Trump

  • Cina e Ue provano a superare la reciproca diffidenza per fare più business

    Ue e Cina si trovano sempre più alleate nel voler sostenere il multilateralismo nelle relazioni internazionali, spinte anche dall’unicameralismo di Donald Trump, ma tra di loro persiste mancanza di fiducia. Ue e Cina potrebbero lavorare insieme per raggiungere gli obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite, una serie di obiettivi fissati nel 2015 per prevenire la povertà e cambiamenti climatici e affrontare la salute, l’istruzione, i servizi igienico-sanitari, l’energia e la giustizia sociale nei paesi in via di sviluppo. A fronte della linea “America First» proclamata da Trump, la Cina ha iniziato a dipingersi come difensore del multilateralismo e del commercio basato su regole globali e l’Ue ha incoraggiato Pechino a ricoprire un ruolo centrale nella lotta al protezionismo, insistendo sulla necessità di una riforma per essere equa nei confronti degli investitori e dei commercianti europei. La Cina è la principale fonte di importazioni dell’Ue e il suo secondo mercato di esportazione (Cina ed Europa si scambiano in media oltre un miliardo di euro al giorno). L’ambasciatore cinese Zhang Ming ha detto che «lo sviluppo sostenibile sarebbe fuori questione senza una solida ripresa economica e un commercio basato su regole e un ambiente di investimento. L’attuale ambiente per lo sviluppo non è sufficientemente resiliente e non può permettersi atti spericolati di unilateralismo e protezionismo. Dobbiamo sostenere con fermezza il sistema multilaterale di scambi che è libero, aperto e non discriminatorio e combattere il protezionismo in qualsiasi forma o sotto qualsiasi pretesto: la Cina e l’Ue hanno una responsabilità comune in questo senso». Ed ha aggiunto che Pechino è pronta a «intensificare il dialogo» in materia di protezione ambientale, energia pulita ed economia circolare (in base alla quale più materiali vengono riciclati e riutilizzati nei prodotti).

    Il vicepresidente della Commissione europea Jyrki Katainen ha convenuto che l’Ue e la Cina devono rifiutare l’unilateralismo ma ha insistito sulla necessità di «sostenere i valori democratici a casa, lo stato di diritto». Affermando che Ue e Cina «devono promuovere un ordine aperto, fondato sulle regole e leale», Katainen ha spiegato che «ciò significa che dobbiamo sostenere l’OMC [Organizzazione mondiale del commercio], ma anche aggiornare le sue regole – ad esempio negoziando nuove regole sui sussidi – per combattere le sovraccapacità e promuovere condizioni di parità».

    La sovraccapacità cinese nell’acciaio e le sue esportazioni a basso costo sono state attribuite alle nuove tariffe statunitensi introdotte da Trump, nonostante la riluttanza dell’amministrazione statunitense ad affrontare la questione accanto ai suoi alleati europei – piuttosto che introdurre tariffe punitive unilaterali. Un osservatore del commercio con sede in Svizzera, Global Trade Alert, ha tuttavia avvertito che il concetto di eccesso di capacità globale, comunemente citato contro la Cina, è esagerato come giustificazione per il protezionismo statunitense.

    Ma l’eccesso di capacità non è l’unico problema che riguarda l’Ue. Gli investitori europei sono preoccupati per gli ostacoli cinesi. Nel 2016, gli investimenti cinesi verso l’Ue sono saliti al livello record di quasi 40 miliardi di euro, mentre gli investimenti dell’Ue in Cina sono scesi a un minimo da 10 anni inferiore a 8 miliardi di euro. La questione dovrebbe essere affrontata nell’ambito dell’accordo di investimento Ue-Cina, in corso di negoziazione dal 2013. «Dobbiamo anche garantire più apertura reciproca l’uno verso l’altro – ha detto Katainen – La Cina ha ancora molte barriere agli investimenti stranieri e ha ripetutamente annunciato che li revocherà: è importante che tali riforme vengano attuate e che ciò sia sancito da un ambizioso accordo bilaterale di investimento».

  • Cibo, tecnologia, sfida ai cambiamenti climatici: il futuro del pianeta secondo John Kerry

    Inizia con l’omaggio a Leonardo da Vinci, al suo genio e alla sua grande attualità l’intervento dell’ex Segretario di Stato americano John Kerry a Seeds&Chips – The Global Food Innovation Summit al MiCo di Milano. Un riferimento non casuale perché ogni parola di Kerry è un elogio e un invito a fidarsi della scienza, come una volta, perché non sbaglia e può aiutare tutto il pianeta a vivere meglio. In un mondo che si muove molto velocemente c’è bisogno di soffermarsi sui fatti per potersi riappropriare delle basi della realtà. “So che ci sono molti demagoghi  che fanno appello alle paure delle popolazioni ma la soluzione è credere in quello che si può fare, come ha fatto l’Europa alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Avete l’unità e avete la possibilità di andare avanti più degli altri, ma il mondo politico vuole spezzare questa coesione e vi vuole separare. Alcuni dicono che l’ordine liberale stia crollando, io non ci credo, abbiamo bisogno di questo ordine più che mai e quindi dobbiamo essere uniti e lottare”. Uno sguardo all’attualità più contingente e una frecciata chiara e diretta all’attuale Presidente Donald Trump che in più occasioni, rifiutando gli accordi di Parigi, ha dichiarato come puntare sulle energie alternative in difesa dell’ambiente possa influire negativamente sull’economia. Una falsità per Kerry perché quell’ambiente che lui si è impegnato a difendere in prima persona lavorando alla stesura prima e firmando poi gli accordi sul clima a Parigi nel 2015 ha bisogno di tutti noi. “Le idee viaggiano più velocemente dei governi e purtroppo solo i più privilegiati traggono benefici. A Parigi abbiamo fatto una scelta, 196 Paesi si sono impegnati ad intraprendere un cammino verso la sostenibilità. Se non interveniamo ci sarà la corsa all’acqua, ci saranno persone costrette a scappare a causa del cambiamento climatico, rivoluzioni perché la gente si sta rendendo conto che la globalizzazione non ha portato e continua a non portare benefici”. Per questo sottolinea quanto il mercato dell’energia sia fondamentale. “Tutto ciò che dice Trump non è vero. Negli ultimi anni si stanno stanziando risorse per le energie rinnovabili, il mercato dell’energia deve fornire da 4 a 5 miliardi di utenti, è un mercato da trilioni di dollari,tre quarti dell’elettricità negli Usa lo scorso anno veniva dal solare e negli Stati Uniti 38 Stati hanno già varato standard per il nuovo futuro energetico. Trump potrà essere contrario ma gli americani sono favorevoli al cambio dell’energia”.

    E la sostenibilità passa anche, o forse, soprattutto, dall’uso razionale del cibo malamente distribuito e, sempre più spesso, un bene poco rispettato. “Abbiamo delle sfide globali – continua Kerry – che richiedono la comprensione scientifica minima e che devono essere affrontate subito. Una delle verità con cui dobbiamo fare i conti è rappresentata dai problemi creati dagli esseri umani visto che 1 persona su 9 si sveglia al mattino affamata. Quasi la metà delle morti neonatali è legata alla malnutrizione: 8mila bambini muoiono ogni giorno perché non hanno cibo a sufficienza e intanto la popolazione continua ad aumentare. Tutto questo non è sostenibile. Dunque la sfida è quella di garantire cibo sano per tutti”. Necessario perciò ripensare a tutta la catena alimentare e alla sua difesa, perché accrescere la quantità del cibo è solo una parte del progetto che non risolve il problema, bisogna piuttosto saper conservare il cibo. “Ne buttiamo via quasi quanto ne comperiamo, un terzo del cibo viene buttato via prima che venga mangiato… Non un Paese rispetta i principi della Creazione! Ottenere più cibo solo dalle nostre risorse non è la soluzione, basta pensare alla pesca irregolare: sprechiamo risorse e tempo per pescare il poco pesce che ci rimane. E noi politici dobbiamo riprenderci il mandato che gente ci ha dato!”. Per questo il Senato americano si è impegnato con azioni concrete, come la costituzione di una ampia riserva marina, un esempio seguito dal Cile e dall’Unione europea. E tanti sono i Paesi che si stanno attivando per difendere gli Oceani diventati, per indifferenza e pessime abitudini, una discarica pullulante di plastiche e rifiuti di ogni genere. Sostenibilità per Kerry significa creare una nuova consapevolezza imparando ad usare e diffondere sempre più l’uso di prodotti ecosostenibili e biodegradabili. E a questa sfida sono chiamati a partecipare anche i privati.

    Non poteva mancare uno sguardo all’attualità in vista della scelta del Presidente Trump di revocare gli accordi sul nucleare con l’Iran. “Ritirarci dall’accordo con l’Iran è assolutamente illogico. Il Presidente dice che è un pessimo accordo, ma sfido chiunque a trovarne uno migliore, questo accordo tutela noi e il mondo. La regione medio orientale è al sicuro e anche Israele e spero che il Presidente sia saggio abbastanza nella sua decisione. Uscendo dai patti l’Iran potrebbe non rispettare più gli impegni ”. Secondo Kerry l’Iran oggi non è in grado di costruire una bomba atomica, perché è impossibile farlo con 300 chili di materiale nucleare. Tale certezza è dovuta alla presenza in Iran di 130 ispettori che ogni giorno fanno ispezioni sul territorio. “Abbiamo trasmissioni radio sui reattori e sulle installazioni di produzione, abbiamo una tracciatura completo del reattore, dalla culla alla tomba. E abbiamo ispezionato tutti gli aspetti dell’arricchimento dell’uranio iraniano. L’Iran sta vivendo in maniera responsabile l’accordo, perché noi dovremmo ritirarci?”. Pragmatico e forte della sua esperienza in Vietnam e dei tanti, troppi errori che sono scaturiti da guerre in cui gli USA sono scesi in campo da protagonisti e memore dei quarantennali rapporti astiosi tra Washington e Teheran è convinto che prima di ricorrere alle armi sia sempre necessario conoscere un Paese, usare la diplomazia e chiedersi quali siano i suoi fabbisogni. E conclude con un monito: “Credete nel futuro, nel vostro potenziale e nell’avere un impatto sulle forze politiche perché siete voi gli elettori del mondo. Ogni volta che lottiamo contro le ingiustizie costruiamo una corda verso la speranza. Come ci ricordò Bob Kennedy di ritorno dal Sud Africa negli anni ’60 ‘lo spirito dell’essere umano è sempre teso verso la ricerca della libertà”.

  • US’ EPA says Obama-era emissions standards for cars too high

    Under Pruitt’s leadership, the EPA is still examining the California waiver

    Heightening the tension between the administration of US President Donald Trump and the State of California, Environmental Protection Agency (EPA) chief Scott Pruitt is expected to announce the completion of a Midterm Evaluation (MTE) process for greenhouse gas (GHG) emissions standards for cars and light trucks for 2022-2025 models.

    Pruitt is expected to reveal that in light of recent data, the current standards are not appropriate and should be revised, the EPA said in a press release on April 2. “The Obama Administration’s determination was wrong,” Pruitt said in the press release. “Obama’s EPA cut the Midterm Evaluation process short with politically charged expediency, made assumptions about the standards that didn’t comport with reality, and set the standards too high,” Pruitt argued.

    The move is also expected to cause a reaction from the European Union, which has spearheaded efforts to curb CO2 emissions and has criticised Trump’s plans to pull out of the Paris Climate Accord. The EU has also said it plans to boost its cooperation with the US states and industries that share Brussels’ climate change objectives and plans to cut C02 emissions.

    Under the Clean Air Act (CAA), the EPA sets national standards for vehicle tailpipe emissions of certain pollutants. Through a CAA waiver granted by the EPA, California can impose stricter standards for vehicle emissions of certain pollutants than federal requirements, the EPA said, noting that under Pruitt’s leadership, the Agency is still examining the California waiver. “Cooperative federalism doesn’t mean that one state can dictate standards for the rest of the country,” Pruitt said, adding that the EPA will set a national standard for greenhouse gas emissions that allows auto manufacturers to make cars that people both want and can afford — while still expanding environmental and safety benefits of newer cars. “It is in America’s best interest to have a national standard, and we look forward to partnering with all states, including California, as we work to finalise that standard,” Pruitt said.

  • Storie di spie e di influenze

    Dove men si sa, più si sospetta

    Niccolò Machiavelli

    Domenica scorsa si sono svolte le elezioni presidenziali in Russia. Vladimir Putin ha vinto il suo quarto mandato presidenziale con un significativo risultato di 76,6% e con un’affluenza alle urne di circa 67% degli aventi diritto. Una sfida per Putin, che ha superato se stesso, riferendosi alle precedenti elezioni. Ma anche perché il suo avversario, l’oppositore Aleksei Navalny, il quale non poteva candidarsi a causa di una sua precedente condanna, ha chiesto ai suoi sostenitori di boicottare le elezioni. L’opposizione russa e alcune organizzazioni non governative hanno denunciato dei brogli, che sono stati considerati come non significativi da parte della Commissione Centrale Elettorale. Un risultato che rispecchia l’attuale realtà russa. Realtà che per molti noti analisti e opinionisti, nonché per i rappresentanti delle cancellerie occidentali e delle specializzate istituzioni internazionali, merita serie riflessioni e la massima attenzione. Soprattutto adesso, in un periodo in cui si stanno sviluppando diversi intricati scenari internazionali. Con la certezza dell’esito delle elezioni, Putin ha parlato davanti ai suoi sostenitori a Piazza del Maneggio, fuori dal Cremlino. Riferendosi al risultato raggiunto, lui vedeva “…il riconoscimento per quello che è stato fatto negli anni recenti, in condizioni molto difficili, vedo – ha aggiunto – la fiducia e la speranza del nostro popolo, che lavoreremo allo stesso modo duramente, responsabilmente e in modo più efficiente”.

    Le elezioni in Russia si sono svolte in un periodo durante il quale si stanno appesantendo le accuse reciproche tra la Gran Bretagna e altri Paesi occidentali e la Russia stessa. Il motivo è l’avvelenamento di una spia russa e di sua figlia. Accadeva il 4 marzo scorso a Salisbury, in Gran Bretagna. Si presume che i servizi segreti della Russia abbiano usato una sostanza chimica, chiamata Novochok, un agente nervino. Le reazioni da parte dei più alti livelli della politica internazionale sono state immediate e forti. La premier britannica Theresa May dichiarava il 7 marzo scorso in Parlamento che “…è altamente probabile che Mosca sia responsabile del tentato omicidio di Serghej Skripal nel centro di Salisbury”. Ferma è stata la May, anche riferendosi al futuro dei rapporti con la Russia, dichiarando “…mai più affari come al solito [business as usual; n.d.a.] con la Russia!”. Il 13 marzo scorso la stessa premier May ha chiesto alla Camera dei Comuni severe misure nei confronti della Russia, mentre il segretario agli Esteri britannico, Boris Johnson, ha accusato il Cremlino, dichiarando che l’avvelenamento di Salisbury “…è un modo per dire alle persone: ecco cosa succede a opporsi al nostro regime”. In seguito sono arrivate anche le decisioni, sia della Gran Bretagna prima, che della Russia subito dopo, dell’espulsione di 23 diplomatici russi dall’Inghilterra e di altrettanti diplomatici britannici dalla Russia. Nel frattempo a fianco della Gran Bretagna si sono schierati la Francia, la Germania, gli Stati Uniti e altri Paesi europei. Trump firma insieme con Macron, Merkel e Theresa May una dichiarazione che accusa Mosca di aver “…avvelenato con gas nervino l’ex spia russa Sergej Skripal e la figlia Yulia a Salisbury” il 4 marzo scorso.

    Da mesi ormai negli Stati Uniti d’America i massimi vertici politici e non solo si stanno accusando a vicenda di coinvolgimento in quello che è stato chiamato “Russiagate”. Si tratta di presunte influenze dei servizi segreti russi nelle elezioni presidenziali staunitensi dell’8 novembre 2016. Ma si parla anche di altre interferenze e di rapporti occulti, tra alti esponenti politici del Cremlino e dei servizi russi, con delle persone molto vicine, sia del presidente Trump, che di Hillary Clinton, sua rivale alle ultime elezioni del novembre 2016. Sullo scandalo “Russiagate” sta indagando da mesi anche il procuratore speciale Robert Mueller. Indagini che continuano, mentre tutti attendono l’esito. Nel frattempo però, la Commissione per i Servizi di Intelligence del Congresso statunitense, riferendosi sempre allo scandalo delle influenze russe, ha dichiarato il 12 marzo scorso che “…non è stato trovato nessun fatto o prova che poteva dimostrare l’interferenza russa nella campagna [elettorale] di Trump e, perciò, la fase delle domande in questa indagine è stata conclusa”. Sempre nello stesso ambito, la scorsa settimana il segretario del Tesoro statunitense accusava i vertici dei servizi segreti militari russi di “…aver inquinato la campagna elettorale del 2016” e di “…aver condotto attacchi informatici devastanti contro infrastrutture strategiche degli Stati Uniti”. Ma allo stesso giorno il procuratore speciale Mueller imponeva alla “Trump Organization” di consegnare tutti i documenti che, in qualche modo, potrebbero essere collegati con le influenze russe. Ovviamente che il caso continuerà ad essere sotto inchiesta negli Stati Uniti, fino ad un definitivo chiarimento di quanto sia veramente accaduto.

    In Albania, da più di una settimana, alcuni media controllati dal primo ministro, nonché la propaganda governativa e alcuni alti rappresentanti del partito socialista al potere, stanno accusando il partito democratico, il maggior partito dell’opposizione, di pagamenti illeciti per un’attività lobbistica negli Stati Uniti d’America. Attività avviata nel marzo 2017 e che avrebbe mirato all’appoggio dell’amministrazione Trump al partito democratico albanese e al suo capo, durante le elezioni politiche del giugno 2017. Sono state rese pubbliche anche le copie di alcuni contratti, pubblicati da una rivista dell’ultra sinista statunitense, finanziata anche da George Soros, un noto sostenitore politico e non solo, dell’attuale primo ministro albanese. Secondo la propaganda governativa, in quei contratti ci sarebbero degli occulti appoggi finanziari russi per influenzare gli sviluppi politici in Albania. Sempre e ovunque i russi! Una buona scelta per attirare e/o spostare l’attenzione. Naturalmente si tratta di un caso che, se risultasse vero, sarebbe uno scandalo e un grave colpo per l’opposizione albanese. Ma ovviamente saranno le indagini della procura e il tribunale, senza “condizionamenti” dal governo, a valutare e giudicare la veridicità delle accuse sopracitate. E non certo la propaganda governativa e i media controllati del primo ministro. Anche perché quest’ultimo sta passando un brutto periodo, dopo tanti scandali resi noti pubblicamente che lo coinvolgerebbero direttamente, almento per responsabilità istituzionali. Gli sviluppi del caso, a tempo debito, saranno oggetto di altre analisi.

    Chi scrive queste righe valuta, però, che sono non poche le incongruenze legate alle sopracitate accuse. Ma lui è altrettanto convinto che l’opposizione, invece di pagare ingenti somme per delle attività lobbistiche, che come risultato hanno una fotografia con il presidente degli Stati Uniti, potrebbe fare ben altre cose per essere veramente un’opposizione convincente. Finora e da qualche tempo, purtroppo, non lo sta facendo. Chi gode di tutto ciò è il primo ministro e il “mondo di mezzo” che gli sta attorno.

  • La guerra dei dazi: il doppiopesismo europeo

    Nel 2017 gli Stati Uniti hanno presentato un saldo commerciale negativo per oltre 566 miliardi di dollari, di questi 375 miliardi solo con l’economia cinese. Al di là delle ragioni storiche legate soprattutto alla politica di delocalizzazione produttiva seguita in modo cieco e miope fin dagli anni settanta da tutte le amministrazioni precedenti a quella di Trump, risulta evidente che tale asset  economico statunitense non sia più sopportabile per l’amministrazione americana. Una delle strategie  adottate già all’inizio del 2017 venne individuata anche nelle politiche attive a sostegno di un incremento delle esportazioni. In questo contesto l’Unione Europea decise, sempre nel 2017, di bloccare le importazioni di carne statunitense. Tale blocco (al di là delle polemiche relative all’utilizzo di estrogeni o steroidi negli allevamenti americani) di fatto contraddice in modo evidente la politica tanto dichiarata di apertura dei mercati come dei flussi commerciali e finanziari da parte dell’intera classe dirigente ed economica europea.

    In quell’occasione Trump promise, o meglio minacciò, di introdurre dei dazi a seguito dell’impossibilità di esportare la propria carne all’interno dei mercati europei attraverso l’adozione di dazi ed in particolare per l’acqua minerale francese Perrier e l’italiana Vespa. In quel contesto Colaninno, patron della Piaggio, fece spallucce indicando  nella possibilità di esportare negli Stati Uniti la Vespa direttamente dal proprio stabilimento del Vietnam aggirando in questo modo i dazi imposti ai prodotti europei. A tal proposito è opportuno ricordare come lo stabilimento della Piaggio in Vietnam sia costato l’eliminazione dei dazi sul riso basmati vietnamita decisa dal governo Renzi nel 2015 per rendere possibile l’investimento in Vietnam. Un modo politico del governo in carica che ha fatto pagare all’eccellenza della risicoltura italiana un investimento di un privato imprenditore in terre straniere.

    Successivamente Trump, sempre per seguendo la politica di un riequilibrio dei flussi commerciali, all’inizio 2018 ha annunciato la possibilità di introdurre dei dati per l’alluminio cinese. In questo caso abbiamo assistito ad  un levare di scudi da parte del mondo accademico europeo come delle stesse massime autorità politiche dell’Unione e dei grandissimi economisti italiani i quali hanno visto in questa decisione un ulteriore attacco al mercato libero ed una esplicita applicazione della filosofia della nuova amministrazione americana definita con “American First”.

    Immediatamente è stata avanzata l’ipotesi, con l’appoggio di tutto il sistema dei media e di tutti i giornali italiani e internazionali, di  adottare dei dazi i Levi’s o le moto Harley-Davidson come contromossa politica ed economica. Una reazione scomposta anche perché successiva

    all’introduzione di un dazio relativo ad un prodotto cinese che non ha nulla a che fare con l’economia europea. Tale reazione assolutamente fuori luogo dimostra essenzialmente l’incapacità di leggere l’economia globale come indicatrice di un delirio e di un declino culturale che investe la classe dirigente europea ed italiana in particolare.

    Il sistema industriale cinese, in particolare quello dell’alluminio come dell’acciaio, sta vivendo un prolungato periodo contrassegnato da una sovracapacità produttiva legata a un rallentamento del mercato interno cinese e alla lunga crisi internazionale. Questa sovracapacità produttiva all’interno di un’economia avanzata come quella europea o statunitense porterebbe ad una politica di riconversione industriale e chiusura dei centri produttivi obsoleti e non più strategici come viene spesso indicato per quel che riguarda la sovracapacità produttiva nel mondo automobilistico.

    Viceversa, l’economia cinese ha deciso di inondare il mercato occidentale con dei prodotti assolutamente sottocosto, quindi espressione di un dumping, con l’obiettivo esclusivo di assicurarsi i volumi che permettono il raggiungimento del break even point degli impianti cinesi.

    In altre parole, la propria sovracapacità produttiva cinese invece di essere oggetto di una riconversione industriale all’interno del mercato cinese viene scaricata e così fatta  pagare ai lavoratori delle imprese dell’alluminio e dell’acciaio i quali si vedono spiazzati da  questa concorrenza sleale da parte di una economia che scarica le proprie inefficienze sui mercati mondiali.

     

    La scelta dell’amministrazione statunitense risulta quindi assolutamente giustificata in quanto non possono risultare le aziende ed i lavoratori statunitensi a pagare la sovracapacità produttiva cinese.

    Tornando invece alla scomposta reazione europea le considerazioni conseguenti non possono che essere tristi ed amare e riguardano due aspetti sempre di questa reazione ridicola.

    La prima riguarda essenzialmente la miopia della stessa Unione la quale ad un’azione finalizzata alla tutela del lavoro statunitense nei confronti di una economia terza (cinese) si inserisce senza neppure risultare coinvolta, minacciando per di più l’introduzione di dazi sui prodotti finiti. Un’azione che penalizzerebbe l’intera filiera produttiva in quanto adottata a valle della stessa e che coinvolgerebbe tutto un sistema industriale che partecipa alla realizzazione di un prodotto complesso, come ormai risultano essere tutte le diverse tipologie di beni di consumo, arrecando perciò un danno economico diffuso ad un sistema industriale e non più ad un singolo settore.

    Infine, sempre in relazione all’attività dell’Unione europea, l’ultima considerazione risulta  sicuramente quella più grave e che ridicolizza la stessa posizione europea, dimostrandone l’assoluto doppiopesismo.

    Risulta sufficiente ricordare infatti come solo cinque (5) mesi fa l’Unione Europea abbia introdotto dei dazi dal 29,2 al 54,9% sull’acciaio cinese per gli stessi motivi che hanno spinto, o meglio stanno spingendo, l’amministrazione americana all’introduzione di dazi sull’alluminio cinese. Quella decisione nell’ottobre 2017 non suscitò alcuna reazione da parte di quei dotti economisti, come dei giornalisti economici o del mondo accademico a tutela dei principi del libero mercato, come invece si registra attualmente in occasione della scelta di Trump. Un comportamento assolutamente ambiguo che coinvolge l’intera classe dirigente politica ed economica europea ed evidenzia ancora una volta come la disonestà intellettuale alberghi tanto all’interno della Unione Europea quanto nella mente di accademici che non ricordano quanto successo solo cinque mesi addietro.

    Dazi e principi economici non possono venire  utilizzati a proprio uso e consumo e soprattutto per assecondare comportamenti e convenienze politiche. Tutto questo dimostra una disonestà intellettuale, libera espressione di un declino culturale ormai inarrestabile.

  • Washington doubles down on arms support to Kurdish allies in Syria

    The Donald Trump administration is doubling support for the Syrian Democratic Forces (SDF), including their Kurdish allies.

    Washington and Ankara have long been at loggerheads over their Syrian policy, with Washington prioritising the fight against IS. The aim of Washington’s increased support is to ensure SDF can hold on to territory in the Euphrates valley, gained from IS.

    Ankara treats local YPG Kurdish fighters as a Syrian branch of PKK. Last week Turkey reiterated its demand for Washington to renounce the Kurdish YPG force; Ankara is proposing to fill the power vacuum with Turkish and US troops.

    However, the Pentagon’s military aid focuses on assault rifles rather than heavier armament and vehicles. According to Al-Monitor, Syrian opposition forces – including the Kurdish fighters – expect to receive 25,000 AK-47s, that is, the Russian-made weapon of choice for irregular troops worldwide.

    The weapons cache will be sourced from the Czech Republic, Bulgaria, and Bosnia but will not include anti-tank missiles. In fact, Washington is planning to withdraw heavy vehicles and artillery and is cutting down on the supply of grenade launchers.

    During the recent meeting between the Turkish Foreign Minister Mevlut Cavusoglu in Ankara, Secretary of State Rex Tillerson pledged to coordinate more closely with the Turks in Syria.

    The US Defense Department is planning a 65,000-strong force, made predominantly of Arab opposition fighters. However, there are also unconfirmed reports of a Kurdish YPG force of 30,000 veterans.

  • Trump fa scuola: la Ue rende definitivi i dazi sull’acciaio cinese

    La Commissione europea ha imposto dazi anti-dumping definitivi sull’acciaio anticorrosione originario della Cina dopo aver appurato che i produttori cinesi praticavano il dumping del prodotto sul mercato dell’Ue (conclusione che aveva già portato all’imposizione di dazi provvisori ad agosto 2017). I dazi che saranno applicati nei prossimi 5 anni variano dal 17,2% al 27,9%.

    L’acciaio anticorrosione è utilizzato principalmente nell’industria edilizia, per l’ingegneria meccanica, nella produzione di tubi saldati e nella fabbricazione di elettrodomestici. Il valore del mercato dell’Ue di questo prodotto è stimato in 4,6 miliardi di euro e la quota di prodotto originario della Cina è del 20%.

    Le misure adottate contrastano la pressione al ribasso sui prezzi di vendita, fonte di problemi finanziari per i produttori dell’Ue basati principalmente in Belgio, Francia, Polonia e Paesi Bassi. L’industria siderurgica è fondamentale per l’economia dell’Unione, occupa una posizione centrale nelle catene globali del valore e impiega centinaia di migliaia di cittadini europei. Negli ultimi anni l’eccedenza di capacità produttiva di acciaio a livello mondiale ha fatto calare i prezzi a livelli insostenibili, con ripercussioni dannose sul settore, sulle industrie collegate e sull’occupazione. L’Ue sta quindi sfruttando tutte le potenzialità dei suoi strumenti di difesa commerciale per garantire ai suoi produttori condizioni di parità e la capacità di mantenere posti di lavoro nel settore.

    Attualmente sono in vigore 53 misure sui prodotti siderurgici, di cui 27 su quelli originari della Cina. A marzo 2016 la Commissione ha pubblicato una comunicazione che illustrava le misure a sostegno della competitività dell’industria siderurgica dell’UE; un maggiore utilizzo degli strumenti di difesa commerciale era uno dei pilastri della strategia. La Commissione ha anche partecipato al Forum mondiale sull’eccesso di capacità produttiva di acciaio, che nel novembre scorso ha approvato un ambizioso pacchetto di soluzioni strategiche concrete per affrontare la pressante questione dell’eccesso di capacità produttiva globale del settore. Il regolamento è disponibile nella Gazzetta ufficiale dell’Unione europea.

  • US Independence

    Da anni ormai, come per il fenomeno fisico della deriva dei continenti, le sponde dell’ Oceano Atlantico  i due sistemi politico /economici europeo e statunitense sembrano allontanarsi, sempre meno sintonizzati ed in linea con obbiettivi e strategie per raggiungerli.

    Trovo incredibile lo stupore unito spesso al disappunto con il quale vengono giornalmente commentate e criticate le scelte strategiche non solo in ambito economico  di Trump, come nell’ultimo episodio dell’annuncio del trasferimento dell’Ambasciata Americana da Tel Aviv a Gerusalemme in quanto  riconosciuta capitale dello Stato di Israele. Un riconoscimento che venne  approvato  dal congresso americano nel 1995 durante l’amministrazione Clinton per altro. La tempistica scelta dall’attuale presidente sicuramente può anche risultare opinabile ma contemporaneamente rende evidente come gli Stati Uniti, e non il solo presidente Trump, si muovano in un modo assolutamente indipendente da accordi internazionali e soprattutto senza preoccuparsi degli effetti che possano verificarsi negli scenari complessi e articolati che caratterizzano la politica estera nei diversi continenti.

    La incapacità di comprendere le nuove dinamiche economiche e politiche degli Stati Uniti emerse evidente già durante la campagna elettorale per le presidenziali statunitensi ed in particolare successivamente all’elezione dell’attuale Presidente Trump. Ad elezione avvenuta infatti venne chiesto al premio Nobel per l’economia Paul Krugman quando e come si sarebbero ripresi i mercati a seguito della possibile elezione di Donald Trump.

    Il premio Nobel rispose “La mia risposta è mai“.

    Successivamente a questa arguta risposta, espressione di approfondite analisi delle dinamiche dell’economia americana del premio “Nobel per l’economia”, si ricorda a puro titolo di cronaca come dall’elezione di Donald Trump Wall Street abbia inanellato una serie senza fine di record fino a sfondare quota 26.000 punti e solo ora per un possibile rialzo dei tassi sembra fermarsi l’ascesa. Una ripresa del mercato finanziario successivo e contemporaneo a quello dell’economia industriale e reale la quale è ulteriormente supportata anche dalla promozione della riforma fiscale statunitense di quest’ultimo periodo che comporta, come elemento caratterizzante, la riduzione della Corporate Tax dall’attuale aliquota del 35% fino al 21%.

    Una riduzione che ha spinto i colossi dell’economia statunitense a varare piani sviluppo dell’occupazione all’interno dei confini Usa, come JP Morgan con un  piano di investimenti da 20 miliardi o Apple con l’assunzione di ventimila nuovi addetti o Wal Mart ed FcA che investono e distribuiscono bonus (e non rimborsi fiscali come il Governo Renzi).

    Questa decisione infatti assolutamente innovativa (per certi versi addirittura rivoluzionaria in relazione alle politiche economiche europee ed italiane degli ultimi vent’anni che si sono basate solo esclusivamente sulla leva monetaria e finanziaria) di ridurre la Corporate Tax nasce dalla ricerca del doppio obiettivo di ridare fiato alla redditività delle imprese e di conseguenza degli investimenti. In più la riduzione della Corporate tax aumenta la redditività delle azioni e di conseguenza il Roe e permette di combattere la delocalizzazione fiscale delle multinazionali americane.

    Questa decisione strategica ed operativa di fatto ha ancora una volta spiazzato anche il mondo politico ed economico europeo. Un mondo, quello europeo, che sta dimostrando una forte contrarietà rispetto a questa politica fiscale statunitense risulta francamente imbarazzante e banale nelle proprie giustificazioni.

    Uno stupore che si unisce poi all’incredulità quando il ceto politico europeo ha manifestato l’ardire di definire tale riduzione delle tasse come un attacco all’economia europea. Un’affermazione talmente improvvida e fuori luogo considerando che buona parte delle sedi fiscali delle multinazionali americane risulta essere  in Irlanda dove le aliquote Corporate si dimostrano molto più basse. In aggiunta si consideri anche la semplice scelta dalla FCA di trasferire la sede fiscale a Londra e quella legale in Olanda.

    Tornando quindi alle ridicole affermazioni dei ministri economici europei logica conseguenza di tale posizione dovrebbe essere quella di investire in una necessaria riforma fiscale per l’intero sistema economico e politico europeo con l’obiettivo specifico e dichiarato di uniformare le aliquote dei singoli paesi. Si é scelta invece la strada della critica  e di accusare gli Stati Uniti i quali operano come un sistema economico legato solo da vincoli commerciali e non politici con l’Europa. Senza dimenticare che se il principio della libera concorrenza viene considerato valido con l’obiettivo di migliorare la produttività dei sistemi industriali nazionali nel contesto di un mondo globale allora questo principio in quanto tale risulta assolutamente applicabile anche alle pubbliche amministrazioni attivandone e promuovendo il miglioramento della produttività in funzione di vari sistemi economici nazionali . Un principio infatti risulta valido indipendentemente dal contesto nel quale venga applicato.

    Molti intendono ed interpretano questo nuovo isolazionismo (quando invece molto spesso si tratta di un iperattivismo politico ed economico decontestualizzato dal momento storico) come risultante solo ed esclusivamente della personalità fuori dagli schemi  anche sotto il profilo mediatico del nuovo presidente Trump.

    Si pensi a quante volte le uscite sicuramente non troppo ponderante del presidente degli Stati Uniti suscitino la ilarità e forti critiche per un banale Tweet.

    Già nel 2013 personalmente scrissi su www.capiredavverolacrisi.com come il futuro prossimo della politica degli Stati Uniti sarebbe stato assolutamente caratterizzato da una ritrovata  libertà da ogni vincolo energetico che ne aveva condizionato le principali dinamiche dal momenti della  perdita dell’indipendenza energetica negli anni 70.

    Già infatti all’inizio di questo decennio risultava evidente la capacità degli Stati Uniti di raggiungere l’indipendenza energetica assoluta entro 2018/20 riuscendo a portare la tecnologia shale oil alla propria  potenzialità ideale.

    A questo si aggiunga che queste nuove capacità estrattive legate ed al tempo stesso espressione della costante e continua innovazione tecnologica nelle tecniche di estrazione dello Shale Oil hanno permesso infatti di abbassare il punto di break even point del petrolio Usa in pochi anni da $78 ai 50 attuali ma con l’obiettivo di raggiungere in un paio d’anni i 34 dollari.  A tal proposito per offrire un termine di paragone si ricorda come il tasso di estrazione del petrolio saudita risulta pari a 1 dollaro.

    Questa nuova tecnologia estrattiva pone gli Stati Uniti come uno dei principali produttori di petrolio al mondo (ovviamente non si tiene in considerazione l’Opec come sintesi di tutti i paesi produttori e Medio Oriente) ed unita ad una scelta di politica economica estera e strategica che li vede alleati con la stessa  Arabia Saudita, che rappresenta la nazione al mondo con le più alte e maggiori riserve petrolifere (18%), rende ancora più indipendente la politica, in particolare estera, americana in quanto libera da ogni vincolo energetico. Agli occhi più attenti infatti già con l’amministrazione Obama si poteva intravedere un inizio di dismissione del ruolo di polizia internazionale che gli Stati Uniti avevano svolto fino ad allora.

    La conferma di questa solida Alleanza con l’Arabia Saudita poi trova una evidente conferma dall’investimento di 9,3 miliardi di dollari da parte della dirigenza Saudita nell’allestimento del più grande impianto di shale Oil del Texas. Se poi si aggiunge la possibilità di utilizzare le nuove petroliere da 2 milioni di barili  il tutto non farà che rafforzare l’alleanza come la posizione di preminenza degli Stati Uniti e la loro forte Indipendenza nelle politiche fiscali commerciali ed estere nei confronti degli alleati stessi.

    La sintesi di questa evoluzione tecnologica e gli accordi internazionali dimostrano essenzialmente come, al di là della personalità del presidente gli Stati Uniti, le politiche e le strategie statunitensi risultino svincolate da ogni possibile ricatto energetico e quindi siano politicamente indipendenti da ogni condizionamento dei paesi arabi produttori petrolio che hanno condizionato tutta le politiche estere Usa e come invece attualmente continuano a condizionare le sole politiche estere europee.

    Queste superficiali  analisi del mondo europeo  che trasudano di  una ingiustificata arroganza legata ad una ipotetica “supremazia intellettuale” nel definire la politica degli Stati Uniti come una perversione del nuovo presidente e che individuano nella personalità di Trump la ragione di queste scelte decisamente atipiche ed al di fuori degli schemi dimostrano in modo  inequivocabile la insufficiente capacità di analisi economica e politica che investe la classe dirigente nella sua completezza Europea .

    Emerge evidente ora come l’indipendenza energetica abbia reso gli Stati Uniti sicuramente la più importante forza economica e politica anche rispetto alla stessa Cina la quale invece dipende ancora oggi dalla produzione di petrolio dei paesi arabi. Ed in questo senso infatti le autorità politiche cinesi stanno cercando di acquisirla attraverso investimenti in Africa al fine di raggiungere una possibile o quantomeno probabile indipendenza energetica contemporaneamente a quelle per l’approvvigionamento delle preziose materie prime utilizzabili per i prodotti High Tech. Questa indipendenza risulta talmente importante e successivamente rafforzata dall’alleanza con la prima  potenza energetica come l’Arabia Saudita la quale rappresenta ancora oggi la prima nazione per quanto riguarda le riserve di petrolio.

    Ridicolizzare ad ogni analisi la politica statunitense appiattendosi sulla personalità del nuovo presidente degli Stati Uniti dimostra essenzialmente di non avere ancora oggi compreso le dinamiche economiche e nel caso specifico soprattutto quelle energetiche che hanno condizionato nel passato la politica estera di tutti i paesi e che vedono ora gli Stati Uniti finalmente indipendenti .

    PS: Dati produzione 2016:

    Usa                         14.827.000 barili /giorno
    Arabia Saudita       12.240.000
    Russia                     11.240.000
    Cina                          4.874.000
    Canada                     4.568.000
    Iraq                           4.448.000
    Iran                           4.138.000
    Emirati Arabi Uniti  3.765.000
    Kuwait                      2.018.000

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