Stato

  • La nudità ideologica

    Da sempre, da troppo si potrebbe aggiungere, in Italia si assiste ad un pietoso spettacolo offerto, indipendentemente dal proprio orientamento politico, dalle diverse cariche istituzionali rappresentate da figure politiche.

    Solo poche ore fa un portavoce della Regione Lazio ha rilasciato delle dichiarazioni a titolo personale in relazione alla strage di Bologna, dimenticandosi completamente del ruolo che ricopre all’interno della Regione stessa. Anzi, ha affermando di parlare a titolo personale, dimenticando come nel momento in cui si assume un incarico il fattore personale non dovrebbe neppure venire più preso in considerazione a favore del ruolo pubblico.

    Negli ultimi mesi, in più riprese, il Presidente del Senato La Russa ha avuto modo di esternare affermazioni espressione di un proprio e forte orientamento politico.

    In altre parole, esattamente come nelle precedenti legislature gli stessi miserevoli comportamenti potevano venire attribuiti all’ex Presidente della Camera Fico e alla Boldrini, continua un orrido spettacolo offerto ai cittadini all’interno di ogni singola legislatura.

    Questo conferma, ancora una volta, come il ceto politico nostrano, nella propria articolata complessità e completezza, abbia solo compreso quali e quanti onori implichi una rappresentanza, una carica istituzionale, ma contemporaneamente ignori quali e quanti obblighi comporti la sua accettazione.

    Pur consapevoli quindi che una qualsiasi carica istituzionale, a maggior ragione se a livello nazionale, offra un prestigio unico ad un qualsiasi esponente politico, tuttavia sarebbe opportuno anche rendersi conto che implica inevitabilmente una serie di attenzioni, la prima delle quali dovrebbe essere quella di dimostrarsi in grado di rappresentare l’intero Paese e non la sola parte della maggioranza elettorale.

    Anche perché, in considerazione tanto della legge elettorale, la quale impedisce di scegliere i propri rappresentanti agli aventi diritto, quanto dell’astensionismo, molto spesso al governo finiscono coalizioni che rappresentano poco più di un quarto dell’intero popolo elettorale.

    Proprio in ragione di questa situazione la figura istituzionale dovrebbe essere una figura unificante e non certamente divisiva della sua attività politica ed istituzionale ed a maggior ragione nelle proprie esternazioni.

    Viceversa, da anni le maggiori cariche istituzionali esprimono personaggi passati direttamente da un ideologico bar all’angolo ai vertici dello Stato ed esternano il solo proprio chiaro orientamento politico e, di conseguenza, dimostrano di non essere in grado di rappresentare lo Stato nella propria unità.

    Dismettere le vesti ideologiche e politiche ed assumere una “nudità ideologica” dovrebbe rappresentare la conditio sine qua non in grado di assicurare la rappresentanza dell’intero Paese.

  • I tre asset istituzionali

    La maggioranza di governo persegue due obiettivi programmatici ambiziosi e considerati compatibili.

    Il primo è rappresentato dal riconoscimento di una maggiore autonomia per le regioni del Veneto(*),  Lombardia ed Emilia Romagna. Il secondo, viceversa, prevede una forte riforma istituzionale e contemporaneamente della divisione di poteri attraverso l’elezione diretta del Presidente del Consiglio o in subordine del Presidente della Repubblica

    Nel caso in cui queste due importanti riforme venissero entrambe approvate dai due rami del Parlamento ci troveremmo di fronte a un asset istituzionale caratterizzato da un insostenibile terzetto di istituzioni locali. in quanto alle cinque regioni a statuto autonomo si dovrebbero aggiungere altre tre dotate di una maggiore autonomia amministrativa sulle materie delegate ed infine una terza rappresentata dalle regioni a statuto ordinario.

    In questo contesto la stessa elezione diretta del Presidente del Consiglio rappresenterebbe per gli abitanti delle tre tipologie di regioni prerogative ed aspettative decisamente differenti proprio in rapporto al livello di autonomia conseguito dalla propria regione di residenza.

    Uno stato federale, infatti, non si può reggere su tre diversi asset istituzionali la cui differenza si basa sul riconoscimento di tre tipologie di autonomia amministrativa e fiscale.  Viceversa, tutti gli asset istituzionali basati sul riconoscimento del federalismo trovano la propria ragione costitutiva quando esprimono un stato centrale più o meno titolare di prerogative, in aggiunta al riconoscimento dei poteri locali demandati ai singoli Stati o alle regioni.

    Al di là, quindi, delle dichiarazioni formali della maggioranza, emerge evidente come molto probabilmente verranno disattese le legittime aspettative di maggiore autonomia amministrativa da parte dei veneti  e  contemporaneamente si abbandonerà una qualsiasi riforma verso un presidenzialismo anche se spurio.

    La realtà politica attuale dimostra come nessuno di questi obiettivi di “riforme istituzionali” sia nella realtà raggiungibile in quanto il vero l’obiettivo di queste “visioni istituzionali” rimane quello di sostenere un alto interesse che rappresenta la molla per mantenere il proprio consenso elettorale.

    (*) A fronte anche di un referendum dall’esito plebiscitario

  • In attesa di Giustizia: Nessun dorma

    Nessun dorma! Nemmeno le motivazioni della sentenza della Cassazione costituiranno i titoli di coda del b-movie giudiziario noto come “trattativa Stato-mafia” costruito con un canovaccio scadente intorno ad un reato esistente solo nella fantasia dei suoi approssimativi sceneggiatori.

    Uno tra questi – il celebre fallito Antonio Ingroia – ha subito alzato la voce lamentando il mancato lieto fine non pago che per oltre dieci anni sono finite nel tritacarne mediatico-legale la  dignità, onorabilità, salute psicofisica di protagonisti della lotta (quella vera) alla criminalità organizzata, additati come traditori e dati in pasto alle milizie dei professionisti di quell’antimafia che con la lotta alla mafia non ha nulla a che fare, ma vale a costruire carriere, fortune editoriali ed economiche, successi politici (sempre con l’eccezione di Ingroia passato all’avvocatura, dopo disastrosi tentativi in altri settori, e recentemente colpito dalla irreparabile perdita di Gina Lollobrigida, sua unica cliente).

    I professionisti dell’antimafia, normalmente, danno il meglio di sé nel distruggere carriere, fortune politiche e patrimoni altrui… e la vecchia guardia muore ma non si arrende.

    C’è tutto un mondo che prospera grazie alla narrazione di sponde, collusioni e complicità istituzionali delle quali si avvantaggia la mafia: una verità che viene poi sviluppata in termini iperbolici, quasi maniacali, nella convinzione che nessuna lotta alla mafia sarà degna di questo nome se non sarà rivolta agli intrecci istituzionali anche quando l’inchiesta giudiziaria non ne coglie traccia. E se non ne coglie è una inchiesta marginale oppure è essa stessa contaminata da correità oscure.

    Questo genere di narrazione ha una straordinaria forza comunicativa ed affascina la pubblica opinione, avvantaggiandosene e criminalizzando chi osi metterla in dubbio. Ecco allora che nessuna indagine su fatti di criminalità mafiosa risulta immeritevole di considerazione senza il coinvolgimento di qualche insospettabile di alto rango ed il preteso disvelamento di combutte istituzionali: più forte, allora, sarà la ricaduta mediatica e la fortuna dell’inchiesta: quella sulla “Trattativa” ha rappresentato l’acme di questo fenomeno perché giunta di fatto ad “inventare” – attraverso una forzatura giuridica da subito evidentissima – l’inesistente reato di “trattativa”, per poter affermare che proprio coloro ai quali erano affidati ruoli di vertice nel contrasto al crimine organizzato erano in realtà corrivi con esso nel ricattare il potere statuale e con ciò alimentando il consenso della opinione pubblica.

    Anche ora, dopo una decisione che dovrebbe solo comportare scuse nei confronti delle vite spezzate, infangate ed umiliate di innocenti servitori dello Stato, è dato leggere commentatori che scrivono di mafia che “tratta da sola”, ed altre imbecillità assortite del genere. Come al solito, ne abbiamo parlato di recente, a fare scandalo sono le assoluzioni ed è maturo il tempo per raccogliere interviste contrite, ma più probabilmente aggressive ed avvelenate, dei responsabili di questa bufala giudiziaria che invece di essere chiamati a rispondere del male che hanno seminato a piene mani, saranno gli eroi dolenti ma indomiti di quella vera e propria casta invincibile cui appartengono, tra gli altri, amministratori giudiziari degli immensi patrimoni di aziende sequestrate, spolpate e poi restituite come stracci bagnati, solo perché gli  incolpevoli proprietari, solo perché sono stati sospettati di inesistenti prossimità mafiose. Per non parlare di quelli che rubano persino l’origano alle mense scolastiche ma vengono insigniti del cavalierato per l’impegno nella difesa della legalità.

    C’è pertanto, tristemente, da temere che nemmeno una sentenza della Cassazione (oltre una precedente della Corte d’Appello di Palermo), varrà a ristabilire la verità.

    Nessun dorma! E c’è chi si è già messo alacremente all’opera: per la quinta volta la Procura di Firenze tenta di far decollare l’inchiesta sulle stragi con Berlusconi e Dell’Utri come mandanti sebbene il teorema su cui si regge confligga proprio con gli esiti del processo “Trattativa” oltre che difettare completamente di logica, ed è smentito pure dagli ascolti delle intercettazioni di Totò Riina che definì l’ex Premier “un inutile palazzinaro” e dalla subitanea caduta del Governo nel 1994.

    Questa è un’altra storia di cui dovremo riparlare, un sequel evitabile per il finale scontato, messo in scena dalla narrativa dell’antimafia militante preconizzata da Sciascia che non intende cedere il suo potere, il più grande che si possa esercitare: dividere il mondo in buoni e cattivi a proprio piacimento ed impunemente traendone, infine, insperate ed imperdibili fortune.

  • In attesa di Giustizia: Libera Chiesa in libero Stato

    Con queste parole viene definita la concezione separatista in tema di rapporti tra Chiesa e Stato, utilizzata per primo dal politico e filosofo francese Charles de Montalebert, poi ripresa da Cavour al quale ne viene attribuita la paternità dopo la citazione avvenuta in seguito alla proclamazione del Regno d’Italia che portò alla individuazione di Roma come capitale; secondo il pensiero dello statista piemontese, il Papa avrebbe – quindi – dovuto dedicarsi all’esercizio del potere spirituale dimenticandosi quello temporale sui suoi possedimenti con ciò permettendo la convivenza tra Stato e Chiesa. E viceversa.

    Sono passati decenni, si sono succeduti nel tempo i Patti Lateranensi nel 1929, la loro revisione nel 1984 a regolare i rapporti (anche di natura giudiziaria) tra Italia e Santa Sede e con la Costituzione Repubblicana si è abbandonato il concetto di religione di Stato lasciando ai cittadini la libertà di credo.

    Qualche bizzarro cascame da Statuto Albertino, sia pure con qualche “arrangiamento”, si annida peraltro nelle pieghe del nostro sistema penale non meno che nel pensiero di chi  è deputato all’esercizio dell’azione penale: per esempio, la Procura della Repubblica di Crotone che ha ritenuto – non avendo, evidentemente, nulla di meglio da fare – di indagare  per “offesa ad una confessione religiosa” (art. 403 e 404 del  codice penale) Don Mattia Bernasconi,  della parrocchia di San Luigi Gonzaga di Milano.

    Cerchiamo, allora, di comprendere di quale rimproverabile ed indegna condotta si sia reso responsabile questo sacerdote, nei cui confronti sono già stati lanciati strali diocesani: ha celebrato la messa in mare per i giovani della sua parrocchia che aveva accompagnato ad un campo nella cooperativa Terre Joniche – Libera Terra. Nell’ultimo giorno di permanenza in Calabria aveva anche deciso di  portarli in spiaggia invece che in una pineta, originaria destinazione risultata, però, già occupata.

    Qui giunti, essendo domenica, a causa del caldo è maturata la scelta di celebrare la messa in mare utilizzando un materassino come altare.

    Una comprensibile coniugazione tra il rispetto del precetto domenicale e la salvaguardia della salute riparandosi dalle temperature feroci di questo periodo che non ha evitato a Don Mattia le censure dei suoi superiori prima e l’inflessibilità della legge secolare poi; il Procuratore capo di Crotone in persona ha confermato l’apertura di un fascicolo sull’accaduto delegando nientemeno che alla DIGOS lo svolgimento delle indagini. Verranno, quindi, sentiti testimoni, acquisiti filmati e foto della funzione dai telefonini, interpellati vescovi e cardinali, forse anche indagati per concorso nel reato i turisti che hanno prestato il materassino al sacerdote. Questo ci vuole per ridare dignità ad un Paese! Tolleranza zero alla maniera di Rudolph Giuliani: e partendo da una intransigente persecuzione di quelli che sembrano illeciti minori od anche semplici atti devianti che violano norme sociali si andrà realizzare una funzione salvifica e moralizzatrice a tutti i livelli.

    Saremmo stati, però, ancor più grati al procuratore di Crotone se prima di muoversi e spedire le sue truppe all’assalto, avesse prestato più attenzione a quanto prevede il codice penale e cioè che il reato di offesa ad una confessione religiosa si commette mediante il vilipendio di chi la professa, di un ministro o di oggetti di culto, strumenti liturgici, cose consacrate. Dell’uso, magari fantasiosamente improprio, dei materassini da mare per celebrare messa (da parte di un sacerdote regolarmente ordinato) in mare non si parla.

    Sembra, piuttosto, di poter dire che la scelta di Don Mattia sia stata indicativa del fatto che la fede, la preghiera, il sentimento religioso non sono legati necessariamente ad un luogo o ad un momento ma sono dentro di noi e devono potersi esprimere liberamente.

    Soccorre anche inesorabilmente alla memoria, ed a modo di conclusione, un detto proprio della saggezza popolare calabrese: “Studia, studia, se no finisci a fare il Pubblico Ministero”.

  • L’Inquisizione fiscale e lo stato confessionale

    L’inquisizione rappresentava l’istituzione ecclesiastica creata per indagare attraverso un tribunale le teorie contrarie alla ortodossia cattolica. Con “soli” pochi secoli di ritardo il nostro Paese adotta ora, nel XXI secolo appunto, il medesimo principio della supremazia statale confessionale adottata in campo fiscale attualizzando metodi e tecniche simili a quelle dell’inquisizione ma sintonizzate con l’era digitale.

    Al processo del XVI secolo come strumento di indagine viene introdotto il monitoraggio di tutte le transazioni economiche anche per importi minimi attraverso l’applicazione di rilevazioni algoritmiche.

    Un controllo assolutamente invasivo effettuato ex ante, quindi non a seguito di una “notizia di reato” come in ogni democrazia ma semplicemente alla ricerca di una motivazione o quantomeno di un plausibile dubbio tale da giustificare la stessa indagine esplorativa.

    In altre parole viene meno il principio costituzionale basato sulla presunzione di innocenza del cittadino e quindi si adottata invece quello legato alla semplice ricerca di una potenziale eresia fiscale tale da giustificare la stessa. Prova di questo infausto declino della nostra democrazia verso uno stato confessionale del quale l’inquisizione fiscale rappresenta il braccio operativo va ricercata già nella terribile “riforma” introdotta dal ministro Tremonti il quale impose in ambito delle controversie fiscali l’inversione dell’onere della prova. Praticamente sull’eretico fiscale venne scaricato ogni onere di negazione della propria eresia fiscale.

    Così, ora, si obbliga il cittadino a dimostrare la propria innocenza invece di assegnare allo Stato, come avviene in ogni sistema democratico, il compito di dimostrare la sua colpevolezza in ragione della presunzione di innocenza.

    Questa sistematica e continua “medioevo-luzione” del sistema democratico italiano nasce dal furore ideologico di una parte degli esponenti politici e della stessa Sacra Inquisizione oggi rappresentata dai vertici della pubblica amministrazione, assolutamente intoccabile esattamente come le cariche ecclesiastiche.

    In questo contesto nessun valore viene attribuito alla conoscenza in quanto si ignora come la stessa evasione fiscale rappresenti esattamente un quarto rispetto agli sprechi della pubblica amministrazione (200 mld, fonte Cgia) la cui dilapidazione non suscita alcuna indignazione presso la classe politica.

    Non ancora sazi di questa invasione dello Stato, e di chi in suo nome opera nella privacy dei sudditi, ma sempre più motivati da un crescente ardore ideologico di stampo medievale nel 2022, in piena crisi economica, il governo in carica ha inserito un’altra alquanto folle norma alla già preoccupante evoluzione dell’economia pandemica: quella del limite all’uso del contante a 1.000 euro.

    Al di là dei risibili effetti che questa norma potrà avere nei confronti dell’evasione fiscale, la quale in buona parte risulta legata ad esterovestizioni di società italiane, in questo demenziale decreto governativo si prevede contemporaneamente per le persone provenienti dall’estero un limite di 15.000 euro all’uso dello stesso contante.

    Ancora una volta assistiamo all’ennesima dimostrazione di come lo Stato italiano consideri sempre e comunque i propri cittadini come dei veri sudditi fiscali.

    In ambito fiscale lo Stato confessionale disattende clamorosamente il principio di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge ponendo una discriminante in relazione alla residenza fiscale dei consumatori e, di conseguenza, con diversi limiti imposti.

    Sempre e solo per il vile denaro del quale uno Stato assolutamente irresponsabile risulta sempre più assetato, ci si è illusi di avere secolarizzato la nostra democrazia quando invece si è assistito ad una semplice sostituzione. Oggi il nostro Paese ha assunto i connotati di uno Stato Confessionale all’interno del quale la religione ha ceduto il posto ad un integralismo statocentrico di stampo Socialista incompatibile con qualsiasi forma di democrazia.

  • Una vera democrazia

    Uno Stato democratico deve tutelare le persone in quanto tali all’interno di sistema in continuo miglioramento. Per ogni fattispecie di reato nel codice penale vengono inserite le possibili aggravanti e le attenuanti generiche. Quando, invece, all’interno di una non meglio definita legislazione contro “i crimini d’odio” (definizione troppo vicina alla configurazione dei “reati di opinione”) ed altrettanto quando viene configurato un reato “specifico” come quello del femminicidio sulla sola base dell’appartenenza della  vittima ad uno specifico genere (femminile) in entrambi i casi  lo Stato propone una scelta che di per sé aggiunge una tutela in più rispetto ad un determinato genere ed automaticamente ne sottrae a tutti gli altri esclusi.

    In questo modo, invece di arginare un fenomeno terribile come quello dell’omicidio delle donne inasprendo le pene di omicidio e magari aumentando le risorse per il settore della giustizia, si preferisce introdurre “una specificità” attraverso un principio di disparità all’interno della legislazione nazionale punendo con maggiore durezza un reato in relazione al sesso di appartenenza della vittima. Di conseguenza, implicitamente, viene penalizzata una eventuale vittima del medesimo reato ma di sesso diverso per la sola “colpa” di non appartenere a quel genere al centro di un preoccupante fenomeno criminale.

    Ancora peggio quando si intendono introdurre nuove normative specifiche e contemporaneamente generiche contro i “crimini d’odio” in relazione alle legittime attitudini sessuali di ogni individuo qualora queste dovessero diventare oggetto di offesa.

    In questo modo lo Stato adotta ed introduce un ulteriore parametro di valutazione interpretativo (per altro demandato al giudice) in relazione non tanto ad una legittima gravità sociale già prevista dai codici quanto ad un giudizio arbitrario relativo alla tutela specifica a beneficio di determinati generi espressione di determinate attitudini sessuali. Un atteggiamento ed approccio storicamente perdente in quanto partirebbe dal principio in base al quale non riuscendo ad applicare la legge in modo da arginare un allarme e degenerazione sociale risulterebbe allora sufficiente aumentarne la pena per diminuirne l’allarme sociale.

    Viceversa, all’interno di uno Stato democratico e liberale non si considera la tutela della persona e della sua stessa vita in rapporto all’appartenenza ad uno specifico genere o, peggio ancora, ad una minoranza sociale definita solo sulla base delle proprie attitudini private e sessuali come la Lgbt: mai un ordinamento giuridico dovrebbe farne menzione in quanto sono di assoluta pertinenza privata legittimando di fatto una vera e propria ghettizzazione normativa.

    Come logica conseguenza la tutela, espressione specifica del genere sesso o di altre diverse attitudini sessuali, del singolo privato cittadino diventa automaticamente discriminante per i generi esclusi. In più nel nostro Paese, la cui gestione della macchina della giustizia risulta già ampiamente compromessa per la presenza di oltre centoundicimila (111.000) leggi, una norma che preveda una specifica aggravante in rapporto alle attitudini sessuali o l’appartenenza ad un genere rappresenta di per sé il venir meno del principio di uguaglianza, situazione ancora più evidente per i “reati d’odio”.

    Un principio democratico trae la propria massima forza dal riconoscimento esplicito di tutela per ogni singolo cittadino, quindi di qualsivoglia minoranza, indipendentemente dai connotati politici, sessuali o razziali assolutamente ininfluenti nella determinazione e nella applicazione del principio stesso.

    Una minoranza, sarebbe bene ricordarlo, è tanto più tutelata in un complesso sistema normativo quando all’interno del Codice Penale e civile non risultino presenti norme specifiche legate al “privato” e considerate come fattori caratterizzanti ed elementi distintivi. Qualora si intendesse inserire una tutela specifica sulla base di fattori che attengono alla vita privata, infatti, verrebbe meno l’essenza stessa dello Stato democratico e liberale declinando verso una entità pubblica la quale scegliendo delle protezioni specifiche aggiuntive introduce una propria valutazione anche in relazione all’allarme sociale del reato. In questo modo si inserisce un elemento di discriminazione sulla base dei comportamenti sessuali ed anche allora in un secondo momento della provenienza geografica o dell’etnia.

    La democrazia ha sicuramente dei costi, uno dei quali sicuramente viene rappresentato dall’atto di fiducia dei cittadini nei confronti dell’istituzione, consapevoli come sia sempre migliorabile e molto lontana dalla perfezione.

    Solo una vera Democrazia Liberale garantisce quindi la volontà di tutelare, anche se in modo imperfetto, le persone in quanto tali, senza distinzioni di sesso, etnia ed orientamento politico o sessuale.

  • Il green pass e la presunta libertà perduta

    Le polemiche sul Green Pass e, soprattutto, le argomentazioni dei focosi oppositori dovrebbero preoccupare gli antropologi perché sono evidenti espressioni di una collettiva, sebbene per fortuna fortemente minoritaria mutazione della capacità di comprendere il senso logico dei ragionamenti e il nesso tra cause ed effetti dei comportamenti umani.

    A parte la sempre inevitabile strumentalità di alcuni contestatori, appare infatti evidente la profonda convinzione della maggioranza di questi delle proprie ragioni, specie sotto il profilo del dettato costituzionale della tutela della propria libertà.

    Ecco perché è doveroso spiegare, fino allo sfinimento se necessario, che non è assolutamente vero che il Green Pass produrrebbe discriminazioni tra i cittadini, mentre al contrario la sua mancanza le determinerebbe senz’altro. Infatti non c’è nessuna discriminazione in un Paese in cui si rispetta, forse perfino al di là di ogni oggettiva ragionevolezza, il diritto a non vaccinarsi, mentre ovviamente non si può penalizzare chi sceglie di vaccinarsi, rendendolo uguale a chi non accetta di farlo. Questa sarebbe appunto una discriminazione inaccettabile. Non è il caso di ricordare che il rifiuto a vaccinarsi, con la sola eccezione di impedimento sanitario a farlo, è un atto di asocialità perché oltre ad esporre il non vaccinato ai rischi dell’infezione, lo rende oggettivamente responsabile della salute altrui e questo comporta che un atto di libertà non può costituire nocumento per altre persone. Ma che un non vaccinato possa invocare i diritti costituzionali alla parità di trattamento, oltre che sbagliato, appare come una pretesa ingiustificata. I vaccinati hanno il sacrosanto diritto di accedere a qualsiasi luogo desiderino in assoluta sicurezza, senza la preoccupazione di essere insidiati da potenziali untori non vaccinati. Quindi il grido di libertà per tutti senza presunte discriminazioni della Meloni è sbagliato e politicamente scorretto, ed ha solo la funzione di adescare i pasdaran no vax a caccia di protettori delle loro pretese.

    Gli oppositori del Green Pass, nelle loro analisi basate su slogan senza supporti di contenuti scientifici né logici, ignorano o sottovalutano la pericolosità del Covid che, a parte la letalità, lascia al 10-15% di infettati conseguenze gravi riconosciute come patologie da “Long Covid”, che durano anche oltre sei mesi dopo la guarigione, e perfino patologie permanenti gravi o gravissime con conseguenti costi enormi per la collettività.

    Per tutte queste ragioni si impongono le limitazioni del Green Pass, che non sono punizioni, ma misure di contenimento della pandemia a chi non vuole per sua scelta l’immunità e quindi rimane soggetto a rischio. Ma poi dove sarebbe lo scandalo? Il vaccino è lo strumento riconosciuto per tornare liberi a fare una vita normale, chi lo rifiuta, rinuncia a tornare alla vita normale. E’ come se un dipendente pubblico con la licenza elementare protestasse per ottenere l’incarico di dirigente, per il quale occorre la laurea. Si tratta di una condizione e la libertà non solo non si può invocare a difesa, ma proprio perché essendo la carenza del titolo frutto di libera scelta è stata pienamente rispettata. Inoltre è assolutamente noto che il vaccino non esclude in assoluto il rischio di infezione, ma lo limita fortemente e, soprattutto, ne esclude totalmente il pericolo di mortalità. E su questo nessuno ha mai mentito. Sono stati sempre noti infatti i livelli di immunizzazione dei vaccini, le cui percentuali mai sono state superiori al 94-95%, che non è il 100%. Per questo è strumentale il tentativo di ridicolizzare i vaccini sostenendo con le battutine la loro inutilità. Senza i vaccini, almeno fino a quando non si troveranno cure efficaci per sconfiggere il virus, non c’è libertà e ritorno alla normalità per nessuno. Ma è proprio per questo che occorre che tutti si vaccinino e chi non lo vuole fare sia necessariamente assoggettato ad un regime diverso rispetto a chi invece accetta di farlo. Ecco perché insegnanti e studenti debbono essere vaccinati, perché le scuole devono riaprire ed operare in presenza, ma non possono in alcun caso diventare focolai per la diffusione del contagio.

    Per fortuna che al governo c’è Draghi, e non i soliti sensali della politica italiana, che ha istituito il Green Pass, ma deve fare di più e cioè estenderlo ai viaggi in treno, in aereo e nei mezzi di trasporto in generale e introdurre l’obbligatorietà del vaccino, dopo quella del personale sanitario, anche al personale della scuola, insegnante ed ausiliario, agli alunni dai 12 anni in su ed a tutte le categorie che hanno rapporti e contatti con il pubblico.

    Questo è il senso vero di un Paese ordinato, con un governo che tutela i diritti fondamentali dei cittadini come sancito dalla Costituzione, che stabilisce le norme a tutela della salute pubblica e la loro applicazione, con tutti i necessari controlli e relative sanzioni e che garantisce anche la libertà a chi, per sua scelta, rifiuti l’unico strumento di liberazione dal virus e dal rischio di morte, ma con le limitazioni imposte dal buon senso e dal principio etico che la libertà di ciascun cittadino finisce dove comincia la libertà degli altri.

    *Già sottosegretario ai BB.AA.CC.

  • Il ritorno di British Railway ed il silenzio liberale

    Da sempre il confronto tra la visione politico/economico/liberale e quelle “definite” keynesiana e socialdemocratica pone la propria attenzione soprattutto sul ruolo attivo o meno dello Stato all’interno dello scenario economico sempre più complesso ed articolato. Una questione fondamentale, specialmente in un periodo post-pandemico come questo, nel quale i finanziamenti provenienti dall’Unione Europea propongono come centrale il ruolo dell’istituzione pubblica, sia essa statale o europea, e della successiva gestione delle risorse.

    Ancora oggi, come principio “costitutivo”, il pensiero liberale osteggia ogni intromissione dell’istituzione pubblica nel contesto economico lasciando al solo mercato il ruolo di arbitro terzo, mentre la controparte politica indica proprio nello Stato, con un approccio anch’esso “ideologico”, lo strumento per il conseguimento di obiettivi di interesse comune in ambito economico.

    La contrapposizione politica, tuttavia, dovrebbe articolarsi partendo da valutazioni non espresse in periodi straordinari, come quello attuale, ma in termini di principi politici ed economici. I modelli ideologici di riferimento sono conosciuti ed abbastanza immobili rispetto alla costante evoluzione dei complessi quadri economico-politici. Proprio per questo è incredibile sottolineare come un “imbarazzante” silenzio sia seguito alla Rinazionalizzazione delle ferrovie britanniche deciso dal governo conservatore di Boris Johnson.

    Una scelta politica decisamente controcorrente rispetto ai postulati liberali ancora oggi proposti ed adottati nel nostro Paese da chi si definisce liberale. Una scelta del governo britannico che avrebbe dovuto suscitare un dibattito articolato ed approfondito. Questo silenzio ingiustificato di chi si preoccupa molto più delle liberalizzazioni di taxi o di altri servizi alla persona rivela invece come il “pensiero” risulti piuttosto lontano anche solo dalle complessità gestionali di infrastrutture articolate. Il tutto all’interno di un mondo sempre più lontano dai modelli accademici di riferimento colpevolmente granitici come il pensiero politico che ne deriva.

    La Rinazionalizzazione delle ferrovie britanniche parte dalla duplice ed amara constatazione, successiva ad un approfondito studio, dell’abbassamento del livello dei servizi offerti successivamente alla privatizzazione, insostenibile se poi posto in rapporto ai prezzi praticati all’utenza.

    Allargando, poi, la visuale relativa agli effetti della gestione privata di infrastrutture pubbliche, come per esempio quelle autostradali italiane, si rileva amaramente come dal momento della privatizzazione le spese di manutenzione risultino diminuite del 98% (trasformatesi in utili “impropri”, cioè sintesi speculativa di maggiori tariffe unite ai notevoli rischi aggiuntivi interamente scaricati sull’utenza). La questione relativa alla contrapposizione tra visione liberale e pensiero keynesiano e socialdemocratico dovrebbe invece, alla luce della scelta britannica, operare finalmente un salto di qualità. Si dovrebbe partire dalla valutazione delle conseguenze delle diverse strategie e conseguenti esiti relativi all’intervento statale o privato, soprattutto a livello gestionale. Quest’ultimo risulta, infatti, fondamentale all’interno di mercati che necessitano di fattori competitivi sempre più favorevoli alle imprese italiane nella competizione internazionale. Partendo innanzitutto dalla consapevolezza di come anche le grandi infrastrutture, pur restando all’interno di pubbliche gestioni, esattamente come avviene in Svizzera e in Germania, di certo non esempi di economia socialiste, possano manifestarsi come l’espressione di una felice sintesi tra competenza gestionale ed efficacia* (cioè come fattore competitivo per il sistema economico nazionale), quindi come manifestazione positiva e tangibile degli effetti della spesa pubblica sostenuta con il prelievo fiscale degli stessi utenti oltre che contribuenti. La realtà gestionale tedesca e svizzera dimostra come esista una terza via alla crescita di un paese che va ben oltre l’obsoleto confronto tra “liberali o keynesiani e socialdemocratici”.

    La rinazionalizzazione delle ferrovie britanniche unita alla disastrosa gestione privata della rete autostradale italiana di conseguenza dovrebbe inaugurare una nuova scuola di pensiero soprattutto all’interno della compagine liberale in previsione di un nuovo scenario per una economia nazionale competitiva all’interno di un mercato globale. Ad un concetto di semplice e riduttiva liberalizzazione di una rete “infrastrutturale indivisibile” come quella autostradale o ferroviaria la realtà ha dimostrato come ci si trovi di fronte al semplice trasferimento di un monopolio da un soggetto pubblico ad uno gestionale privato.

    Il presupposto di questo trasferimento nella tesi liberale viene supportata dalla corretta verifica degli effetti nefasti legati al monopolio statale. Questo, infatti, ha assicurato rendite di posizione unite ad una esplosione di ingiustificabili “nuovi livelli occupazionali” sempre sostenuti dall’utenza con i propri ticket.

    Contemporaneamente il pensiero socialdemocratico individua, anch’esso correttamente, come tutte le “ottimizzazioni” nella catena dei costi invocate come giustificazione delle concessioni a soggetti privati, unite a fumosi principi di sinergie ed economie di costo, si manifestino nell’unica forma di minori investimenti in manutenzione a favore di utili “impropri” (espressione di un approccio speculativo). Esattamente come la storia ha tristemente ed ampiamente dimostrato con il disastroso crollo del ponte Morandi a Genova.

    A questo punto si pone la questione relativa a come all’interno di infrastrutture pubbliche di importanza nazionale possano attualizzarsi il pensiero liberale e quello keynesiano o socialdemocratico.

    Il settore privato industriale, le cui caratteristiche e competenze risultano molto più ampie e diverse da quello sempre privato ma che si occupa di gestione di servizi in monopolio, si trova a competere nel mercato globale e di conseguenza deve ambire ad operare all’interno di un sistema economico ed istituzionale/amministrativo nazionale ricco di fattori competitivi a loro volta sostenuti anche dall’azione dello Stato: basti pensare agli effetti nefasti della pubblica amministrazione.

    La gestione di una struttura pubblica, specie se interviene come fattore competitivo, dovrebbe partire dalla semplice considerazione della propria importantissima funzione all’interno dello sviluppo economico. La strategia che opera verso un sistema di concessioni private invece rende queste Infrastrutture scollegate dal contesto economico e diventano dei colli di bottiglia esattamente come la pubblica amministrazione. La loro gestione, in altre parole, risulta finalizzata alla semplice sostenibilità economica e nello specifico alla creazione e distribuzione di utili agli azionisti.

    Va ricordato, tuttavia, come queste infrastrutture abbiano in sé la peculiarità del monopolio fisico e che quindi non siano soggette ad alcun tipo di concorrenza: vero principio dello spirito liberale. In questo contesto, allora, tuttala contrapposizione tra il pensiero liberale e quello socialdemocratico dovrebbe venire trasferita nell’ambito della attività gestionale e con essa alla capacità di raggiungere gli obiettivi “macro” in funzione di una crescita.

    L’attenzione deve essere riportata alla consapevolezza del ruolo gestionale nello scenario economico unita alla capacità di creare valore all’interno dello sviluppo economico di un paese. La visione, superata ormai, liberale vede invece solo l’opportunità del perseguimento del massimo profitto come l’unico traguardo da raggiungere: assolutamente legittimo se espressione di una gestione di un’azienda privata. Diventa un fattore anticompetitivo, invece, qualora si tratti di un bene pubblico in concessione senza concorrenza semplicemente, come la storia di autostrade o delle ferrovie inglesi dimostra, perché il solo perseguimento del massimo profitto viene realizzato diminuendo anche gli investimenti e i servizi resi a tariffe superiori (*). In più gli effetti di una gestione privata diventano un ulteriore costo aggiuntivo inserito nella filiera produttiva delle imprese, diventando esso stesso un fattore anticompetitivo per il sistema economico nel suo complesso.

    Il pensiero liberale dovrebbe, invece, in questo contesto svilupparsi nella capacità di individuare all’interno di uno scenario economico complesso gli obiettivi per massimizzare i servizi sotto il profilo qualitativo e quantitativo in modo da renderli fattori competitivi per la crescita economica.

    La Svizzera assieme alla Germania, ed ora la Gran Bretagna con quella della infrastruttura ferroviaria, dimostrano come anche la gestione pubblica delle Infrastrutture autostradali possano rappresentare   l’espressione di un pensiero liberale in quanto si opera con il fine di trasformarli in strumenti di sviluppo e fattori competitivi per i sistemi economici nazionali. Viceversa tanto il pensiero liberale quanto quello socialdemocratico o keynesiano risultano ancora oggi, ed in modo imbarazzante, ancorati a visioni e modelli economici del secolo precedente. La latitanza in questo contesto di un dibattito reale relativo alla “rivoluzionaria rinazionalizzazione” delle ferrovie della Gran Bretagna voluta dal governo di Boris Johnson è quantomeno imbarazzante per un liberale, anche perché la mancanza di un’evoluzione del pensiero politico ed economico liberale può indurre a credere che il modello di riferimento sia più quello argentino che non l’anglosassone.

    È paradossale rilevare come la velocità di cambiamento dei modelli di economia reale risulti maggiore alla capacità di elaborazione delle “ideologie” che li hanno scelti come loro modello di riferimento. Esistono nuovi ambiti di espressione del pensiero liberale, saperli individuare dimostra una aggiornata ed adeguata competenza, espressione del nuovo millennio.

    (*) basti ricordare come le autostrade tedesche siano gratuite per l’utenza mentre in Svizzera si paghi la vignetta valida per un anno a 38,50 euro.

  • Presidente Draghi anche la rete idrica ha bisogno di lei

    Tra le tante assurdità che abbiamo ascoltato nei mesi scorsi anche quella che il bonus rubinetti aiuterebbe a diminuire lo spreco d’acqua, come ha dichiarato l’on. Alessia Rotta del Pd. I nuovi rubinetti devono avere una portata d’acqua limitata a 6 litri al minuto. All’esponente del Pd purtroppo sfugge la realtà, e che cioè la grande dispersione di acqua, bene non rinnovabile e fonte primaria di vita, deriva dall’obsolescenza della rete idrica nazionale, problema che da anni segnaliamo, non solo dalle pagine del Patto Sociale, ai vari governi che si succedono. Governi che hanno tutti continuato ad ignorare il grave problema nonostante vi siano ancora aree prive di acqua corrente giornaliera, una perdita economica costante e, in certe regioni, un giro malavitoso dietro le cisterne che rifornisco le abitazioni prive di acqua corrente. Sulla tragica situazione del nostro sistema idrico ci sono state molte inchieste giudiziarie e molti illeciti arricchimenti e sperperi per i troppi enti inutili che dovrebbero essere preposti a gestire l’acqua nei vari territori. Enti che in molti casi hanno assicurato posti ad esponenti di partito, Pd compreso! Basti pensare che il Pd di fatto controlla l’acquedotto lucano e pugliese, ma anche Hera e Publiacqua. Il 48%, almeno, dell’acqua della rete idrica si disperde perché la nostra rete ha più di 50 anni, è in gran parte ammalorata e rotta, è di proprietà pubblica, giustamente ma, ingiustamente, è gestita da una miriade di società miste comunali, regionali o da consorzi che nulla hanno fatto per rimediare al dissesto. Mentre aumentano le dispersioni d’acqua sono aumentare le tariffe salite quasi del 100% in dieci anni a tutto danno dei cittadini per la spesa e dello Stato perché la perdita dell’acqua è una perdita anche economica, basta pensare ai periodi di siccità che devono essere affrontati dal pubblico. Le tariffe variano da territorio a territorio e nonostante il rincaro delle tariffe molte sono le perdite dovute alla mala gestione e ai poltronifici. Speriamo che il Presidente Draghi intervenga anche su questo urgente problema, che i partiti volutamente ignorano, perché rimettere in sesto la rete idrica ed eliminare tanti enti inutili e fonte di sperpero significa far risparmiare lo Stato, i cittadini e dare posti di lavoro veri ed utili.

  • Pensare al Paese reale prima di agire

    C’è un tempo per sognare ed un tempo per agire, c’è un tempo per contestare ed un tempo per collaborare, c’è un tempo per pensare ed un tempo per fare ma nessuno di questi vari tempi appartiene alla maggior parte di coloro che, dalla maggioranza o dall’opposizione, dai giornali o dalle televisioni si considerano i rappresentanti politici, culturali, scientifici degli italiani.

    C’è un tempo per tutto e, nel silenzio, i tanti in isolamento forzato sentono crescere la rabbia per i tanti errori, le tante inadempienze commessi e faticano a riaccendere quella speranza necessaria per potere immaginare quel futuro che rischia di essere così diverso dalle piccole certezze che ci eravamo conquistati.

    Si fatica perché si sente ogni giorno più forte il distacco tra il paese reale, le difficoltà quotidiane dei più e i “pasticci” di certe banche ed operazioni finanziarie, le incongruenze di certi interventi, dai banchi con le ruote ai sussidi per i monopattini elettrici, mentre troppe persone non riescono a mettere in tavola il pasto o a pagare le bollette e l’affitto.

    Se la Campania andava chiusa prima è stata la camorra a far ritardare il provvedimento? E non è forse vero che tanti contagi, malati, e perciò anche morti, li dobbiamo alla scellerata apertura delle discoteche per soddisfare gli interessi di alcuni? E quali sono le imprese che hanno guadagnato vendendo quegli stessi monopattini elettrici che ora, dopo averne finanziato l’acquisto, ci si rende conto che sono pericolosi? Quali sono i dati reali che ci sappiano dire quante attività sono state svendute per necessità e se chi le ha acquisite è collegato, a vario titolo, con le più note associazioni criminali, quelle stesse che con l’usura si sono troppe volte sostituite allo Stato? E quanto, proprio lo Stato, ha in incassato tenendo aperte, in piena pandemia, le sale da gioco dai bingo alle sale scommessa? Quanto ha incassato lo Stato, perdendo in salute dei cittadini, e quanto hanno incassato le attività criminali che, in un modo o nell’altro, controllano gran parte del gioco? Qualcuno ha pensato a quelle categorie che, nonostante le varie e diverse chiusure delle regioni, continuano a lavorare? Dove vanno a mangiare il cibo da asporto, l’unico che bar e ristoranti possono somministrare, ora che il freddo e la pioggia sono arrivati? Non tutti possono farlo sul posto di lavoro perché la loro attività non ha un ufficio! Qualcuno ha pensato che forse occorrerebbe un aiuto alle associazioni di volontariato che in diversi modi e realtà sfamano tante persone sempre più numerose e bisognose di attenzioni reali ed immediate? Quante sono le categorie che i vari provvedimenti non hanno preso in considerazione? Qualcuno sa come risolvere il problema dei vaccini antinfluenzali che in regioni come la Lombardia ancora mancano anche per le persone più a rischio? Qualcuno pensa e dopo aver pensato si confronta con la realtà, acquisisce dati, esperienze altrui e poi agisce? O forse i prossimi acquisti e sovvenzioni saranno per i banchi elettrici e i pattini a rotelle?

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