televisione

  • In attesa di Giustizia: nuovi divi tv

    Se n’è accennato in questa rubrica la settimana scorsa: Nicola Gratteri, Procuratore della Repubblica di Napoli, avrà un suo programma televisivo su LA7. Un format tutto suo, in cui potrà “esprimere liberamente la sua visione della giustizia”.
    Qualche considerazione si impone perché non parliamo della comparsata ad un talk show bensì di un programma tutto suo.

    Gratteri non è un intellettuale, né un opinionista ma un funzionario dello Stato con poteri enormi: dirige le indagini, si avvale delle forze dell’ordine, esercita l’azione penale, dispone di strumenti che incidono sulla libertà, la reputazione, il destino giudiziario delle persone ed ogni sua parola, ogni giudizio espresso, può influenzare processi, orientare i media e condizionare l’opinione pubblica e non stiamo parlando di con una conferenza o di un’intervista, piuttosto di uno show personale, settimanale, su una rete – LA7 – che riesce a polarizzare il Paese perfino su pane e mortadella. Figuriamoci sulla giustizia.
    E allora la domanda è una sola: può un Procuratore della Repubblica diventare conduttore/coautore di un programma televisivo fisso? La risposta la offrono la deontologia e le precedenti censure del CSM sui magistrati in televisione: un secco no.
    Un Procuratore non è propriamente imparziale, è parte attiva nel processo, rappresenta l’accusa. La sua esposizione mediatica non è neutra, ma incide sulla percezione pubblica delle indagini, in più, Gratteri – quale Capo di un Ufficio – coordina altri magistrati ed investigazioni complesse e delicate. E’ forse questo l’esempio quando si dice che “il magistrato parla con gli atti”? Ancora un secco no.

    Un format tagliato su misura come un abito per un magistrato in servizio è una forzatura istituzionale, è la spettacolarizzazione della giustizia, è la resa definitiva della sobrietà a favore della ribalta: si può servire lo Stato con la toga oppure si può fare spettacolo e comunicazione, non entrambe le cose, meno ce mai contemporaneamente.
    Se Gratteri sognava di diventare, da grande, un conduttore televisivo, ha pieno diritto di realizzare l’aspirazione ma prima deve fare una cosa molto semplice: dimettersi dalla magistratura.

    Chi non vede il problema – che sia magistrato, avvocato o opinionista – o non ha compreso la gravità di ciò che accade, oppure spera che LA7 chiami anche lui.
    Torniamo alle regole deontologiche dell’Ordine Giudiziario: “Il magistrato deve mantenere la riservatezza e la sobrietà nel comportamento pubblico. Deve evitare situazioni che possano compromettere, anche solo in apparenza, la sua indipendenza e imparzialità. Deve astenersi da comportamenti che possano generare sospetti di promozione personale o utilizzo della funzione a fini mediatici. È tenuto a non interferire nel dibattito politico, né direttamente né indirettamente.”

    Non è una regola difficile da interpretare e non si può far finta che quanto sta accadendo sia normale.

    Perchè non lo è, nemmeno in Italia.

  • Tornare al rispetto deontologico di ogni professione e a quello dei vivi e dei morti

    In questi giorni molte trasmissioni televisive hanno parlato in modo particolare e reiterato del delitto di Garlasco e di quello di Trieste.

    Non facciamo né i magistrati né gli investigatori ma non possiamo esimerci dal sottolineare come in entrambi i casi vi siano state indagini poco approfondite, spesso superficiali o ritardate nel tempo, con deterioramento dei reperti di vario tipo, indagini assolutamente non complete sia per quanto riguarda l’aspetto tradizionale, controprova di alibi, spostamenti etc, sia per la parte delle indagini scientifiche.

    Mentre ancora si attendono notizie certe di colpevolezza per Trieste, e si attendono i nuovi accertamenti per Garlasco, l’attuale colpevole, a suo tempo condannato, è in carcere ma nuove indagini individuano altri indagati, con l’ipotesi che la vera storia possa essere diversa da come ci è stata raccontata, pensiamo ai famigliari delle vittime.

    Vedere praticamente ogni sera le numerose macchie di sangue di Chiara Poggi, dopo così tanti anni dalla morte, o il corpo impacchettato di Liliana Resinovich pensiamo debba procurare un dolore immenso ai famigliari e riteniamo che sarebbe possibile parlare dei delitti anche senza mostrare continuamente certe immagini.

    Il dovere di cronaca non può diventare una specie di macabra e continua illustrazione delle parti più cruente di questi omicidi.

    Siamo inoltre convinti che coloro che sono consulenti di parte non dovrebbero, contestualmente, rimanere ospiti, come tecnici fissi, di alcune trasmissioni nazionali, la confusione dei ruoli sembra essere una prerogativa dell’attuale società ma la confusione crea un vulnus alla corretta valutazione di ogni evento.

    In un periodo nel quale correttezza e rispetto per il dolore altrui sono banditi in nome dell’audience e della capacità di aumentare il numero di ascoltatori e lettori, mentre notizie vere e false si confondono creando sempre più confusione e malessere, in tutti i campi, vorremmo sperare che a qualcuno venga l’idea di tornare al rispetto deontologico di ogni professione e, specialmente, al rispetto umano degli altri, vivi e morti.

  • Mediaset ed il fragile equilibrio democratico

    Potrà anche sembrare sgradevole nei giorni appena successivi alla sua morte, ma il forte rialzo delle azioni Mediaset fa pensare a scenari allarmanti per il nostro Paese.

    Uno dei maggiori pericoli viene rappresentato dalla non remota possibilità di vedere ora svenduta l’azienda di Cologno Monzese a capitali francesi (*) (Ballore?) di fatto trasferendo, ancora una volta, il baricentro aziendale all’estero.

    Per qualcuno potrebbe rappresentare anche un aspetto secondario, tuttavia all’interno della nostra società, o meglio, di un sistema economico sociale e politico complesso fortemente esposto all’influenza dei canali tradizionali televisivi, in aggiunta a tutti i canali social, la perdita della proprietà di uno dei due tradizionali rappresenta un pericolo non secondario.

    Andrebbe, infatti, ricordato come la stessa imparzialità dell’informazione nel nostro Paese si regge, non tanto sull’espressione di una sistema mediatico equilibrato all’interno del quale gli editori si manifestano come indipendenti ed imparziali, quanto sulla sua imperfetta pluralità, perché ormai risulta evidente come tutte le testate giornalistiche e gli stessi telegiornali abbiano implicitamente esercitato una scelta di campo abbracciando interessi ed obiettivi politici dell’intero arco costituzionale.

    L’equilibro sostanziale, come inevitabile conseguenza, fino ad oggi è stato assicurato proprio dalla sola molteplicità di canali “informativi”, i quali con i propri contenuti esprimevano le più diverse interpretazioni di parte del singolo avvenimento. Un equilibrio forse insano, tuttavia l’unico possibile nella nostra società, ma che ora se l’azionariato di uno dei principali canali televisivi finisse in mani straniere probabilmente verrebbe infranto.

    Il sistema della comunicazione italiano, in ultima analisi, può rappresentare esso stesso una forma di certo impropria di Made in Italy ma la sua tutela dovrebbe rappresentare un aspetto e soprattutto un valore fondamentale della stessa democrazia.

    Valutare oggi le dinamiche azionarie di Mediaset rappresenta una forma, come lo stesso equilibrio che si intende mantenere, impropria ma necessaria con l’obiettivo di tutelare l’imperfetto asset democratico italiano.

    (*) La Francia intanto sta procedendo alla messa in sicurezza dei proprio asset energetico https://www.ilpattosociale.it/attualita/il-diverso-destino-di-italia-e-francia/

  • In attesa di Giustizia: Tu quoque

    Se ne è accennato in numeri precedenti di questa rubrica: è stato rafforzato, mediante il recepimento di una direttiva europea, il fondamentale principio della presunzione di innocenza che – tra l’altro – protegge l’accusato da «mediatiche sovraesposizioni deliberatamente volte a presentarlo all’opinione pubblica come colpevole prima dell’accertamento processuale definitivo». In tal senso si è già espresso il Giudice per le Indagini Preliminari di Milano, Fabrizio Filice, richiamando proprio la direttiva Ue n. 343 del 2016, per escludere che i giornalisti, che nel 2015 avevano epitetato come «taroccato», «una patacca» il video in cui veniva mostrato il furgone bianco di Massimo Bossetti che girava intorno alla palestra di Yara Gambirasio, avessero diffamato il capo dei RIS di Parma che aveva querelato tutti sparando ad alzo zero.

    Eppure, si trattava di un dato oggettivo: il video era una ricostruzione priva di scopo probatorio, realizzata a fini comunicativi (o, meglio: suggestivi), tanto da non rientrare nemmeno negli atti del (vero) processo; tuttavia fu ampiamente diffuso anche per tramite le numerose trasmissioni televisive che si interessano di cronaca giudiziaria.

    «I video del furgone di Bossetti sono adattati per la stampa», così, Luca Telese in un articolo su Libero criticando un processo mediatico che precedeva e surrogava il processo penale: e quel video era in effetti altamente incriminante, sebbene fosse stato confezionato ad hoc montando frame di molteplici furgoni simili a quello di Bossetti al fine di rispondere alle pressioni mediatiche e dare in pasto ai giornalisti – e all’Italia intera – un perfetto mostro da copertina.

    Dall’epoca dei plastici con la villetta della Franzoni montati in studio da Bruno Vespa, i processi vengono ormai celebrati in parallelo fuori dalle aule del Tribunale con totale mancanza di garantismo nei confronti dell’imputato che viene presentato e, spesso, implicitamente giudicato come presunto colpevole con modalità da Festival di San Remo. Il video confezionato ad arte non è altro che la ciliegina sulla torta di un sistema malato che ha portato una Procura a relazionarsi coi media in modo poco trasparente nei confronti dell’opinione pubblica (cioè quel Popolo Italiano in nome del quale viene amministrata la Giustizia), e sicuramente scorretto nei confronti delle parti in causa.

    Del tutto condivisibile la critica fatta dai giornalisti: serviva, forse, pressione popolare per avere un percorso spianato davanti alla Corte di Assise? Di certo se l’intento era quello di creare un colpevole perfetto può dirsi pienamente raggiunto.

    Ora, vi è da sperare, tramite il recepimento alla Direttiva UE n. 343 del 2016, attuato pur con agio di cinque anni, che l’Italia potrà e dovrà impedire il ripetersi di uno scempio simile…che non è l’unico esempio che si può portare ma solo il più clamoroso e recentemente valutato.

    E ripensando all’origine e allo sviluppo di questa vicenda viene alla mente quando Cesare, in punto di morte, disse: “tu quoque Brute fili mi”.

    I giornalisti, proprio loro che normalmente sono i principali alleati di certe Procure nell’alimentare il processo mediatico in funzione degli interessi dell’impresa editoriale, e gli inquirenti che tendono ad assicurarsi visibilità ed influenzare il giudizio, questa volta sono i protagonisti inconsapevoli della valorizzazione della presunzione di innocenza.

    Un processo, quello deciso dall’ottimo Giudice Filici, che si conclude giustamente senza colpevoli ma – per altro verso – anche impunemente: infatti nè gli investigatori nè la Procura di Bergamo saranno mai chiamati a rispondere di quella che viene definita eufemisticamente una scorrettezza.

    Bossetti, ormai, è colpevole fino a prova contraria e può essere che quel video non abbia contribuito più di tanto alla sua condanna: il percorso che deve seguire la Giustizia degli uomini, però, è sicuramente un altro. Restiamo in attesa, forse in futuro andrà meglio.

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