the event that Brussels and London fail to agree on a post-Brexit framework. According to a senior EU official, the European Commission had extra proposals ready to be released but opted to hold them back due to the positive progress of the talks ahead of last weekend’s anticipated breakthrough.

  • L’assemblea dei Conservatori britannici: anche il discorso della May è stato molto applaudito

    Se i congressi dei partiti dovessero essere valutati dalla qualità del discorso del leader, anche quello dei Conservatori britannici, che si sta tenendo a Birmingham, come già quello dei Laburisti, sarebbe un congresso ben riuscito. Questa ipotesi, tuttavia, non può essere assunta come veritiera, perché per giudicare un congresso bisogna aspettarne la fine e verificare le conclusioni a cui arriva, con il voto dei delegati per le nuove nomine dei dirigenti e/o per le eventuali risoluzioni finali. Comunque sia, quello della May è stato un discorso accolto con grandi applausi dai congressisti, un discorso molto diverso da quello dello scorso anno che era tutto sulla difensiva e non lanciava sfide al futuro. Il discorso di ieri è stato quello di una premier all’attacco, con l’indicazione dei temi da sostenere e con una visione, forse troppo ottimistica, del futuro: “I giorni migliori sono davanti a noi. Abbiamo tutto per poter avere successo”. Anche sulla Brexit non ha avuto tentennamenti, rispondendo direttamente agli attacchi feroci promossi dall’ex ministro degli Esteri Boris Johnson, che il giorno prima aveva definito “un oltraggio” il piano della premier per la Brexit. Un progetto – il piano dei Chequers – che la May difende perché contiene il commercio dei beni senza attriti con l’UE e la difesa dell’unità del Paese. Promette inoltre agli elettori che porterà a compimento la Brexit, avvertendo gli oltranzisti che “cercare la soluzione perfetta rischia di farci finire senza nessuna Brexit”. E aggiunge in conclusione: “La Gran Bretagna non ha paura di uscire senza intesa, se dovrà. Dobbiamo essere onesti su questo punto: uscire senza un’intesa, introdurre dazi e costosi controlli alla frontiera sarebbe un brutto risultato per la UE e per il Regno Unito”.  Ha parlato dell’utilità del libero mercato, ha trasmesso un messaggio forte di sostegno all’impresa, ha lanciato un appello a restare fermi e uniti sulla Brexit e ha sferrato un attacco feroce all’opposizione di Jeremy Corbyn – “una tragedia nazionale” , accusandolo di rifiutare i valori comuni che un tempo anche la sinistra condivideva, di aver chiesto ai russi – sul caso Salisbury – conferma sulle indagini inglesi. “Appalterebbero la sicurezza al Cremlino”, dice.  Ma, principalmente, ha annunciato che dieci anni dopo la crisi finanziaria “l’austerità è finita”.  Staremo a vedere fino a che punto i suoi nemici interni riusciranno a indebolirla, il che indebolirebbe anche il partito dei Conservatori, che da tempo assiste allo sbranamento reciproco dei suoi leader. Chi ne approfitterebbe sarebbe proprio Jeremy Corbyn, uscito rafforzato dall’assemblea del suo partito e con un’opinione pubblica disposta a sostenerlo in caso di elezioni, nonostante il suo non celato sinistrismo da terza internazionale. Il secondo referendum, come alcuni laburisti non sostenuti da Corbyn hanno chiesto, non si farà. Forse non si farà nemmeno l’accordo con l’UE per il dopo Brexit. Ed anche questo avvantaggerà Corbyn nel caso di elezioni politiche anticipate. Non c’è che dire! Le prospettive non sono rosee nemmeno per il Regno Unite, come non lo sono per l’UE, assediata dai nazionalismi sovranisti.

  • Jeremy Corbyn non ha cambiato idea su niente

    L’Assemblea ha avuto luogo la settimana scorsa e gli osservatori s’aspettavano che Corbyn si pronunciasse finalmente sulla Brexit: è contro, o condivide l’opinione di una larga parte del suo partito che vi è favorevole e che addirittura propone un secondo referendum prima di decidere definitivamente? La risposta è l’ambiguità. Prima bisogna tenere le elezioni politiche interne, poi si vedrà! La sua leadership, nonostante l’ambiguità, rimane indiscussa. Ne è una conferma l’accoglienza calorosa riservata al suo discorso di chiusura dell’Assemblea, discorso applauditissimo a più riprese che ha concluso i lavori in modo entusiastico. Eppure!!!

    Eppure, afferma Andrew Sullivan sul New York Magazine del 6 agosto scorso, Corbyn non ha cambiato idea su niente, rimane “un eccentrico socialista di 69 anni che in vita sua non ha mai creduto di poter guidare un partito politico, figurarsi essere credibilmente menzionato come possibile futuro primo ministro del Regno Unito. Nato in una famiglia dell’alta borghesia, Corbyn era un classico “pannolino rosso”. I suoi erano socialisti e New Tree Manor, la tenuta di campagna seicentesca dove è cresciuto, era una dimora molto bohémien, piena di saloni ricolmi di libri di sinistra. Corbyn si diplomò con voti così tremendi che l’opzione universitaria fu scartata subito, per cui entrò nell’equivalente britannico dei Corpi di pace e fu stanziato in Giamaica per due anni, poi viaggiò in tutta l’America latina. Disgustato dalle enormi disuguaglianze che vide attorno a sé, si radicalizzò ulteriormente e quando tornò in Inghilterra si trasferì nella multirazziale Londra del Nord, dove abitano molti immigrati (gli inglesi bianchi sono una minoranza). Era una periferia da terzo mondo e Corbyn si sentiva a casa” –  dichiara Sullivan. Ma il suo radicalismo sinistrorso si è manifestato in altri settori. Simpatizzò per l’Esercito repubblicano irlandese (Ira), fu ostile alla monarchia e a favore dei movimenti rivoluzionari terzomondisti e si batteva per il disarmo nucleare unilaterale. Si oppose all’appartenenza britannica alla Nato e alla futura Unione europea. Disprezzava l’alleanza americana e la tendenza capitalistica dell’UE. Era un astemio contrario all’alcol e alle droghe. E’ un vegetariano. Non ha cambiato idea su nulla, anche se i suoi obiettivi sono stati tutti battuti dalla storia. E’ stato singolare il suo rapporto con il partito al quale apparteneva ed appartiene. Nei decenni che ha passato in parlamento, ad esempio, ha votato 428 volte contro le indicazioni del suo partito quando era al governo. Come deputato è sempre rimasto ai margini. E’ un convinto difensore dei palestinesi. Per questo, forse, ancora oggi, è antisemita e un convinto avversario di Israele. Ha invitato alla Camera dei Comuni i suoi “amici” di Hamas e Hezbollah, come alcuni membri dell’Ira, una volta persino due settimane dopo che un gruppo dell’Ira aveva quasi assassinato Margaret Thatcher, facendo scoppiare una bomba nel suo hotel nel 1984. Ha disprezzato la modernizzazione del partito attuata da Tony Blair. I corbynisti sono fermi agli anni settanta. Allora il modello socialdemocratico collassò in una mera difesa del potere dei sindacati contro un governo eletto, provocò la stagflazione e paralizzò i servizi pubblici essenziali con scioperi di massa. Le riserve di energia – continua Sullivan – erano talmente ridotte all’osso che, a un certo punto, il Regno Unito aveva elettricità soltanto per tre giorni lavorativi a settimana. Oggi i corbynisti vedono l’eredità neoliberale della Thatcher in uno stato di disastro e con la richiesta di elezioni sperano di approfittare della situazione per tornare al governo. La Brexit passa in secondo piano nelle loro priorità. Ma davvero il Regno unito è pronto a buttarsi nelle braccia di Corbyn, di questo vecchio arnese del socialismo radicale che negli ultimi cinquant’anni ha perso tutte le scommesse con la storia? Un Regno Unito fuori dall’UE sarebbe ancora più debole per poter resistere a questa prospettiva. Quello dei laburisti alla Corbyn sarebbe un sovranismo imperiale. Ci mancava anche questo, da affiancare ai sovranismi populisti, ahinoi!, senza impero, del Continente.

    Dopo l’assemblea dei Laburisti della settimana scorsa, è iniziata quella del Partito Conservatore, la premier May deve far fronte a due difficoltà: da un lato gli oppositori interni e dall’altro, la necessità di trovare una soluzione per l’accordo sull’uscita dall’UE. Il Consiglio di Salisburgo non gli era stato favorevole e l’UE aveva respinto le proposte inglesi. Si arriverà al fatidico 19 marzo 2019, data prevista per l’uscita dall’UE, senza accordo? Sarebbe un ulteriore indebolimento della May, con Corbyn che richiede le elezioni politiche. Ci sarà un ammorbidimento delle richieste inglesi all’Europa? I nemici della May hanno già cominciato a spararle contro in modo forsennato. Avrà una maggioranza per resistere alle pressioni contrarie?

  • Cosa vogliono i laburisti con la Brexit?

    L’accordo per l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea non è ancora stato raggiunto. Anche l’ultimo incontro tra i negoziatori delle due parti non ha raggiunto un’intesa condivisa. Da un lato il RU mira a mantenere determinati vantaggi offerti dall’appartenenza al mercato unico, pur non facendone più parte, e dall’altro l’UE non è disposta a concedere i vantaggi dell’adesione a chi vuole uscire. Il ministro delle Finanze francese, Bruno Le Maire, ha addirittura detto che se si accettasse la posizione del governo di Londra, per la UE sarebbe un suicidio. Anche il presidente Macron, in occasione del vertice informale UE di Salisburgo ha dichiarato che “la Brexit non sarà senza costi o conseguenze per Londra”. Siamo a pochi mesi dalla data fissata per l’uscita e c’è il rischio che ci si arrivi senza nessun accordo. Nel frattempo, tuttavia, la premier inglese Theresa May usa la platea dell’Assemblea generale dell’Onu per promuovere la Gran Bretagna post Brexit, annunciando che il Regno Unito istituirà per le imprese la “tassazione più bassa” tra le nazioni del G20 e offrirà a quelle che investono nel Paese non solo vantaggi fiscali, ma anche un’industria di servizi e un centro finanziario, la City, che sono “invidiati in tutto il mondo”. La posizione della premier conservatrice è chiara. E quella dei laburisti lo è altrettanto? Cosa faranno con la Brexit? Staranno a guardare lo svolgersi degli avvenimenti, o prenderanno posizioni chiare? Per ora il loro atteggiamento è abbastanza ambiguo. Si è conclusa da qualche giorno a Liverpool l’assemblea del partito, si è discusso di molte cose, ma soprattutto della Brexit: un tema su cui i laburisti non sembrano proprio avere le idee chiare, nonostante le trattative con l’Unione europea che dovrebbero concludersi nei prossimi due mesi. Durante il discorso del portavoce laburista per Brexit, Keir Starmer, sono emerse le contraddizioni che caratterizzano il partito in ordine a questo problema. Parlando della possibilità di un nuovo referendum per Brexit, Starmer ha detto che “nessuno vuole escludere la possibilità di rimanere” nell’Unione europea. A questo punto buona parte del pubblico presente, formato dai delegati del partito, ha cominciato ad applaudire vigorosamente e ad alzarsi in piedi. Starmer sembrava stupito da questa reazione ed ha ripreso a fatica il filo del suo discorso. E Corbyn, il segretario del partito, come ha reagito a questa manifestazione di entusiasmo contro la Brexit? Come è noto, egli è un euroscettico e in un’intervista successiva all’intervento di Starmer si è limitato a dire che era a conoscenza del testo del discorso, senza aggiungere altro. Questa ambiguità del segretario potrebbe essere comprensibile, dato che al referendum del 2016 una fetta consistente degli elettori laburisti, circa un terzo, votò per uscire dall’UE, il che vuol dire però che i due terzi degli elettori, insieme a quasi tutti i dirigenti, votarono per rimanere in Europa. L’aumento dei consensi al partito, confermato da diversi sondaggi, è stato costruito grazie al recupero dello storico blocco sociale del partito laburista rappresentato dalla classe bianca medio-bassa, attratta a votare per Brexit dalle promesse di notevoli benefici economici e sociali. Ma quei benefici non si sono materializzati fino ad ora e sembrano anche sempre più remoti se il Regno Unito uscirà dall’UE. D’altro canto, da circa un anno l’opinione comune su Brexit sembra essersi spostata, tanto che un sondaggio di YouGov conferma che il 50% dei britannici sostiene che votare per uscire dalla UE sia stata una cattiva idea. Solo il 40% ha sostenuto l’opzione opposta. All’interno del partito, fra gli attivisti e gli iscritti, l’ostilità a Brexit è ancora più diffusa. Un sondaggio di YouGov indica che addirittura il 91% di loro ritiene che Brexit sia un danno per l’economia britannica e l’86% è favorevole a un nuovo referendum che includa la possibilità di rimanere nell’UE, tanto che tra le mozioni approvate dall’Assemblea una ne parlava, sia pure implicitamente. Perché allora questa persistente reticenza di Corbyn a prendere posizione? Da un lato il suo radicalismo marxista e dall’altro la sua capacità manovriera di muoversi con destrezza nelle indicazioni dell’opinione pubblica e di approfittare di ogni occasione per rafforzare il suo potere, non gli permettono di schierarsi ora apertamente per un’opzione chiara e definita. Per questo i laburisti da alcune settimane spingono per nuove elezioni politiche, fatto che consentirebbe loro di concentrarsi sulla campagna elettorale e quindi di posticipare una presa di posizione netta sulla Brexit. Corbyn, nonostante la volontà della maggioranza del suo partito, non vuole un nuovo referendum e non vuole nemmeno caricarsi della responsabilità che potrebbero derivare da un esito negativo dell’uscita dell’Unione europea. Non è escluso, tra l’altro, che un non accordo sull’uscita veda domani un Corbyn premier costretto a negoziare lui stesso il dopo Brexit.

  • Un buffone non può diventare re

    Chi si aspetta che nel mondo i diavoli vadano in giro con le corna e
    i buffoni coi sonagli, sarà sempre loro preda e il loro zimbello.

    Arthur Schopenhauer

    Il 6 luglio 2018 a Londra, durante la riunione del consiglio dei ministri, la premier britannica Theresa May ha presentato il suo programma della “Linea morbida sulla Brexit”. Programma che era stato pubblicato un giorno prima come “Libro Bianco” (White Paper). Un programma che non poteva essere condiviso e approvato da alcuni importanti membri del suo governo, ben noti come euroscettici.

    Il 9 luglio scorso le agenzie britanniche dell’informazione, e poi tutte le altre, diffondevano due notizie importanti. Di mattina presto veniva pubblicamente confermato che il ministro per la Brexit David Davis aveva rassegnato le sue dimissioni. Nel primo pomeriggio è arrivata l’altra notizia importante, quella delle dimissioni del ministro degli Esteri Boris Johnson. Tutti e due, da tempo, non condividevano il modo con il quale la premier Theresa May voleva trattare i futuri rapporti tra la Gran Bretagna e l’Unione europea.

    Un giorno dopo, e cioè il 10 luglio e sempre a Londra, in una simile scombussolata situazione politica britannica, si è svolto il vertice, ad alto livello, dei rappresentanti delle istituzioni dell’Unione europea e di alcuni Stati dell’Unione, con i rappresentanti dei sei paesi dei Balcani occidentali. Un vertice, nell’ambito di quello che ormai è ufficialmente noto come il Processo di Berlino, per l’allargamento dell’Unione europea con i paesi balcanici. Il momento però, non è stato per niente appropriato. Anche per il semplice fatto che colui il quale doveva dare formalmente il benvenuto agli ospiti, cioè il ministro Johnson, un giorno prima aveva rassegnato le dimissioni. Un fatto, di per se, molto significativo. Sembrava quasi surreale e grottesco parlare di allargamento a Londra. Proprio lì, dove un giorno prima due importanti ministri avevano rassegnato le loro dimissioni perché non credevano più nella bontà dell’Unione europea, nonché nelle sue istituzioni e politiche. Mettendo così in primo piano l’eurosetticismo e offuscando il vero obiettivo del vertice. Il caso ha voluto che si doveva parlare d’allargamento, nell’ambito del Processo di Berlino, proprio nella capitale di uno Stato il quale, a fine marzo 2019, non farà più parte dell’Unione europea, in seguito al referendum del 23 giugno 2016 sulla Brexit. Perché, comunque sia, non si può non pensare ormai che la Gran Bretagna rappresenti più un paese che possa credibilmente sostenere la causa dei Padri Fondatori dell’Unione europea. Sono stati questi significanti simbolismi, che non potevano ispirare per niente ottimismo. Ragion per cui non dovrebbe essere stata sentita bene neanche la premier May, durante il sopracitato vertice, quando dichiarava che “La Gran Bretagna si sta allontanando dall’Unione europea” ma che comunque rispetterà “le responsabilità che ha per i paesi balcanici”.

    Il 13 luglio scorso a Londra è arrivato il presidente statunitense Donald Trump, una visita che non è stata per niente facile e, men che meno, amichevole. Visita durante la quale non sono mancati gli incontri imbarazzanti e le dichiarazioni provocatorie. In un’intervista rilasciata al noto quotidiano britannico “The Sun”, il presidente Trump apprezzava il dimissionario ministro degli Esteri Boris Johnson, convinto che lui “sarebbe un ottimo primo ministro”. Una sfida aperta alla premier May, con la quale si è incontrato in seguito. Ma anche la May non è rimasta a bocca chiusa. Dopo l’incontro con il presidente statunitense, lei, “maliziosamente”, ha rivelato alla BBC: “Mi ha detto che dovrei citare in giudizio l’Unione europea, non negoziare con loro, [ma] denunciarli”.

    Il presidente Trump era arrivato a Londra da Bruxelles, dopo il vertice NATO (11 – 12 luglio). Anche in quel vertice non sono mancate le minacce, le provocazioni e le dichiarazioni “forti”. Alcune delle quali “aggiustate” e “convenzionalmente ammorbidite” in seguito. Come quella del presidente Trump “di uscire dalla NATO” se gli alleati non dovessero rispettare le spese militari richieste dagli Stati Uniti. Secondo l’agenzia Associated Press, Trump avrebbe detto però, in un altro momento, che “gli Alleati della NATO abbiano deciso di aumentare le spese per la difesa oltre i precedenti obiettivi”. Affermazione contraddetta subito dal presidente francese Macron, secondo il quale non c’è stato “nessun accordo sull’aumento delle spese militari”. Per poi arrivare alle posizioni finali degli alleati. Queste sono state soltanto alcune discrepanze e contrarietà verificate e rese pubbliche mentre si svolgeva il vertice NATO a Bruxelles.

    Nello stesso periodo anche il primo ministro albanese, nelle sue vesti istituzionali, era presente in due dei sopracitati vertici. Era presente al vertice di Londra, nell’ambito del Processo di Berlino per l’allargamento dell’Unione europea con i paesi balcanici. Era presente anche al vertice NATO a Bruxelles. Considerando sia il clima in cui sono stati svolti questi vertici, che l’importanza e l’impatto reale sui futuri sviluppi politici e geopolitici nei singoli paesi e a livello internazionale, allora si potrebbe facilmente immaginare la posizione ed il “ruolo” del primo ministro albanese in simili avvenimenti. Sia per il peso dell’Albania nella movimentata schacchiera internazionale, sia per altri, ormai pubblicamente noti motivi, anche a livello internazionale e per niente positivi. Per queste ovvie e comprensibili ragioni il primo ministro albanese si è trovato completamente trascurato da tutti, sia a Londra, che a Bruxelles. Il che per lui rappresenta un’enorme sofferenza. Perché, discreditato ormai in patria, cerca disperatamente “sostegni” internazionali. Non importa come e a quale prezzo. Anche perché le scelte si riducono sempre di più. Mentre la realtà politica e sociale albanese si aggrava ogni giorno che passa, riconoscendo in lui il principale responsabile, con tutte le probabili conseguenze.

    A fatti compiuti, risulterebbe, con ogni probabilità, che l’unico obiettivo della presenza del primo ministro albanese, sia a Londra che a Bruxelles, è stato quello di “strappare” almeno un sorriso e/o, magari, una stretta di mano di quelche “pezzo grosso” internazionale e fissare tutto in qualche fotografia. Poco importava se, così facendo, poteva diventare lo zimbello di tutti. Non a caso, commentando la fotografia ufficiale del sopracitato vertice di Londra, la BBC, con la solita ironia britannica, annotava che “qualcuno aveva dimenticato le scarpe”. Si riferiva alle scarpe da tennis bianche che portava il primo ministro albanese. Poco importava per lui, se per realizzare il suo unico obiettivo, poteva sembrare un mendicante che elemosinava un sorriso, una stretta di mano di passaggio, da immortalare subito in una fotografia. Buffonate del genere si fanno soltanto quando uno si trova in serie difficoltà di sopravvivenza.

    Chi scrive queste righe è convinto che il primo ministro albanese, dopo aver causato tanto male in patria, sta cercando disperatamente di fare il buffone all’estero, per ottenere qualsiasi supporto propagandistico. Egli, condividendo la saggezza popolare, secondo la quale un asino resta sempre un asino anche se lo ricopri d’oro, rimane altresì convinto che un buffone non può diventare re.

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