smart working

  • I lavoratori in smart working sono aumentati di 16 volte

    Erano mezzo milione prima della pandemia Covid-19 e sono saliti a 8 milioni con il lockdown i lavoratori italiani che praticano smart working. La modalità di lavoro da remoto è diventata spesso necessità di fronte alle misure di sicurezza e alle restrizioni anti-contagio, che un lavoratore su sei vorrebbe proseguire anche dopo l’emergenza. Più gli uomini, che le donne, per le quali lavorare da casa risulta più pesante A fotografarli è la prima indagine sullo smart working promossa dall’Area politiche di genere della Cgil e realizzata insieme alla Fondazione Di Vittorio, dal titolo “Quando lavorare da casa è… smart”. Obiettivo: cogliere ragioni e percezioni alla base di questa esperienza e, guardando in prospettiva, individuare modalità per rendere “davvero smart” il lavoro da casa, perché non sia soltanto “home working”. Di fronte al balzo attuale, diventa più urgente per il sindacato definire regole precise, nell’ambito dei contratti nazionali e aziendali, come rimarcato dal segretario generale Maurizio Landini: bisogna “prevedere pause, fare distinzioni tra lavorare di giorno e di notte, di sabato e festivi, sui mezzi da utilizzare”, ma anche “evitare le discriminazioni di genere: bisogna allargare la contrattazione e fare in modo che tutte le modalità di lavoro, compreso lo smart working, siano regolamentate”, sottolinea Landini, durante la presentazione dell’indagine, evidenziando i diversi punti, dal diritto alla disconnessione alla formazione, dagli orari alla salute e sicurezza allo stop all’unilateralità.

    Quasi tutti (il 94%, secondo l’indagine a cui hanno risposto 6.170 persone), sono d’accordo sul fatto che lo smart working faccia risparmiare tempi di pendolarismo casa-lavoro, consenta flessibilità, renda efficace il lavoro per obiettivi, permetta il bilanciamento dei tempi di lavoro, cura e libero. Dello smart working fa invece paura il fatto di avere meno  occasioni di confronto e di scambio con i colleghi e l’aumento dei carichi familiari (per il 71%). La stragrande maggioranza, l’82%, spiega di essere “precipitato” nel lavoro smart in coincidenza con l’avvio delle misure di contenimento del virus. Guardando al dopo emergenza, il 60% vorrebbe proseguire l’esperienza, il 22% no, resta una quota di indecisi. Meno convinte le donne, più propensi gli uomini: per le donne, infatti, questa modalità di lavoro “è meno indifferente e soprattutto più pesante, complicata, alienante e stressante”, rileva l’indagine. “Discriminazioni reiterate anche nello smart working”, commenta l’ex segretaria generale e attuale responsabile dell’Area politiche di genere della Cgil, Susanna Camusso.

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