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  • Fiscalità e necessaria inversione di paradigma

    Ha suscitato grande consenso la possibile adozione di una minimum tax (al 15%) che ogni paese potrebbe  applicare al fatturato prodotto da una multinazionale all’interno del proprio territorio. Un accordo che dovrà passare ad una valutazione complessiva nella successiva fase realizzativa in quanto, molto spesso, la discriminante non viene determinata tanto dalle  aliquote fiscali applicate all’utile di impresa quanto dalla base imponibile che ogni Nazione stabilisce con le proprie normative fiscali.

    La minimum Tax, tuttavia, affronta per la prima volta il problema di una omogeneità fiscale all’interno di un mercato globale con l’obiettivo implicito di depotenziare l’attrattività fiscale dei paesi a bassa tassazione anche all’interno della stessa Unione Europea. Si cerca di fatto di attenuare il dumping fiscale che sottrae risorse ai bilanci pubblici mentre si dimentica quello industriale privato, come applicazione, di una ideologia ancora dominante nella classe governativa.

    In pratica si cerca, anche senza ammetterlo, la disapplicazione o quantomeno il depotenziamento di quel  principio di concorrenza in materia fiscale tra Stati il quale, invece, ancora oggi, viene considerato insostituibile e “volano” di sviluppo a tutto vantaggio del consumatore nel settore privato.

    E qui emerge la contraddizione: un principio determina il valore dei propri effetti indipendentemente dal terreno di applicazione e va ricordato come nel settore pubblico la mancanza di concorrenza abbia  assicurato rendite di posizione ad aziende partecipate, a manager statali, regionali e comunali.

    E’chiaro quindi come il medesimo postulato della concorrenza non venga applicato nel perimetro delle  istituzioni pubbliche poiché costringerebbe le diverse classi politiche e dirigenti dei singoli stati a contenere e soprattutto a  migliorare la qualità della spesa pubblica basata su di un carico fiscale non soggetto ad aumenti arbitrari.

    Se veramente si volesse allentare il principio della concorrenza tra Stati nella capacità attrattiva di imprese economiche escludendo cosi la “fiscalità di vantaggio” questo verrebbe espresso in altri fattori di attrazione per investimenti, anche esteri, come il know how produttivo imprenditoriale e professionale unito alle opportunità offerte dalla pubblica amministrazione invertendo anche il paradigma fiscale.

    In questo rinnovato contesto sarebbe necessario fissare un’aliquota massima fiscale oltre la quale un governo non possa spingersi costringendolo ad ottimizzare le risorse disponibili ed eventualmente finanziarle con  un nuovo debito pubblico per le regole del mercato finanziario internazionale.

    In altre parole, se si considera corretto fissare un’aliquota minima nella tassazione dei redditi delle multinazionali allo stesso tempo sarebbe corretto individuare per legge, per esempio all’interno dell’Unione Europea, una aliquota massima al di sotto della quale uno Stato possa dimostrare la propria competenza nella ottimizzazione delle risorse e non ricorrere sempre all’utilizzo di una nuova tassazione come fonte inesauribile della spesa pubblica.

    In questo modo, poi, si otterrebbe il non secondario obiettivo di legare la disponibilità finanziaria che alimenta la spesa pubblica alla crescita del PIL costringendo l’intera classe politica e governativa ad indirizzare la propria azione solo verso questa unica  crescita.

    In oltre trent’anni di finanziamento della spesa pubblica attraverso l’aumento della pressione fiscale ed il dissennato ricorso al debito il reddito disponibile per italiani è diminuito del -3,4% a fronte di una crescita del +34,7% in Germania.

    Questo fallimento a dir poco epocale dovrebbe aprire un dibattito sul finanziamento e sulle  modalità della spesa pubblica, anche valutando quanto abbia influito nella irresponsabile esplosione della spesa pubblica improduttiva la tranquillità e sicurezza di ottenere sempre nuove risorse disponibili  attraverso l’aumento della pressione fiscale sulla quale tutta la classe politica negli ultimi trent’anni ha sempre potuto contare.

    In uno Stato democratico e liberale nel quale tutti si dichiarano preoccupati per l’eredità finanziaria da consegnare alle prossime generazioni la “inversione del paradigma fiscale” rappresenta l’unica soluzione per evitare una costante proliferazione della spesa stessa che, di conseguenza, costringe le classi governativa e dirigente ad operare per  la crescita del PIL con l’obiettivo di aumentare le risorse finanziarie finalizzate  alla attuazione dei punti programmatici come espressione di diverse strategie politiche.

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