Stato

  • Almasri

    Penso, sperando di non sbagliare, che tutti vorremmo vivere in un mondo giusto dove il male, l’ingiustizia, sono sconfitti, un mondo abitato da persone che non fanno torto agli altri e rispettano i diritti umani.

    Purtroppo non è così, terroristi, criminali, dittatori, individui violenti in vari modi prevalgono sugli altri e minacce, fisiche ed economiche, condizionano la nostra vita, la vita dei singoli e la vita degli Stati.

    Vi sono situazioni, alcuni li chiamano giochi, che neppure immaginiamo e che spesso rendono, a noi comuni mortali, difficilmente comprensibili certe decisioni.

    In un viaggio in Cina, come co-Presidente del mio gruppo, un ministro, alle mie rimostranze per le troppe merci contraffatte e per il dumping praticato dal governo cinese, mi disse, con imperturbabile calma asiatica, che se non ci andava bene non era un problema per loro mandarci in Europa centomila e più cinesi.

    Voleva ovviamente farmi comprendere di non insistere più di tanto sul problema contraffazione salvo ritorsioni conseguenti.

    Tra gli Stati ci sono a volte situazioni che potremmo definire ricattatorie.

    Racconto questa esperienza per collegarmi al caso Almasri.

    Piace a molti creare una gran kermesse politico giornalistica su quanto è avvenuto con la liberazione di un personaggio che, più che essere sottoposto al giudizio della Corte internazionale, starebbe bene in un cimitero, ma non siamo nel far west e a regolare i conti dovrebbe essere una magistratura indipendente, capace e libera da condizionamenti.

    Sul caso Almasri vi sono molte domande senza risposta.

    Cosa ha impedito alla Corte internazionale di emettere un mandato di cattura mentre Almasri era in altri paesi europei, Regno Unito, Belgio, Germania?

    Come mai la richiesta d’arresto, nonostante Almasri fosse già stato monitorato, identificato e poi fermato in Germania, è avvenuta solo quando è arrivato in Italia?

    I servizi di intelligence italiani sono stati avvertiti in tempo utile per comunicare al Presidente del Consiglio, ed ai ministri competenti, quanto poteva accadere e poi è accaduto?

    I servizi addetti alla intelligence, dei vari Stati dell’Unione, è noto che dialogano molto poco e sembra evidente che i nostri servizi non dialogano abbastanza anche con i referenti politici e con le forze di polizia.

    Piaccia o non piaccia ad alcuni magistrati o all’opposizione, che se governasse obbedirebbe alle stesse necessità di stato dell’attuale governo, esistono  ragioni imposte dalla politica per Almasri come nel caso di Cecilia Sala ed altri.

    In Libia noi abbiamo interessi vitali per vari motivi, dal gas, senza il quale, dopo la guerra tra Russia ed Ucraina, avremmo gravi difficoltà per l’approvvigionamento energetico e per le conseguenze economiche, all’immigrazione, la Libia può invaderci di immigrati irregolari ed anche di terroristi o criminali, ricordiamo la minaccia cinese, all’obiettivo di continuare, in Italia, a non avere attacchi terroristici.

    A fronte di queste considerazioni, lasciamo perdere il volo di Stato perché solo chi è in mala fede può pensare di rimpatriare un soggetto come Almasri su un volo di linea, non si comprende perché l’iscrizione nel registro degli indagati, per Meloni e gli altri ministri, sia arrivata il giorno prima dell’audizione in Parlamento impedendo così che si svolgesse regolarmente.

    Almasri o non lo si cercava e non lo si arrestava, o si era costretti a rimpatriarlo, o a rischiare seriamente di subire le conseguenze della sua detenzione, in un film forse sarebbe spartito, ma noi siamo nella realtà.

    Moralmente è stata un operazione giusta? La moralità non c’entra, Almasri è un assassino, un violentatore, un aguzzino, mi auguro che Allah lo fulmini, che un vendicatore solitario faccia giustizia, e la realtà è che, purtroppo, la Corte penale, che non impedisce a Putin di andare dove gli pare, non ha gli strumenti per fare giustizia ed è o troppo lenta nelle sue richieste di arresto o è anche essa legata a tempistiche e giochi politici che ci lasciano perplessi.

  • Riconoscimenti irreali e ingannevoli che offendono l’intelligenza

    Nella corruzione di questo mondo, la mano dorata del delitto può scansare

    la giustizia e si vede spesso la legge farsi accaparrare dalla sua preda.

    William Shakespeare, da “Amleto”

    L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha approvato il 31 ottobre 2003 la Convenzione contro la Corruzione. Tra l’altro la Convenzione affermava che le Nazioni Unite erano “…preoccupate per la gravità delle problematiche e delle minacce che la corruzione rappresenta per la stabilità e la sicurezza delle società”. Una preoccupazione quella che si basava sulla convinzione, espressa nella sopracitata Convenzione, che la corruzione logora e danneggia “…le istituzioni e i valori della democrazia, i valori etici e della giustizia, mettendo a repentaglio lo sviluppo sostenibile e lo Stato di diritto”. La stessa Convenzione ha proclamato la Giornata internazionale contro la corruzione, che si celebra, da allora, ogni 9 dicembre.

    Il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti d’America, dal 2021, ha cominciato a conferire un premio intitolato ‘Campioni Globali dell’Anticorruzione’ (Global Anti-Corruption Champions; n.d.a.). Si tratta di un riconoscimento che ha come obiettivo quello di “…onorare delle persone, in tutto il mondo, che fanno degli sforzi straordinari per combattere la corruzione”. Un premio che adesso viene legato proprio alla Giornata internazionale contro la corruzione e, perciò, le persone premiate si proclamano proprio il 9 dicembre.

    Nel primo anno dell’assegnazione di questo premio però i nomi dei premiati sono stati resi noti il 23 febbraio 2021. Allora il Segretario di Stato statunitense ha proclamato dodici ‘Campioni globali dell’anticorruzione’. Secondo lui loro “…hanno instancabilmente lavorato, spesso affrontandosi con delle inimicizie, per difendere la trasparenza, per combattere la corruzione e per garantire il rendiconto nei propri Paesi”. Tra i dodici premiati c’era anche un giudice albanese. Il nostro lettore è stato informato a tempo debito di tutto ciò. L’autore di queste righe scriveva, riferendosi a questa scelta, che lui, il giudice albanese, era “…una persona molto “chiacchierata” … Non solo perché è un ex inquisitore del regime comunista”. Aggiungendo che “…si tratta anche di un “uomo della legge” che, dati e fatti accaduti alla mano, ha continuamente infranto la legge. Anche quando, per rimanere in carica come giudice della Corte Suprema, nonostante il suo mandato fosse finito da sei anni, ha usato dei “trucchetti” ed ha beneficiato del diretto appoggio governativo. Si tratta di un “giusto” che aveva “dimenticato” di dichiarare parte dei beni in suo possedimento, come prevede proprio la legge! […] Tutto fa pensare ad una densa e ben pagata attività lobbistica” (Un vergognoso, offensivo e preoccupante sostegno alla dittatura;1 marzo 2021).

    Il 9 dicembre scorso, proprio alla ricorrenza della Giornata internazionale contro la corruzione, il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti d’America ha reso pubblico i nomi dei Campioni Globali dell’Anticorruzione per il 2024. Ebbene, tra i dieci nuovi premiati c’era, di nuovo, un albanese. Ma questa volta non un giudice, ma un procuratore. Anzi, il dirigente della Struttura speciale contro la Corruzione e la Criminalità organizzata. Un’istituzione costituita nel novembre 2019, nell’ambito della riforma del sistema della giustizia. Una riforma approvata dal Parlamento albanese nel luglio del 2016, sulla quale l’autore di queste righe ha spesso informato il nostro lettore con la dovuta e richiesta oggettività e sempre in base a tanti fatti, dati, denunce e documenti resi pubblici. Una riforma, quella del sistema della giustizia in Albania, che è stata ideata, consigliata ed assistita dagli specialisti e dai rappresentanti dalla Fondazione per la Società Aperta (Open Society Foundations; n.d.a.), fondata nel 1993 da George Soros, il noto multimiliardario e speculatore di borsa statunitense. Un fatto questo, dichiarato con tanto vanto e in diverse occasioni, anche dal dirigente della Fondazione per la Società Aperta in Albania. Si tratta di una riforma finanziata sia dagli Stati Uniti d’America che dall’Unione europea. Ragion per cui, bisogna dimostrare in tutti i modi che si tratta di un “successo” per giustificare i milioni spesi. Una riforma che doveva fare giustizia e condannare tutti i colpevoli, partendo dai massimi rappresentanti della politica, nel caso avessero commesso dei crimini di ogni genere, come abusi con il denaro pubblico, corruzione attiva e passiva e ben altro. Ma purtroppo, sempre fatti, dati, denunce e documenti resi pubblici alla mano, ormai risulta essere una “riforma” che ha messo tutte le istituzioni del sistema della giustizia sotto il diretto controllo del primo ministro e/o di chi per lui. Anche di questo fatto il nostro lettore è stato spesso informato con la dovuta e richiesta oggettività.

    Durante la cerimonia della premiazione, il 9 dicembre scorso, il Segretario di Stato statunitense ha detto: “…Gli Stati Uniti hanno lanciato il Premio ‘Campioni Globali dell’Anticorruzione’ nel 2021 per riconoscere le persone che hanno adottato misure straordinarie per contrastare la corruzione, nonché per dimostrare la solidarietà degli Stati Uniti con questi partner eroici’. E poi ha aggiunto: “Oggi, in occasione della Giornata internazionale contro la corruzione, riconosciamo 10 campioni della lotta alla corruzione che hanno guidato o sostenuto riforme e indagini che stanno portando un mondo più giusto e trasparente per i loro concittadini”. Ed uno di questi “partner eroici” era anche il dirigente della Struttura speciale contro la Corruzione e la Criminalità organizzata. Chissà perché?! Ma le cattive lingue hanno subito detto che si trattava di nuovo, come nel 2021, di una “scelta” ed una sponsorizzazione fatta dalle potenti lobby negli Stati Uniti, quelle che sostengono da anni il primo ministro albanese, in cambio di “servizi e ubbidienza”, proprio per dimostrare il successo della “riforma” del sistema della giustizia in Albania. E soprattutto perché si tratta di una riforma ideata e sostenuta proprio da una di queste lobby.

    Durante questi ultimi anni il nostro lettore è stato spesso informato, sempre fatti alla mano, anche dell’operato della Struttura speciale contro la Corruzione e la Criminalità organizzata in Albania e dell’ormai nota “ubbidienza” del dirigente della Struttura, appena premiato, alle “direttive” che gli arrivavano dalle massime autorità governative, primo ministro in testa. Sono tante, veramente tante le denunce che da anni “dormono” negli uffici della Struttura speciale contro la Corruzione e la Criminalità organizzata. E si tratta di denunce che coinvolgono direttamente il primo ministro, suoi famigliari ed alcuni suoi stretti collaboratori. Si tratta di una realtà confermata anche dalle dichiarazioni fatte dal noto procuratore antimafia italiano Nicola Gratteri. E proprio lui, già nel 2019, dichiarava convinto che “In Europa, nel futuro, credo che ci impegneremo molto con l’Albania”. Anche di questo il nostro lettore è stato sempre informato (Pericolose e preoccupanti presenze mafiose, 1 febbraio 2021; Similitudini tra l’Afghanistan e l’Albania, 30 agosto 2021; Clamorosi abusi rivelati da un programma televisivo investigativo, 23 aprile 2024; Altre verità rivelate da un programma televisivo investigativo, 7 maggio 2024; Minacce ai giornalisti europei che denunciano una grave realtà, 7 ottobre 2024…). Ma nonostante ciò proprio il dirigente della Struttura speciale contro la Corruzione e la Criminalità organizzata in Albania è stato tra i dieci ‘Campioni Globali dell’Anticorruzione’ per il 2024! Chissà perché?!

    Chi scrive queste righe, riferendosi al sopracitato riconoscimento, è convinto che si tratta di un riconoscimento irreale e ingannevole, che offende l’intelligenza degli albanesi. E trova attuale quanto scriveva Shakespeare più di quattro secoli fa. E cioè che nella corruzione di questo mondo, la mano dorata del delitto può scansare la giustizia e si vede spesso la legge farsi accaparrare dalla sua preda. Un insegnamento che non hanno tenuto presente nel Dipartimento di Stato statunitense.

  • Proposta delirante di un autocrate in gravi difficoltà

    L’uomo non è spiegabile e, in ogni caso, bisogna indagare i suoi segreti

    non nelle sue ragioni ma piuttosto nei suoi sogni e deliri.

    Ernesto Sabato

    Fino al 1815 era noto come lo Stato Pontificio. Organizzato e funzionante come una monarchia assoluta, aveva come suo massimo rappresentante, con i pieni poteri, il Pontefice. Fino ad allora era anche uno degli Stati italiani, come il Regno di Sicilia, il Regno di Napoli, il Granducato di Toscana ed altre entità statali. Ma il 20 settembre 1870 il Regno d’Italia conquistò Roma. In seguito, dopo il plebiscito del 2 ottobre 1870, anche i territori della Santa Sede sono stati annessi al Regno d’Italia. Alcuni mesi dopo, nel maggio 1871 il Parlamento stabilì anche i diritti della Santa Sede come parte integrante del Regno d’Italia. Il Papa veniva riconosciuto ancora come la massima autorità, ma alla Santa Sede è stato riconosciuto solo il possesso e non la proprietà degli edifici a Roma e dintorni. Il papa di allora, Pio IX, non riconobbe la decisione del Parlamento e si dichiarò prigioniero in Vaticano. Una simile situazione tesa tra il Regno d’Italia e la Santa Sede durò fino al 1929, quando, dopo lunghe trattative, l’11 febbraio 1929 si firmarono i Patti Lateranensi. Dal concordato tra l’Italia e la Santa Sede il 7 giugno 1929 è stato costituito e riconosciuto lo Stato sovrano della Città del Vaticano, esteso su un territorio molto limitato, entro le mura leonine, compresa anche la piazza San Pietro. I Patti Lateranensi, sono ormai sanciti dall’articolo 7 della Costituzione della Repubblica italiana.

    Quest’anno si è svolta la 79ª sessione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Dal 22 e al 23 settembre 2024, l’Assemblea ha ospitato il Vertice del futuro. In quel vertice sono stati trattati diversi temi. Per il Segretario generale delle Nazioni Unite quel vertice dovrebbe rappresentare “…un’opportunità unica per ricostruire la fiducia e riallineare le istituzioni multilaterali obsolete con il mondo di oggi, basandosi su equità e solidarietà”.

    Durante il sopracitato vertice, il 22 settembre scorso ha preso la parola anche il primo ministro albanese. Nel frattempo i suoi clamorosi abusi di potere, i continui scandali che lo coinvolgono direttamente, insieme con alcuni suoi stretti famigliari e collaboratori, il controllo da lui personalmente e/o da chi per lui del sistema “riformato” della giustizia, la galoppante corruzione partendo dai più alti livelli, sono stati trattati ed evidenziati anche dai giornali e dalle televisioni di vari Paesi europei ed di oltreoceano. Il nostro lettore è stato informato, a tempo debito, di tutto ciò. Così come è stato spesso informato, durante questi ultimi anni, della restaurazione e del continuo consolidamento di una nuova dittatura sui generis in Albania. Una dittatura camuffata da una facciata di pluripartitismo, ma che arresta e tiene tuttora isolato in casa, senza nessuna prova, il capo dell’opposizione. E tutti lo sanno che è stato il primo ministro a chiederlo. Come fanno anche altri suoi simili, in Russia, in Turchia, in Bielorussia, in Venezuela ed altrove nel mondo. Una dittatura, quella restaurata in Albania, espressione della pericolosa alleanza tra il potere politico, rappresentato proprio dal primo ministro, la criminalità organizzata locale ed internazionale e determinati raggruppamenti occulti molto potenti finanziariamente.

    Una grave e molto preoccupante realtà questa vissuta e sofferta in Albania. Una realtà che ha costretto durante questi ultimi anni circa un terzo della popolazione, soprattutto i giovani, a lasciare la madrepatria per cercare un futuro migliore all’estero. Una realtà questa che non riesce più a nascondere neanche la ben organizzata e potente propaganda governativa. Una realtà che ha vistosamente messo in serie difficoltà anche il diretto responsabile, il primo ministro albanese.

    Ebbene, il 22 settembre scorso, lui ha preso la parola al Vertice del futuro, organizzato nell’ambito della 79ª sessione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite. E come fa sempre quando si trova in gravi difficoltà, l’autocrata albanese ha cercato, anche questa volta, di spostare l’attenzione, sia dell’aula che dell’opinione pubblica in Albania, con delle “stranezze”. E questa volta ha scelto di proclamare la costituzione di uno Stato sovrano della comunità religiosa bektashì dentro il territorio della capitale albanese. Come la Città del Vaticano a Roma. Bisogna sottolineare che in Albania coesistono pacificamente alcune comunità religiose, le più note delle quali sono la comunità musulmana sunnita, che rappresenta la maggior parte della popolazione, la comunità cristiana ortodossa, quella cattolica e la comunità bektashì, che sono dei musulmani sciiti della confessione islamica sufi. Ci sono anche altre comunità religiose minori. Risulterebbe che la comunità dei bektashì rappresenta meno del 10% dell’intera popolazione albanese. E riferendosi a quella comunità il primo ministro albanese ha dichiarato il 22 settembre scorso che avrebbe in mente di “…trasformare il centro dell’Ordine [comunità] dei bektashì, al centro di Tirana, in un centro di tolleranza e di coesistenza”. Ed intendeva quelle tra le varie religioni. Ma è un fatto storicamente e pubblicamente noto che in Albania le diverse comunità religiose hanno sempre coesistito e convissuto in armonia tra di loro. Perciò solo questo importante fatto contrasta con le dichiarazioni del primo ministro. Uno strano e, per molti, delirante annuncio quello suo, che è stato anticipato da un articolo pubblicato il 21 settembre scorso, dal noto quotidiano statunitense The New York Times. In quell’articolo era stato citato il primo ministro per aver confidato al giornalista che voleva portare avanti una sua idea: quella di costituire un piccolo Stato, un’enclave, seguendo il modello del Vaticano. Un’enclave che verrebbe governata dai bektashì. Ma già solo con questa affermazione dimostra che o non conosce la storia, oppure sta ingannando. Sì perché si tratta di due realtà e modelli ben differenti per varie ragioni; storiche, culturali, demografiche ed altro.

    Il primo ministro ha dichiarato al The New York Times che “L’Albania cerca di trasformare in uno Stato sovrano con la propria amministrazione, i propri passaporti e le proprie frontiere” la comunità dei bektashì. E conferma che nel prossimo futuro “…presenterà i piani per l’entità che sarà chiamata lo Stato Sovrano dell’Ordine dei Bektashì”. Lui ha altresì affermato al giornalista che si trattava di un piano che lo sapevano solo pochissimi suoi stretti collaboratori. Ma lui, prima di tutto, doveva informare e poi consultare i rappresentanti delle comunità religiose in Albania ed altri gruppi di interesse. Doveva informare soprattutto il diretto interessato, il dirigente della comunità bektashì in Albania. E proprio quest’ultimo ha confermato subito dopo la pubblicazione dell’articolo che “La notizia che l’Albania potrebbe dare la sovranità all’Ordine dei Bektashì … ci ha stupiti. Noi non abbiamo richiesto e non pretendiamo di creare uno Stato musulmano. L’iniziativa è totalmente del primo ministro”. Ma il primo ministro doveva, sempre obbligatoriamente, discutere questo suo “strano piano” in parlamento. Si perché per portare avanti questa sua proposta, questo piano, dovrebbe fare anche degli emendamenti costituzionali. Il comma 2 del primo articolo della Costituzione sancisce che “La Repubblica d’Albania è uno Stato unitario ed indivisibile”. Proprio così! Costituire uno Stato sovrano dentro lo Stato albanese significa violare la Costituzione. Ed il primo ministro, con la sua delirante proposta, lo ha fatto.

    Chi scrive queste righe informa il nostro lettore che in seguito alle sopracitate dichiarazioni del primo ministro le reazioni sono state immediate. Reazioni che si oppongono fortemente alla sua proposta delirante. Reazioni fatte dai vertici della comunità musulmana in Albania, da molti noti analisti, storici e religiosi. Aveva ragione Ernesto Sabato, l’uomo non è spiegabile e, in ogni caso, bisogna indagare i suoi segreti non nelle sue ragioni ma piuttosto nei suoi sogni e deliri.

  • Lo Stato di minoranza

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo del Prof. Francesco Pontelli

    Come istituzione lo Stato dovrebbe rendersi interprete dell’interesse dei propri cittadini, grazie all’opera degli organi istituzionali titolari dei poteri esecutivo, legislativo e giurisdizionale.

    In altre parole, ci dovrebbe essere in uno stato democratico la completa e totale identificazione degli obiettivi statali con le aspettative della maggioranza degli amministrati. Questo tipo di risultato può venire ottenuto e soprattutto mantenuto solo all’interno di una democrazia diretta, nella quale i cittadini possano esprimere la propria opinione sulle più diverse questioni di ordine economico, fiscale, politico ed anche infrastrutturale come attualmente solo in Svizzera avviene.

    Viceversa l’entità statale elabora una propria indipendente priorità di obiettivi politici, economici e, nell’ultimo decennio, anche ambientali ed etici, questi ultimi sicuramente importanti ma comunque espressione di una minoranza, in virtù di una presunta superiorità intellettuale la cui sola legittimazione deriva dal semplice mandato elettorale.

    Come logica conseguenza in questo caso lo Stato non solo diventa una istituzione non più in grado di interpretare le necessità dei cittadini ma addirittura neppure interessata alla loro conoscenza, così da rendersi distaccato e lontano ed alla fine autoritario, infatti uno Stato minoritario si dimostra tale quando la propria classe politica manifesta interesse solo ed esclusivamente per le aspettative delle minoranze.

    In quest’ultimo caso le due forme di sostentamento e di mantenimento dello Stato vengono rappresentate dalla gestione della spesa pubblica sempre in continuo aumento. In più, a questa forma di potere si aggiunge la gestione del credito esercitata da un sistema bancario che sostiene, in complicità con lo stato, l’esplosione del debito pubblico (*).

    Per ottenere il mantenimento di questa diarchia, lo Stato inevitabilmente non cerca di migliorare l’efficienza della spesa pubblica, e conseguentemente il benessere dei propri cittadini, ma canalizza tutte le proprie attenzioni verso obiettivi ancora una volta politici ed etici come la lotta alla evasione, in quanto l’obiettivo principale non è quello di razionalizzare la spesa, in relazione alla cui efficienza l’Italia è al 123° posto dietro ad Haiti, ma di aumentare la dotazione finanziaria della stessa e di conseguenza il potere di chi lo gestisce.

    All’interno infatti di una spesa pubblica che ha raggiunto i 1.129 miliardi e ben oltre il 57% del PIL, avrebbe un effetto minimale il recupero anche dell’intera evasione fiscale e contributiva attuale attorno agli 82 miliardi di imponibile.

    La sua resa finanziaria risulterebbe di circa 42 miliardi, anche applicando l’aliquota massima, il recupero totale, in ultima analisi, si attesterebbe al 3,5% della spesa pubblica totale. Quindi affermare che la sola lotta all’evasione possa essere la soluzione per sanare gli squilibri ingiustificabili causati dalla stessa spesa pubblica rappresenta un controsenso o peggio la tipica espressione di uno Stato assolutamente minoritario.

    Con questo termine si definisce quella entità statale espressione di una democrazia malata con un sistema elettorale bloccato dagli stessi partiti all’interno della quale la delega non rappresenta più una garanzia di democrazia, ma semplicemente una cambiale in bianco che viene utilizzata per sostenere e sviluppare interessi particolari.

    In questo contesto ecco allora che Stato ponendo la sua attenzione e la propria tecnologia digitale nella sola lotta all’evasione, causata anche dai “materassi normativi” creati da ogni governo, in barba a qualsiasi tutela della privacy utilizza sempre più strumenti invasivi della legittima sfera personale (**) assumendo sempre più i connotati orwelliani. Mentre se il medesimo impegno venisse indirizzato nel combattere i reati “minori”, ai quali la pessima riforma Cartabia del governo Draghi ha annullato la procedibilità d’ufficio, probabilmente i reati contro il patrimonio potrebbero sicuramente essere contrastati con maggiore efficienza.

    Risulta evidente, quindi, come l’attuale entità statale ora rappresenti non più gli interessi della comunità, ma semplicemente lo strumento per il conseguimento di interessi particolari sostenuti finanziariamente attraverso la spesa pubblica e la gestione del credito.

    In fondo non si rileva una grande differenza nella elaborazione delle priorità, espresse anche in sede europea, tra le teocrazie islamiche e gli attuali asset istituzionali minoritari attualmente espressi sia dall’Italia che dalla stessa Unione Europea.

    (*) novembre 2018 https://www.ilpattosociale.it/attualita/la-vera-diarchia/

    (**) giugno 2024 https://www.wallstreetitalia.com/anonimometro-gia-operativi-i-controlli-sui-conti-correnti/

  • La nudità ideologica

    Da sempre, da troppo si potrebbe aggiungere, in Italia si assiste ad un pietoso spettacolo offerto, indipendentemente dal proprio orientamento politico, dalle diverse cariche istituzionali rappresentate da figure politiche.

    Solo poche ore fa un portavoce della Regione Lazio ha rilasciato delle dichiarazioni a titolo personale in relazione alla strage di Bologna, dimenticandosi completamente del ruolo che ricopre all’interno della Regione stessa. Anzi, ha affermando di parlare a titolo personale, dimenticando come nel momento in cui si assume un incarico il fattore personale non dovrebbe neppure venire più preso in considerazione a favore del ruolo pubblico.

    Negli ultimi mesi, in più riprese, il Presidente del Senato La Russa ha avuto modo di esternare affermazioni espressione di un proprio e forte orientamento politico.

    In altre parole, esattamente come nelle precedenti legislature gli stessi miserevoli comportamenti potevano venire attribuiti all’ex Presidente della Camera Fico e alla Boldrini, continua un orrido spettacolo offerto ai cittadini all’interno di ogni singola legislatura.

    Questo conferma, ancora una volta, come il ceto politico nostrano, nella propria articolata complessità e completezza, abbia solo compreso quali e quanti onori implichi una rappresentanza, una carica istituzionale, ma contemporaneamente ignori quali e quanti obblighi comporti la sua accettazione.

    Pur consapevoli quindi che una qualsiasi carica istituzionale, a maggior ragione se a livello nazionale, offra un prestigio unico ad un qualsiasi esponente politico, tuttavia sarebbe opportuno anche rendersi conto che implica inevitabilmente una serie di attenzioni, la prima delle quali dovrebbe essere quella di dimostrarsi in grado di rappresentare l’intero Paese e non la sola parte della maggioranza elettorale.

    Anche perché, in considerazione tanto della legge elettorale, la quale impedisce di scegliere i propri rappresentanti agli aventi diritto, quanto dell’astensionismo, molto spesso al governo finiscono coalizioni che rappresentano poco più di un quarto dell’intero popolo elettorale.

    Proprio in ragione di questa situazione la figura istituzionale dovrebbe essere una figura unificante e non certamente divisiva della sua attività politica ed istituzionale ed a maggior ragione nelle proprie esternazioni.

    Viceversa, da anni le maggiori cariche istituzionali esprimono personaggi passati direttamente da un ideologico bar all’angolo ai vertici dello Stato ed esternano il solo proprio chiaro orientamento politico e, di conseguenza, dimostrano di non essere in grado di rappresentare lo Stato nella propria unità.

    Dismettere le vesti ideologiche e politiche ed assumere una “nudità ideologica” dovrebbe rappresentare la conditio sine qua non in grado di assicurare la rappresentanza dell’intero Paese.

  • I tre asset istituzionali

    La maggioranza di governo persegue due obiettivi programmatici ambiziosi e considerati compatibili.

    Il primo è rappresentato dal riconoscimento di una maggiore autonomia per le regioni del Veneto(*),  Lombardia ed Emilia Romagna. Il secondo, viceversa, prevede una forte riforma istituzionale e contemporaneamente della divisione di poteri attraverso l’elezione diretta del Presidente del Consiglio o in subordine del Presidente della Repubblica

    Nel caso in cui queste due importanti riforme venissero entrambe approvate dai due rami del Parlamento ci troveremmo di fronte a un asset istituzionale caratterizzato da un insostenibile terzetto di istituzioni locali. in quanto alle cinque regioni a statuto autonomo si dovrebbero aggiungere altre tre dotate di una maggiore autonomia amministrativa sulle materie delegate ed infine una terza rappresentata dalle regioni a statuto ordinario.

    In questo contesto la stessa elezione diretta del Presidente del Consiglio rappresenterebbe per gli abitanti delle tre tipologie di regioni prerogative ed aspettative decisamente differenti proprio in rapporto al livello di autonomia conseguito dalla propria regione di residenza.

    Uno stato federale, infatti, non si può reggere su tre diversi asset istituzionali la cui differenza si basa sul riconoscimento di tre tipologie di autonomia amministrativa e fiscale.  Viceversa, tutti gli asset istituzionali basati sul riconoscimento del federalismo trovano la propria ragione costitutiva quando esprimono un stato centrale più o meno titolare di prerogative, in aggiunta al riconoscimento dei poteri locali demandati ai singoli Stati o alle regioni.

    Al di là, quindi, delle dichiarazioni formali della maggioranza, emerge evidente come molto probabilmente verranno disattese le legittime aspettative di maggiore autonomia amministrativa da parte dei veneti  e  contemporaneamente si abbandonerà una qualsiasi riforma verso un presidenzialismo anche se spurio.

    La realtà politica attuale dimostra come nessuno di questi obiettivi di “riforme istituzionali” sia nella realtà raggiungibile in quanto il vero l’obiettivo di queste “visioni istituzionali” rimane quello di sostenere un alto interesse che rappresenta la molla per mantenere il proprio consenso elettorale.

    (*) A fronte anche di un referendum dall’esito plebiscitario

  • In attesa di Giustizia: Nessun dorma

    Nessun dorma! Nemmeno le motivazioni della sentenza della Cassazione costituiranno i titoli di coda del b-movie giudiziario noto come “trattativa Stato-mafia” costruito con un canovaccio scadente intorno ad un reato esistente solo nella fantasia dei suoi approssimativi sceneggiatori.

    Uno tra questi – il celebre fallito Antonio Ingroia – ha subito alzato la voce lamentando il mancato lieto fine non pago che per oltre dieci anni sono finite nel tritacarne mediatico-legale la  dignità, onorabilità, salute psicofisica di protagonisti della lotta (quella vera) alla criminalità organizzata, additati come traditori e dati in pasto alle milizie dei professionisti di quell’antimafia che con la lotta alla mafia non ha nulla a che fare, ma vale a costruire carriere, fortune editoriali ed economiche, successi politici (sempre con l’eccezione di Ingroia passato all’avvocatura, dopo disastrosi tentativi in altri settori, e recentemente colpito dalla irreparabile perdita di Gina Lollobrigida, sua unica cliente).

    I professionisti dell’antimafia, normalmente, danno il meglio di sé nel distruggere carriere, fortune politiche e patrimoni altrui… e la vecchia guardia muore ma non si arrende.

    C’è tutto un mondo che prospera grazie alla narrazione di sponde, collusioni e complicità istituzionali delle quali si avvantaggia la mafia: una verità che viene poi sviluppata in termini iperbolici, quasi maniacali, nella convinzione che nessuna lotta alla mafia sarà degna di questo nome se non sarà rivolta agli intrecci istituzionali anche quando l’inchiesta giudiziaria non ne coglie traccia. E se non ne coglie è una inchiesta marginale oppure è essa stessa contaminata da correità oscure.

    Questo genere di narrazione ha una straordinaria forza comunicativa ed affascina la pubblica opinione, avvantaggiandosene e criminalizzando chi osi metterla in dubbio. Ecco allora che nessuna indagine su fatti di criminalità mafiosa risulta immeritevole di considerazione senza il coinvolgimento di qualche insospettabile di alto rango ed il preteso disvelamento di combutte istituzionali: più forte, allora, sarà la ricaduta mediatica e la fortuna dell’inchiesta: quella sulla “Trattativa” ha rappresentato l’acme di questo fenomeno perché giunta di fatto ad “inventare” – attraverso una forzatura giuridica da subito evidentissima – l’inesistente reato di “trattativa”, per poter affermare che proprio coloro ai quali erano affidati ruoli di vertice nel contrasto al crimine organizzato erano in realtà corrivi con esso nel ricattare il potere statuale e con ciò alimentando il consenso della opinione pubblica.

    Anche ora, dopo una decisione che dovrebbe solo comportare scuse nei confronti delle vite spezzate, infangate ed umiliate di innocenti servitori dello Stato, è dato leggere commentatori che scrivono di mafia che “tratta da sola”, ed altre imbecillità assortite del genere. Come al solito, ne abbiamo parlato di recente, a fare scandalo sono le assoluzioni ed è maturo il tempo per raccogliere interviste contrite, ma più probabilmente aggressive ed avvelenate, dei responsabili di questa bufala giudiziaria che invece di essere chiamati a rispondere del male che hanno seminato a piene mani, saranno gli eroi dolenti ma indomiti di quella vera e propria casta invincibile cui appartengono, tra gli altri, amministratori giudiziari degli immensi patrimoni di aziende sequestrate, spolpate e poi restituite come stracci bagnati, solo perché gli  incolpevoli proprietari, solo perché sono stati sospettati di inesistenti prossimità mafiose. Per non parlare di quelli che rubano persino l’origano alle mense scolastiche ma vengono insigniti del cavalierato per l’impegno nella difesa della legalità.

    C’è pertanto, tristemente, da temere che nemmeno una sentenza della Cassazione (oltre una precedente della Corte d’Appello di Palermo), varrà a ristabilire la verità.

    Nessun dorma! E c’è chi si è già messo alacremente all’opera: per la quinta volta la Procura di Firenze tenta di far decollare l’inchiesta sulle stragi con Berlusconi e Dell’Utri come mandanti sebbene il teorema su cui si regge confligga proprio con gli esiti del processo “Trattativa” oltre che difettare completamente di logica, ed è smentito pure dagli ascolti delle intercettazioni di Totò Riina che definì l’ex Premier “un inutile palazzinaro” e dalla subitanea caduta del Governo nel 1994.

    Questa è un’altra storia di cui dovremo riparlare, un sequel evitabile per il finale scontato, messo in scena dalla narrativa dell’antimafia militante preconizzata da Sciascia che non intende cedere il suo potere, il più grande che si possa esercitare: dividere il mondo in buoni e cattivi a proprio piacimento ed impunemente traendone, infine, insperate ed imperdibili fortune.

  • In attesa di Giustizia: Libera Chiesa in libero Stato

    Con queste parole viene definita la concezione separatista in tema di rapporti tra Chiesa e Stato, utilizzata per primo dal politico e filosofo francese Charles de Montalebert, poi ripresa da Cavour al quale ne viene attribuita la paternità dopo la citazione avvenuta in seguito alla proclamazione del Regno d’Italia che portò alla individuazione di Roma come capitale; secondo il pensiero dello statista piemontese, il Papa avrebbe – quindi – dovuto dedicarsi all’esercizio del potere spirituale dimenticandosi quello temporale sui suoi possedimenti con ciò permettendo la convivenza tra Stato e Chiesa. E viceversa.

    Sono passati decenni, si sono succeduti nel tempo i Patti Lateranensi nel 1929, la loro revisione nel 1984 a regolare i rapporti (anche di natura giudiziaria) tra Italia e Santa Sede e con la Costituzione Repubblicana si è abbandonato il concetto di religione di Stato lasciando ai cittadini la libertà di credo.

    Qualche bizzarro cascame da Statuto Albertino, sia pure con qualche “arrangiamento”, si annida peraltro nelle pieghe del nostro sistema penale non meno che nel pensiero di chi  è deputato all’esercizio dell’azione penale: per esempio, la Procura della Repubblica di Crotone che ha ritenuto – non avendo, evidentemente, nulla di meglio da fare – di indagare  per “offesa ad una confessione religiosa” (art. 403 e 404 del  codice penale) Don Mattia Bernasconi,  della parrocchia di San Luigi Gonzaga di Milano.

    Cerchiamo, allora, di comprendere di quale rimproverabile ed indegna condotta si sia reso responsabile questo sacerdote, nei cui confronti sono già stati lanciati strali diocesani: ha celebrato la messa in mare per i giovani della sua parrocchia che aveva accompagnato ad un campo nella cooperativa Terre Joniche – Libera Terra. Nell’ultimo giorno di permanenza in Calabria aveva anche deciso di  portarli in spiaggia invece che in una pineta, originaria destinazione risultata, però, già occupata.

    Qui giunti, essendo domenica, a causa del caldo è maturata la scelta di celebrare la messa in mare utilizzando un materassino come altare.

    Una comprensibile coniugazione tra il rispetto del precetto domenicale e la salvaguardia della salute riparandosi dalle temperature feroci di questo periodo che non ha evitato a Don Mattia le censure dei suoi superiori prima e l’inflessibilità della legge secolare poi; il Procuratore capo di Crotone in persona ha confermato l’apertura di un fascicolo sull’accaduto delegando nientemeno che alla DIGOS lo svolgimento delle indagini. Verranno, quindi, sentiti testimoni, acquisiti filmati e foto della funzione dai telefonini, interpellati vescovi e cardinali, forse anche indagati per concorso nel reato i turisti che hanno prestato il materassino al sacerdote. Questo ci vuole per ridare dignità ad un Paese! Tolleranza zero alla maniera di Rudolph Giuliani: e partendo da una intransigente persecuzione di quelli che sembrano illeciti minori od anche semplici atti devianti che violano norme sociali si andrà realizzare una funzione salvifica e moralizzatrice a tutti i livelli.

    Saremmo stati, però, ancor più grati al procuratore di Crotone se prima di muoversi e spedire le sue truppe all’assalto, avesse prestato più attenzione a quanto prevede il codice penale e cioè che il reato di offesa ad una confessione religiosa si commette mediante il vilipendio di chi la professa, di un ministro o di oggetti di culto, strumenti liturgici, cose consacrate. Dell’uso, magari fantasiosamente improprio, dei materassini da mare per celebrare messa (da parte di un sacerdote regolarmente ordinato) in mare non si parla.

    Sembra, piuttosto, di poter dire che la scelta di Don Mattia sia stata indicativa del fatto che la fede, la preghiera, il sentimento religioso non sono legati necessariamente ad un luogo o ad un momento ma sono dentro di noi e devono potersi esprimere liberamente.

    Soccorre anche inesorabilmente alla memoria, ed a modo di conclusione, un detto proprio della saggezza popolare calabrese: “Studia, studia, se no finisci a fare il Pubblico Ministero”.

  • L’Inquisizione fiscale e lo stato confessionale

    L’inquisizione rappresentava l’istituzione ecclesiastica creata per indagare attraverso un tribunale le teorie contrarie alla ortodossia cattolica. Con “soli” pochi secoli di ritardo il nostro Paese adotta ora, nel XXI secolo appunto, il medesimo principio della supremazia statale confessionale adottata in campo fiscale attualizzando metodi e tecniche simili a quelle dell’inquisizione ma sintonizzate con l’era digitale.

    Al processo del XVI secolo come strumento di indagine viene introdotto il monitoraggio di tutte le transazioni economiche anche per importi minimi attraverso l’applicazione di rilevazioni algoritmiche.

    Un controllo assolutamente invasivo effettuato ex ante, quindi non a seguito di una “notizia di reato” come in ogni democrazia ma semplicemente alla ricerca di una motivazione o quantomeno di un plausibile dubbio tale da giustificare la stessa indagine esplorativa.

    In altre parole viene meno il principio costituzionale basato sulla presunzione di innocenza del cittadino e quindi si adottata invece quello legato alla semplice ricerca di una potenziale eresia fiscale tale da giustificare la stessa. Prova di questo infausto declino della nostra democrazia verso uno stato confessionale del quale l’inquisizione fiscale rappresenta il braccio operativo va ricercata già nella terribile “riforma” introdotta dal ministro Tremonti il quale impose in ambito delle controversie fiscali l’inversione dell’onere della prova. Praticamente sull’eretico fiscale venne scaricato ogni onere di negazione della propria eresia fiscale.

    Così, ora, si obbliga il cittadino a dimostrare la propria innocenza invece di assegnare allo Stato, come avviene in ogni sistema democratico, il compito di dimostrare la sua colpevolezza in ragione della presunzione di innocenza.

    Questa sistematica e continua “medioevo-luzione” del sistema democratico italiano nasce dal furore ideologico di una parte degli esponenti politici e della stessa Sacra Inquisizione oggi rappresentata dai vertici della pubblica amministrazione, assolutamente intoccabile esattamente come le cariche ecclesiastiche.

    In questo contesto nessun valore viene attribuito alla conoscenza in quanto si ignora come la stessa evasione fiscale rappresenti esattamente un quarto rispetto agli sprechi della pubblica amministrazione (200 mld, fonte Cgia) la cui dilapidazione non suscita alcuna indignazione presso la classe politica.

    Non ancora sazi di questa invasione dello Stato, e di chi in suo nome opera nella privacy dei sudditi, ma sempre più motivati da un crescente ardore ideologico di stampo medievale nel 2022, in piena crisi economica, il governo in carica ha inserito un’altra alquanto folle norma alla già preoccupante evoluzione dell’economia pandemica: quella del limite all’uso del contante a 1.000 euro.

    Al di là dei risibili effetti che questa norma potrà avere nei confronti dell’evasione fiscale, la quale in buona parte risulta legata ad esterovestizioni di società italiane, in questo demenziale decreto governativo si prevede contemporaneamente per le persone provenienti dall’estero un limite di 15.000 euro all’uso dello stesso contante.

    Ancora una volta assistiamo all’ennesima dimostrazione di come lo Stato italiano consideri sempre e comunque i propri cittadini come dei veri sudditi fiscali.

    In ambito fiscale lo Stato confessionale disattende clamorosamente il principio di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge ponendo una discriminante in relazione alla residenza fiscale dei consumatori e, di conseguenza, con diversi limiti imposti.

    Sempre e solo per il vile denaro del quale uno Stato assolutamente irresponsabile risulta sempre più assetato, ci si è illusi di avere secolarizzato la nostra democrazia quando invece si è assistito ad una semplice sostituzione. Oggi il nostro Paese ha assunto i connotati di uno Stato Confessionale all’interno del quale la religione ha ceduto il posto ad un integralismo statocentrico di stampo Socialista incompatibile con qualsiasi forma di democrazia.

  • Una vera democrazia

    Uno Stato democratico deve tutelare le persone in quanto tali all’interno di sistema in continuo miglioramento. Per ogni fattispecie di reato nel codice penale vengono inserite le possibili aggravanti e le attenuanti generiche. Quando, invece, all’interno di una non meglio definita legislazione contro “i crimini d’odio” (definizione troppo vicina alla configurazione dei “reati di opinione”) ed altrettanto quando viene configurato un reato “specifico” come quello del femminicidio sulla sola base dell’appartenenza della  vittima ad uno specifico genere (femminile) in entrambi i casi  lo Stato propone una scelta che di per sé aggiunge una tutela in più rispetto ad un determinato genere ed automaticamente ne sottrae a tutti gli altri esclusi.

    In questo modo, invece di arginare un fenomeno terribile come quello dell’omicidio delle donne inasprendo le pene di omicidio e magari aumentando le risorse per il settore della giustizia, si preferisce introdurre “una specificità” attraverso un principio di disparità all’interno della legislazione nazionale punendo con maggiore durezza un reato in relazione al sesso di appartenenza della vittima. Di conseguenza, implicitamente, viene penalizzata una eventuale vittima del medesimo reato ma di sesso diverso per la sola “colpa” di non appartenere a quel genere al centro di un preoccupante fenomeno criminale.

    Ancora peggio quando si intendono introdurre nuove normative specifiche e contemporaneamente generiche contro i “crimini d’odio” in relazione alle legittime attitudini sessuali di ogni individuo qualora queste dovessero diventare oggetto di offesa.

    In questo modo lo Stato adotta ed introduce un ulteriore parametro di valutazione interpretativo (per altro demandato al giudice) in relazione non tanto ad una legittima gravità sociale già prevista dai codici quanto ad un giudizio arbitrario relativo alla tutela specifica a beneficio di determinati generi espressione di determinate attitudini sessuali. Un atteggiamento ed approccio storicamente perdente in quanto partirebbe dal principio in base al quale non riuscendo ad applicare la legge in modo da arginare un allarme e degenerazione sociale risulterebbe allora sufficiente aumentarne la pena per diminuirne l’allarme sociale.

    Viceversa, all’interno di uno Stato democratico e liberale non si considera la tutela della persona e della sua stessa vita in rapporto all’appartenenza ad uno specifico genere o, peggio ancora, ad una minoranza sociale definita solo sulla base delle proprie attitudini private e sessuali come la Lgbt: mai un ordinamento giuridico dovrebbe farne menzione in quanto sono di assoluta pertinenza privata legittimando di fatto una vera e propria ghettizzazione normativa.

    Come logica conseguenza la tutela, espressione specifica del genere sesso o di altre diverse attitudini sessuali, del singolo privato cittadino diventa automaticamente discriminante per i generi esclusi. In più nel nostro Paese, la cui gestione della macchina della giustizia risulta già ampiamente compromessa per la presenza di oltre centoundicimila (111.000) leggi, una norma che preveda una specifica aggravante in rapporto alle attitudini sessuali o l’appartenenza ad un genere rappresenta di per sé il venir meno del principio di uguaglianza, situazione ancora più evidente per i “reati d’odio”.

    Un principio democratico trae la propria massima forza dal riconoscimento esplicito di tutela per ogni singolo cittadino, quindi di qualsivoglia minoranza, indipendentemente dai connotati politici, sessuali o razziali assolutamente ininfluenti nella determinazione e nella applicazione del principio stesso.

    Una minoranza, sarebbe bene ricordarlo, è tanto più tutelata in un complesso sistema normativo quando all’interno del Codice Penale e civile non risultino presenti norme specifiche legate al “privato” e considerate come fattori caratterizzanti ed elementi distintivi. Qualora si intendesse inserire una tutela specifica sulla base di fattori che attengono alla vita privata, infatti, verrebbe meno l’essenza stessa dello Stato democratico e liberale declinando verso una entità pubblica la quale scegliendo delle protezioni specifiche aggiuntive introduce una propria valutazione anche in relazione all’allarme sociale del reato. In questo modo si inserisce un elemento di discriminazione sulla base dei comportamenti sessuali ed anche allora in un secondo momento della provenienza geografica o dell’etnia.

    La democrazia ha sicuramente dei costi, uno dei quali sicuramente viene rappresentato dall’atto di fiducia dei cittadini nei confronti dell’istituzione, consapevoli come sia sempre migliorabile e molto lontana dalla perfezione.

    Solo una vera Democrazia Liberale garantisce quindi la volontà di tutelare, anche se in modo imperfetto, le persone in quanto tali, senza distinzioni di sesso, etnia ed orientamento politico o sessuale.

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