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  • Agenzie di rating Usa farlocche

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi apparso su ‘ItaliaOggi’ il 28 marzo 2023

    Serve chiarezza. Dietro le recenti bancarotte negli Usa ci sono altri motivi di preoccupazione. In primo luogo il fallimento delle autorità di sorveglianza, a cominciare dalla Federal Reserve: il loro mancato intervento è dovuto al fatto che esse erano pienamente consapevoli che le loro politiche monetarie altalenanti, interessi zero prima e aumento dei tassi poi, avrebbero messo sottosopra il sistema bancario. Hanno ritenuto, erroneamente, che astenersi fosse la seconda tra le peggiori possibilità. La prima sarebbe stata continuare con le politiche di poderose iniezioni di liquidità fino a far esplodere la bolla.

    Il governo e le autorità bancarie, quindi, non sono stati colti di sorpresa. Erano pronti a nuovi interventi di salvataggio dell’intero sistema. Meglio intervenire dopo il fallimento di una banca regionale che di una too big to fail (troppo grande per fallire).

    C’è stato, infatti, un barrage di interventi. Si è creata una Bank Bailout Facility attraverso la quale il governo concede dei prestiti alle banche. La Fed ha annunciato un “discount window”, uno sportello, dove attingere a prestiti di emergenza a basso costo. Sotto la guida della Fed e del Tesoro, sei grandi banche, JP Morgan, Wells, Citi, Bank of America, Goldman Sachs e Morgan Stanley, si sono accordate per mettere a disposizione 30 miliardi di dollari per la First Republic Bank. Non sono bastati, però, a fermare il crollo. Anche la Federal Deposit Insurance Corporation, l’agenzia di protezione finanziaria, è entrata in campo per garantire i depositi fino a 250 mila dollari. Si tenga presente, però, che il suo fondo coprirebbe soltanto il 2% dei 9.600 miliardi di dollari di depositi assicurati.

    È in atto anche una narrazione che cerca di distogliere l’attenzione dalle banche too big. Si parla insistentemente dei rischi di insolvenza delle banche regionali e delle cosiddette saving and loans banks, quelle che raccolgono i risparmi e poi concedono prestiti alle imprese locali e alle famiglie.

    Indubbiamente non si possono negare le loro difficoltà attuali, create proprio dagli andamenti dei tassi d’interesse. Si ricorderà che una crisi simile, ma in una situazione di differente gravità sistemica, era avvenuta già negli anni Ottanta, sempre per effetto della crescita vertiginosa dei tassi d’interesse da parte della Fed.

    È comunque da ingenui ritenere che le banche regionali siano delle entità totalmente indipendenti rispetto alle 20 maggiori banche Usa, cosiddette, sistemiche. Secondo JP Morgan nell’ultimo anno le banche più piccole avrebbero perso 1.100 miliardi di dollari in depositi che sono stati trasferiti in quelle più grandi.

    C’è anche un’altra narrazione che vorrebbe le banche europee, e non quelle americane, essere nell’occhio del ciclone.

    Certamente, dopo la crisi del Credit Suisse e le gravi fibrillazioni della Deutsche Bank (DB), non si può negare che il sistema bancario europeo sia in crescente difficoltà.

    Noi non ci siamo mai stancati di denunciare i comportamenti rischiosi di DB, superstar dei derivati otc. Ma non si può nemmeno dimenticare che il sistema bancario europeo sia entrato in acque agitate proprio per aver copiato i metodi speculativi di quello americano e della City inglese.

    E’ doveroso anche notare il macroscopico errore delle agenzie di rating, le note imprese americane private. Fino al giorno prima del fallimento della Silicon Valley Bank, Moody’s le garantiva il voto di A3 e Standard & Poor’s (S&P) le dava un rating un po’ inferiore di Bbb. Certamente erano lontani dalle triple A elargite a piene mani prima della bancarotta della Lehman Brothers. I titoli della Svb, però, erano considerati “investment grade”, cioè degni di investimento e perciò non speculativi.

    Si noti che, anche rispetto al fallimento della First Republic Bank, le agenzie di rating S&P e Fitch hanno inserito la banca tra le imprese “junk”, spazzatura, solo dopo gli interventi di salvataggio. Nelle prospettive bancarie globali per il 2023, la S&P afferma che il settore bancario statunitense è in buona salute e che il rischio è in calo. Per la Moody’s le prospettive sarebbero stabili, sebbene avvertisse venti contrari in un’economia in rallentamento.

    Si tratta di gravi sottovalutazioni, a discapito dei risparmiatori e degli onesti investitori. Si persegue un comportamento, a dir poco incompetente e inadeguato, già emerso prepotentemente nel 2001 alla vigilia del fallimento della Enron, il gigante americano dell’energia, e poi nella Grande Crisi del 2008. Dal 2001 il Congresso americano ha portato avanti varie iniziative di riforma che, però, non hanno indotto le agenzie di rating a un comportamento più corretto.

    Si dovrebbe tenerlo presente quando esse pontificheranno sulla situazione economica e finanziaria dell’Italia. In passato, purtroppo, si è sempre tenuto un atteggiamento troppo supino.

    *già sottosegretario all’Economia **economista

  • Moody’s è sempre monotona

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi pubblicato su ItaliaOggi il 13 ottobre 2022

    Eccole di nuovo. Le tre sorelle del rating ritornano a farsi sentire con le loro superficiali pagelle sull’economia e la politica italiana. La prima è l’agenzia Moody’s e a ruota le altre due, la Standard & Poor’s e la Fitch.

    Che l’Italia abbia un debito pubblico elevato lo sappiamo tutti. Così come sappiamo degli altri problemi di carattere politico ed economico. Naturalmente conosciamo anche i lati positivi dell’Italia, tra cui la propensione al risparmio, la capacità imprenditoriale, le sue eccellenze nei campi della scienza, della tecnologia e della cultura in generale. Cose che sono ovviamente neglette dai critici.

    Moody’s ripete le stesse ritrite litanie degli anni passati. Ad esempio, ci sarà un indebolimento delle prospettive di crescita se non si attuano le riforme, oggi anche quelle previste dal Pnrr. Poi, che le incertezze geopolitiche e la crisi energetica siano un aggravamento della situazione economica e sociale lo sanno tutti gli italiani che pagano le bollette della luce, del gas e l’aumentato costo della vita.

    L’agenzia ci «regala» un rating Baa3 con outlook negativo. Ciò vuol dire che l’Italia è all’ultimo gradino dell’investiment grade (livello di affidabilità dell’investimento). In questo stadio le obbligazioni di lungo periodo sono soggette a un moderato rischio di credito, con caratteristiche speculative. Sotto questo gradino c’è il non investment grade, dove i rischi sono più alti, sempre più giù fino alla soglia di vero e proprio fallimento.

    È’ intollerabile che le loro valutazioni nei confronti degli Stati siano essenzialmente di carattere politico. Quando, però, si erano permesse di mettere in dubbio l’affidabilità dei Treasury bond americani, ricevettero dei sonori ceffoni da parte dell’allora amministrazione Obama e scelsero il silenzio. Non per l’Europa.

    I loro rating hanno conseguenze importanti per le finanze e le economie nazionali. Per esempio, un titolo di stato con rating BBB non può essere acquistato e tenuto in bilancio da parte di molte istituzioni finanziarie private, come le assicurazioni e i fondi pensione.

    Ancora più grave, gli stati e i governi non potrebbero mettere detti titoli BBB in garanzia per ottenere dei crediti, ad esempio da parte della Banca centrale europea. Ciò è contenuto in una direttiva della stessa Bce.

    Ancora una volta ci si chiede il motivo di tanto masochismo da parte dell’Europa e dei suoi governi. Il presidente del consiglio dei ministri, Mario Draghi, conosce meglio di chiunque altro questo problema, essendo stato a lungo presidente della Bce. Aveva perfino sollevato dei dubbi sulla loro affidabilità, ma senza risultati.

    D’altra parte non si capisce la ragione per cui si dà credibilità al giudizio di agenzie che nella grande crisi finanziaria del 2008 ebbero un ruolo attivamente negativo. Allora, la commissione d’indagine del Senato americano aveva sentenziato che esse erano state corresponsabili della crisi, avendo distribuito a man bassa rating altissimi AAA a titoli e derivati finanziari che poco dopo sarebbero crollati.

    Con i governi le agenzie non farebbero grandi profitti. Con le imprese private, invece, ne farebbero molti. Il fatto di poter giudicare il comportamento dei governi e degli stati, però, dà loro un enorme potere.Il loro mercato è sempre florido. Moody’s ne controlla circa il 40%, segue con poco meno S&P e più distante Fitch. Non sorprende che nei loro consigli di amministrazione e comitati direttivi siedano dirigenti provenienti da tutte le grandi banche americane e internazionali.

    Esse sono società americane private il cui capitale azionario è controllato da imprese e fondi privati. Per Moody’s, il 13,4 è nelle mani della finanziaria Berkshire Hathway del banchiere e speculatore Warren Buffet, poi vengono i fondi di investimento Vanguard e Blackrock. Questi due ultimi sono anche i maggiori azionisti, ciascuno con oltre l’8%, di S&P.

    Vanguard e Blackrock, con l’altro fondo SSGA, sono le massime potenze del cosiddetto settore non banking financial insitutions (nbfi), con asset stimati nel 2019 a 14.000 miliardi di dollari e con importanti partecipazioni azionarie nelle maggiori corporation americane.

    Le agenzie di rating sono state sottoposte a tante indagini. Ma sembrano più arzille che mai.

    Che cosa m anca alle autorità europee per porre i freni alle loro scorribande? Non vorremmo che queste facessero la parte delle tre scimmiette che non vedono, non sentono e non parlano.

    *già sottosegretario all’Economia **economista

  • Vanno a fare danni in Africa

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi** apparso si ItaliaOggi il 15 maggio 2020

    Avendo perso mordente e spazio operativo negli Usa e in Europa, le agenzie di rating si sono buttate contro i paesi emergenti, in particolare quelli dell’Africa. Non è necessario essere un genio di competenza e di capacità di analisi per immaginare le difficoltà economiche in un mondo devastato dalla pandemia del covid-19. Soprattutto nei paesi cosiddetti emergenti, da sempre suscettibili a ciò che accade nelle economie avanzate.

    In momenti e in modi leggermente differenti, le «tre sorelle del rating», Standard& Poor’s, Moody’s e Fitch, hanno declassato dieci paesi africani e i loro titoli di debito pubblico fino al livello di junk, di titoli spazzatura. Si tratta di Angola, Botswana, Camerun, Capo Verde, Repubblica Democratica del Congo, Gabon, Nigeria, Sudafrica, Mauritius e Zambia.

    Le valutazioni sono basate fondamentalmente sulle previsioni riguardanti la debolezza dei sistemi fiscali e sanitari di detti paesi. Ciò avviene mentre la Banca Mondiale ha opportunamente, invece, sostenuto la sospensione dei pagamenti degli interessi sui debiti dei paesi più poveri che fanno parte dell’International Development Association (Ida).

    D’altra parte, la loro conoscenza dell’Africa è bassissima. La S&P, per esempio, si vanta di essere in grado di formulare valutazioni su ben 128 paesi del mondo. Ma ha un solo ufficio, a Johannesburg, per l’intero continente africano.

    I rating delle agenzie sono solitamente delle valutazioni più o meno banali. Però, com’è noto, sono presi in considerazione dai mercati per giudicare lo stato di salute delle varie economie e, di conseguenza, per definire i tassi d’interesse del debito pubblico dei singoli paesi.

    È un fenomeno più volte sperimentato, con effetti devastanti sia sull’aumento del costo dei prestiti sia sugli investitori internazionali. In merito, è opportuno ricordare il ruolo svolto dalle agenzie nel «meltdown» finanziario negli anni della Grande Crisi del 2008, che ebbe un impatto sui mercati globali e, soprattutto, sull’economia reale di molti paesi, compresi quelli in via di sviluppo.

    Poiché sembra che la cosa non sia nella memoria collettiva, riteniamo utile ricordare le denunce istituzionali fatte nei loro confronti.

    Per esempio, il dettagliato rapporto «The financial crisis inquiry report» redatto da una Commissione bipartisan e pubblicato dal governo statunitense nel 2011. Vi si affermava, tra l’altro, che «la crisi non sarebbe potuta avvenire senza le dette agenzie. I loro rating, prima alle stelle e poi repentinamente abbassati, hanno mandato in tilt i mercati e le imprese». Il solito giochino.

    Qualche anno fa, persino il «falco» tedesco Wolfang Schäuble, allora ministro delle Finanze, aveva detto: “Dobbiamo spezzare l’oligopolio delle agenzie di rating”. Si ricordi che in più circostanze, sia il G8 sia il G20 ha prodotto una copiosa letteratura, fatta di documenti e dichiarazioni, con i quali si stigmatizza il loro comportamento e si chiede una loro profonda riforma.

    Moody’s ha declassato a junk il Sudafrica facendogli perdere l’ultimo gradino di investment grade, sotto il quale gli investitori istituzionali non sono più autorizzati a comprare i titoli di stato. Essa ha stimato un notevole aumento del debito pubblico sudafricano che dovrebbe raggiungere il 91% del Pil entro il 2023. Quest’anno la crescita dovrebbe essere inferiore all’1% e poi sprofondare in terreno negativo a meno 5,8%.

    Moody’s non ha neanche aspettato per verificare l’impatto economico del coronavirus e i provvedimenti del governo di Pretoria.

    Le altre due agenzie, a onor del vero, avevano già da tre anni valutato come junk i titoli sudafricani. Adesso il Sud Africa dovrà lasciare l’importante World Government Bond Index dove ci sono tutti i titoli pubblici con il rating di investment grade. Di conseguenza il valore dei titoli sarà ridefinito senza una rete di protezione.

    Fitch ha tagliato il rating sovrano del Gabon da B a CCC. La spiegazione del declassamento riguarda l’eventuale difficoltà di rimborso del debito sovrano per mancanza di liquidità determinata dalla caduta dei prezzi del petrolio.

    Moody ha rivisto in negativo il rating sovrano di Mauritius a causa della previsione di minori guadagni turistici per il coronavirus.

    La Nigeria è stata declassata da S&P da B a B – perché il covid-19 aumenterebbe il rischio di choc fiscali derivanti dalla riduzione dei prezzi del petrolio e dalla recessione economica.

    S&P ha, da ultimo, anche declassato il Botswana, una delle economie più stabili dell’Africa, che aveva il rating A. L’agenzia ha citato l’indebolimento del bilancio statale a causa di un calo della domanda di materie prime e della prevista decelerazione economica provocata dalla pandemia. Il declassamento del Botswana è stato fatto quando nel paese non si era registrato neanche un caso di infezione!

    Questi downgrade a livello di spazzatura stanno provocando seri problemi, che possono avere conseguenze peggiori dello stesso coronavirus. Riducono, infatti, il valore delle obbligazioni sovrane usate come garanzia nelle operazioni di finanziamento delle banche centrali, aumentando allo stesso tempo il costo degli interessi e, quindi, del debito. Di conseguenza vi sarà un’ondata di declassamenti anche delle imprese private.

    I paesi dell’Africa sono chiamati da più parti a disegnare un meccanismo di risposta collettiva contro l’abuso del rating. Si vorrebbe, tra l’altro, che l’Unione Africana creasse una sua autorità di controllo sulle attività delle agenzie e definisse degli standard di valutazione equi e realistici.

    I governi e le popolazioni del continente africano guardano sempre più all’Europa per trovare un sostegno e un modello. Purtroppo, anche sulla questione delle agenzie di rating l’Unione europea è ancora e inspiegabilmente paralizzata.

    Riguardo a particolari avvenimenti e a certi comportamenti umani, le popolazioni africane per descriverli usano figure di animali. Chissà quale bestia della savana utilizzeranno per le agenzie di rating?

    *già sottosegeretario all’Economia **economista

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