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  • La rupia indiana sta assumendo un ruolo alternativo

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi apparso su ItaliaOggi il 17 maggio 2023

    L’India sta accelerando il processo verso l’utilizzo delle monete locali, ovviamente anche della sua valuta, la rupia, nei commerci internazionali. Poiché l’India non è vista come un nemico, come la Russia, né un pericoloso concorrente, come la Cina, ciò potrebbe, e dovrebbe, essere da stimolo per l’Unione europea e per i singoli Paesi europei, Italia in primis, a immaginare e proporre una possibile riforma del sistema monetario globale, basato appunto su un paniere di monete importanti. Ci sarebbero dei forti alleati.

    Secondo esperti politici indiani «le sanzioni hanno creato un nuovo mondo di paesi che cercano di commerciare utilizzando le proprie valute invece del dollaro Usa». Essi affermano anche che le sanzioni hanno danneggiato paesi terzi, come l’India, responsabili soltanto di avere dei rapporti commerciali con chi, per svariati motivi, è stato oggetto di sanzioni.

    Ad esempio, il Venezuela e l’Iran sono ricchi di petrolio e in passato sono stati i principali fornitori dell’India. Il commercio fu di fatto fermato a causa delle sanzioni statunitensi. Anche il Myanmar ha subito diverse sanzioni, inasprite dopo il recente colpo di stato. A pagarne le spese è stato anche il commercio indiano.

    L’India fa sapere di essere stata anch’essa colpita dalle sanzioni occidentali dopo i test nucleari del 1974 e del 1998. Com’è noto, le sanzioni vietano a persone fisiche e società (comprese le banche) di fare determinate transazioni con controparti nei paesi target. Poiché gran parte del commercio globale è in dollari, le società e i paesi sanzionati non possono più accedere al sistema bancario statunitense e sono, quindi, esclusi dal commercio globale. Ciò rende le aziende diffidenti nel fare affari con paesi sanzionati e rende efficaci le sanzioni statunitensi, anche se molti governi non le riconoscono.

    Una valuta legale si basa sulla fiducia nel governo che la emette. Molti indiani affermano che il governo Usa ha abusato di questa fiducia. Non solo per le sanzioni ma anche per la creazione di denaro eccessivo attraverso l’aumento del proprio debito pubblico.

    L’India riconosce che Pechino desiderava da tempo che la sua moneta sostituisse il dollaro come mezzo di scambio internazionale. Nel 2016 lo yuan è stato aggiunto al paniere di valute utilizzate dal Fmi per calcolare i Diritti Speciali di Prelievo. Nello stesso anno ha creato l’Asian Infrastructure Investment Bank (Aiib), la versione cinese delle istituzioni guidate dall’Occidente come la Banca mondiale e l’Asian Development Bank. L Aiib ha il supporto di oltre 90 paesi e l’India ne è il secondo maggiore azionista.

    Sebbene la sua economia sia più piccola di quella cinese, l’India ha maggiori possibilità di internazionalizzare la sua valuta rispetto alla Cina in quanto è ritenuta più orientata al mercato e più trasparente. L’India sostiene che le sanzioni occidentali contro Russia, Iran e Myanmar rimarranno a lungo e che in futuro altri paesi potrebbero essere presi di mira. Questo timore la sta spingendo a preparare sistemi di pagamento alternativi. L’obiettivo è creare sistemi paralleli che possano consentire il commercio, piuttosto che “sostituire” il dollaro.

    La rupia indiana può fornire uno di questi meccanismi. Lo ha già fatto in passato anche se in modo limitato. Infatti, fino al 1971 essa è stata utilizzata come valuta da molti stati del Golfo Persico, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Bahrain, ecc. Poi, ripetute svalutazioni hanno spinto questi paesi a creare le proprie monete.

    Si presume erroneamente che l’imperialismo britannico abbia introdotto la rupia nel commercio internazionale, ma essa era una valuta commerciale già liberamente circolante molto prima dell’arrivo delle compagnie europee sulle coste indiane. Gli storici indiani hanno dimostrato che la rupia è stata utilizzata per 500 anni nel commercio con il subcontinente indiano, anche grazie alla presenza di un’influente diaspora commerciale indiana. La storia della rupia dal XVII all’inizio del XX secolo non ha esempi paragonabili nella Cina imperiale di quel periodo.

    Oggi, la United Payment Interface dell’India, un sistema di pagamento in tempo reale sviluppato dalla National Payments Corporation per facilitare le transazioni interbancarie e regolato dalla Reserve Bank of India, consente ai titolari di conti di effettuare pagamenti in rupie in diversi paesi: Singapore, Emirati Arabi Uniti, Mauritius, Nepal e Bhutan. L’India incoraggia attivamente il commercio bilaterale con il Bangladesh e lo Sri Lanka utilizzando la rupia. La banca statale, UCI Bank, che in passato ha facilitato il commercio con l’Iran, programma di espandere le sue attività nell’intera regione asiatica.

    Una nota conclusiva che riguarda l’Europa. Secondo una recente analisi pubblicata da Bloomberg, dall’inizio della guerra in Ucraina e dell’inasprimento delle sanzioni che hanno drasticamente ridotto le importazioni europee di gas e di petrolio dalla Russia, l’India è diventata in primo fornitore di prodotti petroliferi dell’Europa. Non dovrebbe sorprendere che Nuova Delhi importa petrolio principalmente dalla Russia. Resta ancora una domanda: come sono pagate le fatture, in euro, in rupie o ancora in dollari?

    *già sottosegretario all’Economia **economista

  • Sempre più debiti intorno alla Via della Seta

    La via della seta, “il progetto del secolo” secondo Xi Jinping, si regge su prestiti d’emergenza concessi dalla Cina pari a 240 miliardi di dollari nei soli anni più recenti. Dal 2019 al 2021, la Cina ha dato quasi la metà del Fondo monetario internazionale, ma a tassi del 5% quando contro il 2% del Fai, in modo da far crescere il peso del renminbi come alternativa al dollaro. “In ultima analisi, Pechino sta cercando di salvare le proprie banche. Ecco perché è entrata nel business rischioso dei prestiti di ultima istanza», ha spiegato a La Stampa Carmen Reinhart, professoressa della Harvard Kennedy School ed ex capo economista della Banca Mondiale.

    I prestiti di salvataggio hanno toccato 22 Stati, tra cui Argentina, Bielorussia, Ecuador, Egitto, Laos, Mongolia, Pakistan, Suriname, Sri Lanka, Turchia, Ucraina e Venezuela. Ma alcuni progetti sono diventati casi di scuola di tutto ciò che non va fatto quando si concedono prestiti. In Montenegro, c’è la “strada verso il nulla”, 1 miliardo di dollari polverizzati in corruzione, problemi ambientali e ritardi; in Ecuador, più di 7mila crepe sono state trovate in una diga ecuadoregna costruita nei pressi di un vulcano attivo.

    La “Belt and road initiative”, in italiano Le vie della seta, ha totalizzato 838 miliardi di dollari dal 2013 al 2021, e nei piani di Xi Jinping dovrebbe contribuire all’ascesa globale della Cina, scalfendo l’egemonia americana. La Cina ha però cominciato a ridurre l’impegno in costose infrastrutture e a orientarsi su progetti più mirati, accordi per l’accesso a risorse strategiche, petrolio e gas in Medio Oriente, Africa e America Latina, e i metalli necessari all’energia pulita. Il ruolo di prestatore di ultima istanza di Pechino serve invece a proteggere da perdite le banche statali cinesi, tenendo a galla i Paesi in difficoltà in modo che continuino a pagare i debiti.

  • Il costo milionario del vizio di un primo ministro irresponsabile

    L’irresponsabilità aggrava le colpe e persino i crimini, checché se ne dica.

    Marcel Proust

    “Ad un vicin mercato due Compari,/ a corto di denari,/ vendettero d’un grande Orso la pelle,/ d’un Orso, ben inteso,/ che non aveano ucciso ancor né preso”. Così inizia la favola “L’Orso e i due Compari” di Jean de La Fontaine. I compari, due imbroglioni che volevano guadagnare soldi facili con delle eclatanti ma effimere promesse, garantiscono che entro due giorni avranno pronta e consegneranno la pelle dell’orso. Certamente tutto doveva essere ben pagato però. E come ci racconta La Fontaine, i due compari “…senza fare i conti coll’Orso,/ vanno in traccia dell’amico”. Ma il loro coraggio svanisce in seguito, perché appena nel bosco, “…ecco che subito si affaccia/ la belva che galoppa e mostra i denti”. Ovviamente i due compari, tremando dalla paura, si scordano della loro promessa. “Contratto addio! Non è quello il momento/ di far affari colla bestïaccia,/ ma di scappar… e scappan come il vento”. Jean de La Fontaine ci racconta cosa accade in seguito. “L’uno svelto s’arrampica su un albero,/ l’altro si butta in terra colla faccia,/ e fa il morto, non fiata, avendo udito/ che l’orso con chi puzza di cadavere/ di rado si è mostrato inferocito”. E veramente l’orso, sentendo la “puzza da morto” del compare sdraiato per terra, “nel bosco si rintana”. Vedendo l’orso scomparire nel bosco, il compare, salito sull’albero, “…scende allor dal ramo/ e coll’altro di cuore si congratula/ che ancor la sia passata così piana”. Una volta vicino all’altro ancora sdraiato e tremante dalla paura, chiede se l’orso gli avesse detto qualcosa riguardo alla sua pelle “…quando il muso all’orecchio avvicinò?”. Il suo amico, che non mancava di spirito e di pronta risposta, nonostante avesse passato dei brutti momenti pochi minuti prima, disse, se non avesse frainteso l’orso, che “…non bisogna vendere dell’orso/ la pelle mai prima d’averlo preso”. Ovviamente esistono anche altre varianti della stessa favola che, secondo gli studiosi, ci arriva, come tante altre, da Esopo. E si sa che Jean de La Fontaine ha ripreso e messo in versi molte delle favole attribuite ad Esopo, vissuto venticinque secoli fa nell’antica Grecia. Favole dalle quali ci si può imparare sempre. I due amici della favola “L’Orso e i due Compari”, nota anche come “La pelle dell’orso”, somigliano, per le loro ingannatrici promesse, a due altri imbroglioni, personaggi di un’altra nota favola, “I vestiti nuovi dell’imperatore”, maestosamente scritta da Hans Christian Andersen. Anche in questa favola sono due imbroglioni che, appena arrivati nella città dove viveva l’imperatore, spargono la voce di essere degli abili tessitori e di avere un particolare tessuto che non poteva però essere visto dalle persone incapaci e dagli imbecilli. Cosa accade poi è ben noto a noi tutti. Andersen ci racconta che, alla fine, è stato un bambino a mettere fine a quello “stato di incantesimo” che aveva costretto tutti a vedere quello che proprio non c’era. Con la sua innocenza il bambino disse quello che vedevano tutti, ma che nessuno voleva che si sapesse, per paura di passare per degli imbecilli. Disse che il re non aveva niente addosso! Tornando alla favola “L’Orso e i due Compari” di Jean de La Fontaine, l’insegnamento trasmesso, la morale è semplice: non credere mai a coloro che promettono una cosa che difficilmente potranno avere e/o fare.

    Una delle tante significative e vissute testimonianze di quell’insegnamento si è verificata di recente anche in Albania. Fatti accaduti alla mano, ormai anche in base a delle decisioni definitive prese da diversi tribunali internazionali, dimostrano inconfutabilmente che il primo ministro ha molto in comune con i due compari della favola di Jean de La Fontaine. L’unica differenza è che, mentre i due compari promettevano, in cambio di denaro, di consegnare la pelle dell’orso, il primo ministro albanese, dal 2015 e fino a qualche settimana fa, prometteva e giurava pubblicamente di incassare denaro nelle casse dello Stato, in seguito ad una causa giudiziaria da lui generata. Una causa che sulla base aveva la chiusura di un media televisivo che era critico con lui e con il suo operato. Il nostro lettore sarà informato di questo caso nei seguenti paragrafi. Si tratta però di un ulteriore caso che testimonia la consapevole e pericolosa violazione della libertà dei media in Albania. Una violazione come espressione diretta della volontà e delle spinte vendicative del primo ministro albanese. Il nostro lettore è stato informato la scorsa settimana di questa vissuta, sofferta e testimoniata realtà in Albania (Consapevole e pericolosa violazione della libertà dei media; 3 aprile 2023). Purtroppo per le casse dello Stato e per i poveri contribuenti albanesi, le “minacce” e le “promesse” del primo ministro, per avere dei milioni come ricompensa al caso giudiziario da lui generato, non sono valse a niente. Anzi, adesso si devono pagare dei milioni per il vizio, uno dei tanti, dell’irresponsabile primo ministro albanese. Ma mentre il compare della favola, quello che ha finto di essere morto, diceva all’altro che “…non bisogna vendere dell’orso/ la pelle mai prima d’averlo preso”, il primo ministro albanese, dopo aver scatenato un caso perso già in partenza, adesso si è “scordato” delle sue “minacce” e delle sue “promesse” e sta cercando di fare delle altre, molto “originali”, per spostare l’attenzione pubblica.

    Il caso in questione riguarda lo scontro del primo ministro albanese con un imprenditore italiano attivo nel campo delle energie rinnovabili e dei rifiuti. Lui è noto in Italia, tra l’altro, anche come amministratore delegato della squadra di pallavolo di Roma che ha vinto lo scudetto 1999-2000. In più lui nel 2014 ha acquisito una squadra di calcio londinese, della terza divisione inglese. Lo stesso imprenditore ha investito in Albania negli anni ’90, insieme con un noto gruppo energetico italiano ed una nota banca tedesca, nel campo delle energie rinnovabili, per la costruzione di una centrale idroelettrica su un fiume nel sud del Paese. In seguito, nell’aprile 2013, ha investito in Albania anche nel campo mediatico, con una importante emittente televisiva. Una emittente che dal 2014 ha cominciato a trasmettere a tempo pieno sia in Albania che anche sul territorio italiano. Ed è proprio con quell’imprenditore, titolare dell’emittente televisiva, con il quale si è scontrato aspramente il primo ministro albanese. Vendetta che è stata scatenata perché la linea editoriale dell’emittente non era gradita al primo ministro albanese. Anzi, era molto critica con lui e con il suo operato. Ovviamente anche l’imprenditore italiano non era uno stinco di santo. Da indiscrezioni rese note a tempo debito, risulterebbe che, trovatosi in difficoltà con gli investimenti sulla centrale idroelettrica, cercava di avere degli accordi con il governo. E siccome i negoziati svolti non hanno dato gli attesi risultati, non per motivi di principio da parte delle autorità albanesi, allora è cominciato anche lo scontro tra le due parti contendenti. Uno scontro che con l’andare del tempo diventò sempre più agguerrito. Ovviamente l’imprenditore italiano e le sue imprese in Albania, soprattutto l’emittente televisiva, partivano in difesa. Invece, da parte del primo ministro albanese, tutto è stato trattato più come una vendetta che come uno scontro e un contenzioso amministrativo. In seguito, per camuffare la vera ragione, il primo ministro e i suoi più stretti collaboratori hanno coinvolto anche le istituzioni del sistema di giustizia, soprattutto la procura ed il tribunale, per colpire l’avversario, l’imprenditore italiano. Da quel momento il caso ha suscitato interesse pubblico e mediatico ed ha scatenato accuse reciproche. Un caso che è finito nelle aule dei tribunali in Albania e poi anche nel Regno Unito e negli Stati Uniti d’America.

    L’accanimento del primo ministro albanese, dei suoi più stretti collaboratori e dei media da loro controllati contro l’imprenditore italiano si scatenò ufficialmente nel giugno 2015, una settimana prima delle elezioni amministrative. Tutto cominciò l’8 giugno 2015 con l’accusa all’imprenditore, da parte della procura albanese, di “evasione fiscale, riciclaggio e falso in documentazione”. Poi proseguì con il sequestro della emittente televisiva, il cui segnale, dal 10 ottobre 2015, venne oscurato. La ‘scusa’ era il “mancato pagamento delle forniture di energia elettrica”. In seguito il 13 novembre 2015 venne oscurato il segnale della stessa emittente sul territorio italiano. Sono stati congelati i beni dell’imprenditore italiano e di sua madre, anche lei azionista dell’emittente televisiva. Il primo ministro albanese, nel giugno 2015, durante una trasmissione televisiva in prima serata, considerava l’imprenditore italiano e i suoi collaboratori come un “fenomeno scandaloso contro il quale abbiamo dichiarato guerra e che combatteremo fino alla fine”. E poi il governo da lui capeggiato avrebbe “fatto tremare le fondamenta del sistema giudiziario”! Nel frattempo l’imprenditore italiano si trovava nella capitale del Regno Unito. Ed era proprio a Londra dove è stato sottoposto ad un arresto eseguito dalla polizia inglese, in seguito ad un mandato di cattura internazionale emesso l’8 giugno 2015 dalla procura albanese. Mandato con il quale si chiedeva l’estradizione dell’imprenditore italiano in Albania per poi essere lì giudicato. Dopo l’avvio del processo giudiziario nel Regno Unito a carico dell’imprenditore italiano, nel luglio 2016 il tribunale londinese Westminster Magistrates Court (Tribunale dei magistrati di Westminster; n.d.a.) non ha accolto la richiesta della procura albanese per l’estradizione. Secondo il tribunale londinese le prove depositate dal governo albanese a carico dell’imprenditore italiano sono state considerate come “totalmente fuorvianti”. Dopo quella sentenza, il governo albanese aveva annunciato un ricorso in appello. Ricorso quello poi dopo ritirato. Chissà perché?! Forse perché le prove non erano veramente attendibili, bensì prefabbricate ad artem solo e soltanto per l’uso dalle istituzioni del sistema di giustizia albanese. L’imprenditore italiano, invece, aveva presentato nel frattempo una richiesta per l’avvio di un procedimento arbitrale contro lo Stato albanese presso l’ICSID (International Centre for Settlement of Investment Disputes – Centro internazionale per il regolamento delle controversie relative ad investimenti; che è un’istituzione della Banca mondiale con sede a Washington D.C.; n.d.a.). Ebbene l’ICSID ha dato ragione all’imprenditore italiano. In seguito anche l’Interpol ha ritirato il mandato d’arresto contro l’imprenditore italiano. Mentre nell’aprile 2019 l’ICSID ha condannato il governo albanese al pagamento all’imprenditore della somma di 110 milioni di euro in risarcimenti e spese. In seguito, contro quella decisione, il governo albanese ha presentato ricorso. Mentre il primo ministro albanese tuonava e giurava che l’imprenditore italiano non avrebbe ricevuto niente, nessun centesimo da parte dello Stato albanese. Lui si è scatenato contro tutti quelli che sostenevano il contrario. Anche sui media internazionali che citavano le decisioni del tribunale londinese Westminster Magistrates Court e dell’ ICSID. Anzi, secondo il primo ministro albanese, sarebbe stato proprio l’imprenditore italiano a dover pagare dei milioni. Una ben nota retorica che da tempo non convince più nessuno. Il 29 marzo scorso è arrivata la decisione definitiva dell’ICSID sul sopracitato ricorso del governo albanese. Ebbene, quel ricorso è stato di nuovo rigettato ed è stata rinnovata la condanna per il governo albanese a pagare all’imprenditore italiano i danni a lui causati. Danni che ammontano a circa 110 milioni di euro, più gli interessi bancari e delle ingenti spese per le procedure giudiziarie.

    Chi scrive queste righe è convinto che l’ingente somma da pagare dai poveri cittadini albanesi è il costo milionario del vizio di un primo ministro irresponsabile. Proprio di colui che adesso, dopo aver fallito con le sue ingannatrici retoriche, le sue promesse e le sue minacce, sta facendo un’altra proposta “originale”. Quella di far uscire l’Albania dall’ICSID, con tutte le gravi conseguenze. Ad oggi lo hanno fatto solo la Bolivia, il Venezuela e l’Ecuador. Paesi che sono noti per delle realtà preoccupanti nei rispettivi territori. Chi scrive queste righe, trova anche delle somiglianze tra il primo ministro albanese e i due compari della favola di Jean de La Fontaine. Ed egli è convinto, come Marcel Proust, che l’irresponsabilità aggrava le colpe e persino i crimini, checché se ne dica.

  • La finestra svizzera

    Voltaire una volta scrisse: “Se vedi un banchiere svizzero saltare dalla finestra salta dopo di lui perché c’è sicuramente qualcosa da guadagnare”. Una frase che esplicita quale potesse essere una volta la percezione della affidabilità dei banchieri svizzeri unita alla sicurezza ed alla professionalità espressa nella gestione degli istituti di credito svizzeri.

    Da Voltaire ad oggi molte cose sono cambiate, non sempre nella direzione auspicabile, e soprattutto l’ultima vicenda legata alla crisi di Credit Suisse ha dimostrato come le peculiarità del “Sistema Svizzero”, e quindi comprensivo delle azioni del management, risultino diluite all’interno del mondo della finanza globale.

    Negli ultimi due anni l’istituto di Zurigo ha subito sanzioni per oltre 12 miliardi in relazione ad operazioni fraudolente come quella dei titoli venduti alla clientela privi di assicurazione, senza dimenticare lo scandalo del Mozambico.

    In questo contesto gestionale opaco si inseriscono la vicenda del Ceo pedinato dall’istituto e il patteggiamento a Milano per 110 milioni di evasione fiscale.

    Tuttavia il quadro reputazionale della banca toccò il minimo storico con la sentenza del 27 giugno 2022 nella quale il tribunale di Bellinzona, in Canton Ticino, riconobbe colpevole l’istituto di credito di Zurigo di riciclaggio a favore di un narcotrafficante bulgaro.

    Decisamente una sentenza storica nell’ambito del sistema bancario svizzero che compromise inevitabilmente la ieratica immagine dell’Istituto stesso ma anche dei Banchieri svizzeri in generale.

    Del resto non va dimenticato come lo stesso salvataggio di Credit Suisse vede protagonista UBS, la quale aveva ottenuto una ricapitalizzazione con le finanze pubbliche della Confederazione durante la crisi finanziaria del 2008.

    All’interno di un mondo finanziario assolutamente globale e digitale, specialmente nell’ultimo decennio, gli istituti bancari svizzeri si trovano stretti in un angolo dalla concorrenza dei fondi privati nella creazione di nuove ricchezze e conseguenti dividendi.

    Contemporaneamente hanno perso la propria posizione monopolista, diventata nei tempi passati quasi ormai una rendita di posizione, nella gestione dei grandi patrimoni.

    In questo contesto contemporaneo in continua evoluzione la priorità dell’intero sistema bancario elvetico dovrebbe focalizzarsi nel raggiungimento di una nuova credibilità da ottenere anche attraverso la elaborazione di un nuovo protocollo simile nei contenuti e nella forma a quello entrato in vigore per la tutela della produzione industriale: lo Swiss Made.

    Nello specifico questo dovrebbe rappresentare una sicurezza aggiuntiva per la clientela internazionale rispetto alle rinnovate competenze, espressione anche di un codice etico Suisse Made, applicato anche al management esattamente come lo Swiss made assicura la filiera industriale ed alimentare.

    Da Voltaire ad oggi molti lustri sono passati e le vicende relative a troppi istituti bancari elvetici ne hanno minato il patrimonio reputazionale.

    In attesa di una rinnovata credibilità espressa dalla classe politica e dirigente svizzera attraverso una nuova tutela normativa, nel caso in cui si dovesse assistere ad un banchiere che si gettasse dalla finestra sarebbe indicato neppure affacciarsi a quella finestra.

  • L’opposizione ideologica al MES non fa bene al Paese e neanche alla salute degli italiani

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo dell’On. Nicola Bono

    L’On. Giorgia Meloni, nel recente Question Time, ha ribadito la sua contrarietà all’utilizzo del Meccanismo di Stabilità Europeo ed ha lasciato nel vago i tempi di ratifica del Trattato, malgrado l’Italia sia rimasta l’unico Stato a non averlo ratificato.

    Ma cosa si cela dietro questa scelta?

    Non certo preoccupazioni di inesistenti conseguenze, se perfino Tremonti, del suo stesso partito, ha escluso l’esistenza di qualsivoglia rischi paventati nel passato per l’Italia, che sono stati totalmente rimossi con la radicale modifica del MES che, appunto, essendo oggi altra cosa, impone l’esigenza di una nuova ratifica.

    E poi, basta leggere il dossier per verificare come funziona adesso il meccanismo di stabilità e per prendere atto della totale inesistenza di pericoli simil Grecia.

    L’unica condizione è che i fondi concessi vengano usati per spese sanitarie dirette e indirette, rafforzare la sanità territoriale, ma anche la prevenzione sanitaria in altri campi, come la messa in sicurezza dei luoghi di lavoro e delle scuole, e non sono previsti altri vincoli.

    L’unico controllo è, prima della concessione del prestito, la valutazione del debito preesistente del Paese da finanziare, che deve essere sostenibile, cosa che l’Italia ha notoriamente avuto riconosciuto; in ogni caso, nella peggiore delle ipotesi, qualora non venisse riconosciuto, l’unica conseguenza sarebbe la mancata concessione del prestito, e la questione finirebbe lì.

    Appare quindi evidente che il rifiuto dell’utilizzo del MES sia unicamente la scelta di una posizione ideologica, che è il problema di sempre di questo governo e cioè l’ossessione di caratterizzare ogni atto con il “bollino dell’identità”, anche quando viene meno la causale per invocarla.

    Ma si può morire per il feticcio di una presunta posizione identitaria storicizzata, ed oggi sul MES mal riposta? La posizione di contrasto al MES è sempre stata esagerata e strumentale a sostegno della postura euroscettica che caratterizzava il partito del Premier ai tempi dell’opposizione, ma che, almeno in apparenza, sembrava essere stata archiviata in questi mesi di governo.

    Vale davvero la pena sostenere un comportamento non certo consono ad un Paese fondatore dell’Unione Europea, che rischia di fare riemergere i dubbi e le preoccupazioni sul reale sentimento di sincera adesione alle logiche europeiste del principale partito di governo, atteso che il grido “mai al MES”, non a caso, in parlamento ha registrato l’unica adesione da parte del Movimento 5 Stelle, che è certamente la compagine politica italiana più euroscettica?

    Come si concilia tale posizione e il gravissimo ritardo della ratifica, con l’andare a Bruxelles per la riunione del Consiglio Europeo e chiedere aiuto immediato per la crisi dei flussi migratori, o per insistere sull’esigenza del debito comune per il sostegno delle imprese europee in concorrenza con il resto del mondo?

    Il ritardo della ratifica è un atto di ostilità gratuito a tutti gli altri Paesi del Trattato MES, anche perché l’adozione dell’Italia consentirebbe agli altri l’utilizzo immediato, senza alcun obbligo per noi di fruirne.

    Ed invece è proprio questo il punto e cioè, davvero l’Italia potrebbe fare a meno delle risorse del MES, almeno come ama ripetere il Premier, fino a quando resterà al governo?

    Il punto politico infatti, in base al disastro della nostra sanità, non è tanto la ratifica, ma piuttosto l’utilizzo dei 37-40 Mld di euro, che oggi potrebbero se richiesti e spesi con velocità e intelligenza, riuscire a recuperare le falle mostruose del nostro sistema e consentire di riportare il rapporto dell’assistenza medica e ospedaliera in Italia di nuovo a livelli di civiltà, salvando migliaia di vite umane, altrimenti a rischio.

    Per questo il rifiuto di queste somme non è compatibile e sopportabile con lo stato in cui versa la sanità italiana, massacrata da oltre vent’anni da una politica sciagurata, che ha imposto tagli draconiani al settore, impoverito il personale con paghe più basse del 18% in termini di potere di acquisto, riducendo gli operatori sanitari italiani, ad una delle categorie meno pagate del settore d’Europa, al punto di perdere in 10 anni oltre 10.000 medici fuggiti all’estero, priva di programmazione e strategia, con enormi territori ridotti a “deserti sanitari”, con il collasso ormai generalizzato dei pronto soccorso, luoghi ormai ridotti ad inferno dantesco, di eterne attese e violente e continue aggressioni al personale, liste di attesa che tolgono ogni speranza e, di conseguenza, un clima di sconforto generale, ed una sensazione di imminente implosione dell’intero sistema.

    Insomma una serie infinita di inadeguatezze che hanno ridotto il settore al punto da essere dichiarato dall’OCSE a rischio tenuta e quanto prima impossibilitato a garantire le cure a tutti.

    A fronte di questo scenario, il governo ha fatto poco o nulla, non riuscendo neanche a regolare il problema gravissimo dei “medici a gettone”, che guadagnano molto di più dei medici di ruolo, fino a ben 100 euro lordi l’ora, contro i 52 dei medici di organico, a causa dei vuoti del personale, specie nei pronto soccorso, dove li sostituiscono e spesso senza offrire garanzie di competenza, ovviamente a scapito dei pazienti.

    Ma anche con il PNRR il governo non è riuscito a dare granché alla sanità, specie alla medicina del territorio, avendo stanziato un finanziamento di 2 miliardi di euro per le case di comunità e 1 miliardo di euro per gli ospedali di comunità, e cioè ben poca cosa, chiaramente insufficiente a qualsivoglia inversione di tendenza.

    E ciò anche alla luce dei rilievi dell’Ufficio Parlamentare di Bilancio, che ha rilevato l’insufficienza dei fondi sia per riequilibrare le disomogeneità regionali, sia per garantire il pagamento del personale, presente e futuro.

    Davanti a questo disastro biblico, ed al prezzo esagerato di vite umane pagate per la pandemia, ma anche per carenze della sanità in generale, ciò che c’è da fare è l’esatto contrario di ciò che si è fatto negli ultimi vent’anni, e quindi investire su un maggior numero di medici e infermieri, realizzare più presidi territoriali, organizzare la medicina dei territori, incoraggiare di nuovo i giovani a intraprendere le carriere sanitarie, anche con l’eliminazione dei numeri chiusi  per l’accesso all’Università e fornire servizi sanitari veri ai cittadini e, quindi, la priorità è chiaramente uno sforzo eccezionale per il recupero del settore, utilizzando l’unica risorsa possibile che è esattamente il MES, con i suoi 37-40 miliardi a tasso zero per 10 anni, da utilizzare per qualsiasi necessità collegata al settore sanitario, comprese le spese per il personale, oltre che per le strutture, attrezzature e macchinari.

    L’Italia lo merita e lo meritano gli italiani, ma soprattutto lo deve il governo che non deve mai dimenticare che la politica è l’arte della soluzione dei problemi di una società e che nessuno ha il diritto di mettere a repentaglio la salute e la vita dei cittadini, per privilegiare logiche strumentali, paventando pericoli inesistenti.

    Per tali ragioni il Governo e la sua maggioranza, insieme alle opposizioni, facciano la cosa giusta, e ratifichino immediatamente il trattato del MES e ne utilizzino subito le fondamentali risorse per ricreare una Sanità degna della nostra tradizione, che possa con certezza garantire la salute e la vita degli italiani, in modo efficace, rapido ed equo in tutto il Paese.

  • Il fil rouge tra Mes e PNRR

    Come sempre la politica italiana degenera in uno spettacolo poco edificante sul dibattito relativo ad uno strumento finanziario eccezionale, come dovrebbe essere il Mes.

    Questa nuova forma di sostegno straordinario di finanzia pubblica europea rappresenta, andrebbe sempre ricordato, l’estrema ratio in caso di una crisi finanziaria di un determinato Stato appartenente all’Unione Europea.

    In altre parole, il Mes o ex Fondo Salva Stati, i cui dirigenti godono comunque di uno scudo penale e civile, interviene con l’obiettivo di fornire risorse straordinarie ad uno Stato che non riesca più a finanziarsi attraverso le emissioni di titoli del debito pubblico.

    Contemporaneamente viene riconosciuta, sempre al medesimo organismo, anche la possibilità di imporre allo Stato richiedente l’adozione di misure fiscali eccezionali una sorta di patrimoniale sugli immobili o ricchezze private o un aumento della pressione fiscale con l’obiettivo di riportare ad un nuovo equilibrio il rapporto debito pubblico/PIL anche attraverso una sua ristrutturazione.

    Risulta assolutamente fuori luogo, quindi, anche solo immaginare di utilizzare queste risorse straordinarie del Mes per sostenere interventi di aumento della dotazione finanziaria nella sanità pubblica o per fronteggiare eventuali crisi bancarie.

    Si aggiunga poi, e proprio in considerazione dell’utilizzo degli stessi fondi straordinari europei del PNRR destinati solo ad interventi infrastrutturali per accrescere a produttività del sistema economico italiano, come invece vengano utilizzati per finanziare metrobus cittadini (5/600 milioni a Padova) o per il rifacimento di scalini di parchi pubblici (Trentino Alto Adige).

    L’effetto complessivo emerge evidente, lasciando così inalterato il quadro complessivo e competitivo del sistema economico italiano.

    Tornando, quindi, al Mes il governo in carica correttamente non lo ratifica, consapevole ed allarmato da una classe politica e dirigente in grado di utilizzare uno strumento straordinario e trasformarlo in ordinario ma con straordinari effetti negativi (fiscali) per i cittadini.

    Anche solo partendo da una banale analisi relativa all’utilizzo dei fondi straordinari del PNRR si evidenzia il cristallino tradimento della sua funzione istitutiva, per la sola responsabilità dello stesso governo quanto delle giunte regionali e comunali.

    Quindi, in considerazione di questa accertata irresponsabilità, il solo ipotizzare un utilizzo di queste risorse straordinarie ed emergenziali per sostenere la spesa pubblica sanitaria o per una crisi bancaria determinerebbe sicuramente una ristrutturazione del debito, a suon di patrimoniali ed aumento della pressione fiscale, esattamente come avviene ora con il PNRR.

  • La resistenza “monetaria” dell’inflazione

    Marzo 2023: https://www.ilsole24ore.com/art/istat-rientro-inflazione-piu-del-previsto-AE6QJ53C

    Risulta incredibile come ci si possa ancora oggi stupire della resistenza del fenomeno inflattivo ad oltre un anno e mezzo dal sua primo palesarsi. Chissà se nella attuale analisi come in quelle precedenti si sia mai presa nella dovuta considerazione l’origine stessa dell’aumento dei prezzi in quanto questa “inaspettata” resistenza dello stesso fenomeno alle politiche monetarie restrittive varate tanto dalla Fed quanto dalla Bce (*) dipende ovviamente anche dalla sua Genesi.

    Febbraio 2022: https://www.ilpattosociale.it/attualita/le-due-diverse-genesi-inflattive/

    Ad oltre un anno da una imprescindibile ma omessa analisi dei principali organi finanziari ed istituzionali relativa alla stessa natura dell’inflazione si rileva, con malcelato stupore e disappunto per la sua resistenza espressa dagli organi sopracitati, l’ennesima conferma del senso di mancanza di visione di insieme della classe dirigente e politica italiana ed europea.

    (*) incapace di tarare la politica monetaria europea proprio in ragione della propria diversa genesi rispetto a quella statunitense

  • Usa, debito pubblico eccessivo

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi apparso su ‘ItaliaOggi’ l’11 marzo 2023

    Il debito federale americano di 31.381 miliardi di dollari è il limite posto nel bilancio dello Stato per l’anno fiscale che va da ottobre 2022 a settembre 2023. Il tetto è stato già raggiunto il 19 gennaio scorso. Vi saranno problemi per coprire le spese dei prossimi mesi.

    Janet Yellen, segretario del Tesoro, in merito ha annunciato «manovre tecniche» per posporre il default, che «produrrebbe una catastrofe economica e finanziaria». Per evitare la sospensione delle attività e dei pagamenti da parte di vari organismi pubblici si dovrà per forza sfondare il tetto del debito. Non sarà facile, data la composizione del Congresso, con la Camera dei deputati a maggioranza repubblicana.

    In tre anni il debito federale succitato è aumentato di ben 8.500 miliardi! Dal 2009 è quasi triplicato! Il Congress Budget Office, l’agenzia bipartisan che analizza gli andamenti di bilancio, stima che il deficit sarà almeno di 400 miliardi superiore del previsto. Essa aveva anche calcolato interessi sul debito pari a 282 miliardi.

    Nel frattempo, però, l’inasprimento della politica monetaria della Federal Reserve e gli aumenti del tasso d’interesse fanno stimare che il servizio sul debito raggiungerebbe i 400 miliardi di dollari. Se il tasso di sconto della Fed dovesse essere del 5%, com’era nel 2007, gli interessi sul debito potrebbero salire a 1.000 miliardi! Un aumento da non escludere, visto che lo considerano possibile la Fed di San Francisco e anche JP Morgan, la più grande banca americana.

    Alla fine, pensiamo che, come in passato, si troverà un compromesso tra maggioranza e opposizione. Ne va dell’affidabilità internazionale degli Stati Uniti. L’alternativa è dichiarare bancarotta. D’altra parte è difficile immaginare che i ministeri sospendano a lungo le attività, mettendo gli impiegati in cassa integrazione, o che in numerose città e Stati dell’Unione i vigili del fuoco o la polizia possano essere bloccati per mancanza di fondi.

    Si stanno considerando anche nuove e inedite iniziative. C’è chi propone di ripianare il deficit di bilancio coniando monete sonanti fino a un valore di mille miliardi di dollari. L’idea fu già discussa durante la presidenza di Obama. Sarebbe consentito dal 14° emendamento, Sez. 4, della Costituzione che sancisce: «Non potrà essere posta in questione la validità del debito pubblico degli Stati Uniti, autorizzato con legge».

    Chi propone tale soluzione sostiene che non sarebbe inflattiva. Portano l’esempio del presidente Abramo Lincoln che, nel mezzo della guerra civile, fece una simile iniziativa. Allora, dicono, i nuovi soldi andarono a finanziare un periodo di espansione economica senza precedenti, soprattutto nella siderurgia, nelle infrastrutture ferroviarie e nella meccanizzazione dell’agricoltura, con una notevole crescita della produttività. Oggi, invece, ci sembra che ogni nuova liquidità scompaia nel “buco nero” della finanza speculativa.

    C’è anche chi vorrebbe trasferire dalla Fed al Tesoro i titoli federali, circa 6.000 miliardi di dollari, a suo tempo acquistati attraverso i «quantitative easing». Il Tesoro potrebbe, quindi, annullare questa parte del debito. Sarebbe una possibilità legale che richiederebbe ovviamente il consenso del Congresso e della Fed, ma lascerebbe la banca centrale con una voragine nei conti. Oggi, infatti, essa giustifica i passivi di bilancio inserendo detti titoli negli attivi.

    Altra idea è di coniare “monete di platino” per un grande valore, sulla base dell’Articolo 1, Sez. 8, della Costituzione che afferma: «Il Congresso ha il potere… di coniare moneta e regolarne il valore».

    In passato il Congresso ha cercato di limitare questa generale possibilità ma ha lasciato un’eccezione, la moneta di platino, che una disposizione speciale permette di essere coniata in qualsiasi importo per scopi commemorativi. Le monete di platino furono proposte al Congresso già nel 2013 ma senza successo. Tali soluzioni straordinarie appaiono molto fantasiose. Alla fine, la decisione sarà quella molto più semplice di aumentare il debito pubblico. Cosa che, però, ingigantisce la bolla e i rischi connessi.

    Per noi europei è opportuno riflettere sul fatto che negli Usa si discuta su come affrontare le emergenze finanziarie e il problema del debito pubblico. Se si pensa bene, anche i quantitative easing sono stati degli interventi straordinari per evitare il crollo del sistema bancario e finanziario. Hanno, però, stravolto i meccanismi monetari centrali. Tutto “legalmente”!

    *già sottosegretario all’Economia **economista

  • Risparmio gestito più magro, lontano da record 2021

    Al risparmio gestito non basta un dicembre 2022 con oltre 11 miliardi di raccolta, grazie alla spinta dei mandati istituzionali (8,7 miliardi), per rimettere in sesto un anno che resta lontano dal record di 93 miliardi registrato a fine 2021 (segnato dal Covid) e che, peraltro, è stato il miglior risultato dal 2017.

    Il 2022, sferzato dalla volatilità, chiude – sulla base della consueta mappa stilata da Assogestioni- sfiorando i 20 miliardi di euro (19.7). A dicembre sul totale (11,15 miliardi) 1,58 miliardi sono gestioni collettive e 9,57 miliardi sono frutto delle gestioni in portafoglio. Quanto al patrimonio gestito scende a 2.215 miliardi euro, dai 2.260 miliardi di novembre.

    “Il dato sulla raccolta netta a dicembre è stato determinato quasi totalmente dai mandati istituzionali, i cui flussi seguono delle dinamiche su cui l’andamento dei mercati influisce in misura minore rispetto al mondo retail”, osserva Alessandro Rota, direttore Ufficio Studi di Assogestioni. “In attesa della lettura trimestrale definitiva, il segnale incoraggiante – aggiunge Rota – arriva a mio avviso dai fondi aperti, con gli azionari che continuano a catalizzare l’interesse degli investitori, consolidando un trend orientato al lungo periodo che prosegue ormai da tempo”.

    I numeri confermano infatti la resilienza dei fondi aperti, che nell’ultimo mese del 2022, hanno registrato 1,14 miliardi euro di afflussi e, in particolare, quella dei prodotti azionari, in positivo per 1,39 mld euro. Segno più anche per i fondi obbligazionari (+375 milioni), mentre restano in rosso quelli bilanciati (-342 milioni). Per i fondi chiusi invece la raccolta è stata di 444 milioni di euro. L’ammontare del patrimonio delle gestioni collettive si attesta così a 1.160 miliardi di euro, equivalenti al 52,4% del totale.

  • Il debito mondiale alle stelle

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi apparso su ItaliaOggi il 3 febbraio 2023

    L’aumento dei tassi d’interesse e la stagflazione, cioè la situazione che si crea quando la stagnazione economica si combina con l’aumento dell’inflazione, stanno mettendo inevitabilmente la struttura del debito sotto pressione. A giugno si calcolava che il debito mondiale globale, pubblico e privato, fosse pari a 300 mila miliardi di dollari, cioè il 350% del pil mondiale. Nel 1999 era di 200 mila miliardi. Negli Usa il rapporto è del 420%, più alto di quello della Grande Depressione degli anni Trenta e dell’immediato dopoguerra. Tale percentuale riguarda tutte le economie avanzate. In Cina è del 330%.

    I debiti in sé non sono un problema se servono a sostenere gli investimenti per lo sviluppo industriale e tecnologico. Il rischio si manifesta quando crescono in maniera sproporzionata e sono prevalentemente speculativi e sganciati dall’economia reale.

    La crescita del debito mondiale ha colpito numerosi settori, come le famiglie, le imprese, le banche, soprattutto quelle cosiddette “ombra”, i governi e persino interi Paesi. In particolare i debitori chiamati zombie, gli insolventi, che sono stati mantenuti a galla dalla prolungata politica del tasso di interesse zero. Da quando la Fed e le altre banche centrali hanno iniziato ad alzare i tassi d’interesse nel tentativo di stabilizzare i prezzi, gli zombie vedono il costo del loro debito crescere costantemente. A ciò bisogna aggiungere l’erosione dei redditi, dei risparmi e della ricchezza, immobiliare e mobiliare, liquefatta dall’inflazione.

    L’ultima volta che l’economia mondiale ha sperimentato la stagflazione è stato negli anni Settanta. Allora, però, i tassi debitori erano più bassi. Oggi, invece, si potrebbe parlare del rischio di “choc da stagflazione”. Anche perché non si pensa di ridurre i tassi d’interesse per alimentare la domanda, le produzioni e i consumi.

    Vi sono poi degli eventi geopolitici che hanno avuto e continuano a creare choc negativi nell’offerta: la pandemia, la guerra in Ucraina, certe problematiche interne cinesi, ecc. Rispetto alla grande crisi finanziaria del 2008 e del periodo iniziale del Covid, questa volta non si potrà intervenire con salvataggi pubblici ai settori in difficoltà. Il rischio è generalizzato.

    Alcuni economisti americani, come il professore di Harvard, Kenneth Rogoff, già capo economista del Fmi, vorrebbero distogliere l’attenzione dalle aree di crisi degli Usa, dove, per esempio, il debito delle grandi imprese è diventato un enorme cancro e dirigerla altrove. In particolare Rogoff ha scelto il Giappone e l’Italia come focolai di crisi, perché, a suo dire, l’aumento dei tassi d’interesse renderebbe per loro sempre più difficile garantire il servizio sul debito pubblico.

    Anche i Paesi emergenti sono sotto pressione. Essi sono direttamente influenzati dalle politiche monetarie della Federal Reserve. Alti tassi d’interesse, un dollaro forte, la fuga di capitali, la svalutazione delle monete locali e l’inflazione stanno rendendo molto difficile la gestione del loro debito. The Economist ha identificato ben 53 Paesi vulnerabili che sono crollati sotto il peso del debito o sono a rischio di farlo. Non è un caso che la Banca Mondiale sostiene che il 60% dei Paesi emergenti o poveri è diventato debitore ad alto rischio.

    Poiché i governi non sono intenzionati a tagliare i bilanci o ad aumentare le tasse per ovvi motivi sociali e politici, ancora una volta la patata bollente passa nelle mani delle autorità monetarie. Cresce perciò la richiesta che le banche centrali tornino a monetizzare i deficit. In altre parole, un altro periodo di quantitative easing!

     

    Altri, invece, vorrebbero globalizzare gli allargamenti monetari e finanziari facendo giocare un ruolo centrale al Fmi. Pochi mesi fa il Fmi aveva emesso una montagna di Diritti speciali di prelievo, la sua moneta, equivalenti a 650 mld di dollari. L’intervento era stato abilmente presentato come necessario al sostegno dei Paesi più poveri. In realtà, all’Africa sub sahariana sono andati soltanto 32 mld. Infatti, la distribuzione è stata fatta in rapporto al pil dei Paesi.

    Le politiche attuali potrebbero posporre le crisi ma non evitarle. Per una più adeguata gestione del debito è da farsi almeno l’introduzione di strumenti atti a contenere le varie forme di speculazione.

    *già sottosegretario all’Economia **economista

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