Pendolari

  • I ricordi del pendolarismo

    L’incidente capitato al treno proveniente da Cremona, che è uscito dai binari a Pioltello causando quattro vittime e decine di feriti, mi ha riportato di colpo con la memoria agli anni 1948/49 nei quali anch’io, come centinaia di cremonesi a quell’epoca, praticavo il pendolarismo « professionale». Prendevo infatti il treno in partenza dalla stazione di Cremona alle ore 5,26 per recarmi a Bagnolo cremasco, ove ero stato assegnato come insegnante, a seguito di un concorso magistrale vinto nel 1948. Mi alzavo alle 4,15 e dopo essermi rasato e ripulito, facevo colazione e andavo alla stazione a piedi. Attraversavo mezza città per raggiungerla, perché abitavo in corso Vittorio Emanuele e a quell’ora i filobus non funzionavano ancora. Alla stazione incontravo la massa dei pendolari che come me dovevano prendere quel treno per giungere in tempo al lavoro. Molti erano colleghi insegnanti, la maggior parte erano operai ed impiegati che lavoravano nel cremasco e a Milano. Il treno si fermava ad ogni stazione per far salire altri pendolari. Ma non c’era affollamento su quelle carrozze di terza classe con i sedili e gli schienali di legno. Non c’era nemmeno caos o disordine, come si legge invece sulle cronache odierne del pendolarismo. L’atmosfera la ricordo con un po’ di nostalgia e di compassione: volti stanchi, sorrisi spenti, parole sottovoce. La testa era ancora nell’aura del sonno ed i pensieri facevano fatica a districarsi  tra il bisogno di riposare ancora un po’ e l’esigenza di partecipare alle conversazioni che i colleghi avevano già iniziato sui temi del lavoro o sull’attualità della cronaca che qualcuno già sbandierava dalle pagine dei giornali comperati al chiosco della stazione. A parte queste incombenze di carattere sociale, che talvolta allietavano lo scorrere del tempo, c’era il paesaggio da guardare. In autunno le nebbie e la foschia  confondevano i margini delle cose: alberi, barchessali, cascine. I prati sembravano tappeti stesi ad asciugare. I rari animali brucavano l’erba ai margini dei campi, lungo le rive dei fossati. Non c’era ancora l’abitudine di lasciarli all’aria aperta; la stabulazione era una pratica corrente e contribuiva a coltivare la tubercolosi che colpiva le mucche in particolare. D’inverno talvolta i paesaggio toglieva il fiato. Gli alberi ricamati di galaverna sembravano un ricamo di ghiaccio che abbelliva l’orizzonte e creava un’atmosfera magica e fiabesca. La neve invece si stendeva sui campi come una coperta candida e rendeva il paesaggio pulito e brillante alla luce del sole. Poi veniva la primavera, con i suoi scoppi di colore e la dolcezza delle sue atmosfere. Il treno sferragliava senza sosta e a mano a mano che ci si allontanava da Cremona si aveva l’impressione di giungere in luoghi attesi, se non desiderati. Nel frattempo i discorsi diventavano collettivi. Se si parlava di lavoro e di programmi scolastici le tendenze erano sempre duplici. Da un lato, coloro che accettavano ciò che vigeva, magari con lievi miglioramenti, dall’altro coloro per i quali niente andava bene nella scuola, a cominciare dai programmi identici da Nord a Sud, nelle città e nelle campagne, in riva al mare o sui monti dell’Appennino, delle Alpi, delle Dolomiti. Tutto doveva essere cambiato, anzi, «rivoluzionato». Se poi si chiedeva loro il nome dei poeti preferiti, solitamente non si andava oltre Pascoli, Carducci e D’Annunzio. Niente Ungaretti, Quasimodo, Cardarelli, Pavese o Saba, ad esempio. Allora la mia partecipazione alla conversazione collettiva terminava qui e ascoltavo con disgusto le parole al vento e le proposte pedagogiche le più strampalate. L’arrivo del treno a Crema interrompeva i conversari e una ventina di noi scendeva per prendere altri mezzi. Il mio era un bus che partiva un’ora  e un quarto dopo da una piazza periferica. Allora ci si recava in piazza del duomo dove alle 7,30 un bar apriva i battenti per permetterci di fare colazione con un cappuccino ed una briosche. Alle 8,25 prendevo il bus che mi depositava alle 8,45 sulla statale Crema-Pandino, alla confluenza con una strada che portava a Bagnolo cremasco. Impiegavo un quarto d’ra a fare a piedi il tragitto di 1,9 Km. e alle 9.00 in punto entravo in classe accolto dalle voci gioiose dei miei 36 alunni, tutti stabili, non pendolari come il loro insegnante. Rifacevo il cammino inverso partendo a piedi dalla scuola alle 16,30. Alle 17,00 risalivo sul bus che mi scaricava sulla piazza della stazione a Crema. Poco dopo prendevo il treno che mi riportava a Cremona alla 19,36.  Dalle 5,26 alle 19,36. Così il mio pendolarismo durava 14 ore e 10 minuti per 5 ore di lezione. Incontravo gli stessi pendolari: stesse facce stanche, stessi pensieri semi-cupi, stesso destino dell’alzarsi all’alba per andare a lavorare una sessantina di chilometri più lontano, stessi disagi per il viaggio. A casa mangiavo in fretta e furia, verso le 20,00, un piatto di minestra e poi mi ritiravo a letto a leggere  i miei autori preferiti. La televisione non era ancora stata inventata e le mie serate non potevano ancora essere dedicate a Pippo Baudo. Eppure, se ripenso a quell’anno, al mio primo anno di insegnamento, al mio pendolarismo quotidiano e ai personaggi con i quali l’ho vissuto, non mi sentirei di lamentarmi. C’è di meglio, certamente, ma a parte il tempo perso, la frequentazione di persone che esercitavano lo stesso mio mestiere o che facevano gli impiegati o gli operai in uffici o in fabbriche, è stata per me un’esperienza che mi ha arricchito umanamente e che mi ha reso consapevole dei disagi che tante persone devono affrontare ogni giorno soltanto per compiere il proprio dovere. Quel treno sferragliante era diventato per tutti noi una seconda casa, la casa comune di chi si doveva alzare presto per andare a lavorare. E coloro che l’abitavano formavano una sorta di categoria ad hoc che pativa gli stessi disagi e che condivideva le stesse fortune, quando il tempo era al bello e la natura mostrava tutta la sua particolare bellezza. Una categoria di persone che si stimavano a vicenda e che condividevano quotidianamente lo stesso destino. Non quello infelice e tragico del deragliamento di Pioltello, dovuto, come sempre, a incuria e noncuranza. Ma quello di persone normali, che facevano un lavoro normale, in condizioni – bisogna riconoscerlo – un po’ anormali, ma usuali e ordinarie.

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