Processo

  • In attesa di Giustizia: giustizia da palcoscenico

    La Riforma Cartabia sta andando, con fatica, a regime realizzando quello che può definirsi uno sfratto degli avvocati dai Tribunali: mentre da tempo i processi di Appello e Cassazione si celebrano in larga misura  lontano anzi, paradossalmente, fuori dalle aule con un grazioso scambio di mail, il deposito di gran parte degli atti dovrà ora avvenire tramite il “Portale” (sperando che funzioni e che i destinatari ricevano, scarichino e leggano quanto trasmesso) o forse no perché c’è ancora grande confusione sotto il cielo della giustizia penale e non è chiaro se gli strumenti da impiegare siano informatici, telematici o coesistenti con il vecchio, caro, cartaceo…Insomma permangono dubbi operativi che nessuno è in grado di chiarire con apprezzabile certezza sebbene la scelta di un’errata modalità (o una malfunzione del sistema che nel periodo di “test” ha rappresentato quasi la quotidianità) comporti conseguenze assai più gravi di una risposta sbagliata al dilemma “liscia, gassata o Ferrarelle?”.

    Viceversa, atti giudiziari, trascrizioni di intercettazioni, verbali di perizie e via enumerando continuano ad avere libera circolazione ed essere linfa vitale per le redazioni dei quotidiani e gli autori di trasmissioni televisive e qualsiasi iniziativa volta a garantire un maggiore riserbo sia alle attività investigative che alle persone a vario titolo coinvolte viene additato come un attentato alla libertà di stampa da parte di un regime autoritario che tenta la reintroduzione della censura: il processo è, ormai, materiale da palcoscenico trasferito dalle aule rimaste deserte ai salotti dei talk show a corredo ed arricchimento delle più ghiotte e pruriginose anticipazioni della carta stampata e neppure alle più atroci sofferenze, alle più insensate violenze, vengono riservati i limiti di una dimensione più intima, personale. Sembra, talvolta, che la ricerca, l’esigenza di giustizia passi in secondo piano e l’amplificazione della tragedia abbia in sé un’occasione di ricerca della notorietà.

    Alla tragedia ognuno ha il diritto di reagire come meglio ritiene ma talune forme di “transumanesimo mediatico” impongono delle riflessioni e fermo restando che il giudizio deve restare sospeso quando non si dispone di dati sufficienti…anzi, sarebbe meglio non giudicare proprio.

    Tuttavia, fa riflettere la nonna di Giulia Cecchettin che, pur potendolo fare, non ha rinviato la presentazione di un romanzo che – a quanto pare – affronta proprio il tema della violenza di genere mentre la sorella, un’intervista dopo l’altra, è stata incoronata da Repubblica “donna dell’anno”. Infine, il padre si è affidato ad una agenzia per curare l’immagine e la comunicazione…va bene tutto ma, augurandoci per lui che non sia la stessa di Chiara Ferragni, sorge spontanea la domanda se, prima o poi con questa giustizia da palcoscenico, dovremo aspettarci i parenti delle vittime al Grande Fratello VIP.  Gesti liberi, ma sembra tutto troppo. Quanto alla natura del processo, è dai tempi di Gesù che li fanno fare al popolo…e chi critica certi atteggiamenti non dimentichi che c’è chi cavalca le disgrazie del prossimo e le “usa” andando oltre il diritto di cronaca con interviste banalissime ma intrusive, i tinelli tv con le solite compagnie di giro, instant books scritti con atti avuti chissà in che modo:  così si accende un faro sulla vittima di turno e la si guarda con occhio ora indecente, ora speculativo, ora moralista, ora saccente, ma sempre illiberale.

    Così come illiberale sarebbe alterare il delicato equilibrio tra le garanzie processuali dell’imputato e la soverchiante forza dello Stato che lo accusa.

    Insomma, ad entrambi va assicurata libertà: alla vittima fuori, all’imputato dentro il processo penale ma la sovraesposizione mediatica di entrambi è diventata purtroppo inarrestabile: ad un certo punto l’informazione diventa deformazione dei fatti che potrebbe avere effetti devastanti per tutti nell’ottica di un giusto processo, ferma restando la ferma denuncia di ogni violenza  – non solo quella di genere –  in molti casi di taluno si rasenta il linciaggio, mentre altri soggetti vengono lasciati liberi liberi di commetterne…e molto va imputato, purtroppo, alla comunicazione.

    Per ultima, una considerazione amara: si fa un gran parlare di certezza della pena che deve essere momento di rieducazione di chi è ritenuto colpevole di un crimine ma nessuno pensa a questo modello di società, con questi mezzi a portata di tutti, pasciuta con giustizia da palcoscenico, che va rieducata tutta.

  • A che punto è la notte

    Leggendo il titolo di un inquietante saggio di Alessandro Barbano, “La gogna. Hotel Champagne, la notte della giustizia italiana”, spontanea sorge la domanda mutuando quello di un romanzo noir firmato da Fruttero e Lucentini nel 1979.

    La risposta non è di quelle confortanti: siamo nel cuore di una notte senza luna né stelle; il nuovo anno porta con sé una legge finanziaria che dota con una manciata di spiccioli il settore della giustizia. In compenso bisognerà confrontarsi con la Riforma “Cartabia” finalmente (?) a pieno regime per gli aspetti legati alla informatizzazione del processo penale rispetto alla quale il personale degli uffici non è ancora adeguatamente preparato all’impiego del “Portale” dedicatovi: una mastodontica accozzaglia di malpensati e malfunzionanti software che plasticamente rappresenta la figura del cretino elettronico capace di impicciare e rallentare vieppiù il lavoro di strutture che da sempre sono in debito d’ossigeno con la produttività.

    Questa proverbiale incapacità di dotare il sistema di strumenti in grado di efficientarlo non si spiega in altro modo che con un originario maleficio, una fatwa, una misteriosa iattura che produce – addirittura – l’effetto contrario di complicare ulteriormente le cose, talvolta con il contributo di fastidiosi poltergeist trasferiti direttamente dalla consolle di una discoteca allo scranno di Guardasigilli o di altri figuranti meno bizzarri ma non meno perniciosi.

    L’anno che verrà non sembra, per ora, autorizzare profezie consolatorie come nella lirica di Lucio Dalla se è vero come è vero che le riforme liberali preannunciate dal Ministro Nordio sono parcheggiate su un binario morto e tenute sotto tiro non solo dalla potenza balistica dell’Associazione Nazionale Magistrati ma anche da fuoco amico; il tutto mentre, anche volendo, si possono ritoccare solo marginalmente gli assetti recentemente dati al processo penale dopo aver fruttato solo ciò che realmente interessava:  fondi del PNRR.

    Qualcosa, per esempio, si sta cercando di fare con riguardo ai limiti imposti alla facoltà di impugnazione con l’intento manifesto di ridurre il carico soprattutto delle Corti di Appello.  Il che, tradotto, non significa dotare il Paese di una giustizia che lavora meglio ma di uffici giudiziari che lavorano meno grazie ad una disciplina riformatrice che grida vendetta e la cui incostituzionalità risulterebbe chiara anche ad uno studente del secondo anno della scuola alberghiera.

    Un altro terreno di scontro, ormai da decenni, è quello della prescrizione, il cui regime è già stato modificato quattro volte negli ultimi diciotto anni, ed a cui si sta ponendo nuovamente mano: emblema di una giustizia che rassomiglia sempre più alla tela di Penelope, da fare e disfare come prezzo da pagare al processo penale divenuto terreno di scontro politico e di acquisizione del consenso elettorale.

    E non si torni a dire che la prescrizione è il vergognoso istituto che salvaguarda ricchi e potenti dal meritato castigo per le loro malefatte perché di vergognoso c’è solo un apparato che – come accaduto a Napoli e reso noto dai media – non riesce a terminare un processo alla criminalità organizzata in meno di vent’anni e dopo tre dalla conclusione non sono ancora note le motivazioni della sentenza. Una giustizia che arriva dopo un quarto di secolo non è degna di questo nome né per gli accusati né per le vittime…ma anche un tempo minore indigna: a Torino ne hanno impiegati sedici (di cui nove solo per fissare una data il giudizio di appello) per una violenza sessuale, a Milano un fascicolo relativo a gravi fatti di concussione è rimasto, insieme ad altri, a fare le ragnatele in un armadio per quasi quattordici anni prima di essere riesumato dal Magistrato “erede” del ruolo di un P.M. che prima di andare in pensione era ossessionato esclusivamente dall’indagare sulle cene eleganti ad Arcore.

    Sono solo alcuni esempi, se ne potrebbero fare altri: molti altri, troppi, egualmente distribuiti su tutto il territorio mentre la politica si affanna a cercare le più improbabili intese per varare riforme gattopardesche… e se qualcuno vi chiedesse a che punto è la notte della giustizia saprete cosa rispondere.

    Buon anno a tutti…

  • In attesa di Giustizia: lesa maestà

    Ci sono vicende che rendono emblematico il nome che si è dato a questa rubrica: come quella di Beniamino Zuncheddu di cui – bontà loro – si sono occupati recentemente anche rappresentanti della “buona stampa” sia pure senza andare molto oltre i titoli ad effetto.

    La storia è quella di un uomo per il quale sedici mesi sono stati sufficienti per svolgere indagini e celebrare il giudizio di primo grado e quello di appello, conclusi con una condanna all’ergastolo, devastandone la vita; poi sono serviti 32 anni per restituirgli la libertà, l’onore, l’affetto della famiglia.

    Beniamino Zuncheddu entrò in carcere che aveva ventisette anni e ne è appena uscito, alla soglia dei sessanta, liberato in attesa di una decisione, che appare scontata, sulla richiesta di revisione del processo di cui si sta occupando la Corte d’Appello di Roma cui è stata data una netta accelerazione successiva ad una fase iniziale scandita da udienze a distanza di sei/sette mesi una dall’altra anche perché è intervenuto il Garante dei Detenuti della Sardegna organizzando – con il contributo e la perseveranza dei Radicali – sit in davanti ai Tribunali di Roma e di Cagliari ed in questo modo dell’ “affaire Zuncheddu” si è iniziato a parlare.

    Quest’uomo, dunque, fu arrestato nel febbraio del 1991, accusato del triplice omicidio di alcuni pastori ed il ferimento di un quarto. Stiamo, dunque, parlando di un regolamento di conti asseritamente determinato da sconfinamenti di pascolo del bestiame, un movente debole ed un’unica prova debolissima a carico di Zuncheddu: la testimonianza più che ambigua di un sopravvissuto alla strage che in un primo momento disse di non avere riconosciuto nessuno ma in seguito identificò Zuncheddu (sembrerebbe dietro suggerimento di un poliziotto condizionato a sua volta da fonti confidenziali, che gliene sottopose una fotografia) e non senza modificare più volte la propria versione nelle diverse occasioni in cui fu sentito…soprattutto allorchè si avvide che non poteva avere riconosciuto un uomo che – a suo stesso dire – era con il volto travisato.

    Il riconoscimento di attendibilità ad una simile deposizione  non può che essere frutto di quella giustizia miope e impregnata di cascami inquisitori che impone di trovare un colpevole purchessia, che si arresta di fronte alla prima evidenza ancorchè improbabile e che – mutuando un esempio dal tiro a segno – prima spara il colpo e poi vi disegna intorno il bersaglio per dimostrare che è stato fatto centro pieno: quella giustizia per la quale due piatti della bilancia sono insufficienti perché non ci sono solo il torto e la ragione ma ci sono anche il cuore, la follia, il dolore, l’ingenuità, il sogno, l’utopia.

    Un uomo è marcito in carcere per gran parte della sua vita adulta sebbene fosse emerso sin da subito – a prescindere dalla testimonianza oculare ad assetto variabile – che l’autore di quell’eccidio fosse una persona avvezza all’uso delle armi con le quali Beniamino Zancheddu non aveva nessuna dimestichezza, senza contare che, con una spalla fuori uso sin dalla nascita, non avrebbe neppure potuto imbracciare un fucile con la rapidità e sicurezza necessarie per portare a termine un’operazione che le Corti di Assise hanno definito come di livello organizzativo paramilitare e  non alla portata di tutti.

    Prima di Natale è attesa la sentenza che dovrebbe porre termine a questa via crucis e non è fuor di luogo evidenziare che la richiesta di revisione fu sottoscritta oltre che dal difensore di Zancheddu anche dall’allora Procuratore Generale di Cagliari, Francesca Nanni, la stessa che – ora Procuratore Generale a Milano – ha ritenuto di segnalare disciplinarmente al C.S.M. il suo sostituto, Cuno Tarfusser, reo di averne presentata una in proprio per la strage di Erba senza “chiederle il permesso”: probabilmente in qualche comma semi sconosciuto dell’Ordinamento Giudiziario sarà anche scritto che si deve far così così e, forse, Tarfusser nel suo procedere ha saltato questo passaggio meramente formale ma viene da chiedersi se il rispetto della legge, la ricerca della verità, debbano essere vincolati all’ossequio di scale gerarchiche.

    Sono, piuttosto, i lustri ed i decenni in attesa che sia ristabilito il vero ad integrare il crimine di lesa maestà: quella della Giustizia.

  • In attesa di Giustizia: una storia (un’altra) di ordinaria ingiustizia

    Sembra di dover constatare che sia stato tirato il freno a mano ai fieri propositi riformatori del Ministro Nordio: la Giustizia deve dare la precedenza alla qualsiasi, tanto è vero che nel progetto di legge finanziaria non le viene riconosciuta una dotazione degna di questo nome…intanto accade di tutto e la rubrica, questa settimana, offrirà al pubblico ludibrio il caso degli avvocati – uno in particolare, un giovane praticante – di un indagato per falso in una pratica di voluntary disclosure, strumento messo a disposizione dei contribuenti per regolarizzare la posizione fiscale.

    Ovviamente vengono disposte intercettazioni telefoniche e ambientali, meno ovviamente (anzi, illegalmente) anche tra l’accusato ed i suoi difensori, uno dei quali, scelto probabilmente per sfruttarne, con l’età, la minore esperienza, viene convocato per essere sentito dal magistrato come persona informata dei fatti: del che parla – intercettato – ai colleghi di studio con i quali si confronta condividendo la decisione di opporre il segreto professionale se si tratterà di fatti riguardanti il mandato. Gli inquirenti, dunque, sanno in anticipo di quella decisione. Ciononostante, in esordio dell’interrogatorio, il praticante avvocato viene avvertito dell’obbligo di rispondere secondo verità e gli si pongono varie domande di carattere generale (professione, motivi per i quali ha conosciuto l’indagato ecc.).

    L’interrogatorio si protrae, poi, in termini assai più incalzanti per oltre tre ore e mezza e vi partecipano, oltre al magistrato, quattro inquirenti. Uscito dalla caserma, lo sventurato telefona (sempre intercettato) ai colleghi ed ai genitori, piangendo: richiesto del motivo e continuando a piangere spiega che “c’era un colonnello, altri quattro oltre al pubblico ministero… Mi sono sentito morire. Tre ore e mezza trattato come un delinquente!…Mi hanno rovinato la vita, il pubblico ministero ha detto che mi sto approcciando con disinvoltura alla professione legale, erano cinque contro uno e gliel’ho detto che stavano…inducendo a rispondere cose che non ho detto, né pensato ma che se volevano verbalizzare così che scrivessero addirittura loro! Finirà che mi indagheranno impedendomi anche di sostenere l’esame di Stato”.

    L’ascolto delle registrazioni è inquietante per i toni usati ed il clima creato ad arte:  per ragioni di sintesi non andiamo oltre limitando al rilievo alla violazione evidente dell’art. 188 del codice di procedura penale che vieta metodi lesivi della libertà di autodeterminazione della persona confermata, in questo caso, da una consulenza sugli audio dei professori Pietro Pietrini dell’Università di Lucca e Giuseppe Sartori di quella di Padova, per intenderci, due giganti del settore che così concludono: “I risultati delle analisi effettuate dimostrano come la situazione vissuta abbia creato nel soggetto una condizione di turbamento psichico e alterazione emotivo-affettiva compromettendo la sua libertà di autodeterminazione”. Il che, andiamo avanti, oltre ad integrare il reato di concussione o violenza privata rende per legge inutilizzabili le dichiarazioni rese. Per non farsi mancare nulla, nel giudizio a carico del cliente l’avvocato è stato citato come teste d’accusa e quelle dichiarazioni (inutilizzabili) sono, invece, state acquisite sostenendo che il testimone aveva implicitamente rinunciato al segreto professionale.

    All’obiezione di non essere stato messo nelle condizioni di serenità migliori per rispondere, il Tribunale ha ritenuto che “sono questioni che esulano dall’oggetto del processo”. Vergognatevi se ne siete capaci e questo approccio non da Tribunale della Repubblica ma da caserma di gendarmeria cilena ai tempi dell’indimenticato Generale Augusto Pinochet è stata seguita pure con riguardo alle intercettazioni degli avvocati (vietatissime dagli artt. 103 e 271 del codice di procedura).

    Non è un riconosciuto diritto alla riservatezza che vengono omessi i nomi di coloro che si sono resi responsabili di sopraffazioni di ogni genere ed illegalità assortite frutto di immaginazione interpretativa, ma per tutelare quello di chi ha il diritto all’oblio a non diventare oggetto di curiosità morbose dopo aver patito di sofferenze psicologiche, vittima di una giustizia precipitata in un buco nero nel quale si è annidata calpestando le libertà inviolabili dei singoli.

    Nordio, se ci sei, batti un colpo e, magari: un giro degli ispettori in quella Procura e quel Tribunale non guasterebbe, e non solo quelli del Ministero ma anche quelli della Polizia di Stato.

  • In attesa di Giustizia: un passo avanti e due indietro

    Nella puntata di domenica 5 novembre di Report il conduttore, Sigfrido Ranucci, ha dedicato un “capitolo” della trasmissione a criticare il Ministro Nordio affermando, incurante che sia una fake new, essere stata approvata una legge di origine governativa che limita, quasi azzerandolo, l’uso delle intercettazioni con la conseguenza che ne risulterebbe mutilata la potenzialità investigativa soprattutto nei confronti di mafiosi e corrotti.

    Per dar corpo allo sproloquio, viene mandato in onda uno stralcio di intervento di Carlo Nordio ad un evento di Fratelli d’Italia: il sapiente taglia e cuci delle parole del Guardasigilli impedisce agli ascoltatori di rendersi conto della bufala che viene loro somministrata…ma non a tutti: il caso vuole che proprio il curatore di questa rubrica stia scrivendo un manuale sul cosiddetto “disegno di legge Nordio” che affronta – tra gli altri – proprio quell’argomento. Sia, allora, da subito ben chiaro, che è un disegno di legge approdato in Commissione Giustizia al Senato poco prima della chiusura per le ferie estive che non è ancora neppure passato al voto dell’Aula. Quindi siamo ben lungi dalla approvazione anche da uno solo dei rami del parlamento.

    Quanto al contenuto della proposta di riforma – per quanto riguarda la parte dedicata alle intercettazioni – la finalità è quella di renderne stringente il divieto di pubblicazione, oggi prassi comune per le redazioni dei quotidiani che ne entrino subito e furtivamente in possesso, qualora il contenuto non sia «riprodotto dal giudice nella motivazione di un provvedimento o utilizzato nel corso del dibattimento»; si vuole, altresì, impedire che possa esservi rilascio di «copia delle intercettazioni di cui è vietata la pubblicazione ad un soggetto diverso dalle parti e dai loro difensori».

    Viene, inoltre, previsto un obbligo di vigilanza del Pubblico Ministero sulle modalità di redazione delle sintesi delle intercettazioni ed il corrispondente dovere del giudice di eliminare quelle non pertinenti e i dati personali sensibili di soggetti estranei ai reati ipotizzati, salva l’ipotesi che siano comunque rilevanti ai fini delle indagini. Tradotto: Nelle trascrizioni fatte dalle Forze dell’Ordine devono evitarsi riferimenti a fatti o persone estranee ai reati di cui si intende accertare la responsabilità ed il giudice dovrà, comunque, eliminare tutte quelle residue non pertinenti. Come dire, la telefonata dell’indagato con l’amante non potrà più diventare un ghiotto boccone per certa stampa: si tratta di principi di civiltà volti ad impedire il dilagante gossip giudiziario. Con buona pace di Ranucci e Report.

    Le intenzioni del Ministro, basandosi sulle  dichiarazioni di intenti quando assunse la carica, sono delle migliori ma…ma…fino ad ora sono rimaste solo buone intenzioni smentite – non sarà tutta colpa sua – dai fatti: vi era quella di riprendere il progetto di riforma del Codice Penale e di dar vita alla eliminazione di una quantità di reati di poco o nessun conto (da trasformare in contravvenzioni amministrative) per alleggerire il carico dei tribunali e, invece, non solo non si ha avuto neppure più notizia di passi in avanti in questo senso ma – anzi – il catalogo dei reati si sta via via arricchendo con nuove ipotesi a cavallo tra l’inutile, il bizzarro ed il francamente improponibile: dalle norme anti rave party all’omicidio nautico fino alla più recente idea di criminalizzare il privato cittadino che non rispetta le regole di smaltimento differenziato della spazzatura.

    E tutto questo mentre ancora dobbiamo iniziare a metabolizzare i danni della “Riforma Cartabia” che ha determinato il coma irreversibile del processo penale proponendo un modello che moltiplica  adempimenti e formalità durante le indagini in nome di un garantismo di facciata invece di assicurare fluidità alla fase investigativa per giungere, se vi sono gli estremi, celermente al giudizio dove la prova – per legge – si deve formare con testimoni freschi di ricordi, documenti rintracciabili senza scavare negli abissi degli archivi e perizie attuali ed attendibili. Dunque, un (mezzo) passo avanti e due (anche di più) indietro: e l’attesa di giustizia continua.

  • In attesa di Giustizia: chicchi di veleno

    Pierfrancesco Pacini Battaglia, “Chicchi” per gli amici…e chi sarà mai? Pochi lo ricordano e probabilmente c’è chi si allieta se questo protagonista della stagione di Mani Pulite sia stato dimenticato e poi se ne sia andato in silenzio, a 89 anni, sebbene quella del silenzio non sia stata per lui una regola sempre rigorosamente rispettata: la sua scomparsa non ha interessato granché le cronache, con l’eccezione inziale – per lui, pisano –   delle testate della Nazione e del Tirreno.

    Certamente fu piuttosto loquace nel 1993 con i magistrati del Pool di Milano ai quali riferì di movimentazioni di denaro degne della finanziaria di uno Stato sovrano effettuate tramite la Karfinco, un istituto di credito ginevrino di sua creazione specializzatosi nel deposito ed amministrazione di fondi neri e mazzette.

    Chicchi Pacini Battaglia, nonostante abbia ricoperto un ruolo di cruciale importanza nel sistema tangentizio, evaporò tanto rapidamente quanto in maniera misteriosa dalla Tangentopoli lombarda, pulito come il sederino di un bimbo e senza neppure subire l’onta di San Vittore, dopo essersi presentato spontaneamente in Procura dove fu trattato in guanti bianchi anche per le condizioni di salute rese critiche da un cuore malandato. “Noi, per farlo parlare mica potevamo picchiarlo” disse poi Davigo di cui è, peraltro, nota preferenza per la moral suasion assicurata dalla galera. Del resto, a quei tempi, confessare era la parola d’ordine per chi sceglieva di avventurarsi con le sue gambe al quarto piano del palazzo di giustizia di Milano.

    Tra le tante cose dette da Pacini Battaglia, che non esitò a scaricare su chiunque altro la colpa per ogni malefatta riconducibile alla gestione della sua banca, permangono inquietanti un paio di affermazioni successive: “si è pagato per uscire da Tangentopoli” e “Di Pietro e Lucibello (l’avvocato, notoriamente molto amico del P.M., da cui fu difeso) mi hanno sbancato…”; nessuno, opportunamente, gli ha mai chiesto conto, di dare una spiegazione a queste frasi e l’argomento è stato trattato alla stregua di una leggenda metropolitana da destinare ad un più rassicurante oblio.

    Voci dal sen fuggite, chicchi di veleno distribuiti in dosi non letali da colui che fu definito “il banchiere che stava un gradino sotto Dio” e che alcuni anni dopo fu arrestato nell’ambito di un’indagine spezzina insieme a Lorenzo Necci, ex A.D. delle Ferrovie dello Stato, ed all’ex parlamentare Danesi: niente indulgenza plenaria e quella volta fu condannato a sei anni di reclusione in parte minima scontati in carcere, graziato nuovamente dalle sue patologie cardiache.

    Ci fu solo un irriducibile segugio, il decano dei cronisti giudiziari milanesi Frank Cimini, il quale ebbe l’ardire di scrivere che Pacini Battaglia, con il suo silenzio a corrente alternata su come erano andati realmente i fatti in quelle indagini, salvò l’immagine della magistratura.

    La madre di tutte le tangenti, così Antonio Di Pietro descrisse in maniera pittoresca la vicenda Enimont nel corso del processo a Sergio Cusani ma, a distanza di trent’anni, l’unica definizione che ragionatamente si può dare è proprio quella di Mani Pulite come la Mater Lacunosa di tutte le inchieste per tutto ciò che ha comportato come conseguenza delle forzature probatorie – non di rado un po’ grossier –  in virtù della supplenza del codice con il cosiddetto “rito ambrosiano” a tacere dello stravolgimento dell’equilibrio tra poteri dello Stato con la subalternità della politica alla magistratura, ai silenzi imbarazzati ed ai mea culpa postumi di alcuni ex P.M., per non parlare dei troppi misteri che accompagnarono quella stagione: dalla pistola con cui Raul Gardini si sarebbe suicidato per poi riporla ordinatamente sul comodino ai presunti conti cifrati in Austria di Di Pietro, al  fascicolo  “Mario Chiesa + Altri” che divenne una specie di contenitore dell’indifferenziata in cui, in maniera volutamente confusa, vennero per anni riversate tutte le investigazioni su oltre 4.500 indagati creando non pochi problemi di accesso agli atti nell’esercizio del diritto di difesa.

    Non c’è stato solo Enzo Tortora a testimoniare in questo Paese più che l’attesa il crepuscolo della Giustizia.

  • In attesa di Giustizia: con sprezzo del ridicolo

    Ma…non si dice “sprezzo del pericolo”? E’ vero, ma nulla vieta di utilizzare – se opportuna – la locuzione modificata e così come nel titolo è perfetta se riferita alle preoccupazioni, prepotentemente lamentate dall’Associazione Nazionale Magistrati a proposito della modifica della Costituzione intesa a separare le carriere tra Giudici e Pubblici Ministeri.

    Ancora?!  L’argomento è già stato affrontato più volte in questa rubrica ma deve essere ripreso perchè il dibattito si fa sempre più infuocato ed alimentato di continuo dal Sindacato delle Toghe, sebbene il disegno di legge che prevede tale riforma per il momento segni il passo: forse quella che è auspicata è una sollevazione popolare che intimidisca per tempo ed a tal punto la politica da suggerire di lasciar perdere con l’unica minaccia efficace cioè a dire quella della perdita di consenso, voti, e con essi potere. Ma si sa, l’elettorato ha la memoria corta e le prossime elezioni appaiono lontane.

    Dunque, con sprezzo del ridicolo si è sostenuto che con la separazione delle carriere il P.M. finirebbe sotto il controllo del Governo: il pensiero che ciò possa accadere munendo, oltretutto, di formidabili poteri un pinocchietto come Fofò Bonafede (il peggiore della storia ma in ottima compagnia con alcuni suoi predecessori) fa accapponare la pelle ma i Magistrati, fingono di non aver letto il testo dell’articolo 104 della Costituzione come previsto da tutte le iniziative di riforma: “L’ordine giudiziario è costituito dalla magistratura giudicante e dalla magistratura requirente ed è autonomo e indipendente da ogni potere”.

    La norma costituzionale, così come costruita è di inequivocabile chiarezza anche per un cittadino digiuno di competenze giuridiche ed è stata richiamata proprio perché anche i lettori sappiano di cosa si sta parlando, figuriamoci per i Magistrati del Comitato Centrale dell’ANM che di leggi se ne intendono. O, almeno, dovrebbero.

    Con sprezzo del ridicolo, e qui sembra di assistere ad una pièce di avanspettacolo interpretata da Erminio Macario o da Pinuccia Nava in arte Scaramacai, affermano che il mondo intero invidia il modello italiano, e brama per adottarlo pari pari. Non è necessario essere lettori di questa rubrica per evitare l’emulazione come una malattia infettiva e, in realtà, il sistema a carriere separate, con diverse modulazioni, è vigente in Spagna, Germania, Svezia, Portogallo, Gran Bretagna, Stati Uniti, nella stragrande maggioranza dei paesi del Commonwealth Britannico, in Giappone, solo per citarne alcuni. Absit injuria verbis, noi siamo in compagnia di Turchia, Bulgaria e Romania ed anche della Francia dove, però, il P.M. dipende dal Ministro della Giustizia.

    Un fondo di verità si scorge se si si pone l’attenzione al fatto che in molti di quei Paesi, soprattutto quelli anglofoni, il Pubblico Ministero è sottoposto al Ministro di Giustizia…ma non in Portogallo, per esempio, al cui modello si ispira la nostra proposta di riforma: carriere separate, P.M. indipendente; e cosa c’è che non piace del Portogallo, il baccalà, i pasteis de nata?

    L’ansia da sottomissione alla politica prende, poi, slancio se si parla di “indipendenza interna”, cioè della autonomia del C.S.M., che si duplicherebbe: uno per i Giudici ed uno per i P.M. ma con composizione paritaria tra laici eletti dal Parlamento (da scongiurare assolutamente!) e togati eletti dagli appartenenti all’ordine giudiziario. Ecco, a tal proposito sarebbe opportuna la conoscenza di un po’ di storia – forse appositamente trascurata – ed il ricordo dell’intervento di Giovanni Leone in Assemblea Costituente inteso a sostenere che nel C.S.M. fosse opportuna una equivalenza numerica tra membri laici e togati: “occorre eliminare il timore…che il CSM… possa trasformarsi in organo di casta, intorno al quale si coagulano interessi, intrighi, protezioni, preferenze, tali da costituire un pericolo per l’indipendenza dei singoli giudici…”.

    Era la seduta pomeridiana del 14 novembre 1947: gli avessero dato retta! Altro che inciuci correntizi modello Palamara. E, allora, basta con selettivi vuoti di memoria, basta con lo sprezzo del ridicolo, signori magistrati: se un dibattito è giusto che ci sia che sia serio e corretto.

  • In attesa di Giustizia: la saga dell’esaurito

    E’ diventata una saga quella del Tribunale piemontese che infligge 11 anni di reclusione ad un imputato di violenza sessuale dimenticandosi banalmente di far discutere il difensore: quasi fosse un inutile, anzi, un fastidioso orpello del processo.

    E’ una vicenda di cui ci siamo già occupati ma che ora “mette in onda” una nuova ed inquietante puntata di cui non si può trascurare la cronaca.

    Dopo che il C.S.M. e la Cassazione si sono occupati del procedimento disciplinare, della vicenda ha dovuto interessarsi anche la Procura di Milano, competente per i reati attribuiti a Magistrati del Piemonte: come i lettori, forse, ricorderanno il Presidente del Collegio, resosi conto del pasticcio che aveva combinato, ha pensato bene di provi rimedio con la classica pezza peggiore del buco  strappando il foglio su cui era stato scritto il dispositivo della decisione presa invitando solo a quel punto la difesa a discutere!

    Non è stato solo un gesto incomprensibile ed ingiustificabile: in questo modo – essendo il dispositivo un atto pubblico di cui si era anche data lettura – si commette un reato che si chiama falso per soppressione. Dettaglio che ad un magistrato del settore penale (e non solo) non sarebbe dovuto sfuggire.

    Atti, allora, giustamente inviati a Milano per procedere ma quella Procura, nota per l’inflessibile rigore, ha velocemente richiesto l’archiviazione che il GIP ha disposto con altrettanta ed inusuale velocità.

    Come giustificare tutto ciò? Si trattò di un erroruccio e mancò l’intento doloso: insomma, roba da Paperissima Show. Non è disponibile (probabilmente lo sarà mai) la motivazione di questa singolare – e generosa – decisione ma, un po‘ per gioco e per alleggerire l’argomento, proviamo ad indovinare mettendoci un pizzico di fantasia. Sua Eccellenza il Presidente avrà strappato la sentenza da lui stesso scritta poco prima perché in quel momento era stato distratto dalle urla del difensore? Un gesto non voluto, un muscolo involontario messo in moto dallo spavento. Potrebbe essere.

    Oppure…oppure… si è reso conto di averla tra le mani e si è spaventato immaginandola scritta da una entità sovrannaturale che in quei drammatici momenti lo aveva posseduto. Eventualità metafisica ma non impossibile.

    Magari ha confuso la sentenza con il Kleenex appena usato per soffiarsi il naso: questa è la più proponibile da immaginare se si conosce bene la rigida giurisprudenza sul dolo del falso per soppressione.

    Ma no, ecco la spiegazione! Incapacità di intendere e di volere temporanea: non si po’ dimenticare che il procedimento disciplinare sta procedendo a carico del solo Presidente (le due donne giudici a latere sono state subito prosciolte adottando il famoso schema argomentativo sviluppato da Totò: “e che so’ Pasquale io?!”) e la sanzione minima inflitta dal  C.S.M., una blanda censura, è stata annullata dalle Sezioni Unite Civili della Cassazione, raccomandando che in un nuovo giudizio si offra maggiore considerazione al fatto, documentato in una perizia,  che il Signor Presidente era stressato dal troppo lavoro.

    L’intera comunità degli avvocati penalisti applaude a questi autorevoli precedenti di cui potranno far uso nella quotidianità professionale, spalancando le porte a successi fino ad ora insperati successi. L’amministratore di società fallita ha bruciato i libri contabili? Fu un fatale errore. Il funzionario delle agenzie delle entrate ha omesso di segnalare l’evasore? Era stressato per il troppo lavoro. E nessuno ci aveva mai pensato!

    A questo punto è doveroso congratularsi con chi ha così brillantemente il povero esaurito: chi mai e chi meglio dell’ex Procuratore Capo di Torino, Marcello Maddalena?

    Applausi a scena aperta mentre viene in mente quello slogan pubblicitario che diceva: “ti piace vincere facile eh?”.

    Senza offesa, ben s’intende.

  • In attesa di Giustizia: Perry Mason e il cliente povero

    Chi non conosce Perry Mason e non ha mai visto almeno un telefilm della serie interpretata da Raymond Burr? Avvocato di straordinaria fortuna e bravura, nel suo destino c’era solo la difesa di innocenti ingiustamente accusati ma che venivano tutti assolti nel mentre che il vero colpevole veniva scoperto e la giustizia trionfava grazie anche all’abilità del fido investigatore, Paul Drake.

    Tutto molto bello ed anche molto glamour; i clienti di Perry Mason sono sempre stati bellocci (o bellocce), stilosi e benestanti che possono permettersi una difesa competente, impegnata, a tutto campo, che però costa ed è una cosa per classi abbienti. E chi è privo di disponibilità si accontenti del public defender.

    Da noi no! Da noi la giustizia sarà anche lenta ma l’articolo 24 della Costituzione che dice che è un diritto inviolabile e che per i non abbienti sono assicurati i mezzi per difendersi. Insomma, a ben vedere non è proprio così: chiariamo subito che il concetto di non abbiente, per poter fruire del patrocinio a spese dello Stato, è legato attualmente al limite reddituale di 12.838,01 euro (a famiglia!) e come avvocato si può scegliere quello che vuole…tra coloro che si trovano in un apposito elenco in cui i Perry Mason, diciamo così, non sono la maggioranza. Si aggiunga che un “virgola 02” fa la differenza: oltre quella soglia il difensore se lo deve pagare direttamente il cliente.

    Vero è anche che ci sono molti professionisti che vedono il loro impegno come una missione ed in taluni casi sono disponibilissimi ad assistere applicando tariffe minime se non gratuitamente…ma lo Stato, no, lo Stato non fa sconti e se si supera quello “01”, tanto per cominciare, le copie degli atti se le deve pagare l’accusato mentre con il gratuito patrocinio sono esenti da costi.

    Che sarà mai, per qualche fotocopia? Facile a dirsi: ma ci sono processi composti da fascicoli monumentali e i costi non sono quelli della tipografia sotto casa ma elevatissimi anche ora con gli strumenti a disposizione, anche quando si tratta semplicemente di chiedere una copia informatica che si fa in una manciata di minuti su un dischetto o una chiavetta e l’operazione, per banale che sia, ve la dovete fare voi portandovi il supporto da casa.

    Senza scomodare casi di imputati privi di grossi problemi economici, come quelli per il crollo del Ponte Morandi che per ottenere la copia del fascicolo avrebbero dovuto sborsare oltre 750.000 € – a testa, sia ben chiaro, ma che hanno dovuto comunque organizzare una raccolta fondi per fare copia integrale da condividere successivamente insieme ai costi – è emblematica la vicenda di P.D. che andiamo a raccontare.

    Questo sventurato – non importa se colpevole o innocente: tra l’altro non lo sappiamo essendo ancora sotto processo – ha limiti di reddito che non gli consentono di ottenere il gratuito patrocinio ma non è sicuramente un uomo ricco e l’indagine che lo ha coinvolto si basa quasi del tutto su intercettazioni telefoniche il cui prezzo di copiatura dei files audio è stato calcolato in 59.000 euro, che in tasca non ci sono; il costo industriale, al netto delle chiavette che si deve comperare il difensore sarà qualche decina di euro ma le casse dello Stato sono esauste e se quello è il prezzo…quello si paghi. Oppure niente intercettazioni. Ma senza (e senza soldi per procurarsele) uno come fa a difendersi se non sa da cosa? L’avvocato di P.D. ha portato la questione fino in Cassazione sostenendo che in tal modo si realizza una mutilazione del diritto di difesa e la Cassazione, quella che grazia il Presidente che decide un processo senza avere ascoltato il difensore perché stressato (è un esempio di cui la rubrica si è occupata la settimana scorsa) ha risposto che non c’è nessuna violazione, nessuna sanzione processuale legata al fatto che l’imputato, per mancanza di risorse,  non potesse procurarsi i supporti magnetici delle registrazioni effettuate a suo carico. Oltretutto – nella sentenza non è scritto proprio così ma il senso è questo – l’avvocato avrebbe ben potuto munirsi di cuffiette ed andare ad ascoltarsele, gratis in questo caso, trascorrendo lietamente alcune settimane nella cancelleria dove il Pubblico Ministero le aveva graziosamente messe a disposizione. Certo, come no. Perry Mason non abita qui in compenso c’è il cliente povero e, forse, almeno in una certa misura hanno ragione gli americani quando dicono che è meglio essere ricchi, bianchi e colpevoli piuttosto che neri, poveri e innocenti.

  • In attesa di Giustizia: noli inspicere

    Non giudicare. Non giudicare significa comprendere: finchè giudichi non potrai comprendere gli altri e neppure te stesso. “Non giudicate e non sarete giudicati, non condannate e non sarete condannati: perdonate e sarete perdonati”, così si legge nel Vangelo.

    Giudicare è un tormento ed anche con la più elevata attenzione non sempre si sfugge all’errore, fisiologico nella giustizia terrena.

    Viene allora da chiedersi perché mai debba essere chiamato a rispondere in sede disciplinare il povero giudice Ernesto Anastasio del Tribunale civile di Santa Maria Capua Vetere solo perché non deposita le sentenze alla cui redazione doveva provvedere e non lo ha fatto da un paio d’anni pur avendo trattato le relative cause: sarà, forse, una stretta osservanza del precetto contenuto nelle Scritture? E allora, come criticarlo?

    La ragione è un’altra: voleva fare il poeta, non il magistrato e lo attesta nella sua perizia, disposta dal C.S.M., il Prof.  Ferracuti docente di Psicopatologia forense alla Sapienza…”l’uomo non vive l’attuale lavoro come una forma di espressione di sé e siccome pensa che non è quello che davvero avrebbe voluto fare lo boicotta”.

    Anastasio, a sua volta, ha così giustificato il suo (non) agire: “Vivo questa situazione di dissidio interiore. Il problema è grave, non sta bene che un giudice faccia tutto questo macello, non credo che morirò magistrato, non mi pare plausibile”. Intanto, però, chiede di continuare a fare il giudice di Sorveglianza a Perugia dove nel frattempo è stato trasferito. E qualcuno, a Santa Maria Capua Vetere ha ereditato il suo ruolo ed alcune decine di sentenze da scrivere relative a procedimenti che non ha trattato: immaginate i capolavori che ne usciranno.

    La soluzione, tuttavia, sembra a portata di mano: basterebbe autorizzare Anastasio a scrivere le sentenze in tetrametri trocaici, endecasillabi, rime baciate; il problema sarebbe risolto con soddisfazione di tutti.

    Una decisione, invece, l’hanno presa le Sezioni Unite della Cassazione (il nostro massimo organo giudicante) e hanno pure scritto la motivazione riferita ad un caso che questa rubrica ha già trattato: quello del Presidente del Tribunale di Asti che aveva pronunciato una condanna ad undici anni di reclusione senza avere ascoltato l’arringa difensiva, poi aveva stracciato il dispositivo, e senza neppure giustificarsi, dato la parola all’avvocato.

    Ecco, le Sezioni Unite hanno annullato anche lo scappellotto (un blando ammonimento) che la Sezione Disciplinare aveva inflitto al solo Presidente mentre gli altri due giudici del Collegio erano andati indenni da qualsiasi sanzione: quasi che non fosse cosa loro contribuire al rispetto di una regola processuale non opinabile. Poverello! Anche per questo magistrato è risultato salvifico l’esito di una perizia medica: era stressato e la ridicola – altro termine non sarebbe idoneo a definirla – sentenza della Cassazione parla di inadeguata valorizzazione e controdeduzione delle circostanze stressogene da parte del Consiglio Superiore che già si era coperto di ridicolo per il ricordato tenore della sua decisione.

    Enzo Tortora, dall’alto della sua esperienza, aveva ragione quando affermò che in Italia esistono tre categorie di persone che non rispondono delle proprie azioni: i minori di quattordici anni, i pazzi ed i magistrati.

    Le sentenze se non si condividono si impugnano, è questa una regola aurea degli avvocati ma a fronte di una come quella in commento l’indignazione è tale che deve trovare uno sfogo: se possibile (ma non lo è) sarebbe stato meglio affidarne la redazione ad Anastasio, se non altro non avrebbe mai visto la luce.  Chi è in attesa di Giustizia si auguri di non trovare mai sulla sua strada un giudice stressato, uno che – invece che ad occuparsi di processi gravi – dovrebbe essere adibito (beninteso a parità di stipendio non sia mai che non riesca a mettere insieme il pranzo con la cena) ad ammortare cambiali smarrite: tanto non ne circolano quasi più. Voi dite, invece, due pedate e fuori dall’Ordine Giudiziario? Beh, come darvi torto?

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