militari

  • Il ritiro delle forze francesi dal Senegal sarà completato entro l’estate del 2025

    La Francia prevede di ritirare i suoi militari dal Senegal e da altri Paesi dell’Africa occidentale e centrale entro l’estate del 2025. È quanto riferiscono fonti militari francesi citate dall’agenzia di stampa senegalese “Aps”, secondo cui sarebbero in corso delle trattative per organizzare il ritiro. “Entro l’estate del 2025 non ci saranno più basi militari francesi permanenti in Senegal”, ha affermato la fonte, aggiungendo che Parigi favorirà la cooperazione con le autorità senegalesi in base alle loro esigenze. “La presenza militare francese è oggi percepita come un affronto alla sovranità. Ne siamo consapevoli”, ha aggiunto. La decisione, se confermata, rientra in un cambiamento strategico volto a rispondere alle aspirazioni di sovranità di recente espresse da diversi Paesi africani. Già lo scorso 31 dicembre il presidente senegalese Bassirou Diomaye Faye aveva già annunciato la fine di ogni presenza militare straniera sul territorio senegalese a partire dal 2025, propugnando una nuova dottrina di cooperazione militare.

    In base all’attuale accordo di cooperazione militare tra Francia e Senegal, siglato nel 2012, le forze francesi hanno libero accesso a diverse infrastrutture strategiche, come il sito di Camp Ouakam e la base navale senegalese, nonché esenzioni fiscali per le attrezzature e i servizi necessari alle loro operazioni, oltre a beneficiare della libertà di movimento e dell’organizzazione di esercitazioni militari. In cambio, il Senegal beneficia di un sostegno rafforzato, in particolare attraverso l’accesso prioritario del suo personale militare alle scuole francesi, l’assistenza tecnica e il trasferimento di equipaggiamento militare. Sono agevolati anche gli scali marittimi e aerei senegalesi in Francia. In base a quanto prevede l’accordo, il contratto può essere risolto mediante comunicazione scritta con preavviso di sei mesi, con conseguente restituzione delle strutture senza indennizzo, salvo specifico accordo. L’eventuale ritiro delle forze francesi dal Senegal rientra in una più ampia riorganizzazione della presenza militare di Parigi nell’area del Sahel, iniziata nell’estate del 2023 con le partenze da Mali, Burkina Faso, Niger e, più recentemente, dal Ciad.

    Le autorità di N’Djamena hanno denunciato l’accordo di cooperazione militare con la Francia lo scorso 28 novembre e all’inizio di dicembre Parigi ha iniziato a rimpatriare la sua flotta aerea e a lasciare gradualmente le sue basi, in particolare quelle di Faya-Largeau e Abeché. La base Adji Kossey di N’Djamena, la più grande, sarà invece restituita entro il 31 gennaio 2025, termine ultimo fissato dal governo ciadiano. Il graduale ritiro militare francese avviene in un clima di forte tensione, reso incandescente dopo che il presidente Emmanuel Macron, nel suo discorso recente agli ambasciatori, ha accusato i Paesi africani di “irriconoscenza” nei confronti di Parigi. In risposta alle dichiarazioni di Macron, il primo ministro senegalese Ousmane Sonko ha contestato in particolare l’affermazione del capo dell’Eliseo secondo cui la partenza delle forze francesi è il risultato di precedenti negoziati con le autorità di Dakar, sostenendo al contrario che “la decisione del Senegal deriva dalla sua volontà, in quanto Paese libero e sovrano”. Anche il governo ciadiano ha esortato la Francia e i suoi partner a rispettare le aspirazioni all’autonomia dei popoli africani. “Invece di attaccare l’Africa, il presidente Macron dovrebbe concentrare i suoi sforzi sulla risoluzione dei problemi che preoccupano il popolo francese”, ha affermato un comunicato del governo di N’Djamena, definendo non più negoziabile il termine del 31 gennaio per il completo ritiro dei militari francesi.

  • Il Ciad revoca gli accordi militari con la Francia, Parigi guarda alla Nigeria per restare nel Sahel

    Evocando “una svolta storica”, il governo del Ciad ha annunciato la revoca degli accordi di difesa e sicurezza in vigore con la Francia, Paese di cui ospita sul suo territorio circa mille militari. “È ora per il Ciad di affermare la sua piena sovranità e di ridefinire i suoi partenariati strategici, sulla base delle sue priorità nazionali”, ha dichiarato in un comunicato il ministro degli Esteri, Abderaman Koulamallah, precisando che la decisione non rimette in questione “le relazioni storiche e il legame di amicizia fra i due Paesi”. Il capo della diplomazia di N’Djamena sottolinea che la scelta è frutto di “un’analisi approfondita” e che il Ciad si impegna a collaborare con le autorità francesi ad assicurare “una transizione armoniosa”, senza tuttavia precisare una data per il ritiro delle forze straniere. Il governo del Ciad – prosegue il testo – “rimane determinato a mantenere relazioni costruttive con la Francia in altri ambiti di interesse comune”, esprime “la sua gratitudine alla Repubblica francese per la cooperazione condotta nel quadro dell’accordo” e “rimane aperto ad un dialogo costruttivo per esplorare nuove forme di partenariato”.

    Non è forse un caso se le autorità di N’Djamena hanno deciso di “smarcarsi” dall’ex potenza coloniale nell’anniversario dell’indipendenza, avvenuta nel 1958, con un annuncio che segue di poche ore la partenza dal Paese del ministro degli Esteri francese Jean-Noel Barrot, ricevuto ieri dal presidente Mahamat Idriss Deby. Una missione ufficialmente destinata – secondo Parigi – a rafforzare la richiesta regionale di un cessate il fuoco nel vicino Sudan, ma che in ogni caso non è servita a dissuadere i militari al potere in Ciad dal rompere i rapporti bilaterali di difesa. Lunedì scorso, inoltre, l’inviato speciale per l’Africa del presidente Emmanuel Macron, Jean-Marie Bockel, ha consegnato al capo dell’Eliseo il suo rapporto sulla presenza militare francese in Africa, con all’interno proposte dettagliate su come ridurre gli effettivi in Ciad, Gabon e Costa d’Avorio. In quest’ottica la decisione ciadiana non sembra essere un evento del tutto inatteso per Parigi. L’annuncio di N’Djamena, peraltro, segue quello con cui il governo ciadiano ha minacciato di ritirare il suo fondamentale sostegno dalla Forza multinazionale congiunta (Mmf), missione regionale cui contribuiscono dal 1994 anche Nigeria, Benin, Camerun e Niger allo scopo di fronteggiare il terrorismo jihadista. Dopo la Nigeria, con i suoi 3 mila uomini, il Ciad ne è il principale contributore. Il presidente Mahamat Deby Itno – al potere dall’aprile 2021, quando subentrò a suo padre Idriss Deby Itno, ucciso in battaglia rai ribelli – ha lamentato uno sforzo eccessivo da parte del suo esercito per la stabilità regionale, in un momento in cui lo stesso Ciad deve far fronte a continue offensive sul suo territorio: l’ultima, lo scorso 28 ottobre, ha visto cadere 40 militari ciadiani in un violento attacco contro la base militare di Barkaram, nella regione frontaliera del lago Ciad.

    Con la rottura annunciata da N’Djamena, cade dunque l’ultimo baluardo francese nel Sahel, e per Parigi all’orizzonte si prospettano altre difficoltà. Il presidente del Senegal, Bassirou Faye Diomaye, è infatti tornato a chiedere la chiusura nel Paese di tutte le basi francesi, nel nome della sovranità nazionale. “Il Senegal è un Paese indipendente, è un Paese sovrano e la sovranità non accetta la presenza di basi militari”, ha dichiarato in un’intervista a “France 2”. Faye ha precisato che non è nelle sue intenzioni tagliare le relazioni con Parigi come fatto da altri nella regione, e che l’argomento vale per tutti, nessuno escluso: “Oggi la Cina è il nostro più grande partner commerciale in termini di investimenti e scambi. La Cina ha una presenza militare in Senegal? No. Ciò significa che le nostre relazioni sono interrotte? No”, ha specificato. Poche ore prima dell’intervista Macron ammetteva in una lettera a Faye le responsabilità coloniali francesi in quello che ha definito il “massacro” di fucilieri senegalesi nel 1944 nel campo militare di Thiaroye (Dakar), quando i militari africani chiesero di essere pagati per il servizio prestato al fianco di Parigi durante la Seconda guerra mondiale. Il gesto di Macron è stato riconosciuto come “un passo coerente” dal capo di Stato senegalese, che tuttavia rimane fermo sulla posizione militare già espressa durante la campagna elettorale.

    Nel tentativo di mantenere una presa sul Sahel, da dove la Francia è stata negli ultimi quattro anni progressivamente estromessa (prima del Ciad, era stata la volta delle giunte golpiste di Mali, Burkina Faso e Niger), Macron tenta ora di rafforzare le relazioni con la Nigeria, il cui presidente Bola Tinubu è in visita ufficiale a Parigi proprio in questi giorni. Accolto personalmente dal presidente francese e ospitato prima al Consiglio d’affari franco-nigeriano poi alla riunione dell’influente Medef (la Confindustria locale), Tinubu è il primo capo dello Stato nigeriano a visitare la Francia da 20 anni a questa parte. Per Parigi, che per necessità si trova a dover guardare con maggior interesse all’area anglofona saheliana, la Nigeria può giocare un ruolo – se non militare, certamente economico – strategico. Principale partner commerciale di Parigi nell’Africa sub-sahariana davanti a Sudafrica, Costa d’Avorio e Angola, Abuja rappresenta oltre il 20 per cento del commercio francese nella regione, concentrato per l’export in settori come la farmaceutica, le attrezzature meccaniche, i veicoli e i prodotti chimici, per l’import sugli idrocarburi. Rafforzare le relazioni con la Nigeria, primo motore dell’Africa occidentale e seconda del continente, è per Parigi un’occasione vitale per non perdere del tutto presa su una regione che guarda ormai alla Francia in modo diffidente e spesso ostile.

  • L’Egitto invia consiglieri militari al governo della Somalia

    Prende corpo l’accordo di cooperazione militare siglato ad agosto dai governi di Somalia ed Egitto per l’invio a Mogadiscio di 10mila unità egiziane, da destinare per metà a iniziative bilaterali di difesa, per l’altra alla nuova Missione di supporto e stabilizzazione dell’Unione africana in Somalia (Aussom), che dal primo gennaio 2025 subentrerà alla Missione di transizione dell’Ua in Somalia (Atmis). Secondo quanto scrive il quotidiano “Somali Guardian”, consiglieri militari egiziani sono stati già dispiegati a sostegno di unità dell’esercito somalo presso linee di rifornimento critiche utilizzate dalle truppe etiopi in Somalia – dove sono impegnate nell’ambito della missione Atmis – per ostacolare qualsiasi ulteriore schieramento di truppe prima del loro ritiro, previsto entro il 31 dicembre. L’invio dei primi consiglieri, dunque, anticipa l’imminente arrivo a Mogadiscio del primo contingente vero e proprio che l’Egitto dovrà dispiegare a Mogadiscio entro la scadenza del 31 dicembre. Gli ultimi sviluppi sono destinati ad acuire ulteriormente le tensioni con l’Etiopia, le cui relazioni con il governo di Mogadiscio sono ai ferri corti per via del controverso memorandum d’intesa siglato lo scorso primo gennaio tra le autorità di Addis Abeba e quelle dell’autoproclamata Repubblica del Somaliland.

    L’invio dei militari egiziani in Somalia è stato approvato di recente dal governo somalo e sancito ufficialmente in occasione della recente visita ad Asmara del presidente somalo Hassan Sheikh Mohamud, che ha partecipato ad un vertice trilaterale con gli omologhi di Egitto ed Eritrea, rispettivamente Abdel Fattah al Sisi e Isaias Afwerki. In quell’occasione, i tre leader hanno inoltre stabilito la nascita di un’alleanza strategica che appare tesa ad arginare l’espansionismo etiope nel Mar Rosso. Nella dichiarazione congiunta diffusa al termine della riunione di Asmara, le tre parti hanno sottolineato “la necessità di rispettare assolutamente la sovranità, l’indipendenza e l’integrità territoriale dei Paesi della regione e di contrastare le interferenze nei loro affari interni con qualsiasi pretesto o giustificazione”, oltre che di “aderire ai principi e ai pilastri fondamentali del diritto internazionale come base indispensabile per la stabilità e la cooperazione regionale”. Al centro dell’attenzione la sicurezza nel mar Rosso e nello Stretto di Bab el Mandeb, riconosciuto quale “corridoio marittimo vitale”: nel documento i leader hanno “accolto con favore gli sforzi compiuti dall’Eritrea e dall’Egitto per sostenere la stabilità in Somalia e rafforzare le capacità del governo federale somalo”, e hanno espresso parere positivo sull’offerta dell’Egitto “di contribuire con truppe nel quadro degli sforzi di mantenimento della pace in Somalia”.

    I colloqui tra Egitto ed Eritrea sono poi proseguiti in seguito alla visita a sorpresa effettuata ad Asmara dal capo dell’intelligence egiziana Kamal Abbas, molto vicino al presidente Abdel Fattah al Sisi ed accompagnato dal ministro degli Esteri Badr Abdelatty. Gli alti funzionari egiziani, riferisce un comunicato, “hanno anche ascoltato le opinioni del presidente Afwerki sugli sviluppi nel Mar Rosso in merito all’importanza di trovare le circostanze giuste per ripristinare la normale navigazione marittima e il commercio internazionale attraverso lo stretto di Bab el Mandeb”, che collega il Mar Rosso al Mar Arabico. Insieme, i territori di Egitto ed Eritrea coprono circa 5 mila chilometri di costa del Mar Rosso, comprese le coste egiziane dei golfi di Suez e Aqaba, nonché 355 isole sotto la sovranità eritrea. L’Egitto controlla le zone settentrionali del Mar Rosso, compreso il canale di Suez che collega al Mediterraneo, mentre l’Eritrea si trova vicino allo strategico stretto di Bab el Mandeb.

    Al centro delle tensioni tra Somalia ed Etiopia c’è la firma del controverso memorandum d’intesa siglato lo scorso primo gennaio tra il governo etiope e le autorità dell’autoproclamata Repubblica del Somaliland, in base al quale Addis Abeba otterrebbe un accesso al Mar Rosso tramite il porto di Berbera, in cambio del riconoscimento dell’indipendenza dello Stato separatista. Il memorandum, come prevedibile, non è stato riconosciuto dalla Somalia, che lo considera una minaccia alla propria sovranità territoriale. Le tensioni tra Mogadiscio e Addis Abeba sono cresciute nelle ultime settimane e hanno raggiunto l’apice alla fine di settembre, quando il presidente Mohamud ha accusato l’esercito etiope di aver sequestrato aeroporti strategici nella regione somala di Ghedo – dove le truppe etiopi sono schierate nell’ambito della missione Atmis – e di aver iniziato ad armare le milizie dei clan in tutto il Paese, a causa delle tensioni derivanti dal memorandum.

    In un’intervista concessa all’edizione in arabo di “Al Jazeera”, Mohamud ha denunciato che l’Etiopia ha assunto il controllo totale della regione di Ghedo, dove continua ad armare le milizie dei clan per indebolire l’autorità del governo somalo. Interrogato sul memorandum d’intesa tra Etiopia e Somaliland, Mohamud ha ribadito che Addis Abeba non mira soltanto ad ottenere un accesso al Mar Rosso ma sta cercando di annettere parti del territorio somalo. “L’Etiopia non vuole solo un porto; mira a stabilire un potere militare nel Mar Rosso, il che è completamente inaccettabile”, ha dichiarato il presidente somalo, per il quale l’Etiopia punta soprattutto a stabilire una base navale per assicurarsi il dominio marittimo della zona. Nelle scorse settimane l’Etiopia ha schierato veicoli blindati e centinaia di uomini al confine con la Somalia, in seguito con il sequestro di alcuni aeroporti chiave nella regione somala di Ghedo, tra cui quelli di Luq, Dolow e Bardere, nel tentativo di impedire il possibile trasporto aereo di truppe egiziane nella zona. La mossa è arrivata in risposta all’arrivo a Mogadiscio dei primi militari egiziani che saranno dispiegati negli Stati regionali di Hirshabelle, del Sudovest e di Galmudug, nell’ambito di un accordo di cooperazione militare siglato ad agosto dai governi di Somalia ed Egitto.

    Da tempo ai ferri corti con l’Etiopia per via del complicato dossier della Grande diga della Rinascita etiope (Gerd), già dall’inizio del 2023 l’Egitto è un attore chiave per la sicurezza in Somalia, contribuendo all’addestramento delle reclute dell’esercito somalo e alla fornitura di armi e munizioni e alla cura di soldati somali feriti negli ospedali militari egiziani. Sempre lo scorso anno, inoltre, Mogadiscio e Il Cairo hanno avviato colloqui per una più stretta cooperazione strategica, e da tempo circolano indiscrezioni di stampa – finora mai confermate – secondo cui Mogadiscio starebbe pensando di concedere all’Egitto una base militare nel centro-sud del Paese. A riavvicinare le posizioni di Egitto e Somalia, oltre alla comune minaccia etiope, è stato anche il disgelo nelle relazioni tra Il Cairo e lo storico alleato di Mogadiscio: la Turchia. Un disgelo che è stato sancito dalla recente visita effettuata ad Ankara dal presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi (la prima dal 2014). Una visita che ha indicato in modo chiaro e inequivocabile la rinnovata vicinanza tra i due Paesi dopo gli anni di gelo vissuti a partire dal 2013 a causa di posizioni divergenti sull’islam politico, ma anche su questioni geopolitiche regionali. Negli anni successivi al 2013, esattamente nel 2021, il disgelo fra il Qatar – principale punto di riferimento della Fratellanza musulmana – e il blocco di Paesi del Golfo formato da Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Bahrein, insieme all’Egitto, ha infatti aperto nuovi spiragli alle relazioni fra Il Cairo e Ankara.

  • Defezione del Niger: stop all’accordo militare con gli Usa

    Il governo militare del Niger ha interrotto “con effetto immediato” l’accordo di cooperazione militare firmato con gli Stati Uniti nel 2012. L’annuncio è stato letto in un intervento trasmesso dalla televisione nazionale “Rtn” dal colonnello Amadou Abdramane, portavoce della giunta al potere dal colpo di stato dell’anno scorso, chiamata Consiglio nazionale per la salvaguardia della patria (Cnsp). Abdramane ha spiegato che il governo nigerino “tenendo conto delle aspirazioni e degli interessi del suo popolo” ha deciso “di interrompere con effetto immediato l’accordo relativo allo status delle forze armate degli Stati Uniti” e del personale civile del dipartimento della Difesa Usa in territorio nigerino. Il portavoce ha definito la presenza militare statunitense “illegale” e in violazione di “tutte le regole costituzionali e democratiche”. Non solo: secondo Niamey è illegittimo e “ingiusto” lo stesso accordo, che sarebbe stato “imposto unilateralmente” dagli Stati Uniti, tramite una “semplice nota verbale”, il 6 luglio 2012.

    L’annuncio giunge dopo una visita di tre giorni (12-14 marzo) di una delegazione Usa guidata da Molly Phee, assistente segretaria di Stato per gli Affari africani, e comprendente anche il generale Michael Langley, comandante del comando Africom. Il portavoce del governo militare di Niamey ha riferito che dalla delegazione è stata lanciata al Niger l’accusa “cinica” di aver stretto un accordo segreto per fornire uranio all’Iran e la “minaccia di ritorsioni”. Il colonnello ha contestato anche le obiezioni che gli Usa avrebbero sollevato sugli alleati scelti dal Niger, nonché il mancato rispetto del protocollo diplomatico: il Niger non sarebbe stato informato della composizione della delegazione, della data di arrivo e dell’agenda della missione.

    I militari statunitensi presenti in Niger sono più di 600. In risposta all’annuncio di Nyamey, Washington ha replicato con un post pubblicato su X del portavoce del dipartimento di Stato Usa, Matthew Miller. “Siamo a conoscenza della dichiarazione del Cnsp in Niger, che fa seguito alle franche discussioni a livello senior svoltesi questa settimana a Niamey riguardo alle nostre preoccupazioni per la traiettoria del Cnsp. Siamo in contatto con il Cnsp e forniremo ulteriori aggiornamenti come garantito”, ha scritto Miller.

    Il Niger ha precedentemente messo fine alla cooperazione militare con la Francia. Lo scorso 24 settembre il presidente francese, Emmanuel Macron, ha annunciato il ritiro del contingente ancora presente in Niger, ritiro iniziato il 5 ottobre e completato il 22 dicembre. Dal 2015 la Francia ha inviato circa 1.500 militari nel Paese africano per contribuire a contrastare l’intensificarsi dell’insurrezione jihadista. Le truppe francesi erano stanziate nella capitale Niamey e nelle basi di Ouallam e Ayorou, vicino al confine con il Mali.

    Nel Paese è presente la Missione bilaterale di supporto nella Repubblica del Niger (Misin), autorizzata dal Parlamento italiano nel 2018 e istituita al fine di incrementare le capacità volte al contrasto del fenomeno dei traffici illegali e delle minacce alla sicurezza, nell’ambito di uno sforzo congiunto di Unione europea e Stati Uniti per la stabilizzazione dell’area, il rafforzamento delle capacità di controllo del territorio da parte delle autorità nigerine e dei Paesi del G5 Sahel e le attività di sorveglianza delle frontiere e del territorio e di sviluppo della componente aerea. La missione – la cui area geografica di intervento è allargata anche a Mauritania, Nigeria e Benin – conta attualmente circa 350 effettivi e 13 mezzi, tutti terrestri.

    Il contingente, dislocato in un hub operativo-logistico completato nel giugno 2022 e situato all’interno dell’aeroporto di Niamey, comprende squadre di ricognizione, comando e controllo, e addestratori, da impiegare anche presso il Defense College in Mauritania, personale sanitario e del Genio per lavori infrastrutturali, squadra rilevazioni contro minacce chimiche-biologiche-radiologiche-nucleari (Cbrn), unità di supporto, force protection, raccolta informativa, sorveglianza e ricognizione a supporto delle operazioni.

  • Le giunte militari di Mali e Niger ripristinano la doppia imposizione fiscale con la Francia

    Le giunte militari di Mali e Niger hanno firmato il 5 dicembre un comunicato stampa congiunto in cui denunciano le convenzioni firmate con la Francia per il superamento della doppia imposizione fiscale. La decisione, si legge nella nota congiunta, fa seguito al “persistente atteggiamento ostile della Francia” e al “carattere squilibrato” di queste convenzioni che costituiscono “un notevole deficit per il Mali e il Niger”. Le convenzioni fiscali denunciate dalle giunte golpiste disciplinano le norme per la tassazione del reddito o delle successioni e permettono inoltre lo scambio di informazioni e la collaborazione tra amministrazioni, ad esempio per la riscossione delle imposte. Tali convenzioni verranno quindi abolite “entro tre mesi”, secondo quanto affermato nel comunicato. La decisione è destinata ad avere serie ripercussioni sia per i privati che per le imprese domiciliate in Francia e che svolgono un’attività in Mali o in Niger, e viceversa, con conseguenze inevitabili sia per i francesi che lavorano in Niger, sia per i maliani della diaspora in Francia, ma anche per le aziende che espatriano alcune filiali. La mossa segna una nuova tappa nel riavvicinamento tra i Paesi golpisti del Sahel – Mali, Niger e Burkina Faso – che a settembre hanno dato vita a una coalizione militare, nota come Alleanza degli Stati del Sahel (Aes).

    La decisione fa peraltro seguito a quella con cui ieri la giunta militare del Niger – salita al potere dopo il colpo di Stato dello scorso 26 luglio – ha annunciato l’intenzione di porre fine agli accordi di difesa e sicurezza con l’Unione europea, stipulati per sostenere le autorità nigerine nella lotta al terrorismo, alla criminalità organizzata e all’immigrazione irregolare. In un comunicato pubblicato lunedì sera, il ministro degli Esteri di Niamey ha annunciato di voler revocare l’accordo stipulato con l’Ue relativo alla missione civile europea denominata Eucap Sahel Niger, attiva dal 2012 e che attualmente conta su circa 130 gendarmi e agenti di polizia messi a disposizione dagli Stati membri dell’Ue per svolgere la sua azione. Oltre alla missione Eucap, la giunta nigerina ha comunicato di aver ritirato il consenso concesso per il dispiegamento della Missione di partenariato militare dell’Ue in Niger (Eumpm), attualmente a guida italiana.

  • Russia e Libia cooperano per creare un corpo militare in Africa

    Le autorità russe stanno collaborando con quelle libiche per la creazione di un Corpo militare russo in Africa. La notizia, contenuta in un annuncio che compare sui canali Telegram russi a firma del direttore della rivista “Difesa Nazionale” Igor Korotchenko, segue la visita in Libia del viceministro della Difesa della Federazione Russa, Yunus-Bek Evkurov, su invito del comandante dell’Esercito nazionale libico (Lna), il generale Khalifa Haftar. La missione di Evkurov è l’attuazione pratica degli accordi russo-libici raggiunti nel quadro dell’undicesima Conferenza sulla sicurezza internazionale di Mosca e del forum tecnico-militare Esercito, che si sono svolto ad agosto in Russia. Per il Cremlino, si legge nel testo, i principali oppositori nel continente nero sono gli Stati Uniti e i loro alleati della Nato, tra cui la Francia. “Il ministero della Difesa russo contrasterà l’influenza occidentale e rafforzerà la posizione di Mosca in Africa. Il Corpo africano russo dovrà condurre operazioni militari su vasta scala nel continente a sostegno dei paesi che cercano di liberarsi finalmente della dipendenza neocoloniale, ripulire la presenza occidentale e ottenere la piena sovranità”, recita la dichiarazione

    Allo stesso tempo, prosegue il testo, “non stiamo parlando di beneficenza: l’uso del fattore forza in Africa dovrebbe portare alla Russia non solo benefici politici (l’avvento al potere di governi e regimi amici) e militari (fornitura di locazione gratuita di basi, aeroporti, centri logistici per la Marina), ma anche dividendi economici (controllo dei giacimenti di oro, platino, cobalto, uranio, diamanti, petrolio, terre rare e loro sviluppo a condizioni reciprocamente vantaggiose con i partner africani)“. Lo stipendio minimo di un soldato del Corpo africano è di 204 mila rubli (2.100 euro al cambio odierno). La pubblicità che accompagna la dichiarazione recita così: “Il servizio a contratto nel Corpo africano è la scelta giusta per te! Sei giovane? Forte? Coraggioso? Pensi al futuro? Ritieni che sia tuo dovere servire la Patria? Allora il servizio a contratto nel Corpo africano è la scelta giusta per te! Ti garantiamo: alta indennità in denaro; assistenza medica gratuita; un futuro sicuro per la tua famiglia; assicurazione vita e sanitaria a spese del bilancio federale.

  • La Ue sanziona i mercenari russi della brigata Wagner

    “L’Ue è unita nel sostenere la sovranità e l’integrità dell’Ucraina”. Nell’ultimo Consiglio Affari Esteri dell’anno sono il dossier Kiev e lo spettro dell’invasione russa, a tenere banco tra i ministri degli esteri europei. Ed emerge un filo rosso che unirà i prossimi step di Bruxelles, che l’Alto Rappresentante per la Politica Estera, Josep Borrell, ha riassunto così: “Ci auguriamo il meglio e ci prepariamo al peggio”. Di fatto, nelle prossime settimane l’Ue manterrà un approccio graduale, puntando alla dissuasione e al lavorio diplomatico. Nel frattempo, però, un passo lo ha fatto, approvando all’unanimità un pacchetto di sanzioni per i mercenari russi della Wagner. Fautori di “azioni destabilizzanti” in Libia, Siria e, appunto, in Ucraina.

    Le sanzioni consistono nel divieto di viaggiare in Ue e nel congelamento dei beni che si trovano nel vecchio continente non solo per l’agenzia paramilitare finanziata dal ‘cuoco’ di Putin, l’oligarca Yevgeny Prigozhin, ma anche per otto persone fisiche e tre società legate al gruppo. Oltre a questo, però, l’Ue non è andata, aspettando che ad esprimersi sul dossier siano i leader, al Consiglio Ue di giovedì.

    La “determinazione” di Bruxelles è affidata all’ipotesi, più volte ventilata, di pesanti sanzioni economiche nei confronti di Mosca se davvero si concretizzerà un attacco all’Ucraina. “Qualsiasi aggressione contro avrà un costo elevato per la Russia”, ha assicurato Borrell prima di vedere i titolari delle diplomazie europee, Luigi Di Maio incluso. Sul dossier irrompe anche il nuovo corso della Germania, meno ‘morbida’ con Mosca. “Il Nord Stream 2 è sospeso perché non soddisfa i requisiti del diritto europeo e permangono altre questioni legate alla sua costruzione”, ha sottolineato la neo-ministra degli Esteri Annalena Baerbock nel giorno in cui, tra l’altro, Minsk ha minacciato di tagliare il gas all’Europa “se costretta”.

    La riunione dell’Europa Builging è giunta una manciata d’ore dopo il G7 dei ministri degli Esteri. Le posizioni, superficialmente, sembrano convergere. Ma fonti diplomatiche europee spiegano come l’approccio degli Usa e quello dell’Ue in realtà divergano sensibilmente. Washington ha aperto un canale di dialogo con Mosca sostanzialmente su 3 temi: il controllo degli armamenti, la cybersecurity e la reciproca limitazione imposta alle sedi diplomatiche. Il ventaglio di temi con cui Bruxelles dialoga con la Russia, spiegano le stesse fonti, è più ampio. E nei corridoi delle istituzioni europee c’è una duplice convinzione: da un lato quella di non credere che Mosca, alla fine, invaderà davvero l’Ucraina; dall’altro il considerare l’imminente attacco russo quasi come un cavallo di battaglia portato avanti dagli Usa per alzare la posta dell’interlocuzione con Putin.

    Dal canto suo, il Cremlino ha annunciato che in settimana consegnerà agli Usa le proposte sulle garanzie di sicurezza. Proposte che puntano i fari soprattutto sul ruolo della Nato. Il ministero degli Esteri russo (Mid) ha infatti ricordato che i Paesi della Nato hanno “obblighi” relativi alla sicurezza nell’area euro-atlantica e nell’intero spazio Osce. Secondo il Mid “in violazione del principio della sicurezza indivisibile, la Nato ha continuato a muoversi verso est trascurando le preoccupazioni di Mosca”. Nel mirino c’è l’avvicinamento di Ucraina e Georgia all’Alleanza, punto sul quale l’Ue è tutt’altro che sorda ai timori della Russia. Anche per questo, Bruxelles non accelera. Mercoledì, nel vertice del Partenariato Orientale, i leader europei ribadiranno il pieno sostegno a Ucraina, Moldova, Georgia, Armenia e Azerbaigian (la Bielorussia ha sospeso gli accordi), in particolare ai primi 3, considerati più avanti nel percorso di riforme. Ma a chi gli chiedeva se l’Unione vuole “armare” Kiev Borrell ha frenato: “Abbiamo garantito 35 milioni per la logistica ma l’obiettivo è la deterrenza, evitare una crisi militare”. Su questo, il consenso europeo è concreto. Come concreta è la divisione sulla scelta del boicottaggio diplomatico per le Olimpiadi invernali cinesi. “Non ne abbiamo discusso”, ha tagliato corto Borrell.

  • In attesa di Giustizia: il ponte delle spie

    Glavnoe, Razvedyvatel’noe Upravlenie, siglato G.R.U., tradotto in italiano Direttorato principale per l’informazione, è il servizio segreto delle Forze Armate russe (fino al 1991, sovietiche) ed è tutt’oggi una componente molto importante del sistema di intelligence della Federazione Russa, specialmente perché non è stato mai ristrutturato, diviso e persino diversamente denominato come accaduto al Comitato per la Sicurezza dello Stato, meglio noto come K.G.B.

    Sospettato, tra l’altro, di essere stato, di recente, artefice di attacchi informatici a livello globale e di interferenza nelle elezioni presidenziali degli Stati Uniti, ha nel suo DNA le competenze nello sviluppo di nuove tecnologie: fu, infatti, Stalin a chiedere ai suoi ingegneri di concentrarsi sulle modalità di danneggiamento dei paesi nemici a distanza.

    Come dire: non si tratta di un cimelio dell’U.R.S.S. bensì di una struttura pienamente operativa e la circostanza che il russo coinvolto nella spy story con un ufficiale della nostra Marina Militare fosse anch’egli un militare con il grado di colonnello fa pensare che la sua reale funzione nel nostro Paese – con adeguata copertura diplomatica – fosse quella di operativo del G.R.U.

    Questa vicenda sta tenendo banco ormai da giorni proprio per la sua originalità con il retrogusto da Guerra Fredda, quella guerra che sembrava ormai conclusa da decenni, da quando – come disse Margaret Thatcher – Ronald Reagan la vinse “senza sparare un colpo”.

    Intelligenza con una potenza straniera, e nel provvedimento di arresto del Capitano Walter Biot si legge di una sua elevata pericolosità, giudizio che non può che ricollegarsi alla natura delle informazioni che passava ai russi. Tanto è vero che il Governo sta considerando di mettere il segreto di Stato su quei dati che, verranno – di conseguenza – omissati negli atti giudiziari.

    Walter Biot si è avvalso del diritto al silenzio durante l’interrogatorio davanti al G.I.P. ma poche ore dopo ha fatto sapere che vuole essere sentito dai P.M., annunciando due argomenti: la irrilevanza dei documenti sottratti dal punto di vista della compromissione della efficienza militare delle nostre forze armate e la sua condizione di indebitamento.

    Non è consuetudine, in questa rubrica, anticipare giudizi soprattutto quando non si dispone di documentazione completa: tuttavia, proprio dalle poche battute del Capitano Biot traspare una implicita confessione (difficile, peraltro, negare essendo stato colto “con le mani nel sacco”) volta a minimizzare e impietosire: mutuo, figli, animali domestici da mantenere con lo stipendio della Marina e poche scartoffie senza valore rifilate ai russi.

    Due conclusioni si possono trarre a questo punto: la prima è che lo spionaggio è punito con l’ergastolo se il fatto ha compromesso il potenziale bellico dello Stato, una decina di anni in assenza di questa aggravante. Quindi, di fronte all’innegabile è meglio cercare una via di uscita dal “fine pena mai”. La seconda è che tutti i pari grado di Walter Biot guadagnano circa 2.200 euro netti al mese ma per mettere insieme il pranzo con la cena non diventano dei traditori in cambio del corrispettivo di un paio di mensilità extra.

    E il G.R.U. metterebbe in piedi un’operazione di spionaggio compromettendo agenti operativi di alto grado e mettendo dei soldi, ancorchè non molti, sul piatto per informazioni che si possono trovare digitando su Google?

    La verità sarà un’altra, quasi certamente non quella che intende offrire Walter Biot, ma per la posta in gioco, forse, non la sapremo mai del tutto; resta la triste considerazione che il traditore della Patria che ha giurato di proteggere è il peggiore dei servitori infedeli dello Stato. Anche se per pochi soldi (anzi, peggio…), anche se per informazioni di scarso valore.

    La pena che verrà inflitta al Capitano della Marina lascerà intuire qualcosa: poi bisognerà vedere se la sconterà tutta o se – come ai tempi della Guerra Fredda – verrà magari liberato e scambiato con qualcuno, forse sul Ponte Umberto che attraversa il Tevere proprio di fronte alla Corte d’Appello Militare.

  • Birmania in piazza, i generali minacciano la repressione

    Minacce di una repressione armata, idranti sparati sulla folla nella capitale, la legge marziale nella seconda città più popolosa del Paese: in Birmania il regime golpista fa capire di essere pronto a usare la forza, ma nel Paese le manifestazioni di protesta contro il colpo di stato di inizio mese diventano ogni giorno più grandi. Da una parte un esercito abituato a comandare, dall’altra una risposta popolare che i generali probabilmente non avevano messo in conto: due forze contrapposte che fanno aumentare il rischio di violenze con il passare delle ore.

    In centinaia di migliaia sono scesi nelle strade di Yangon, l’ex capitale, in scia ad altre imponenti manifestazioni degli ultimi giorni. Ma altre proteste si sono viste a Mandalay, nonostante la proclamazione della legge marziale con coprifuoco notturno, e persino nella vasta capitale Naypyidaw, costruita negli ultimi anni della dittatura con il chiaro intento di rendere difficili assembramenti anti-governativi. Qui – dove vivono molti dipendenti statali – in mattinata la polizia ha usato gli idranti nel tentativo di disperdere la folla, mentre a Yangon e in altre città del Paese, le forze dell’ordine si sono limitate a impedire l’accesso ai palazzi del potere.

    Il capo delle forze armate, generale Min Aung Hlaing, è apparso in televisione per giustificare il golpe, di nuovo con la motivazione dei “brogli elettorali” nelle elezioni dello scorso novembre in cui ha trionfato la “Lega nazionale per la democrazia” di Aung San Suu Kyi, e annunciando nuove inchieste sulle presunte irregolarità. Ma sono spiegazioni che non convinceranno una folla fatta in gran parte di giovani, che scendono in piazza in un’atmosfera di protesta gioiosa e con scritte, chiaramente ispirate a “meme” imparati in fretta nei pochi anni su Internet, che deridono il regime. Con l’accesso a Internet ormai ristabilito, per quanto le connessioni siano molto rallentate (forse anche per i picchi di utenti collegati per informarsi e condividere immagini delle proteste), nessuno sembra avere ormai paura di esprimere il proprio dissenso.

    Diversi negozi hanno inoltre iniziato a togliere dagli scaffali prodotti dei conglomerati dell’esercito, come la popolare Myanmar Beer.

    Il rischio è però che una popolazione giovane, senza memoria della repressione della “rivoluzione di zafferano” del 2007 e ancor meno del massacro che schiacciò le proteste pro-democrazia nel 1988, sottovaluti la determinazione di un esercito che si sente il garante indispensabile della stabilità nazionale e ha enormi interessi in ballo. “Provvedimenti devono essere presi contro le infrazioni che mettono in pericolo la stabilità dello Stato e la sicurezza pubblica”, ha ammonito la rete statale. Da parte sua, la giunta è probabilmente conscia che la Birmania del 2021 è distante anni luce da quella del 2007: un’eventuale repressione armata finirebbe su tutti i social media, con conseguenze disastrose sull’immagine dei militari in patria e nelle relazioni internazionali. Oggi è arrivato anche l’appello di papa Francesco, che ha espresso la sua solidarietà al popolo birmano e esortato la giunta a rimettere in libertà gli almeno 160 politici e altri dissidenti arrestati.

  • Tutto continuerà come prima?

    La follia, la spregiudicatezza, l’ignoranza, l’avidità di un uomo hanno procurato la tragica morte di tre vigili del fuoco, hanno spezzato la vita delle loro famiglie creando voragini di disperazione e dolore. Li abbiamo ricordati dicendoci ancora una volta di quanto coraggio ci voglia a domare incendi, a scavare sotto le macerie, a mettere a repentaglio vita e sicurezza per salvare altre vite.

    Ma dopo le cerimonie, le parole, gli articoli, per noi tutto tornerà come prima mentre nelle loro case resterà il buio della loro assenza.

    La follia, l’odio, la crudeltà e la vigliaccheria hanno ferito in modo gravissimo i nostri soldati a Kirkuk, in Iraq. Ancora una volta uomini coraggiosi sono stati colpiti dall’Isis e da quel terrorismo che da anni miete vittime. Il dolore e la rabbia sono forti mentre pensiamo a quei militari che, dopo anni di addestramento e di pericoli affrontati e vinti, si trovano ora invalidi, pensiamo alle loro famiglie che si sono trovate sbattute con i nomi in prima pagina senza che alcuno pensasse ai rischi che ne possono derivare. Ma per noi tutto tornerà come prima.

    O forse no? Forse ci possono essere modi diversi con i quali la politica e l’informazione possono affrontare queste tragedie? Forse c’è un modo anche per noi cittadini di provare a non dimenticare, di provare a dare una solidarietà che non si esaurisca in una lacrima o in un fiore? Forse possiamo chiedere di più alle istituzioni e chiedere di più a noi stessi, forse possiamo anche semplicemente, quando incontriamo una persona in divisa, dirgli grazie perché sta servendo il suo, il nostro Paese, la comunità civile nel mondo, la nostra vita messa troppo a rischio sia dalle calamità naturali che dalla scelleratezza di altri uomini.

    Noi possiamo fare che non sia più come prima, possiamo provare a migliorare noi e le cose intorno, basta volerlo e poi farlo.

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