risparmio

  • La Commissione presenta nuove norme per ridurre i consumi dei dispositivi in “stand-by”

    La Commissione europea ha adottato le nuove norme per ridurre il consumo energetico di dispositivi come lavatrici, televisori e console portatili per videogiochi quando questi sono in modalità “stand-by”. Le norme rivedute apportano una serie di modifiche al regolamento sulla progettazione ecocompatibile del 2008 relativo al consumo di energia elettrica nei modi stand-by e spento, il cui ultimo aggiornamento risale al 2013. Le nuove norme fanno seguito a un’ampia consultazione e all’esame del Parlamento europeo e del Consiglio. Le modifiche tengono conto degli sviluppi tecnologici e del mercato avvenuti negli ultimi anni e ampliano il campo di applicazione della normativa, includendo ora, ad esempio, i prodotti provvisti di un alimentatore esterno a bassa tensione, come piccole apparecchiature di rete (tra i quali router per il Wi-Fi e modem) o altoparlanti senza fili.

    Secondo le stime della Commissione, riducendo la quantità di energia elettrica consumata dai prodotti in modalità “risparmio energetico”, entro il 2030 si produrrà un risparmio energetico annuale di 4 TWh, corrispondente a un risparmio annuale di CO2 pari a 1,36 milioni di tonnellate di CO2 equivalente. Ciò apporterà anche benefici ai consumatori, riducendo i costi delle bollette e permettendo così un risparmio totale stimato di 530 milioni di € all’anno entro il 2030.

    Grazie alle norme rivedute, le informazioni sul consumo energetico dei dispositivi in modalità “stand-by”, “spento” e “stand-by in rete”, nonché sulla quantità di tempo necessaria ai prodotti per raggiungere automaticamente una di queste modalità, saranno più facilmente accessibili ai consumatori.

    Le aziende produttrici hanno ora a disposizione un periodo di transizione di due anni prima che le nuove norme entrino in vigore.

  • La Ue taglia i consumi di energia, per Italia più sforzi

    Le istituzioni Ue fanno un altro passo verso la finalizzazione del pacchetto clima con un accordo su un nuovo ambizioso obiettivo di efficienza energetica che prevede una riduzione dei consumi dell’11,7% entro il 2030 a livello Ue. Per l’Italia, secondo Francesca Andreolli del think tank ECCO, significa raddoppiare gli sforzi di riduzione dei consumi in tutti i settori nei prossimi 6 anni.

    In base all’intesa raggiunta a Bruxelles, in media gli Stati membri dovranno assicurare una riduzione annua dell’1,49% di consumi finali di energia per ciascuno dei prossimi sei anni. Il contributo nazionale sarà calcolato secondo una formula che tiene conto dell’intensità energetica, del Pil pro capite, dello sviluppo delle rinnovabili e del potenziale risparmio energetico. Per l’Italia, ha spiegato Andreolli, ciò significherà risparmiare “quasi il doppio di quello, lo 0,8%, che prevede l’attuale Piano nazionale energia e clima” tarato sul target precedente. L’obiettivo Ue riguarda tutti i settori, ma particolare attenzione è rivolta agli edifici pubblici. Gli Stati sono chiamati a rinnovare ogni anno almeno il 3% della superficie totale degli immobili sotto il controllo della pubblica amministrazione.

    I singoli Paesi potranno conteggiare nel calcolo del contributo nazionale all’obiettivo europeo sia i risparmi energetici realizzati con misure derivanti dal nuovo sistema Ets per gli edifici e i trasporti – cui è collegato un fondo per il clima da quasi 90 miliardi – sia quelli che saranno realizzati con l’applicazione della nuova direttiva sulla performance energetica degli edifici. Un provvedimento, quest’ultimo, che in Italia ha suscitato molte reazioni negative.

  • Risparmio gestito più magro, lontano da record 2021

    Al risparmio gestito non basta un dicembre 2022 con oltre 11 miliardi di raccolta, grazie alla spinta dei mandati istituzionali (8,7 miliardi), per rimettere in sesto un anno che resta lontano dal record di 93 miliardi registrato a fine 2021 (segnato dal Covid) e che, peraltro, è stato il miglior risultato dal 2017.

    Il 2022, sferzato dalla volatilità, chiude – sulla base della consueta mappa stilata da Assogestioni- sfiorando i 20 miliardi di euro (19.7). A dicembre sul totale (11,15 miliardi) 1,58 miliardi sono gestioni collettive e 9,57 miliardi sono frutto delle gestioni in portafoglio. Quanto al patrimonio gestito scende a 2.215 miliardi euro, dai 2.260 miliardi di novembre.

    “Il dato sulla raccolta netta a dicembre è stato determinato quasi totalmente dai mandati istituzionali, i cui flussi seguono delle dinamiche su cui l’andamento dei mercati influisce in misura minore rispetto al mondo retail”, osserva Alessandro Rota, direttore Ufficio Studi di Assogestioni. “In attesa della lettura trimestrale definitiva, il segnale incoraggiante – aggiunge Rota – arriva a mio avviso dai fondi aperti, con gli azionari che continuano a catalizzare l’interesse degli investitori, consolidando un trend orientato al lungo periodo che prosegue ormai da tempo”.

    I numeri confermano infatti la resilienza dei fondi aperti, che nell’ultimo mese del 2022, hanno registrato 1,14 miliardi euro di afflussi e, in particolare, quella dei prodotti azionari, in positivo per 1,39 mld euro. Segno più anche per i fondi obbligazionari (+375 milioni), mentre restano in rosso quelli bilanciati (-342 milioni). Per i fondi chiusi invece la raccolta è stata di 444 milioni di euro. L’ammontare del patrimonio delle gestioni collettive si attesta così a 1.160 miliardi di euro, equivalenti al 52,4% del totale.

  • Crolla il risparmio gestito dopo il record del 2021

    Crolla il risparmio gestito nel 2022 dopo la raccolta record di 93 miliardi del 2021. A dire il vero l’avvio dell’anno era stato più che promettente con un primo trimestre a quota 11 miliardi. Poi i mesi estivi, tradizionalmente più deboli, e un settembre negativo hanno certificato le poche luci e le molte ombre. Difficile invertire la tendenza complice l’estrema volatilità di un mercato stretto tra la morsa dell’inflazione e le tensioni geopolitiche. Se lo scorso anno la raccolta mise a segno il miglior risultato dal 2017, il 2022 con gli 11 mesi a quota 8,6 miliardi secondo i dati Assogestioni, si avvia a chiudere sui livelli o comunque poco sopra i 7,8 miliardi del 2020, anno segnato dalla pandemia.

    Andando a scorrere i dati di novembre il patrimonio del mercato italiano del risparmio gestito si è attestato a 2.260 miliardi di euro. A influire sulle masse è stato principalmente l’effetto mercato positivo, quantificato dall’ufficio studi di Assogestioni in un +2,4%. La raccolta netta è stata positiva per 268 milioni. Una cifra, quest’ultima, in calo rispetto ai 967 milioni di ottobre, mese che però ha segnato una ripresa della raccolta dopo i -3,3 miliardi di settembre. Da segnalare a novembre l’Inversione di marcia per i fondi aperti che sono tornati in territorio positivo, raccogliendo 231 milioni nel mese. In particolare, i dati hanno confermato il continuo interesse dei sottoscrittori per i prodotti azionari, che hanno registrato afflussi netti pari a 1,63 miliardi. Allo stesso tempo, si sono affievoliti i deflussi dai comparti obbligazionario e bilanciato, pari rispettivamente a 216 e 379 milioni di euro. La mappa mensile di Assogestioni indica poi come, sostanzialmente, sia rimasto invariato il quadro sui fondi chiusi che, a novembre, hanno raccolto 640 milioni di euro, portando il dato complessivo di raccolta delle gestioni collettive a +870 milioni di euro, per un patrimonio di 1.180 miliardi, pari al 52,2% delle masse. Sul fronte delle gestioni di portafoglio, i mandati istituzionali hanno visto una raccolta negativa pari a 1,58 miliardi di euro nel mese, mentre quelli retail hanno registrato afflussi netti per 987 milioni. Il patrimonio complessivo delle gestioni di portafoglio si attesta così a 1.080 miliardi di euro, equivalenti al 47,8% del totale.

  • Balzo del solare in Italia grazie al Superbonus 110%

    Si muove il mercato delle rinnovabili in Italia. E con obiettivi più ambiziosi al 2030 i risparmi sulla bolletta del gas potrebbero arrivare a 25 miliardi in 5 anni. I dati vengono da due studi pubblicati uno dall’industria del fotovoltaico, l’altro da un think tank ambientalista londinese.

    Il rapporto realizzato da SolarPower Europe – che rappresenta 280 organizzazioni della catena del valore del fotovoltaico da oltre 40 Paesi – racconta come la Penisola sia diventata uno dei mercati più dinamici del solare domestico integrato con batterie (che consentono lo stoccaggio di una parte dell’energia prodotta) grazie al bonus 110% e altri incentivi.

    “L’Italia è la più grande sorpresa del 2021”, scrivono gli autori del rapporto. Secondo i dati SolarPower Europe, che tra i sostenitori conta anche Enel e Eni, il mercato italiano ha avuto una crescita esponenziale a 321 MW installati l’anno scorso contro i 94 nel 2020, in aumento del 240% rispetto al 2020, e questo principalmente “grazie alle condizioni molto vantaggiose del Superbonus 110%”. Ma non è solo il “110” a spingere il settore. Le prime installazioni risalgono al 2015. Da allora una crescita rapida grazie a incentivi disponibili dapprima in Lombardia, poi in Veneto e Friuli Venezia-Giulia e poi con l’estensione alle batterie del credito d’imposta del 50% per l’acquisto di un impianto fotovoltaico residenziale. Così nel 2021 l’Italia ha contribuito con l’11% delle installazioni totali di batterie domestiche in Europa, consolidando il suo secondo posto. La leadership è, indiscutibilmente, tedesca. Ma l’Italia potrebbe raggiungere i livelli della Germania già quest’anno. E nel rapporto ci sono anche sorprese come la Polonia – Paese di solito associato all’economia del carbone – che si prepara a diventare il terzo player Ue del solare domestico a stoccaggio nel 2022-26.

    Numeri che riguardano una nicchia, ma testimoniano una crescente attenzione al solare “fai-da-te”. Dati che arrivano mentre Paesi Ue ed Europarlamento discutono se aumentare l’obiettivo rinnovabili 2030 dal 40 al 45%. Lo ha proposto la Commissione europea nel Piano RePower, per ridurre la dipendenza dai combustibili fossili, quelli provenienti dalla Russia in particolare. L’Eurocamera appoggia l’iniziativa, il Consiglio Ue frena. Per il think tank londinese Ember un target al 45% dimezzerebbe le importazioni di gas dell’Ue, che così risparmierebbe fino a 200 miliardi di euro nel periodo dal 2025 al 2030. Secondo Ember, l’Italia, in quanto secondo consumatore di gas dopo la Germania, ridurrebbe la sua bolletta del gas di 25 miliardi di euro tra il 2025 e il 2030.

  • L’inflazione di genere: una nuova pagina

    La semplice rilevazione dei tassi di inflazione spesso non rende il quadro complessivo ma neppure quello specifico, e soprattutto non offre le coordinate necessarie nella elaborazione delle strategie per combatterne non solo i nefasti effetti ma soprattutto le ragioni scatenanti dell’aumento dei prezzi.

    Durante l’ultima rilevazione l’inflazione si è attestata al +11,9%, un dato che già indica chiaramente il livello di usura del potere di acquisto dei cittadini come quello della depatrimonializzazione dei risparmi nei depositi liquidi.

    A questa situazione si aggiungono altri dati, sempre relativi al tasso di inflazione, ma specifici per altri settori merceologici fondamentali nel tentativo di elaborazione di una strategia di contrasto. Nell’ambito dei beni alimentari si registra, infatti, un aumento annuale dei prezzi del +14,1% (*), ma con picchi di vera e propria esplosione inflattiva per l’olio di semi +64%, del burro con un +34% mentre la farina segna un +23%, vicina al riso ed alla pasta con un +22%.

    Una spirale inflattiva, che ha già determinato una riduzione generale dei consumi nell’anno in corso e che indurrà, solo per offrire uno scenario futuro, il 60% della popolazione ad una diminuzione della spesa natalizia per regali e alimentari.

    In questo complesso e problematico scenario andrebbe considerato come il settore alimentare, nello specifico, paghi, per sua stessa natura, una maggiore incidenza del costo del trasporto sul prezzo finale al consumatore.

    Nonostante questo settore fondamentale e primario sconti un tasso di inflazione già ora decisamente superiore rispetto a quello generale, ed il suo impatto sia decisamente maggiore in particolare modo per le famiglie con fasce di reddito inferiore, la scelta del governo in carica di diminuire gli sconti fiscali per il gasolio risulta quindi scellerata e con ripercussioni pericolose.

    Non è difficile immaginare come un ulteriore aumento dei costi di trasporto determinerà un rafforzamento “dell’inflazione alimentare” la quale ridurrà ulteriormente la capacità di acquisto specialmente per le fasce di reddito più basse.

    All’interno di un simile contesto, e con una pressione fiscale già attestata nel 2022 alla cifra record del 43,8% (**), un ulteriore incremento della medesima determinerà lo scenario ideale per una recessione economica senza precedenti, anche rispetto a quanto si verificherà per gli altri paesi della stessa Unione europea.

    L’inflazione, specialmente se esogena, cioè determinata da fattori esterni (impennata costi materie prime ed energetici determinate dalla pandemia e dalla guerra ucraina), può venire attenuta nei propri effetti solo attraverso una compensazione fiscale generale, magari anche solo parziale, ma mai con bonus parziali e tanto meno con una riedizione dei fallimentari Bonus familiari di genesi tremontiana.

    Viceversa, si aggiunge così una nuova pagina al libro “L’ analfabetismo economico” del nostro Paese alla cui realizzazione concorrono da oltre trent’anni indistintamente le classi politiche e governative italiane.

    (*) www.corrierecomunicazioni.it

    (**) Cgia di Mestre

  • Gli italiani guardano alla finanza etica ma non ci investono

    Cresce l’interesse degli italiani per gli investimenti sostenibili e anche il livello di conoscenza di questi strumenti finanziari migliora. Ma nei fatti resta ancora molto contenuta la quota di investimenti detenuta nei cosiddetti prodotti Esg, ossia che includono tra i requisiti fattori ambientali e sociali. E’ quanto emerge dall’indagine Consob sulle scelte di investimento delle famiglie italiane, «Interesse verso gli investimenti sostenibili. Un esercizio di caratterizzazione degli investitori italiani”.

    La quota di investitori che si dichiara disposta a considerare strumenti finanziari con caratteristiche di sostenibilità è passata dal 60% nel 2019 al 74% circa nel 2021. Una maggiore propensione che comunque appare condizionata alle prospettive di redditività che devono risultare “almeno in linea con quella di opzioni di investimento alternative tradizionali (dal 38% al 57%)”. È aumentata anche la quota di intervistati che afferma di avere una conoscenza almeno di base degli investimenti sostenibili, passando dal 27% nel 2019 al 37% nel 2021. Per contro, però, “è rimasto molto contenuto il possesso di investimenti sostenibili, riportato dal 6% circa degli investitori sia nel 2019 sia nel 2021. Il dato è cresciuto lievemente tra gli investitori assistiti (7% nel 2019 e 11% nel 2021) e, soprattutto, tra gli investitori informati (rispettivamente, 13% e 15%).

    Sotto il profilo socio-demografico, incidono in modo significativo l’età, la condizione professionale, il livello di istruzione e la condizione finanziaria. In particolare, l’interesse per i prodotti sostenibili è meno frequente tra gli investitori più anziani (una associazione positiva sebbene debole emerge per la fascia di età compresa tra 25 e 45 anni), tra i pensionati e tra gli investitori che non partecipano al mercato del lavoro, mentre si associa positivamente con l’istruzione e alcune condizioni professionali come, ad esempio, quella dell’impiegato. Nell’ambito del financial control, è diventata meno frequente la propensione a pianificare, peraltro già contenuta: nel 2021, infatti, solo il 9% degli investitori ha dichiarato di avere un piano finanziario (-2 punti percentuali rispetto all’indagine 2019). Si è ridotta lievemente la quota di investitori che riesce a rispettare costantemente il budget familiare (dal 27% al 25%), mentre è aumentata di 5 punti percentuali la quota di individui che hanno dichiarato di essere indebitati nei confronti sia di banche e istituzioni finanziarie (dal 35% nel 2019) sia di amici e parenti (dal 9% nel 2019).

  • I risparmi del lockdown mettono al sicuro le famiglie ma l’autunno si prospetta duro

    Il ‘tesoretto’ di risparmio accumulato durante la pandemia dalle famiglie, specialmente in forma liquida, con un’incidenza attuale dei depositi pari al 110% del reddito disponibile, rappresenta una fondamentale “garanzia psicologica” che, assumendo un’inflazione in discesa nel corso del 2023, potrà favorire la tenuta dei consumi”. E’ uno degli aspetti più significativi messi in evidenza dall’ultimo Report di Area Studi Legacoop e Prometeia nel quale si sottolinea tuttavia come l’effetto difficilmente coinvolgerà i lavoratori dipendenti a basso reddito. “I rischi sociali di questa fase convulsa sono altissimi” – dichiara Mauro Lusetti, presidente di Legacoop – già durante la pandemia dal nostro osservatorio denunciavamo come l’impatto fosse asimmetrico non solo sulle imprese, ma pure sulle famiglie: da un lato vi era chi forzatamente accumulava risparmi imprevisti, dall’altro lato chi si impoveriva ulteriormente”. Per Lusetti “nelle condizioni italiane occorrono politiche di protezione sociale eccezionali, perché, anche prendendo per buone le previsioni di un rientro progressivo dell’inflazione, già sappiamo che questo autunno sarà durissimo. Aggiungere a questo quadro di ansia e fragilità anche l’instabilità di una fase elettorale è stato un capolavoro di irresponsabilità della politica italiana di cui avremmo certamente voluto fare a meno”.

    Lo studio prevede, per i prossimi trimestri, un recupero della propensione al consumo, nel tentativo delle famiglie di mantenere inalterato il proprio tenore di vita, nonostante la caduta non solo del reddito disponibile reale, ma anche del valore di mercato della propria ricchezza. Lo studio ipotizza, infatti, che non si avvierà una rincorsa prezzi-salari, e ciò comporta che lo shock “da offerta» che si sta sperimentando in Italia (e in tutta Europa), che implica il trasferimento di reddito all’estero via bolletta energetica, sarà pagato in misura importante dai lavoratori dipendenti, in particolare da quelli a basso reddito, su cui questa inflazione concentrata su energia ed alimentari sta esercitando gli effetti maggiori. È dunque importante – suggerisce lo studio – che le misure fiscali volte a contrastare tale inflazione, in un contesto di risorse limitate, siano mirate alle fasce più povere della popolazione e non distribuite a pioggia.

  • Cresce la domanda della legna da ardere e i prezzi vanno alle stelle

    È diventato un bene rifugio, un po’ come l’oro quando i mercati finanziari fanno le bizze: gli investitori cercano riparo nel metallo prezioso, facendo schizzare la valutazione verso l’alto. Ed è quanto sta accadendo con la legna da ardere, il cui prezzo al dettaglio, con la crisi del gas provocata dal conflitto tra Russia e Ucraina, è schizzato, in alcuni casi raddoppiando rispetto allo scorso anno. Un esempio: se a Trento nel 2021 un bancale di legna da ardere (circa 7-8 quintali di faggio o rovere) costava tra i 150 e i 170 euro, quest’anno difficilmente lo si trova per meno di 300 euro dai rivenditori trentini.

    Una situazione del tutto analoga è stata registrata per il pellet, il cui prezzo per i sacchi da 15 chili, solitamente assestato tra i 5 e i 6 euro, quest’anno ha avuto un aumento che talvolta sfiora il 100%. Un problema che va a toccare non solo l’arco alpino, dove il riscaldamento a biomassa è diffusissimo, ma molte regioni d’Italia, da nord a sud.

    Ma cos’è successo? Sono molteplici le cause. Dopo lo scoppio del conflitto lo scorso inverno e l’aumento del prezzo del gas, moltissimi italiani si sono buttati sulle cosiddette biomasse, ritenendole esenti dal rischio di uno stop improvviso: “Uno le tiene sotto casa e sa che sono sempre a disposizione”, osserva Valentino Gottardi, del Servizio foreste della Provincia autonoma di Trento. Proprio il Servizio foreste, che monitora le aste per i lotti boschivi, ha registrato un aumento dei prezzi rispetto allo scorso anno che va dal 20 al 50%, una forbice che si giustifica dalla difficoltà o meno di operare il taglio nell’area assegnata. Questo dato – spiega Gottardi – ci dice che c’è un grande interesse da parte delle aziende a reperire legna da ardere. La corsa all’acquisto genera un aumento dei prezzi alla base che poi si riversa sul consumatore finale, anche a causa dell’incremento dei costi dell’energia per la trasformazione del legname.

    Ad appesantire il quadro italiano – spiega Annalisa Paniz, direttrice dell’Associazione italiana energie agriforestali – il blocco delle importazioni da Russia, Bielorussia e Ucraina e la riduzione dai paesi dell’est (come la Romania) che temono interruzioni sulle forniture del gas. Insomma, chi la legna ce l’ha, se la tiene a casa. L’Aiel già lo scorso inverno, dopo il 24 febbraio, data di inizio del conflitto, ha registrato un forte aumento dell’interesse degli italiani per le biomasse, con un incremento degli acquisti di stufe a legna o pellet che si aggira sul 20%.

    Il quadro dei prezzi – secondo Aiel – potrebbe migliorare in un prossimo futuro “grazie” al bostrico, che si è diffuso a dismisura dopo la tempesta Vaia e che oggi sta minacciando il patrimonio boschivo: la necessità di tagliare gli alberi colpiti dal coleottero potrebbe portare ad un aumento del materiale legnoso sul mercato e quindi ad un effetto calmiere. Un po’ com’era successo proprio dopo la tempesta Vaia, che aveva avuto tra le conseguenze l’immissione sul mercato di una quantità enorme di legna, corrispondente ad un crollo dei prezzi.

    Ci si chiede a questo punto cosa potrebbe accadere se la crisi del gas dovesse prolungarsi anche nei prossimi anni. Secondo Annalisa Paniz servirebbe una diversa politica, più efficiente, nella gestione del patrimonio boschivo in Italia: “Per essere meno dipendente dalle importazioni – afferma Annalisa Paniz direttrice generale di Aiel – l’Italia avrebbe dovuto investire maggiormente nell’industria addetta alla lavorazione del legno, realizzando più segherie e strutture per la raccolta e la lavorazione. La difficoltà nel reperire lotti disponibili in Italia per la produzione di legna da ardere impedisce alle aziende di supplire alla mancanza del materiale fino a poco tempo fa di provenienza estera”.

  • Bruxelles rimane scettica sull’idea di un prezzo amministrato per il gas

    La proposta di fissare un tetto al prezzo del gas potrebbe rompere il mercato unico. Il dubbio, difficile da dissipare, frena Bruxelles dal concedere a Spagna e Portogallo il via libera a procedere con la loro ‘eccezione iberica’ di limitare il prezzo del gas in via temporanea e straordinaria. Tenendo con il fiato sospeso anche l’Italia che vorrebbe procedere sulla strada aperta da Madrid e Lisbona per intervenire contro il caro-energia acutizzato dalla guerra in Ucraina. E, nel frattempo, ha chiuso l’intesa sul gas con l’Algeria e procede a grande velocità per ridurre la dipendenza dalla Russia.

    Ferma ormai da due settimane sul tavolo dei tecnici della Commissione europea, la richiesta dei due premier Pedro Sanchez e Antonio Costa – vinte al tavolo del vertice europeo di fine marzo le resistenze politiche dei Paesi che difendono il libero mercato capeggiati dall’Olanda – si deve confrontare con le perplessità dell’esecutivo comunitario. Che non nega la legittimità dell’istanza e l’eccezionalità della condizione dei due Paesi mediterranei, ma vorrebbe più chiarezza sulle modalità di finanziamento. E si chiede se il meccanismo non apra un precedente pericoloso per il mercato unico. Se regolare il prezzo del gas nella sola Penisola iberica poco connessa con il resto dell’Ue, è il ragionamento, potrebbe già comportare ricadute sulla vicina Francia, che cosa succederebbe se a richiederlo fosse un Paese più interconnesso? Una questione su cui Bruxelles sta cercando di ragionare, stretta tra la sacralità della libera concorrenza, i costi da sostenere per la transizione climatica e la situazione di massima tensione con la Russia. L’urgenza dei rincari sempre più pesanti per le bollette di imprese e cittadini fa comunque aumentare il pressing anche da parte dell’Italia che, per bocca della vice ministra agli Affari esteri, Marina Sereni, dal Lussemburgo è tornata a spingere per un impegno dell’Europa su “misure regolatorie immediate anche temporanee”. Vale a dire il tetto temporaneo al prezzo del gas all’ingrosso – che potrebbe aggirarsi intorno agli 80 euro per megawattora per almeno tre mesi – e la riforma, voluta a gran voce anche dalla Francia, per disaccoppiare il prezzo del gas e quello dell’energia.

    Le proposte dell’Ue dovrà in ogni caso arrivare entro la fine del mese, dopo un’attenta lettura del rapporto tecnico dell’Agenzia per la cooperazione fra i regolatori nazionali dell’energia (Acer). Il dossier resta complesso e a frenare sono soprattutto la Germania e l’Olanda, che controlla il mercato internazionale Ttf. Quello che in gergo tecnico si chiama ‘decoupling’ per evitare il ‘contagio’ del caro-gas alle bollette dell’elettricità, potrebbe essere un ‘boomerang’ che, secondo L’Aja, potrebbe causare una distorsione della concorrenza e una riduzione degli investimenti nelle rinnovabili, facendo naufragare gli obiettivi climatici dell’Ue. Nel suo faccia a faccia con Mark Rutte, Mario Draghi ha cercato di fargli cambiare idea incassando un’apertura a studiare tutte le possibilità e a usare il ‘pragmatismo’. Il resto potrebbero farlo gli sviluppi sui prezzi provocati dalla guerra.

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