persecuzione

  • Tutti gli occhi puntanti sulla Palestina. E mano libera per la Cina contro gli Uiguri

    La Cina, si sa, è il prossimo fronte su cui l’Occidente verrà sfidato dopo Ucraina e Israele. L’attenzione è tutta rivolta alla brame pechinesi verso Taiwan, ma – come verrà sottolineato a Ginevra il prossimo 30 novembre – già dal 2017 – un anno prima dell’ultima Revisione Periodica Universale (UPR) della Cina – il governo cinese ha intensificato la persecuzione di lunga data nei confronti dei membri della comunità etnica uigura, nonché dei kazaki, dei kirghisi e di altri gruppi a maggioranza musulmana e/o turca, usando il pretesto di combattere l’estremismo religioso e il terrorismo.

    Da allora numerosi esperti delle Nazioni Unite hanno documentato il ruolo del governo cinese nel commettere violazioni e abusi dei diritti umani nella regione uigura (denominata Regione autonoma uigura dello Xinjiang dal governo cinese). L’Ufficio dell’Alto Commissario per i Diritti Umani ha stabilito in un rapporto storico che la portata della detenzione arbitraria e discriminatoria degli uiguri e dei membri di altri gruppi a maggioranza musulmana e/o turca può costituire crimini contro l’umanità e che permangono le condizioni per gravi le violazioni dei diritti umani continueranno. Il Relatore speciale delle Nazioni Unite sulle forme contemporanee di schiavitù ha precedentemente avvertito che alcuni casi di lavoro forzato degli uiguri e dei membri di altre comunità di minoranze etniche potrebbero equivalere alla riduzione in schiavitù come crimine contro l’umanità. Inoltre, il Comitato delle Nazioni Unite per l’eliminazione della discriminazione razziale ha deferito la situazione nella regione uigura all’Ufficio delle Nazioni Unite per la prevenzione del genocidio e la responsabilità di proteggere.

    In assenza di discussioni formalmente obbligatorie sulla situazione dei diritti umani in Cina presso il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, l’imminente revisione dell’UPR della Cina nel gennaio 2024 rappresenta un’opportunità tempestiva e importante per rafforzare l’attenzione internazionale e discutere le azioni necessarie per prevenire ulteriori crimini contro l’umanità. Sebbene l’UPR sia un processo lungo e in genere non si traduca in un’azione immediata, è particolarmente utile per i paesi che già sperimentano atrocità, in quanto può fornire un forum per riflettere su diverse raccomandazioni per un’azione urgente, dare visibilità alle crisi in corso e confrontare le persone interessate. stato coinvolto nella perpetrazione di crimini atroci e far luce sulle sue azioni.

    Questo evento offrirà agli Stati membri delle Nazioni Unite l’opportunità di comprendere meglio la natura, la portata e il contesto delle atrocità in corso nella regione uigura e il valore aggiunto unico del processo UPR nell’affrontare la continua persecuzione guidata dallo Stato. La discussione metterà in luce come le informazioni e la documentazione esistenti provenienti da vari meccanismi e procedure delle Nazioni Unite possano essere utilizzate nell’UPR e negli sforzi successivi e complementari per mobilitare azioni di follow-up. Gli interventi di esperti daranno visibilità e visibilità al lavoro vitale della società civile nazionale e dei difensori dei diritti umani che documentano i crimini atroci commessi nella regione uigura.

  • Continua in Cina la persecuzione dei cristiani

    Il 4 giugno 1989 non esiste per il regime comunista di Pechino. E’ stato un giorno critico e tragico per i cinesi, in cui il governo ha massacrato migliaia di dimostranti che reclamavano la democrazia nella piazza Tienanmen di Pechino. Lo ricorda un articolo del Wall Street Journal del 30 maggio scorso, che denuncia la continuazione della persecuzione dei cristiani. Lo stesso giorno, tra l’altro, i leader del partito comunista – rammenta il giornale – videro i candidati pro democrazia in Polonia soppiantare il potere comunista, con l’indispensabile sostegno di Papa Giovanni Paolo II. Questi due eventi avrebbero spinto Pechino a rafforzare il controllo sulla religione, ritenendo che essa avesse rappresentato un forte incentivo per le manifestazioni a favore della democrazia. Dopo la tragedia di Tienanmen, dunque, i gruppi cristiani furono obbligati a registrarsi presso associazioni statali “patriottiche”. Nell’intento di mantenere l’accesso ai mercati occidentali, Pechino applicò selettivamente queste regole nelle grandi città, al fine di non far scoppiare reazioni troppo travolgenti nei confronti del regime. Chi sopportò il peso della chiusura delle chiese e l’internamento di massa nei campi di concentramento furono i contadini cristiani clandestini. Nei successivi tre decenni dopo il famigerato 1989, il cristianesimo cinese avrebbe registrato una crescita spettacolare. Oggi potrebbero esserci oltre 100 milioni di cristiani cinesi. Tutti, tranne 36 milioni – riferisce sempre il giornale americano – praticano la loro fede, al di fuori del controllo del governo. Il sociologo Fenggang Yang, professore e direttore fondatore del Center on Religion and Chinese Society della Purdue University, situata a West Lafayette nello stato dell’Indiana (Usa), ha previsto che la Cina potrebbe avere circa 280 milioni di cristiani entro il 2030. Un dato comparativo è offerto dal Partito Comunista che conta 90 milioni di iscritti. L’anno scorso il presidente Xi Jinping, nel tentativo di frenare la crescita della Chiesa e di sottomettere la fede cristiana ai dettami del partito, affidò il controllo diretto delle chiese al Partito comunista ufficialmente ateo. Fu così che alcune mega chiese urbane clandestine sono state chiuse, migliaia di membri delle congregazioni arrestati e numerosi eminenti pastori protestanti sono stati condannati a lunghe pene detentive. Il regime ha inoltre lanciato, proprio in questi giorni, una campagna nazionale per sradicare le chiese che avevano rifiutato di registrarsi. Questa politica si chiama “sinicizzazione.” L’Istituto pontificio per le Missioni estere afferma che l’obiettivo di questa politica è rendere le religioni “strumenti di partito”. L’anno scorso nella provincia di Henan, 10.000 chiese protestanti sono state chiuse, anche se la maggior parte erano state registrate secondo le norme in vigore. Nel 2018, più di un milione di cristiani sono stati minacciati o perseguitati e 5.000 sono stati arrestati. Nelle chiese i simboli cristiani a volte vengono sostituiti con le immagini del presidente Xi. Le chiese sopravvissute devono sostituire gli insegnamenti biblici ed evangelici con i valori socialisti. C’è stato un accordo del Vaticano con Pechino sulle nomine episcopali, ma ciò nonostante i cattolici cinesi non sono stati risparmiati. Papa Francesco ha riconosciuto tutte e otto le selezioni dei vescovi fatte dal governo cinese, mentre lo stato cinese non ha ancora ricambiato con nessuno dei 30 vescovi selezionati dal Vaticano. Da quando l’accordo è stato firmato, inoltre, due popolari santuari mariani di pellegrinaggio sono stati demoliti. Diversi preti cattolici clandestini ed un vescovo sono stati detenuti e costretti alle sessioni di rieducazione del Partito comunista, che non smentisce sé stesso e come si è sempre comportato in tutti i Paesi del mondo dove è andato al potere: imporre l’ateismo come dottrina di Stato e fare piazza pulita del cristianesimo. Molti cattolici in Cina rimangono clandestini e sono critici nei confronti dell’accordo firmato dal Vaticano, perché, come temevano e denunciavano, l’accordo non sarebbe stato rispettato dal partito comunista. Sapeva tutte queste cose il Vicepresidente Di Maio quando è andato a Pechino a preparare l’adesione del governo italiano alla Nuova Via della Seta, adesione firmata in seguito a Roma, contro il parere di tutti gli Stati dell’Unione europea di cui l’Italia, fino a prova contraria, è uno dei membri fondatori? E se lo sapeva, quali sono i vantaggi che l’Italia pensa di ricavare da questa firma? E’ possibile andare a braccetto con chi, ancora oggi, pratica la persecuzione contro i cristiani, come avveniva ai tempi dell’Impero romano? Sì, per i nostri governanti è possibile, nonostante le chiacchiere quotidiane sui diritti umani.

  • Continuano le persecuzioni contro i cristiani

    Le persecuzioni contro i cristiani non si arrestano. Nel Nepal, in dieci giorni, sono state attaccate cinque chiese. La prima è stata incendiata il 9 maggio a Dhangadhi. Altre tre nei giorni successivi a Kanchanpur, a Doti e a Panchthar. Il 18 maggio infine è stata incendiata anche la chiesa cattolica di S. Giuseppe a Kohalpur. Testimoni affermano che l’edificio è stato cosparso di benzina da una decina di uomini che hanno imposto alla popolazione del villaggio di non uscire di casa. L’interno è stato completamente distrutto dalle fiamme. La Federazione dei Cristiani del Nepal si è rivolta al governo per chiedere indagini sull’individuazione degli autori degli attacchi e per invocare provvedimenti contro questi odiosi atti vandalici. “L’attacco diretto alle minoranze religiose – ha dichiarato la Federazione – disturba l’armonia reciproca e il governo deve difendere le libertà fondamentali sancite dalla Costituzione e garantire che tutti i diritti siano salvaguardati”, affinché tutti i cittadini si sentano al sicuro nel praticare la loro fede. Ma si ha l’impressione che il cristianesimo non sia ben accolto in Nepal e che l’attacco alle chiese sia un messaggio che va in questa direzione. Un militante per la tutela dei diritti umani ha dichiarato che i cristiani in Nepal “desiderano costruire la pace e lavorare per la giustizia”. Anche il National Christian Fellowship e la Nepal Christian Society hanno condannato gli attacchi, ricordando che i cristiani in Nepal sono falsamente accusati di proselitismo nei confronti della popolazione a maggioranza indù. Non si hanno notizie di eventuali reazioni da parte del governo. Non si sa nemmeno se ci sono state reazioni da parte dell’Unione europea e delle sua Alta Rappresentante per la politica estera e la sicurezza, l’italiana Federica Mogherini.

    Fonte: La Nuova Bussola quotidiana del 22.05.2018

Pulsante per tornare all'inizio