pensione

  • La società relativa

    Ogni complessa evoluzione di una società dovrebbe avere come obiettivo non solo il benessere dei suoi componenti ma anche la tutela di quelle fasce di popolazione più esposte e deboli, come i bimbi e gli anziani. Non si può parlare di alcun progresso culturale, economico e sociale se non viene tenuta nella corretta considerazione ogni tipologia di tutela dei suoi componenti più deboli.

    Questo concetto rappresenta un valore assoluto e non può essere in nessun modo sottoposto ad un relativismo etico, politico o sociale, nel senso che esprime per propria stessa natura un valore costituente della stessa società.

    La proposta avanzata dai vertici dell’INPS, e sostenuta  da un economista dell’area progressista (andato in pensione a 59 anni), nella quale si propone di diminuire progressivamente la pensione in rapporto alla longevità del pensionato rappresenta, invece, fedelmente il declino di una società malata.

    Al proprio interno, quindi, ogni singolo individuo che si trovasse al di fuori del ciclo produttivo, e perciò non più individuabili come fattori di crescita economica, rappresentano semplicemente un fattore di costo da comprimere in considerazione dei sempre più difficili equilibri finanziari.

    Dal momento, quindi, che gli anziani esattamente come i bambini rappresentano quelle fasce di popolazione esterne al ciclo economico, meritano una progressiva minore attenzione e quindi tutela dei propri diritti.

    Questo relativismo valoriale che oggi interessa gli anziani, in un prossimo futuro, magari occupandosi di bimbi, potrà rivelarsi in grado anche di  sdoganare la pedofilia, come un atto d’amore con minori progressivamente considerati consapevoli dallo Stato.

    Questa aberrante relativismo etico, politico, sociale ed umano rappresenta di fatto l’elaborazione di una perversione politica e di un pornografico relativismo nel quale bimbi ed anziani risultano funzionali solo a soddisfare equilibri finanziari o desideri inconfessabili.

    Mai la nostra “democratica società” era arrivata anche solo ad ipotizzare una simile deriva la quale dimostra essenzialmente il miserabile livello umano raggiunto, annullando così ogni progresso tecnologico.

    Una qualsiasi logica umana così come una semplice deduzione sociale indicherebbero  nella implosione di questa stessa “società relativa” il solo  futuro auspicabile.

  • Boom di dimissioni dal lavoro, 1,6 milioni in nove mesi

    Altro che reddito di cittadinanza e ‘Giuseppi’! Quelle che negli Stati Uniti sono ormai noto come “Great resignation”, le grandi dimissioni, si diffondono anche in Italia. Anche se non con la stessa portata, dopo la pandemia, il fenomeno delle dimissioni dal lavoro si fa sempre più spazio. A fronte di un’Italia che pensa ‘io esisto, la società deve occuparsi di me’, come se non fosse responsabilità (e dignità) del singolo cercare anzitutto di cavarsela da sé prima di chiedere agli altri, continua ad aumentare il numero di coloro che decidono di lasciare il posto. Per scelta o per necessità, per guardare avanti rispetto alla propria occupazione e carriera o per far meglio conciliare le esigenze della famiglia.

    I motivi possono essere vari, ma di fatto la tendenza osservata a partire da due anni a questa parte si conferma con numeri in salita. Sono oltre 1,6 milioni, infatti, le dimissioni registrate nei primi nove mesi del 2022, il 22% in più rispetto allo stesso periodo del 2021 quando ne erano state registrate più di 1,3 milioni. La fotografia arriva dagli ultimi dati trimestrali sulle comunicazioni obbligatorie del ministero del Lavoro, ed il numero indica i rapporti di lavoro cessati per dimissioni, e non il numero dei lavoratori coinvolti.

    Tra le cause di cessazione dei rapporti di lavoro le dimissioni costituiscono, dopo la scadenza dei contratti a  termine, la quota più alta. Ma le cifre indicano come risalga anche il numero dei licenziamenti, dopo la fine del blocco deciso con la crisi pandemica: tra gennaio e settembre 2022, infatti, sono stati circa 557mila i rapporti interrotti per decisione del datore di lavoro contro i 379mila nei primi 9 mesi del 2021, con un aumento del 47% rispetto a un periodo in cui era però in vigore il blocco.

    Guardando il solo terzo trimestre dell’anno scorso, le dimissioni sono state 562mila, in crescita del 6,6% (pari a +35mila) sul terzo trimestre 2021. Dati che confermano, dunque, come continui il trend positivo partito dal secondo trimestre 2021, seppure con una variazione inferiore rispetto ai trimestri precedenti. Per quanto riguarda i licenziamenti, nel terzo trimestre del 2022 ne sono stati registrati quasi 181mila, con una crescita del 10,6% (pari a +17 mila) rispetto al terzo trimestre del 2021.

    Sarà dunque per un mercato del lavoro che diventa più dinamico, per una scelta di vita diversa o per le conseguenze della crisi, ma il fenomeno delle dimissioni cresce e si fa trasversale. E riguarda sia gli uomini, in prevalenza, sia le donne. A spingere, secondo gli osservatori, da un lato può essere stata la ripresa occupazionale, dopo la caduta determinata dal picco della crisi Covid, con maggiore mobilità e opportunità anche per chi vuole cambiare lavoro, soprattutto per i profili tecnici e specializzati. Dall’altro lato, al contrario, proprio la crisi e la necessità o il desiderio di un diverso equilibrio tra vita privata e professionale possono aver spinto a scegliere di dire addio al proprio posto di lavoro.

    Per Giulio Romani della Cisl bisogna “rivedere i modelli organizzativi verso una maggiore qualità”, visto che le imprese in cui si sviluppa benessere lavorativo e qualità del lavoro sono una minoranza e sono quelle dai 10 ai 250 dipendenti. Ma la platea delle imprese italiane, spiega, “è però occupata per circa il 95% da microimprese, quelle con la minore produttività, all’interno delle quali mediamente si fatica di più a sviluppare forme di welfare integrativo e dove non si pratica la contrattazione aziendale e non si costruiscono sistemi premianti trasparenti. Dove si eroga poca formazione, si genera minore conciliazione vita-lavoro, si intravedono le minori prospettive di crescita economica e professionali”.

    “L’aumento delle dimissioni – spiega Tania Scacchetti della Cgil – può avere spiegazioni molto differenti: da un lato può positivamente essere legata alla volontà, dopo la pandemia, di scommettere su un posto di lavoro più soddisfacente o più ‘agile’, dall’altro però, soprattutto per chi non ha già un altro lavoro verso il quale transitare, potrebbe essere legato a una crescita del malessere dovuta anche ad uno scarso coinvolgimento e ad una scarsa valorizzazione professionale da parte delle imprese”. Per Ivana Veronese della Uil «molte le dimissioni volontarie, forse un segno di come le priorità si siano modificate anche nella testa delle lavoratrici e lavoratori: se da qualche parte c’è uno smart-working più flessibile, se la retribuzione dove lavoro è troppo bassa o gli orari troppo disagevoli, se ho voglia di provarci davvero, un lavoro, magari anche sicuro, lo si può lasciare».

  • I rendimenti dei fondi pensione sono calati del 10% nei primi tre trimestri

    I rendimenti dei fondi pensione crollano nei primi 9 mesi del 2022 a causa del calo dei titoli azionari e dell’aumento dei tassi di interesse e vanno in territorio negativo. Secondo la Commissione di garanzia sui fondi pensione al netto dei costi di gestione e della fiscalità i rendimenti sono stai negativi e pari a -10,6% per i fondi negoziali, a -12,2% per i fondi aperti e del -12,4% per i Piani individuali pensionistici di ramo III (collegate cioè a quote di organismi di investimento collettivo del risparmio o ad un indice azionario o ad altro valore di riferimento). Nello stesso periodo il Tfr, legato all’inflazione, si è invece rivalutato del 5,2%. Per le gestioni separate di ramo I, che contabilizzano le attività a costo storico e non a valori di mercato il risultato è stato positivo e pari allo 0,8%. Se si guarda però a un orizzonte più ampio che è quello che va considerato per il risparmio previdenziale tra il 2012 e settembre 2022 i rendimenti medi annui restano positivi con un 2,7% per i fondi negoziali, 3% per i fondi aperti e 3,3 % per i Pip di ramo III a fronte di una rivalutazione del Tfr del 2,2%.

    La Covip segnala anche un calo consistente delle risorse dei fondi nel periodo considerato con una perdita di 10,9 miliardi (-5,1%) che porta l’attivo destinato alle prestazioni dei fondi previdenziali integrativi nel complesso a 202 miliardi di euro “per effetto delle perdite in conto capitale determinate dall’andamento dei mercati finanziari». A settembre 2022, le posizioni in essere presso le forme pensionistiche complementari erano 10,1 milioni in crescita del 4,2% rispetto alla fine del 2021. A queste posizioni che includono anche quelle di coloro che aderiscono contemporaneamente a più forme, corrisponde un totale degli iscritti di 9,1 milioni di individui. Si tratta di 3.734.828 posizioni per i fondi negoziali, 1.806.335 per i fondi pensione aperti, 3.651.517 per i Pip nuovi, 671.000 per i fondi preesistenti e 321.000 per i Pip vecchi.

    Nel complesso i contributi versati nei primi 9 mesi dell’anno dagli iscritti ai fondi negoziali, ai fondi aperti e ai Piani individuali pensionistici nuovi ammontano a 9,2 miliardi con un aumento del 4,6% sullo stesso periodo del 2021.

  • Nella prima metà del 2022 i fondi pensione hanno perso 5,6 miliardi di risorse

    Nei primi sei mesi del 2022 i fondi pensione hanno perso 5,6 miliardi di risorse (-2,6%) a causa delle difficoltà dei mercati finanziari spinti al ribasso dalla pandemia e dalla guerra in Ucraina: il dato è stato diffuso dalla Covip, Commissione di vigilanza sui fondi pensione, spiegando che le risorse dei fondi integrativi a fine giugno ammontavano a 207 miliardi, in calo di 5,6 miliardi rispetto alla fine del 2021.

    Hanno sofferto i rendimenti che al netto dei costi di gestione e della fiscalità sono risultati  negativi e pari a -8,3% per i fondi negoziali e a -9,7% per i fondi aperti rispetto alla fine del 2021. Nei PIP di ramo III i rendimenti sono stati pari a -10,3%. Nello stesso periodo il Tfr è stato rivalutato del 4%, in aumento rispetto agli anni precedenti a fronte di una sostanziosa crescita dei prezzi.

    Nei primi sei mesi del 2022 sono cresciute le adesioni ai fondi e – ha sottolineato la Covip – i contributi incassati da fondi negoziali, fondi aperti e PIP nuovi sono stati pari a 6,2 miliardi di euro con una crescita di 266 milioni di euro (+4,5%) rispetto al corrispondente periodo del 2021. I rendimenti dei fondi rispetto al Tfr – spiega la Commissione – vanno valutati su “orizzonti più propri del risparmio previdenziale” e quindi non solo su sei mesi. Nei 10 anni da inizio 2012 a fine 2021, il rendimento medio annuo composto è stato pari al 4,1% per i fondi  negoziali, al 4,6% per i fondi aperti, al 5% per i PIP di ramo III e al 2,2% per le gestioni di ramo I a fronte di una rivalutazione del Tfr media dell’1,9%.annuo. Anche aggiungendo  ai dieci anni i sei mesi del 2022, i rendimenti medi annui restano positivi e nella maggior parte dei casi superiori al Tfr. Si è avuto il 3,1% per i fondi negoziali, il 3,4% per i fondi aperti e il 3,7% per i PIP di ramo III mentre sono stati pari al 2,1% i  rendimenti dei prodotti di ramo I. La rivalutazione del Tfr nello stesso periodo è stata del 2,2%.

    La previdenza complementare interessa circa 9 milioni di iscritti per oltre 10 milioni di posizioni (alcuni hanno più forme di previdenza complementare). Le posizioni a fine giugno sono aumentate di 280.000 unità (+2,9%) rispetto alla fine del 2021. I fondi negoziali  hanno registrato un incremento di 194.000 posizioni (+5,6%), per un totale di 3,651 milioni. Nelle forme pensionistiche di mercato, si sono rilevate 53.000 posizioni in più nei fondi aperti (+3%) e 24.000 posizioni in più nei PIP nuovi (+0,7%). A fine giugno,  il totale delle posizioni in essere in tali forme è stata pari, rispettivamente, a 1,788 milioni e 3,637 milioni di unità.

  • Nel 2021 quasi 900.000 pensionati, agli uomini assegni più pesanti del 48%

    Sfiorano la soglia delle 900.000 unità le pensioni erogate dal 2021, nel nostro Paese, ma pur essendo i trattamenti in maggioranza femminili, gli assegni delle donne risultano essere (costantemente) più ‘leggeri’ dal punto di vista economico, rispetto a quanto percepiscono gli uomini. È lo scenario che affiora dalla lettura dei dati frutto del monitoraggio effettuato dall’Inps sui flussi delle persone andate in quiescenza nell’anno passato e nel primo semestre di quello in corso: i trattamenti concessi a partire dal 2021, fa sapere l’Istituto di previdenza pubblico, sono esattamente pari a 877.724, per un importo medio mensile di 1.203 euro e, di questi, 490.097 finiscono nelle tasche delle donne, per un ammontare medio mensile di 1.018 euro, mentre le 387.627 prestazioni che vengono distribuite alla componente maschile, sempre mediamente, valgono 1.436 euro al mese.

    Il quadro non cambia nei primi sei mesi di quest’anno. Le pensioni assegnate nella prima fase del 2022 sono 390.932 e in media hanno un ‘peso’ di 1.173 euro: a prevalere, anche qui, unicamente punto di vista quantitativo, sono i trattamenti ‘rosa’, (212.623 contro 178.309 assegni maschili). Tuttavia le somme attestano il permanere di un significativo ‘gap’ fra i sessi: nelle tasche delle neo pensionate arrivano in media 959 euro mentre ai loro ‘colleghi’ spetta quasi il 48% in più: 1.427 euro. In base alle rilevazioni diffuse ad aprile dall’Istituto, va ricordato, nei primi tre mesi dell’anno in corso le pensioni erogate agli uomini erano giunte a 85.831, con un importo medio di 1.520 euro, mentre quelle destinate alle donne 94.926, per un valore mediamente di 991 euro mensili, inferiore del 34,8%, al confronto con quanto ricevuto dalla componente maschile.

    I numeri testimoniano la condizione di affanno delle pensionate, del resto, affondano le radici nelle difficoltà che hanno incontrato e ancora incontrano le lavoratrici della Penisola: nel XXI Rapporto annuale dell’Inps, presentato alla Camera dal presidente Pasquale Tridico, infatti, si mette in risalto come per le donne la retribuzione sia più bassa, in media, del 25% (nel 2021 è pari a 20.415 euro), rispetto a quella degli uomini, anche a causa del ricorso diffuso al part-time, strumento che consente loro di potersi (anche) prendere cura della famiglia. Nel 2021, si legge, infine, nel documento, ammontano a 76.364 gli assegni sociali e 41.598 sono quelli distribuiti nei primi sei mesi del 2022.

  • Gli italiani in età di pensione sono quasi il doppio di quelli pre-adolescenti

    In Italia nel 2018 c’erano 168,9 persone con oltre 65 anni ogni 100 ragazzi di età massima pari a 15 anni, secondo quanto rilevato dall’Istat nel rapporto ‘Noi Italia’. Si tratta dell’indice di vecchiaia più alto d’Europa, a cui corrisponde un indice di dipendenza, che misura il carico delle generazioni in pensione su quelle lavorative altrettanto preoccupante. Per tasso di fecondità l’Italia è all’ultimo posto della Ue, a pari merito con la Spagna, con solo 1,3 figli per donna. Un valore “sensibilmente” inferiore” alla cosiddetta ‘soglia di rimpiazzo’.

    Del resto, il tasso di nuzialità è tra i più bassi del Vecchio Continente e “solo” il 13% dei bambini viene accolto in asili nido pubblici (quando poi crescono, quei bambini faticano a completare gli studi, aumenta la percentuale di chi abbandona precocemente, e faticano più di chiunque altro in Europa a trovare lavoro: per quanto i Neet italiani siano in calo, restano i più numerosi in Europa).

Pulsante per tornare all'inizio