popolazione

  • Per prevenire le guerre e avere la pace

    Per avere la pace bisogna agire per prevenire lo scoppio delle guerre, poi tutto altrimenti diventa veramente difficile.

    Per prevenire le guerre bisognerebbe che ogni nazione vivesse in sistemi democratici nei quali la volontà popolare impedisce che dittatori violenti e megalomani pensino di essere al di sopra delle leggi e di poterle modificare secondo il loro interesse.

    Per prevenire le guerre tutti i leader politici dovrebbero rispettare il diritto internazionale e la carta universale dei diritti dell’uomo.

    Per prevenire le guerre bisogna che ogni stato abbia materiale sufficiente a difendersi in caso di aggressione e che le alleanze tra i vari Stati, per la difesa comune, sia chiara senza tergiversare e negare gli aiuti nei momenti più cruciali.

    Israele è costretta a difendersi dopo che per decenni la sua esistenza è stata, da alcune nazioni e realtà politiche, negata anche sulla carta geografica mentre non si può negare ed ignorare che vi sono stati sempre più attacchi contro cittadini ebrei in varie parti del mondo.

    Le Nazioni Unite hanno dimostrato, anche con la guerra in Ucraina voluta e portata avanti, con irragionevole crudeltà e determinazione, da Putin, di non essere, così come attualmente strutturata, all’altezza del compito, occorre una riorganizzazione al passo con la realtà.

    La popolazione iraniana da troppi anni subisce le violenze di un governo integralista che oltre a portare morte, nelle carceri e sul patibolo, a tanti suoi cittadini finanzia varie organizzazioni terroriste, partendo da Hamas, e fomenta la distruzione dei civili ucraini fornendo migliaia dei propri droni alla Russia.

    Come tutti vogliamo la pace, per avere la pace occorre prevenire le guerre, per prevenirla bisogna qualche volta intervenire drasticamente per distruggere armi di distruzione massa ed impedire che governi sanguinari prevalgano e distruggano la libertà sul proprio e degli altrui popoli.

    Ci auguriamo che il popolo iraniano possa tornare alla libertà scacciando per sempre i tiranni che la opprimono e trovi con Israele, e gli altri paesi della regione, accordi stabili per la reciproca sicurezza, così come siamo e saremo, a prescindere dai governi, con Israele perché possa vivere in pace senza il continuo timore di attacchi alla sicurezza dei suoi cittadini ed alla integrità del suo territorio.

  • Amazon tribe sues New York Times over story it says led to porn addict claims

    An Amazonian tribe has sued the New York Times (NYT) over a report about the community gaining access to high-speed internet, which it claims led to its members being labelled as porn addicts.

    The defamation lawsuit said the US newspaper’s report portrayed the Marubo tribe as “unable to handle basic exposure to the internet” and highlighted “allegations that their youth had become consumed by pornography”.

    The lawsuit also named TMZ and Yahoo as defendants, and said their news stories “mocked their youth” and “misrepresented their traditions”.

    The NYT said its report did not say any of the tribe’s members were addicted to porn. TMZ and Yahoo have been contacted for comment.

    The Marubo, an Indigenous community of about 2,000 people, is seeking at least $180m (£133m) in damages.

    The NYT’s story, written nine months after the Marubo gained access to Starlink, a satellite-internet service from Elon Musk’s SpaceX, said the tribe was “already grappling with the same challenges that have racked American households for years”.

    This included “teenagers glued to phones”, “violent video games” and “minors watching pornography”, the report said.

    It stated that a community leader and vocal critic of the internet was “most unsettled by the pornography”, and had been told of “more aggressive sexual behaviour” from young men.

    The report also noted the perceived benefits of the internet among the tribe, including the ability to alert authorities to health issues and environmental destruction and stay in touch with faraway family.

    The lawsuit claims other news outlets sensationalised the NYT’s report, including a headline from TMZ referencing porn addiction.

    The response led the NYT to run a follow-up report around a week after its original story, with the headline: “No, A Remote Amazon Tribe Did Not Get Addicted to Porn”.

    The report said “more than 100 websites around the world” had “published headlines that falsely claim the Marubo have become addicted to porn”.

    But the lawsuit claimed the NYT’s original story had “portrayed the Marubo people as a community unable to handle basic exposure to the internet, highlighting allegations that their youth had become consumed by pornography”.

    The named plaintiffs, community leader Enoque Marubo and Brazillian activist Flora Dutra, who helped to distribute the 20 $15,000 Starlink antennas to the tribe, said the NYT story helped fuel “a global media storm”, according to the Courthouse News Service.

    This, they said, subjected them to “humiliation, harassment and irreparable harm to their reputations and safety”.

    The TMZ story included video footage of Marubo and Dutra distributing the antennas, which they said “created the unmistakable impression [they] had introduced harmful, sexually explicit material into the community and facilitated the alleged moral and social decay”.

    A spokesperson for the New York Times said: “Any fair reading of this piece shows a sensitive and nuanced exploration of the benefits and complications of new technology in a remote Indigenous village with a proud history and preserved culture.

    “We intend to vigorously defend against the lawsuit.”

  • Flussi migratori

    Verso la fine degli anni ‘60 del secolo scorso la popolazione mondiale era di poco più di due miliardi di persone, negli anni ’90 era già arrivata a cinque miliardi e 300 milioni e oggi abbiano da poco superato gli otto miliardi. Secondo alcuni demografi, gli umani continueranno a crescere fino a diventare circa dieci miliardi entro il 2100 (Detto per inciso, forse anche i fanatici che attribuiscono alla CO2 e agli allevamenti di bestiame la causa del cambiamento climatico perché non parlano di controllo delle nascite? Possibile che, per loro, l’aumento della popolazione non causi alcun effetto?).

    La crescita del genere umano non è però omogenea sul pianeta poiché le Americhe, l’Europa e l’Asia, hanno, seppur in maniera diversa, cominciato una costante decrescita: l’attuale maggiore responsabile dell’enorme crescita della popolazione è il continente africano. Meno di 50 anni fa l’Africa era popolata da poco più di 750 milioni di unità mentre oggi ce ne sono un miliardo e 300 milioni. La più accreditata previsione è che attorno al 2050 gli africani saranno due miliardi. In altre parole, dopo quella data almeno uno ogni quattro abitanti della terra sarà originario di quel continente.

    Se le cose stanno così, sarà ineluttabile dover assistere a un sempre maggior numero di migranti che dall’Africa si riverseranno verso il resto del pianeta durante tutto questo secolo. E’ pur vero che molti osservatori ritengono che per poter mantenere il loro attuale livello di vita le zone ora più ricche e cioè l’Europa e le Americhe hanno bisogno di mediare l’invecchiamento della propria popolazione con l’arrivo di forze fresche in età lavorativa ma il problema è che né i demografi né gli economisti prendono in considerazione le conseguenze sociali delle migrazioni incontrollate. Gli storici e i “benemeriti dell’accoglienza” ricordano che grandi flussi migratori sono sempre stati una costante nello sviluppo del genere umano e non dovremmo spaventarci. Tuttavia, ciò che tutti i suddetti negligono o fingono di dimenticare è che quegli spostamenti di masse, ovunque siano avvenuti, hanno sempre provocato conseguenze nefaste per gli autoctoni. Senza dover risalire fino a quando l’uomo di Neanderthal fu soppiantato definitivamente dall’Homo Sapiens che aveva invaso i suoi territori basta ricordare gli effetti, nel breve e nel medio termine, causati dalle invasioni barbariche nell’impero romano o, ancora più recentemente, il dilagare dell’Homo Europeensis nel nord e nel sud America o in Australia. Qualcuno ricorda come sia finita per chi vi abitava prima?

    Pur accettando, quindi, che negli anni a venire i flussi migratori potrebbero essere quasi sicuramente inarrestabili, il minimo che politici responsabili debbono fare è cercare, in tutti i modi possibili, di disciplinare questi arrivi contingentandoli nel tempo, nel numero e nella loro distribuzione territoriale.

    Uno degli aspetti incancellabili della natura umana è il bisogno di percepire una propria identità che si costruisce automaticamente assieme a chi si sente come “prossimo”. Ogni volta che tale identità, fatta di storia, di cultura presente e passata e di abitudini quotidiane si trova attaccata e messa a rischio, nasce una spontanea reazione di rigetto nei confronti di chi vi attenta o sembra farlo. Naturalmente, la necessità di sentirsi appartenente a un “gruppo” (uno Stato?, una lingua comune?, le consuetudini?, la religione?, altro?) non è solo degli autoctoni ma, quando ne ricorrono le circostanze, anche degli ultimi arrivati e, spesso, dei loro immediati discendenti. Quando si parla di “integrazione” si intende che i nuovi arrivati accettino di diluire le proprie identità passate assorbendo gran parte (o tutta) l’identità collettiva di chi li ha accolti. Quando ciò non avviene, gli autoctoni vivono sentimenti di rigetto verso i “diversi” e questi ultimi enfatizzano le loro “diversità” finendo con il trovarsi in contrapposizioni anche violente con i primi. I problemi delle periferie e delle città inglesi, francese e tedesche e i comportamenti delinquenziali di alte percentuali immigrati sono una dimostrazione che, in quei casi, l’integrazione non è avvenuta e al suo posto esiste uno scontro tra identità diverse. Oggettivamente, ovunque sia possibile non avere forti concentrazioni di immigrati con culture molto diverse dalle autoctone e simili tra loro e il mantenimento di identità pregresse e contrapposte è più facilmente superato e l’integrazione diventa fattibile. Riuscire da parte dei politici a contingentare i numeri, i tempi e razionalizzare i luoghi di accoglienza degli “stranieri” può addirittura far sì che l’incontro tra le culture diventi arricchente per tutti. Purtroppo, quando ciò non è possibile a causa di arrivi illegali e incontrollati, nasce una naturale, seppur non desiderabile, conflittualità sociale.

    Ogni governo in Europa e negli Stati Uniti cerca da tempo, pur con scarsi successi, di controllare i numeri di chi vuole entrare nei confini senza seguire le trafile previste ufficialmente. Anche l’attuale governo italiano, guidato da Giorgia Meloni, sta cercando di intervenire sul fenomeno contemporaneamente con tre sistemi relativamente innovativi. Il primo, il cosiddetto “piano Mattei”, punterebbe ad aiutare lo sviluppo economico interno dei principali Paesi d’origine dei migranti in Africa, in modo da crearvi condizioni che incoraggino la permanenza anziché la partenza. Purtroppo, anche se questo sistema funzionasse occorreranno anni, se non decenni, prima di ottenere effetti positivi. Inoltre, anche a causa dell’enorme natalità citata più sopra, pur se aumentasse la ricchezza generale di ogni Paese il prodotto nazionale lordo per abitante non potrà crescere. Nello stesso momento il governo Meloni, così come fece qualcuno dei suoi predecessori, ha firmato accordi con i maggiori Paesi di transito dei flussi migratori affinché non si consenta loro di partire e, ove possibile, i potenziali clandestini vengano rimandate nel Paese di provenienza. La terza misura presa dal Governo Meloni e apprezzata anche da altri Paesi europei è stata quella di aprire centri di raccolta di migranti irregolari in Albania e cioè in un Paese che non fa parte dell’Unione Europea. Di là dall’effetto pratico immediato (considerati pochi numeri finora coinvolti) l’apertura di questo centro ha lo scopo di rimandare il più presto possibile nel loro Paese gli immigrati giudicati non autorizzati a rimanere all’interno dell’Unione Europea e impedire loro di continuare a rimanere illegalmente in Italia. E’ risaputo che, ad oggi, i “non autorizzati” che ricevono un “foglio di via” continuano a permanere nel nostro Paese ma, essendo a tutti gli effetti “espulsi” non possono né lavorare né trovare casa. E’ quindi naturale per loro o ricorrere al lavoro nero o unirsi a bande delinquenziali. Già per il fatto di esistere, i due centri aperti in Albania dovrebbero svolgere una funzione deterrente: chi vuole entrare illegalmente in Italia provenendo da Paesi giudicati “sicuri” deve sapere ancora prima di partire che non riuscirà a restare all’interno del territorio europeo e molto presto sarà rimandato indietro.

    Purtroppo, come abbiamo dovuto constatare in Italia e in altri Paesi, esistono persone e lobbies che fanno di tutto per rendere vano ogni sforzo dei governi per cercare di disciplinare i flussi in arrivo. A volte, tra costoro ci sono persone in buona fede, seppur disinteressati degli effetti negativi che i flussi incontrollati possono causare alla stabilità di una società. Si tratta spesso, in questo caso, di pseudo-idealisti di stampo religioso o politico che si gratificano dei loro buoni sentimenti fregandosene delle conseguenze spiacevoli per tutti gli altri concittadini. Al loro fianco però, e sono molto più numerosi, ci sono tutti quelli che speculano per profitto personale sugli arrivi delle masse di (presunti) diseredati. Tutti sanno che il racket delle partenze verso l’Europa dalle coste africane e turche è un business immenso, ma quello che è meno citato dai media è il business di coloro che godono dei contributi statali per gestire l’accoglienza e il mantenimento dei clandestini. Tra costoro c’è una gran quantità di varie onlus sedicenti “caritatevoli”, siano esse costituite con o senza scopo di lucro. Alcune di loro, oltre ad ospitare gli irregolari grazie a ricche prebende statali, si sono anche dotate di sportelli dedicati alle richieste e ai successivi ricorsi contro il diniego di permessi di soggiorno. Tra i tanti, oltre alla Caritas e a Save the Children, ci sono in prima fila i patronati creati dai sindacati CGIL e CISL. Per dare un esempio di cosa succede, il solo TAR della Lombardia nel 2024 ha dovuto emettere ben 424 sentenze su ricorsi di immigrati che chiedevano la regolarizzazione del permesso di lavoro rifiutata dalla Prefettura poiché si trattava di lavori giudicati fittizi. E’ facile calcolare i costi per la collettività in termini di denaro e di intasamento dei tribunali.

    Ciò che resta nell’ombra, perché raramente se ne parla, è il business degli “avvocati d’ufficio”. Dato che ai non abbienti (ed è automatico che un immigrato clandestino venga giudicato tale) lo stato prevede per legge il “gratuito patrocinio” è nata allora una casta di avvocati “specialisti” che vive e lucra proprio sul numero di questi ricorsi. La prima sezione civile della Cassazione, quella che tratta il tema dell’immigrazione, tra dicembre e marzo ha dovuto emettere ben 12 sentenze, precedute dalle necessarie istruttorie, riguardante immigrati che, guarda caso, erano tutti patrocinati dallo stesso avvocato di Roma. Negli ultimi tre anni un altro avvocato ha tutelato da solo ben 291 ricorrenti. Per capire quanto valga economicamente la professione di quegli avvocati che “tutelano” i migranti irregolari basta sapere che nel 2023 lo stato ha pagato loro quasi 400 milioni di euro.

    A questo business già florido è facile prevedere che gli stessi (o altri) avvocati inoltreranno nuovi ricorsi (e quindi nuovi costi per lo Stato) grazie alla recente sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione che sancisce il diritto a un copioso risarcimento per i clandestini trattenuti sulla nave Diciotti per pochi giorni e non immediatamente sbarcati. E’ facile immaginare, visto il precedente, quanti altri immigrati irregolari aiutati da onlus, patronati e avvocati “specializzati” chiederanno ricchi risarcimenti per non essere stati sbarcati immediatamente, magari nel porto da loro preferito.

  • Troppi luoghi comuni intorno all’Africa

    L’Africa è nell’opinione comune un luogo da cui si fugge, per l’eco mediatica che inevitabilmente hanno gli sbarchi verso l’Europa. Genocidi (in Ruanda negli anni ’90), guerre civili o scontri etnici e religiosi (Sudan, Congo) fanno certamente parte del modo di essere, purtroppo, del Continente nero, ma quest’ultimo presenta anche una serie di caratteristiche che le cattive notizie mettono in ombra.

    La notizia può apparire così datata e lontana nel tempo da essere sostanzialmente irrilevante ma l’Africa è considerata la culla del genere umano. La Rift Valley è considerata da molti studiosi; i più antichi resti di Homo sapiens sono stati trovati in Etiopia e nel 1974, vicino Khadr fu trovato lo scheletro di Lucy, un Australopithecus Afarensis che visse circa 3,2 milioni di anni fa, e che molti scienziati ritengono sia il più antico antenato diretto dell’uomo. Lo sviluppo della civiltà in Africa è attestato dalle Piramidi in Egitto, ma in realtà a vantare il maggior numero di queste opere architettoniche è il Sudan: ne ospita 223 contro le 138 dell’Egitto ma le minori dimensioni e l’ubicazione meno accessibile ha fatto sì che a divenire attrazione turistica siano state solo quelle egiziane.

    Secoli dopo l’Africa presentava uno sviluppo anche maggiore di quello europeo. Nel 1500 la città di Timbuktu nel Mali aveva 115mila abitanti, mentre Londra solo 20mila abitanti, ed ospitava anche un università. Oggi in effetti solo il 39% della popolazione africana vive in aree urbane. E benché l’Africa sia il Paese col più veloce sviluppo demografico (oggi vi vivono 1,1 miliardi di persone, nel 2050 saranno 2,3 miliardi), solo il Cairo, Egitto, e Lagos, in Nigeria sono megalopoli con oltre 10 milioni di abitanti (Nigeria ed Egitto sono peraltro i Paesi più popolosi del continente, anche se lo sviluppo demografico più alto si registra in Niger). Più noto è il fatto che l’Africa ha una popolazione prevalentemente giovane: in molti stati africani la metà della popolazione non ha ancora raggiunto i 25 anni; l’aspettativa media di vita nel continente è però bassa: 58 anni.

    Anche se, con le sole eccezioni di Etiopia e Liberia, tutta l’Africa è stata colonizzata da Paesi non africani (Regno Unito, Francia, Belgio, Spagna, Italia, Germania e Portogallo), la lingua più parlata in Africa è l’arabo, rappresentato da vari dialetti: lo parlano 170 milioni di persone e vivono principalmente in Nord Africa (in totale, le lingue parlate nei 54 Stati del continente sono 2.000).

    La povertà in Africa è sicuramente diffusa ma che l’Africa sia un Paese povero è in parte un luogo comune. L’Angola sta vivendo una vera e propria fase di boom economico, tanto da aver invertito i flussi di immigrazione verso il Portogallo (di cui è stata una colonia): oggi sono i portoghesi che emigrano in Angola. L’Angola è anche il paese che ha espresso anche il primo miliardario (in euro) della storia dell’Africa: Isabel dos Santos Fontes.

  • Billion Indians have no spending money – report

    India is home to 1.4 billion people but around a billion lack money to spend on any discretionary goods or services, a new report estimates.

    The country’s consuming class, effectively the potential market for start-ups or business owners, is only about as big as Mexico, 130-140 million people, according to the report from Blume Ventures, a venture capital firm.

    Another 300 million are “emerging” or “aspirant” consumers but they are reluctant spenders who have only just begun to open their purse strings, as click-of-a-button digital payments make it easy to transact.

    What is more, the consuming class in Asia’s third largest economy is not “widening” as much as it is “deepening”, according to the report. That basically means India’s wealthy population is not really growing in numbers, even though those who are already rich are getting even wealthier.

    All of this is shaping the country’s consumer market in distinct ways, particularly accelerating the trend of “premiumisation” where brands drive growth by doubling down on expensive, upgraded products catering to the wealthy, rather than focusing on mass-market offerings.

    This is evident in zooming sales of ultra-luxury gated housing and premium phones, even as their lower-end variants struggle. Affordable homes now constitute just 18% of India’s overall market compared with 40% five years ago. Branded goods are also capturing a bigger share of the market. And the “experience economy” is booming, with expensive tickets for concerts by international artists like Coldplay and Ed Sheeran selling like hot cakes.

    Companies that have adapted to these shifts have thrived, Sajith Pai, one of the report’s authors, told the BBC. “Those who are too focused at the mass end or have a product mix that doesn’t have exposure to the premium end have lost market share.”

    The report’s findings bolster the long-held view that India’s post-pandemic recovery has been K-shaped – where the rich have got richer, while the poor have lost purchasing power.

    In fact, this has been a long-term structural trend that began even before the pandemic. India has been getting increasingly more unequal, with the top 10% of Indians now holding 57.7% of national income compared with 34% in 1990. The bottom half have seen their share of national income fall from 22.2% to 15%.

    The latest consumption slump, however, has deepened amid not just a destruction in purchasing power, but also a precipitous drop in financial savings and surging indebtedness among the masses.

    The country’s central bank has also cracked down on easy unsecured lending that propped up demand after the Covid pandemic.

    Much of the consumption spending of the “emerging” or “aspirant” class of Indians was led by such borrowing and “turning off that tap will definitely have some impact on consumption”, says Pai.

    In the short run, two things are expected to help boost spending – a pick-up in rural demand on the back of a record harvest and a $12 billion tax give-away in the recently concluded budget. It will not be “dramatic” but could boost India’s GDP – largely driven by consumption – by over half a percent, says Pai.

    But major longer-term headwinds remain.

    India’s middle class – which has been a major engine for consumer demand – is being squeezed out, with wages pretty much staying flat, according to data compiled by Marcellus Investment Managers.

    “The middle 50% of India’s tax-paying population has seen its income stagnate in absolute terms over the past decade. This implies a halving of income in real terms [adjusted for inflation],” says the report, published in January.

    “This financial hammering has decimated the middle class’s savings – the RBI [Reserve Bank of India] has repeatedly highlighted that net financial savings of Indian households are approaching a 50-year low. This pounding suggests that products and services associated with middle-class household spending are likely to face a rough time in the years ahead,” it adds.

    The Marcellus report also points out that white-collar urban jobs are becoming harder to come by as artificial intelligence automates clerical, secretarial and other routine work. “The number of supervisors employed in manufacturing units [as a percentage of all employed] in India has gone down significantly,” it adds.

    The government’s recent economic survey has flagged these concerns as well.

    It says labour displacement as a result of these technological advancements is of particular concern for a mainly services-driven economy like India, where a significant share of the IT workforce is employed in low value-added services sectors that are most prone to disruption.

    “India is also a consumption-based economy, thus the fall in consumption that can result from the displacement of its workforce is bound to have macroeconomic implications. If the worst-case projections materialise, this could have the potential to set the country’s economic growth trajectory off course,” the survey says.

  • Serbatoio di migranti? No, l’Africa è anche l’area con la più impetuosa urbanizzazione al mondo

    L’Africa non è solo una, se non geograficamente, perché i 54 Paesi che ne fanno parte non sono tutti omogenei. Come spiega il giornalista Federico Rampini, che sul Continente Nero ha scritto un saggio (La speranza africana), vi è anzitutto una fascia di nazioni che nel biennio 2023-24 avranno una crescita economica superiore al 5% annuo: Ruanda, Costa d’Avorio, Benin, Etiopia, Tanzania. Vi è poi un secondo gruppo di Paesi che possono aspirare al 5% annuo di aumento del Pil: Repubblica Democratica del Congo, Gambia, Mozambico, Senegal, Togo e Niger.

    Vedere l’Africa come il luogo da cui partono immigrati diretti in Europa, come da mentalità prevalente nel Vecchio Continente e in Italia, appare insomma riduttivo. Cina anzitutto, ma anche India, Arabia saudita, Emirati, Turchia vedono nell’Africa un luogo dove fare investimenti, un luogo cioé che promette sviluppo e ritorni per chi è disposto a scommetterci.

    Un rapporto della società di consulenza McKinsey sull’Africa evidenzia del resto che l’Africa sta registrando l’urbanizzazione più rapida al mondo e sta impetuosamente raggiungendo la soglia fatidica in cui sarà gli abitanti delle sue città avranno superato quelli delle campagne. Su questa base, Rampini fa presente che gli unici spostamenti di grandi masse, oggi come in futuro, rientrano nella categoria dell’urbanizzazione: abbandono di zone rurali, spostamento verso le città, con un parallelo miglioramento del benessere (come già accaduto altrove: in Cina, India e altre aree emergenti). Non importa se all’inizio molti ex-contadini vanno ad abitare in quartieri cittadini poveri e degradati, baraccopoli sprovviste di servizi essenziali: il loro reddito è comunque superiore ed infatti i consumi stanno migliorando più rapidamente che nel resto del mondo (da qui gli investimenti da parte di imprese cinesi, indiane, saudite, turche).

    Se si prende come riferimento lo Human Development Index (indice dello sviluppo umano), che raccoglie e analizza dati che riguardano il benessere economico insieme con i livelli di istruzione e la salute, si constata che Seychelles e Mauritius hanno livelli superiori alla media mondiale e che il Botswana si avvicina a questa media. Certo, appunto, esistono più Afriche e a fronte di Paesi tanto sviluppati ne restano altri, come Repubblica centrafricana e Niger, che hanno livelli che sono meno della metà rispetto alla media globale. Ma resta il fatto che vedere l’Africa solo come una minaccia, di flussi migratori, e non anche come un’opportunità è riduttivo.

  • La Cina alza l’età pensionabile

    Il governo della Cina innalzerà gradualmente l’età pensionabile prevista dalla legge, tra le più basse al mondo, per alleggerire la crescente pressione sul sistema di previdenza sociale. È quanto si apprende da un documento pubblicato dalle autorità cinesi, in cui vengono delineati piani per contrastare il calo della natalità e l’invecchiamento della popolazione, con il completamento dei relativi obiettivi entro il 2029. Attualmente, l’età pensionabile in Cina è fissata a 60 anni per gli uomini, a 55 anni per le donne che svolgono lavori impiegatizi e a 50 per le lavoratrici delle fabbriche. La riforma procede di pari passo con l’aumento dell’aspettativa di vita nel Paese asiatico, passata da circa 44 anni nel 1960 a 78 anni nel 2021. Entro il 2050, dovrebbe superare gli 80 anni.

    Come spiegato da Michael Herrmann, consulente senior presso il fondo delle Nazioni Unite per lo sviluppo della popolazione”, gran parte dei governi ricorrono all’aumento dell’età pensionabile in risposta alle pressioni demografiche, con l’obiettivo di salvaguardare i fondi dedicati alla previdenza e frenare una potenziale contrazione della forza lavoro. Attualmente, ogni pensionato in Cina è sostenuto dal contributo di cinque lavoratori: il rapporto risulta dimezzato rispetto a dieci anni fa e dovrebbe diventare di 4 a 1 nel 2030 e di 2 a 1 nel 2050. La riforma del sistema pensionistico cinese è appoggiata da diversi economisti, secondo cui il programma che prevede la riduzione della forza lavoro attiva per sostenere un numero crescente di pensionati è “insostenibile” e “deve essere riformato”. Secondo i dati del ministero delle Finanze, undici delle 31 giurisdizioni cinesi a livello provinciale registrano attualmente un deficit di bilancio relativamente alle pensioni. L’Accademia cinese delle scienze, controllata dallo Stato, prevede che il sistema pensionistico si esaurirà entro il 2035.

  • Outrage as Nigeria changes national anthem

    Some Nigerians have expressed outrage after the country’s national anthem was changed with little consultation.

    President Bola Tinubu on Wednesday signed into law the bill to revert to Nigeria’s old national anthem which was dropped by a military government in 1978.

    The newly re-adopted anthem, which begins “Nigeria, We Hail Thee,” was written by Lillian Jean Williams in 1959 which and composed by Frances Berda.

    Speaking on his first anniversary in office, President Tinubu said the anthem symbolised Nigeria’s diversity.

    But many have questioned his priorities amid the cost-of-living crisis.

    Reacting online, some Nigerians said the country had more pressing problems such as insecurity, rising inflation and a foreign exchange crisis.

    X user @Gospel_rxx posted: “A new national anthem is the priority for Tinubu & Co at a time like this, When our people can’t eat, insecurity is rife & life is hell? What a sordid joke!!. Lets see how they implement it…”

    Another X user Fola Folayan said it was shameful that parliament had rushed through the bill.

    “Changing the Nigerian national anthem written by a Nigerian, to the song written by colonizers is a stupid decision and it’s shameful that nobody in the National Assembly thought to stand against it.”

    Former Education Minister Oby Ezekwesili posted on X that she would never sing the new-old anthem.

    “Let it be known to all and sundry that I, Obiageli “Oby” Ezekwesili shall whenever asked to sing the Nigerian National Anthem [will] sing:”

    She then posted the words of “Arise O Compatriots” – the anthem which has been used for the past 46 years.

    Former presidential aide Bashir Ahmad had an interesting take as Nigerians continue to debate the issue on social media.

    “After the change of our national anthem, some people are now calling for the name Nigeria and the national flag to be changed as well. What do you think? Should we keep the name Nigeria?”

    But Tahir Mongunu, chairman of the parliamentary committee which pushed the bill through, dismissed the widespread criticism, saying it was “apt, timely and important”.

    “It will undoubtedly inspire a zeal for patriotism and cooperation. It will promote cultural heritage. Changing the national anthem will chart a path to greater unity,” Tahir said.

    And Kano resident Habu Shamsu agrees, telling the BBC: “I think it more encompassing and I like the way it flows.”

  • Il nuovo film: “2023: fuga da …”

    Negli ultimi trent’anni, all’unisono, ceto politico e mediatico hanno sostenuto la presunta sostenibilità del turismo opposta ad ogni altra forma di economia bollata come “old economy”. Questa competenza strategica ha trovato espressione sia nelle classi politiche nazionali quanto regionali e nel complesso sistema mediatico, i cui effetti hanno raggiunto un nuovo terribile traguardo individuabile nello spopolamento di due tra le più importanti mete turistiche venete ed italiane come Venezia e Cortina d’Ampezzo.

    Proprio l’altro giorno, infatti, la città lagunare ha raggiunto il triste traguardo di offrire maggiori residenzialità turistiche rispetto agli stessi abitanti ormai al di sotto della soglia di sopravvivenza con 49.998 abitanti (nel 1981 erano 108.000).

    Da anni lo spopolamento di Venezia rappresenta l’inevitabile conseguenza della ponderata desertificazione industriale che ha coinvolto anche Porto Marghera. Uno smantellamento ideologico che ha distrutto una realtà complessa che aveva portato negli anni Settanta alla creazione di decine di migliaia di posti di lavoro.

    Da questa realtà si moltiplicarono le famiglie che si trasferirono in zona sostenendo una rinnovata domanda residenziale anche nell’entroterra della terraferma.

    Con le opportune proporzioni il medesimo processo sta interessando anche Cortina d’Ampezzo la quale ha perso negli ultimi vent’anni il 9% della popolazione. Un fenomeno molto preoccupante ma che va comunque inserito all’interno di un fenomeno più complesso relativo allo spopolamento di molte comunità montane.

    La mancanza, quindi, di una politica industriale e le scellerate opzioni di una economia basata solo ed esclusivamente sul turismo risulta la principale responsabile di questo spopolamento.

    In altre parole si sono invertiti i fattori di crescita demografica e sostegno alle città.

    Quasi nessuno aveva capito, ed ancora oggi esprime una certa difficoltà anche solo ad ammetterlo, come la sola economia industriale sia in grado di assicurare uno sviluppo economico ed occupazionale e quindi demografico e sociale di una città anche se meta di una forte domanda turistica.

    Nella attuale situazione, invece, esistono ed emergono tutte le responsabilità soprattutto dei sindaci degli ultimi trent’anni anni che hanno gestito, in particolar modo a Venezia, ma vale molto spesso per tantissime località turistiche italiane, le politiche economiche guidandone la desertificazione industriale e facendola diventare un luna park che alla sera spegne le luci e diventa un deserto (https://www.ilpattosociale.it/attualita/la-presunta-sostenibilita-del-turismo/).

    Invertire ora questo trend rappresenta la vera ciclopica sfida con l’importante obiettivo di assicurare un futuro economico e sociale a queste splendide località, le quali meritano, proprio per la loro storia, una crescita demografica sostenuta da strategie economiche molto differenti dalla sola e semplice mercificazione turistica.

    Nel frattempo a giorni nelle sale cinematografiche il nuovo film “2023: fuga da Venezia e Cortina d’Ampezzo”.

  • South Koreans become younger under new age-counting law

    South Koreans have become a year or two younger as a new law aligns the nation’s two traditional age-counting methods with international standards.

    The law scraps one traditional system that deemed South Koreans one year old at birth, counting time in the womb.

    Another counted everyone as ageing by a year every first day of January instead of on their birthdays.

    The switch to age-counting based on birth date took effect on Wednesday.

    President Yoon Suk Yeol pushed strongly for the change when he ran for office last year. The traditional age-counting methods created “unnecessary social and economic costs”, he said.

    For instance, disputes have arisen over insurance pay-outs and determining eligibility for government assistance programmes.

    Previously, the most widely used calculation method in Korea was the centuries-old “Korean age” system, in which a person turns one at birth and gains a year on 1 January. This means a baby born on 31 December will be two years old the next day.

    A separate “counting age” system, that was also traditionally used in the country, considers a person zero at birth and adds a year on 1 January.

    This means that, for example, as of 28 June 2023, a person born on 29 June 2003 is 19 under the international system, 20 under the “counting age” system and 21 under the “Korean age” system.

    Lawmakers voted to scrap the traditional counting methods last December.

    Despite the move, many existing statutes that count a person’s age based on the “counting age” calendar year system will remain. For example, South Koreans can buy cigarettes and alcohol from the year – not the day – they turn 19.

    Three in four South Koreans were also in favour of the standardisation, according to a poll by local firm Hankook Research in January 2022.

    Some, like Jeongsuk Woo, hope the change will help break down Korea’s hierarchical culture.

    “There is a subconscious layer of ageism in people’s behaviour. This is evident even in the complex language system based on age… I hope the abolition of ‘Korean age’ system and the adaptation of the international standard get rid of old relics of the past,” said the 28-year-old content creator.

    Another resident Hyun Jeong Byun said: “I love it, because now I’m two years younger. My birthday is in December, so I always felt like this Korean age system is making me socially older than what I actually am.

    “Now that Korea is following the global standard, I no longer have to explain my ‘Korean age’ when I go abroad.”

    The 31-year-old doctor said South Korea’s medical sector has already been adopting the international age system.

    The traditional age-counting methods were also used by other East Asian countries, but most have dropped it.

    Japan adopted the international standard in 1950 while North Korea followed suit in the 1980s.

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