Processo

  • In attesa di Giustizia: noli inspicere

    Non giudicare. Non giudicare significa comprendere: finchè giudichi non potrai comprendere gli altri e neppure te stesso. “Non giudicate e non sarete giudicati, non condannate e non sarete condannati: perdonate e sarete perdonati”, così si legge nel Vangelo.

    Giudicare è un tormento ed anche con la più elevata attenzione non sempre si sfugge all’errore, fisiologico nella giustizia terrena.

    Viene allora da chiedersi perché mai debba essere chiamato a rispondere in sede disciplinare il povero giudice Ernesto Anastasio del Tribunale civile di Santa Maria Capua Vetere solo perché non deposita le sentenze alla cui redazione doveva provvedere e non lo ha fatto da un paio d’anni pur avendo trattato le relative cause: sarà, forse, una stretta osservanza del precetto contenuto nelle Scritture? E allora, come criticarlo?

    La ragione è un’altra: voleva fare il poeta, non il magistrato e lo attesta nella sua perizia, disposta dal C.S.M., il Prof.  Ferracuti docente di Psicopatologia forense alla Sapienza…”l’uomo non vive l’attuale lavoro come una forma di espressione di sé e siccome pensa che non è quello che davvero avrebbe voluto fare lo boicotta”.

    Anastasio, a sua volta, ha così giustificato il suo (non) agire: “Vivo questa situazione di dissidio interiore. Il problema è grave, non sta bene che un giudice faccia tutto questo macello, non credo che morirò magistrato, non mi pare plausibile”. Intanto, però, chiede di continuare a fare il giudice di Sorveglianza a Perugia dove nel frattempo è stato trasferito. E qualcuno, a Santa Maria Capua Vetere ha ereditato il suo ruolo ed alcune decine di sentenze da scrivere relative a procedimenti che non ha trattato: immaginate i capolavori che ne usciranno.

    La soluzione, tuttavia, sembra a portata di mano: basterebbe autorizzare Anastasio a scrivere le sentenze in tetrametri trocaici, endecasillabi, rime baciate; il problema sarebbe risolto con soddisfazione di tutti.

    Una decisione, invece, l’hanno presa le Sezioni Unite della Cassazione (il nostro massimo organo giudicante) e hanno pure scritto la motivazione riferita ad un caso che questa rubrica ha già trattato: quello del Presidente del Tribunale di Asti che aveva pronunciato una condanna ad undici anni di reclusione senza avere ascoltato l’arringa difensiva, poi aveva stracciato il dispositivo, e senza neppure giustificarsi, dato la parola all’avvocato.

    Ecco, le Sezioni Unite hanno annullato anche lo scappellotto (un blando ammonimento) che la Sezione Disciplinare aveva inflitto al solo Presidente mentre gli altri due giudici del Collegio erano andati indenni da qualsiasi sanzione: quasi che non fosse cosa loro contribuire al rispetto di una regola processuale non opinabile. Poverello! Anche per questo magistrato è risultato salvifico l’esito di una perizia medica: era stressato e la ridicola – altro termine non sarebbe idoneo a definirla – sentenza della Cassazione parla di inadeguata valorizzazione e controdeduzione delle circostanze stressogene da parte del Consiglio Superiore che già si era coperto di ridicolo per il ricordato tenore della sua decisione.

    Enzo Tortora, dall’alto della sua esperienza, aveva ragione quando affermò che in Italia esistono tre categorie di persone che non rispondono delle proprie azioni: i minori di quattordici anni, i pazzi ed i magistrati.

    Le sentenze se non si condividono si impugnano, è questa una regola aurea degli avvocati ma a fronte di una come quella in commento l’indignazione è tale che deve trovare uno sfogo: se possibile (ma non lo è) sarebbe stato meglio affidarne la redazione ad Anastasio, se non altro non avrebbe mai visto la luce.  Chi è in attesa di Giustizia si auguri di non trovare mai sulla sua strada un giudice stressato, uno che – invece che ad occuparsi di processi gravi – dovrebbe essere adibito (beninteso a parità di stipendio non sia mai che non riesca a mettere insieme il pranzo con la cena) ad ammortare cambiali smarrite: tanto non ne circolano quasi più. Voi dite, invece, due pedate e fuori dall’Ordine Giudiziario? Beh, come darvi torto?

  • In attesa di Giustizia: Pyongyang, Italia

    Nel nostro ordinamento c’è un sistema che, forse, è sconosciuto persino alla Corea del Nord e al Niger post golpe militare, un sistema che invece – secondo il Ministro Piantedosi – tutto il mondo ci invidia ma delle cui abnormità si sta accorgendo persino la CEDU e che è sino ad ora sopravvissuto con buona pace dei principi di identità culturale, tradizioni giuridiche e garanzie su cui si fonda il reciproco riconoscimento delle decisioni giudiziarie in ambito UE.

    L’argomento del giorno sono le misure di prevenzione patrimoniali che ci regalano il primato mondiale assoluto di soperchieria normativa del quale dovremmo vergognarci: questa volta con buona pace del plaudente questurino che siede sullo scranno più alto del Viminale.

    Vediamo cosa comporta e cosa può regolarmente accadere applicando questa disciplina: può succedere (e succede, eccome) che Tizio, processato ed assolto da ogni accusa, in seguito si veda confiscare tutti i suoi beni, sulla base dell’indecente assioma “innocente, ma pericoloso”.

    Si tratta, in sostanza, di un metodo di persecuzione riservato ai reati più gravi e non solo quelli collegati alla criminalità organizzata di mafia che affonda le sue radici nella cultura della intolleranza e del sospetto e che si può sintetizzare in questi termini: se sei stato indagato qualcosina ci sarà pur stata a tuo carico e se non è possibile punirti perché le prove non ci sono tengo per buono un semplice sospetto e così, se in carcere non ci vai, almeno ti riduco in miseria.

    La svolta che conduce al giudizio di Strasburgo è merito di una famiglia di imprenditori calabresi, i signori Cavallotti, gran lavoratori e persone per bene: arrestati, processati e definitivamente assolti da accuse di contiguità alla ‘ndrangheta, sono stati tuttavia spossessati di tutti i loro beni e le loro aziende affidate alla vorace spoliazione degli amministratori giudiziari: soggetti che, non di rado, non sarebbero in grado di amministrare un piccolo condominio, immaginatevi il destino di imprese commerciali…

    Il ricorso dei fratelli Cavallotti non solo è stato ritenuto ricevibile dalla CEDU – si dice così quando un caso è ritenuto meritevole di attenzione – ma la Corte è andata oltre ed ha rivolto al nostro Governo una serie di quesiti sul tema dei beni confiscati con le misure di prevenzione patrimoniali ai quali dovrà essere data risposta entro il prossimo 13 novembre. Dal tenore dei quesiti traspare un incredulo stralunamento della Corte Europea: “Nel caso di una assoluzione in un processo penale, la confisca dei beni viola la presunzione di innocenza? è proporzionale è necessaria? è forse una sanzione penale surrettizia, violativa dell’art. 7 della Convenzione Europea? ”… e tanti altri, secchi e non equivocabili. Intanto sono passati già sette anni dalla confisca e alcune delle aziende dei Cavallotti sono fallite grazie all’insipente ma ben retribuita gestione degli affidatari.

    Siamo, forse, all’inizio della fine di un sistema legalizzato di abusi il quale, tanto più in presenza di giudizi penali assolutori, supera ogni limite di tollerabilità in uno Stato di diritto. Un sistema che -in una malintesa prospettiva di difesa sociale- rende il sospetto più forte della prova, sanzionando ben più gravemente che con la privazione della libertà personale chi non saprà – o non potrà – concretamente difendersi dalla brutale spoliazione di tutti i suoi beni; già, perché c’è un dettaglio non trascurabile di cui non abbiamo ancora parlato: il sistema delle misure di prevenzione non prevede l’onere della prova in capo al Pubblico Ministero: e, per forza! Se basta il sospetto, di quale prova stiamo parlando? Di quella che incombe sui prevenuti, a volte estremamente complessa se non impossibile come nel caso di beni ereditati rispetto ai quali si deve fornire l’evidenza di originaria lecita provenienza dei denari con cui il trisnonno comperò un immobile poi andato in successione di generazione in generazione. I lettori non ci crederanno ma funziona proprio così e l’esempio appena fatto è uno dei tanti casi reali.

    A proposito di questo sistema, in un passato recente, il Ministro Carlo Nordio ha scritto parole di fuoco, da liberale autentico quale egli è ed in aperto contrasto con le magnificazioni provenienti dagli Interni: bella prova per il Governo, dunque e da seguire con molta cura mentre l’attesa di Giustizia di sposta a Strasburgo.

  • Verità inoppugnabili ancora nascoste

    Il fatto veramente grave è che di fronte alle dichiarazioni di De Angelis che sostiene sia l’innocenza dei condannati in via definitiva per la strage di Bologna sia di sapere che in molti conoscono e non dicono  la vera verità su mandanti ed esecutori, le varie forze politiche di opposizione chiedano le sue dimissioni invece di chiedere che sia convocato subito dai magistrati per dire quello che ritiene di sapere.

    Non è questione di dare credito o meno alle parole di De Angelis, il problema è perché, di fronte a dichiarazioni tanto gravi, non si usino gli strumenti necessari per dimostrare che sbaglia o per aggiungere qualche pezzo  di verità se è ancora mancante.

    Ci furono anni, lunghi anni, di misteri che restano ancora insoluti, di attribuzioni di delitti poi in parte negate o ancora riconfermate.

    Nonostante le decisioni di Draghi e della stessa Meloni troppi dossier sono ancora  secretati, la vicenda De Angelis potrebbe essere finalmente l’inizio di un nuovo percorso di verità in un Paese che in troppe occasioni ha visto la mafia, la criminalità organizzata, il terrorismo, i servizi deviati e la politica intrecciarsi  e che ancora non riesce a fornire verità inoppugnabili su troppe tragedie.

     

  • In attesa di Giustizia: i soliti sospetti

    “In attesa di Giustizia” non va in vacanza e nella settimana che segna l’inizio delle ferie giudiziarie (di cui qualcuno ancora lamenta che lavorare stanca, contestando l’eliminazione renziana dei primi quindici giorni di settembre) vi è nuovamente l’imbarazzo della scelta tra le notizie da commentare o far emergere all’attenzione dei lettori.

    La più ghiotta, si fa per dire, riguarda l’indagine della Procura di Perugia che sta disvelando come alla passione per il dossieraggio non siano risultati estranei nemmeno apparati della Direzione Nazionale Antimafia: struttura fortemente voluta da Giovanni Falcone con il compito di coordinare le indagini sulla criminalità organizzata delle Procure Distrettuali; viceversa, non sembra che tra le sue funzioni vi sia mai stata quella di rovistare tra i conti correnti di esponenti politici, imprenditori, personaggi noti, e le segnalazioni di operazioni sospette della Banca d’Italia. Per farne che? Bisognerà chiederlo – se mai vorrà rispondere – al luogotenente della G.d.F.  che sembra gestisse (su input di chi? a Perugia si ipotizza che sia coinvolto anche qualche magistrato) una centrale di dossieraggio abusivo proprio all’interno della DNA, ed ha fatto della sua vita una missione dedicata all’accesso abusivo ai sistemi informatici per poi accumulare un tesoretto di dati pronti per un che non è certamente legato ad inchieste su mafia e terrorismo per le quali non erano stati richiesti…però già dal 2020 parte di queste informazioni riservate era stata condivisa con le redazioni di importanti quotidiani.

    Già, i media, senza i quali questo mercimonio (impensabile che tali scambi avvengano gratuitamente) non avrebbe motivo d’ essere: il “DDL Nordio”, appena approdato in Senato, si propone – tra l’altro – proprio di porre un argine all’uso delle Procure come cassette della posta per informazioni di garanzia, brogliacci di intercettazioni, estratti conto e contabili di bonifici bancari.

    “Orrore, operazione di regime, bavaglio alla libertà di informazione! noi continueremo a pubblicare le intercettazioni anche prima che siano legittimamente utilizzabili”: questo il proclama dell’indomito Travaglio ertosi ad ultimo baluardo della democrazia contro un’operazione di censura a matrice fascista. Pronto a sfidare i sicari dell’OVRA (non lo ha detto ma probabilmente lo ha pensato) l’Uomo del Fatto non si è reso conto che in questo modo ha confessato, caso mai la cosa fosse sfuggita, vari reati e ne ha commesso uno nuovo: istigazione a delinquere perché tale nobile attività di inchiesta giornalistica contro i soliti sospetti è un crimine per quanto punito con severità minore al mancato rispetto di un semaforo rosso; il rigore della legge prevede, infatti, una multa massima di 258€ in alternativa alla pena detentiva che non viene mai inflitta a nessuno. In realtà neppure quella pecuniaria.

    Eppure a causa di intercettazioni ed informazioni di garanzia dal sen fuggite vite intere possono essere rovinate, come quella di un padre separato (è storia recente, una delle tante), imputato di violenza sessuale sulla figlioletta in base alla equivoca interpretazione di una captazione telefonica: intercettato, indagato, revocata la potestà genitoriale, licenziato, processato, assolto. Assolto, non colpevole, chiamate come volete la conclusione di questo come di altri processi: non è un lieto fine da prescrizione del reato o con un mite patteggiamento a seguito di accordo economico, il ritiro della querela o grazie ad altro bizantino e salvifico cavillo. Intanto un’esistenza è stata devastata.

    Proprio dei reati di violenza sessuale e della delicatezza della valutazione della prova si è scritto recentemente su queste colonne e, sebbene non sia fonte di consolazione, non capita solo da noi. L’ultimo esempio è quello di Kevin Spacey, grande attore, imputato di reati di matrice sessuale che per l’ordinamento americano sono particolarmente esecrabili come recita l’incipit di ogni puntata di Law & Order Special Victims Unit.

    Assolto prima a New York e poi a Londra ma una carriera finita, una vita gravemente condizionata.

    Queste sono le esperienze giudiziarie quotidiane che dovrebbero insegnare qualcosa ai giustizialisti da tastiera, ai cacciatori dei soliti sospetti, i vari Travaglio ai Gramellini di turno: storie che imporrebbero ancora di riflettere su quanto è facile distruggere un uomo e sia opportuno astenersi da giudizi preconcetti.

    Sfortunatamente sono lezioni che, come pare, in pochi dimostrano di sapere apprendere e, allora, avanti il prossimo, ce n’è per tutti…

  • In attesa di Giustizia: il sacro fuoco della giustizia

    Temo che questo possa essere l’ultimo appuntamento con la rubrica “In attesa di Giustizia” perché l’attesa è finita: non tanto grazie alla Riforma Cartabia le cui ombre si allungano sempre più minacciose sulle flebili luci che ne rischiarano gli articolati, quanto agli esempi di indomabile efficienza di chi esercita la giurisdizione.

    O, forse, no.

    Siamo a Catania, una Catania soffocata dal caldo e divorata dalle fiamme che hanno avvinto non solo l’aeroporto ma interi comprensori urbani: ciononostante i baluardi della legalità non smettono di profondere furore intellettuale coniugato a diuturno impegno e accade questo…

    Gianluca Costantino è un avvocato etneo che risiede proprio in una delle zone più colpite dalle fiamme, la sua casa ne è circondata, i trasporti pubblici sono paralizzati, quelli privati rischiosi e l’Avvocato ha udienza penale:riesce, tuttavia, a mandare una mail con la richiesta di rinvio di un’udienza per legittimo impedimento e trova anche un collega che si presenta in aula per sostituirlo e sostenere le ragioni di differimento.

    Niente da fare, il Giudice è inflessibile perché nella sua amministrazione arde il sacro fuoco della giustizia e la macchina non si può fermare per varie ragioni: la prima è rappresentata dal nemico di sempre, la prescrizione del reato che si avvicina e la seconda consiste nel fatto che il rinvio avrebbe imposto ai polpastrelli dei funzionari di cancelleria, ormai piagati a furia di spedire notifiche via pec, di farne altre a coloro che dovrebbero essere avvisati del rinvio; a tacer di questo, nel provvedimento di diniego si legge altresì che l’istanza non è documentata né attesta l’assolutezza dell’impedimento: Costantino poteva, magari, vestirsi con una tuta ignifuga per adempiere al suo dovere e sarebbe stato utile allegare all’istanza il file di un telegiornale recente con i Canadair che sorvolano l’abitazione del professionista.

    Il diritto di difesa, come si vede, non è poi una garanzia così assoluta ma ad assetto variabile e la decisione del Tribunale di Catania propone solo un interrogativo – e non ci sono parole migliori – cioè se sia frutto di crassa ignoranza piuttosto che di schietta malafede.

    Per i lettori, infatti, è opportuno ricordare la regola in base alla quale il corso della prescrizione viene sospeso se un differimento del processo è determinato da impedimenti o esigenze dell’imputato o del suo difensore. Ma se anche così non fosse, la domanda da porsi è se l’incolumità di un avvocato possa valere meno della prescrizione di un reato che, se è da ritenersi prossima durante il giudizio di primo grado non può essere che frutto di inerzia del P.M. durante la fase delle indagini oppure di malfunzione, congestione, inefficienza del Tribunale…ah, già, la risposta è sì: uno di meno.

    Parliamo ora delle notifiche con cui il Giudice temeva di onerare la cancelleria oltre il sopportabile: tanto per cominciare, l’avviso di un rinvio non deve essere fatto a chi è presente in udienza (nel nostro caso neppure all’avvocato impedito a presenziare essendosi fatto sostituire da un collega) perché riceve contestualmente notizia della data successiva. Viceversa, nel caso in cui non si presenti qualcuno che, invece, deve partecipare all’udienza – per esempio un testimone – la notifica è nuovamente ed in ogni caso dovuta.

    Allora, di cosa stiamo parlando? Se la vicenda non fosse surreale, verrebbe da pensare di essere su “Scherzi a Parte” e ad uno scherzo di cattivo gusto: indigna – come scrive in una nota ufficiale il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Catania – la mortificazione del diritto di difesa e sarebbe interessante sapere se identica decisione sarebbe stata adottata se analogo impedimento avesse coinvolto un Giudice o un P.M..

    Sarebbe interessante, altresì, conoscere – se mai commenterà l’accaduto – l’opinione del Sindaco di Catania, Enrico Trantino, avvocato penalista di lungo corso. Concludendo, soccorre alla memoria il pensiero di Tito Livio richiamato, proprio in Sicilia, dal Cardinale Pappalardo ai funerali di Carlo Alberto Dalla Chiesa: “Mentre a Roma si discute, Sagunto viene espugnata”. Ma quelli erano i tempi delle guerre puniche.

  • In attesa di Giustizia: violenza chiama violenza

    Recenti, ma purtroppo non inusuali, fatti di cronaca sono lo spunto per la settimanale riflessione sulla Giustizia. La tematica è quella della violenza sessuale, il suo rapporto in termini di prova con principi irrinunciabili del processo penale che ruota, principalmente, intorno ad un presupposto fondante ma altrettanto impalpabile: il consenso.

    ll tema del consenso non può essere relegato ad uno scontro tra opposte linee di pensiero né diventare opportunità per speculazioni di natura politica poichè con il rapporto sessuale si coniuga tramite esiti chiarissimi e parametri condivisi: deve essere esplicito e non equivocabile; il consenso implicito (in un atteggiamento, in un comportamento, peggio che mai in un abbigliamento) è sintomatico di un approccio culturale e sociale indecente ed inaccettabile, che appartiene ad epoche e contesti sociali che sono – o dovrebbero essere – fortunatamente trapassati remoti.

    Ad un consenso esplicito, poi, deve corrispondere una persona in condizioni fisiche e psichiche tali da consentirne la consapevole manifestazione. Questo canone non ha alcuna ragione di essere modificato o derogato se sia stata la vittima stessa a porsi in condizione di incapacità, ubriacandosi o drogandosi perchè un approccio sessuale con una persona in stato di manifesta alterazione, non può trascurare l’ipotesi che il consenso all’atto, ovvero il mancato dissenso, potrebbe essere condizionato proprio da quelle condizioni.

    L’inosservanza di questi criteri discretivi di una libera e consapevole volontà rendono la condotta penalmente rilevante: il che significa che ne entrano in gioco altri ed altrettanto fondamentali del vivere civile, dotati di rango costituzionale equivalente a quello della inviolabilità della libertà e della intangibilità della integrità fisica e morale della persona. Per primo la riferibilità del reato ad un autore che deve essere provata al di là di ogni ragionevole dubbio. In secondo luogo, l’onere della prova, quanto mai difficile in questi casi, che è a carico a chi accusa. La peculiarità specifica del tema di prova, la difficoltà della sua ricostruzione con le implicazioni psicologiche, culturali, ambientali, sociali che inesorabilmente lo connotano, non possono invertire ma neppure affievolire il rispetto delle due regole cardinali del processo.

    Nella quotidiana realtà dei giudizi per violenza sessuale non è, purtroppo, infrequente un loro sovvertimento ed è questo è il nocciolo della questione sul quale occorre interrogarsi senza ipocrisie. La percezione della “debolezza” della (presunta) vittima della violenza sessuale, e la forza culturale del (giusto) tema del consenso, determina quella che si potrebbe definire una “autosufficienza probatoria della versione dei fatti” offerta dalla persona offesa. Lo ha raccontato, ripetuto, perché mai dovrebbe mentire? Quindi è successo.

    In tal modo si perviene ad una forma di attendibilità pregiudiziale, si potrebbe dire preconcetta e ad oltranza del “soggetto debole”, che indebolisce sia il principio dell’onere probatorio che quello dell’oltre ogni ragionevole dubbio. E ciò anche attraverso una sorta di stigma di indegnità da attribuire ad ogni tentativo difensivo di metterla in dubbio.

    Tutto ciò ha anche un nome: la confutazione della credibilità della versione accusatoria, viene immancabilmente bollata come “vittimizzazione secondaria”. Una categoria, questa, certamente rilevante sotto il profilo sociologico, ma tanto inconcepibile quanto suggestiva nelle dinamiche del processo penale.

    La parola di uno contro quella dell’altro: quale altra difesa potrebbe avere, allora, un imputato se non insinuando il dubbio, se ve ne sono gli estremi, che la propria versione dei fatti, e non quella della (presunta) vittima, sia quella giusta? Il controinterrogatorio di chi accusa, costituzionalmente normato, serve proprio a questo e laddove soccorrano indicatori di mendacio deve essere anche duro per far risaltare la falsità del dichiarante.

    Il tema del consenso resti, dunque, intangibile: e che sia un consenso esplicito ed inequivocabile al rapporto purchè questo principio di civiltà non diventi il grimaldello volto a pretendere e, talvolta, ottenere, un processo con regole probatorie modificate per i reati di violenza sessuale.

    In tal modo si aggiunge dolore al dolore, violenza alla violenza, ingiustizia all’ingiustizia.

  • In attesa di Giustizia: la corrida e la rivoluzione digitale

    Ennesima settimana convulsa sul fronte della giustizia: il luna park dell’opposizione purchessia ha sfoderato l’artiglieria contro le ultime iniziative, o per meglio dire gli annunci, del Guardasigilli il quale ha ribadito che la sua azione di Governo prevede la separazione le carriere tra giudicanti e pubblici ministeri e di rimodulare il reato di concorso esterno in associazione mafiosa; a quest’ultimo proposito non sono mancate neppure le salve di “fuoco amico” supportate dalla vibrante indignazione dei familiari di vittime della mafia.

    Una vera e propria corrida, intesa anche nell’accezione che al termine fu data dal celebre programma condotto da Corrado Mantoni: dilettanti allo sbaraglio in salsa di ignorante malafede e vediamo nell’ordine il perché di cotante ambasce senza che vi sia neppure un articolato su cui ragionare.

    L’obiezione principale che viene rivolta alla separazione delle carriere – con l’Associazione Nazionale Magistrati in prima linea – è che comporta la dipendenza del Pubblico Ministero dall’Esecutivo subendone le imposizioni su quali indagini avviare e quali fermare. Orrore autoritario e fascista da scongiurare a qualunque prezzo.

    Ebbene, che vi sia un simile automatismo non sta scritto da nessuna parte (in Francia, per esempio, le carriere sono unificate ma il P.M. dipende dal Ministro della Giustizia) ed, anzi: per raggiungere questo risultato bisognerebbe modificare ben quattro articoli della Costituzione posti a tutela della indipendenza della Magistratura da qualsiasi altro potere, con ciò intendendosi sia quella giudicante che quella inquirente (la Costituzione lo precisa). Impresa cui nessuno ha mai neppure accennato ed inverosimile se si pensa all’iter previsto per le modifiche costituzionali con doppia lettura alle Camere e maggioranza qualificata di 2/3. Le ragioni della contrarietà sono altre, forse meno nobili… ma andiamo oltre.

    Concorso esterno: sia chiaro innanzitutto, per chi non lo sapesse, che è un delitto che il codice penale non prevede. Proprio così, un reato per cui si può essere condannati frutto di una interpretazione giurisprudenziale, per quanto non risulti che i giudici possano sostituirsi al legislatore con le loro sentenze.

    Nordio, in realtà, non ha affatto detto che intende abolire questa ipotesi di reato ma tipizzarla meglio in via normativa, magari secondo i dettami della Costituzione che prevede che nessuno possa essere ritenuto responsabile per un fatto non previsto dalla legge come reato ed anche che le leggi siano tassative. Cioè puntualmente definite in modo che i cittadini sappiano cosa è consentito e cosa è vietato o punito. Esattamente quello che, commentando le parole del Ministro sostiene, tra i molti, anche Giovanni Fiandaca, professore emerito di diritto penale: uno dei massimi esponenti contemporanei di questa branca del diritto.

    Naturalmente, le critiche sono arricchite dalla considerazione che in l’attuale Ministro della Giustizia non abbia prodotto nulla in termini di utili ed intelligenti riforme mentre la Cartabia…ah, la Cartabia, quella sì!

    Basta vedere l’ultima creatura delle sue commissioni, volta ad efficientare il sistema, che ha visto la luce ad inizio mese: il Portale attraverso il quale si potranno e dovranno depositare ben 103 diversi atti giudiziari, dalla nomina di un difensore agli atti di appello. Un pachidermico prodigio delle più moderne tecnologie operativo già nei prossimi giorni (destinato, chissà perché solo agli avvocati e non ai magistrati) ma si impalla con inquietante frequenza, è ancora incompleto, lento, complicato e per non farsi mancare nulla alcuni riferimenti agli articoli del codice sono sbagliati. Si consideri, infine, che i Funzionari amministrativi dei Tribunali non sono stati formati per l’utilizzo e – soprattutto – se l’atto che si deve inoltrare prevede più di una copia le altre bisogna andarle a depositare cartacee, a mano, in cancelleria. E perché mai? Suvvia! Perché non si possono sprecare troppo toner e carta, non ci sono i fondi, e quelli del PNRR, faticosamente guadagnati con questo cretino meccanico non sono sacrificabili e servono altrove. Avanti così, la Giustizia può attendere.

  • In attesa di Giustizia: carnevale di Rio

    Accingendomi a commentare alcuni eventi, una premessa è d’obbligo: se un giornalista riceve una notizia ha il dovere di pubblicarla. E se riguarda un personaggio pubblico ancora di più.

    Il problema è che certe notizie non dovrebbero mai essere fatte esfiltrare: nè dagli inquirenti e nemmeno dai vari altri soggetti coinvolti nell’accertamento dei fatti e la violazione di questi obblighi non dovrebbe essere sanzionata alla stregua di un parcheggio abusivo perché l’indagine di per sé intacca l’onorabilità e neppure un’assoluzione contribuisce a diradare completamente le zone d’ombra lasciate dallo schizzo di fango.

    Le indagini per certi reati la cui verifica si basa sulle sole dichiarazioni della parte offesa dovrebbero essere secretate e rimanere tali almeno fino al giudizio di primo grado.

    Emblematico è quanto sta accadendo riguardo alla vicenda della presunta violenza sessuale attribuita ad uno dei figli di Ignazio La Russa: in questo caso è stato l’avvocato che assiste la ragazza a distribuire a piene mani notizie in favor di microfoni ed intervistatori, salvo ritirare la mano subito dopo aver gettato il sasso sostenendo che vi è e vi deve essere un riserbo massimo mentre le indagini sono in corso. Nella stretta osservanza di questa regola del silenzio da monaco benedettino ha preannunciato l’intenzione di citare lo stesso Ignazio La Russa che, con le sue affermazioni, sarebbe diventato testimone contro il suo stesso figlio: se anche così fosse, evidentemente gli sfugge la circostanza che i prossimi congiunti possono avvalersi (loro sì) del diritto al silenzio. Ma tutto quanto fa spettacolo e c’è già chi avanza la richiesta di dimissioni dalla sua carica del Presidente del Senato, bissando quelle invocate per Daniela Garnero meglio nota come Santanchè.

    Quest’ultima, invece, sta passando la sua gogna mediatica (e non solo) grazie al tradizionale impiego, sin dal novembre scorso, della redazione del Corriere della Sera come casella delle lettere della Procura di Milano; il tutto non senza l’abituale confusione (un po’ ignorante e un po’ creata ad hoc ): ha ricevuto l’informazione di garanzia, anzi no, non è iscritta nel registro delle notizie di reato, anzi si e non ultima la bufala più potente secondo la quale sarebbe indagata per bancarotta che come crimine, in effetti, è bruttarello, fa certo “meno fine” del falso in bilancio che evoca una frode fiscale che non scandalizza quasi nessuno piuttosto che l’appropriazione e sperpero di denaro in danno dei creditori, dipendenti inclusi. Peccato che questo reato possa contestarsi solo ad avvenuta dichiarazione di fallimento di una società e non consta che “Visibilia” sia stata dichiarata fallita, anzi stia negoziando un concordato.

    Nessuno dubita che per la sensibilità della carica ricoperta sia stato corretto chiedere che il Ministro del Turismo riferisse nella sua Camera di appartenenza su tali accadimenti. Magari poteva prepararsi un filo meglio nel chiarire certi aspetti tecnici piuttosto che dare ancora più fiato alle trombe di chi sta preparando una mozione di sfiducia. Sarà quale, la sesta, la settima da inizio legislatura? Tutte andate a vuoto. L’opposizione dovrebbe sapere tre cose: che il suo ruolo è proporre alternative all’azione della maggioranza con critica costruttiva, che una richiesta di dimissioni non si fa se non si hanno i numeri (ma se si fa significa che non si hanno idee) ed è un fuor d’opera alimentare questa sorta di Carnevale di Rio ogni volta che – in mancanza d’altro – c’è la possibilità di ricorrere allo sputtanamento dell’avversario invece di dire o fare “qualcosa di sinistra”. Attenzione, poi, ad operazioni “politiche” di bassa macelleria perché il “banco del taglio” è lo stesso che un domani può ospitare chi ama frequentarlo da primattore e non da vittima.

    Per concludere, una nota quasi di buonumore con una carnevalata giudiziaria: la Procura di Genova ha contestato anche il tentato omicidio ad un avvocato che, in base a quanto ricostruito dalla Guardia di Finanza, avrebbe sottratto i soldi all’anziana di cui era amministratore di sostegno e, secondo gli inquirenti, avrebbe pure commissionato ad un’amica maga un rito vudoo con delle candele nere, proprio per sbarazzarsi della signora che accudiva. Un simile reato è definito “impossibile” dallo stesso codice ma secondo il P.M. serve a valutare la personalità.

    Contestazione quanto meno insolita, anche per offrire prova di pericolosità di un soggetto; chiaramente non è punibile avere fatto ricorso a candele e magia nera per intentare un omicidio e però viene da chiedersi, a questo punto, perché non sia indagata anche la fattucchiera.

    Con le carnevalate più o meno divertenti per questa settimana è tutto: la Giustizia può attendere, magari la settimana prossima andrà meglio: ma non è affatto certo.

  • In attesa di Giustizia: l’arte di strisciare

    Paul d’Holbach è considerato uno dei massimi esponenti del materialismo francese, collaborò all’Enciclopedia e si adoperò alla diffusione delle idee e dello spirito dell’Illuminismo. Tra i suoi tanti scritti vi è un interessante ”Saggio sull’arte di strisciare ad uso dei Cortigiani”.

    Un buon cortigiano non deve mai avere un’opinione personale ma solamente quella del padrone o del ministro: è uno degli insegnamenti cardine che il Barone d’Holbach dispensa agli aspiranti cortigiani di successo e la sua lettura deve avere ispirato il duo Padellaro – Travaglio, intenti febbrilmente a mettere il servo ossequio a servizio del decadente potentato, Piercamillo Davigo e della sua visione malata della giustizia.

    L’uomo è in rotta come le truppe austriache descritte da Armando Diaz nel bollettino della Vittoria: dopo la condanna a Brescia per rivelazione di atti di ufficio è risultato soccombente in un altro processo dove, invece, si presentava come parte lesa di diffamazione messa in atto – secondo lui – da Paolo Mieli con un editoriale sul Corsera di te anni fa. Querela sparata a salve: il Tribunale ha ritenuto che vi sia stato solo esercizio del diritto di critica e non diffamazione, assolvendo il giornalista. Sarà, forse, l’ennesimo colpevole che la fa franca?

    I Cortigiani di area M5S, allora, per dare sollievo ai malumori del loro alfiere, con insolito afflato garantista, nonostante la condanna ed in spregio ai loro proverbiali rigori pseudo moralisti, lo hanno prescelto per un’audizione alla Camera a proposito della  ri – modifica della disciplina della prescrizione.

    Davigo non si è lasciato sfuggire l’occasione per suonare la grancassa ribadendo trite castronerie sulla responsabilità degli avvocati, che sono troppi ed in mancanza di lavoro moltiplicano appelli e ricorsi per garantirsi laute parcelle a colpi di prescrizioni. Per Davigo finisce anche qui a mazzate, zittito dall’On. Costa che, statistiche ufficiali alla mano, ha dimostrato come la percentuale preponderante delle prescrizioni matura nel corso delle indagini preliminari quando gli avvocati nemmeno “toccano palla”.

    Quanti dispiaceri…ecco, allora entrare in scena il tandem di attacco de Il Fatto Quotidiano, sciorinando una lingua adulatoria ai limiti del pecoresco con un paragone di Padellaro, a dir poco oltraggioso, tra Davigo e Giovanni Falcone. Noli miscere sacra profanis: eppure, se non fosse una bestemmia, sarebbe solo un meschino tentativo di salvare il soldato Piercamillo dopo l’onta della condanna per reati contro l’amministrazione della giustizia. Basti pensare che Falcone, poiché controcorrente, è stato vittima di odio politico della sinistra che con il contributo degli scudieri eletti al C.S.M.  gli ha impedito di andare a dirigere la Procura di Palermo prima e la Nazionale Antimafia, che era una sua creatura, poi; la carriera di Davigo, invece, non è stata ostacolata da nessuno e – ne siamo lieti – si gode la sua ricca pensione in vita mentre Falcone non ne ha nemmeno raggiunto l’età; il massimo del rischio a cui è esposto l’ex P.M. di Mani Pulite resta quello di incontrare qualcuno che gli faccia il pernacchio come Totò all’ufficiale tedesco nel film “I due marescialli”.

    Travaglio, dal canto suo, ne ha intentato la difesa da impavido lacchè con un editoriale degno dell’Asilo Mariuccia nel quale lamenta che, al momento, sono indagati per omessa denuncia della diffusione da parte di Davigo di verbali secretati solo gli ex consiglieri dei C.S.M. Cascini e Marra. Siamo al “chi lo dice sa di esserlo mille volte più di me”: omette, peraltro, di ricordare il clima che,  grazie a Davigo, in quel periodo si era creato, all’interno del Consiglio e che è stato descritto in aula, a Brescia, da Nino Di Matteo che ha riferito di un’aggressione verbale subita proprio ad opera del Piercamillo nazionale il quale, a dispetto del nome che evoca un tenero gelatino al biscotto non è un mite e gli inveì, ingiustificatamente e con violenza, contro nel corso di una riunione per discutere chi votare come Procuratore Capo di Roma.

    E’ un teatro dell’assurdo: Davigo – che pure ha ammesso la materialità dei quanto commesso – meglio avrebbe fatto a riconoscere i propri errori invece che pervicacemente sostenere una ragione che non c’è e che non può essere supportata neppure sforzandosi di mitizzarlo e giustificarlo sulle colonne del quotidiano che è il più pericoloso concorrente dei Rotoloni Regina.

  • In attesa di Giustizia: delitti contro la pietà dei defunti

    Il nostro Codice Penale prevede la categoria dei delitti contro il sentimento religioso e la pietà dei defunti: datato agli anni ’30 del secolo scorso, è stato aggiornato estendendo la tutela da quella che – secondo lo Statuto Albertino – era la religione di Stato a tutte le confessioni e ne meriterebbe una sanzionando chi, in occasione di eventi luttuosi, invece di mantenere un decoroso silenzio, apra la bocca togliendo ogni dubbio sul fatto di avere un Q.I. inferiore al numero di scarpe indossate o una malafede congenita.

    Gli esempi non mancano mai ed anche questa settimana si fatica a selezionare il peggio; il gradino più alto del podio spetta ai protagonisti del tragico incidente di Casal Palocco, costato la vita ad un bimbo: i genitori degli youtubers (ma che ca…spita di lavoro sarà mai?!) dicono che è stata una bravata e si risolverà tutto per il meglio. Ditelo ai genitori ed alla sorellina del piccolo Manuel. Vogliamo parlare degli idioti a bordo del SUV che continuavano a filmare, senza una lacrima, anche l’intervento dei mezzi di soccorso per aumentare il numero dei followers (anche questi…) e del concessionario che si condoleva per la Lamborghini sfasciata precisando che lui, però, non c’entra niente? Gran finale con il difensore: “la Lamborghini aveva la precedenza”. Gioco, partita, incontro: con pezzenti morali di questo livello non c’è gara.

    Passiamo alla nobiltà della editoria, Il Corriere della Sera ha dato spazio ad una delle sue firme più prestigiose, Luigi Ferrarella, che da sempre si occupa di cronaca giudiziaria, per spiegare che Silvio Berlusconi non è stato affatto un perseguitato dalla giustizia perché non era una brava persona, diligentemente enumerando i processi (non molti tra gli oltre trenta in cui è stato coinvolto) in cui si è avvantaggiato della prescrizione, dimenticando che i rinvii delle udienze per legittimo impedimento ne interrompono il corso e solo l’inerzia, l’inefficienza, l’incuria degli uffici giudiziari ne è causa. Grande enfasi, invece, all’unica condanna riportata, quella per reati fiscali su cui gravano tutt’ora consistenti ombre. Medaglia d’argento.

    Bronzo per gli haters del Cavaliere sbizzarritisi sui social media a pari merito con i grevi vignettisti de Il Fatto Quotidiano, Charlie Hebdo e compagnia assortita: la satira è un’altra cosa.

    Offre, invece sollievo, quanto dichiarato in un’intervista al Foglio da Renato Bricchetti, Magistrato e giurista di altissimo profilo, ora in pensione: “La parola accanimento non mi piace, ma una particolare attenzione politico-giudiziaria verso Berlusconi da parte della magistratura indubbiamente c’è stata”. Alla domanda se Berlusconi abbia fatto parte della storia della giustizia italiana ha, in seguito, risposto: “Bisogna chiedersi se più che farla l’ha subita”.

    “Personalmente – ha aggiunto – sono rimasto molto perplesso, dal punto di vista giuridico, sulla condanna per frode fiscale”. E’ stata l’unica condanna subita da Berlusconi, che è stato imputato in trentasei procedimenti penali”. Renato Bricchetti ha anche precisato che nella sua carriera ha visto solo i truffatori seriali oggetto di tanta attenzione e numero di processi perché fanno tante truffe e quando finalmente vengono giudicati da un Tribunale cambiano zona e vanno a farle in un altro territorio”.

    Proseguendo, ha anche rimarcato che la giustizia, in Italia, non sono i processi ma le indagini: questa è l’immagine della giustizia che ha il cittadino medio e l’indagine determina la condanna all’ignominia. Infatti Berlusconi è stato condannato più volte dall’opinione pubblica. Bricchetti ha, infine ricordato che nel 1994, il giorno dopo che Berlusconi vinse le elezioni, in tribunale vide facce da funerale: era evidentemente un giudizio politico che molti magistrati danno. Pochi mesi dopo la Procura di Milano fece recapitare a Berlusconi il famoso invito a comparire, non senza preavvisare il Corriere della Sera, in aperta violazione del segreto istruttorio.

    L’intervista si conclude con questa amara riflessione: “Io ho sempre sperato che l’ANM si occupasse dei problemi reali della giustizia, soprattutto delle carenze di organico, non della politica giudiziaria o addirittura della politica tout court, ma le mie speranze sono sempre andate deluse”.  E se lo dice lui dopo quarant’anni di magistratura, noi possiamo restare a lungo in attesa di giustizia.

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