Africa

  • Libia prima sponda dell’Italia per l’approvvigionamento di petrolio

    Nei primi sette mesi del 2024, i dati dell’Unione energie per la mobilità (Unem) sulle importazioni di greggio in Italia delineano un quadro interessante e complesso delle dinamiche commerciali internazionali. In cima alla classifica dei paesi fornitori si trova la Libia, che si conferma il principale esportatore di petrolio verso l’Italia anche nel secondo trimestre dell’anno in corso. Nel periodo tra gennaio e luglio, l’Italia ha importato un totale di 7,39 milioni di tonnellate di greggio libico, pari al 22,3% del totale nazionale. Questo dato rappresenta una crescita significativa del 28,6% rispetto all’anno precedente, sottolineando l’importanza della Libia come partner strategico per le forniture di energia, nonostante la fragile situazione politica interna. Il dato subirà probabilmente una flessione nel trimestre in corso a causa del blocco petrolifero in Libia durato per tutto il mese di settembre.

    Al secondo posto ci sono i paesi dell’ex Unione Sovietica, in particolare Azerbaigian e Kazakhstan, che insieme hanno esportato verso l’Italia 10,63 milioni di tonnellate di greggio, coprendo il 32% delle importazioni totali. Tuttavia, questi paesi mostrano andamenti divergenti: mentre le importazioni dall’Azerbaigian sono diminuite del 13,8%, quelle dal Kazakhstan hanno registrato una crescita significativa del 29,7%, evidenziando un rafforzamento delle relazioni energetiche tra Italia e quest’ultimo. La terza area geografica di rilievo è il Medio Oriente, con l’Iraq che ha esportato 3,03 milioni di tonnellate, rappresentando il 9,1% del totale, nonostante un calo del 30,9% rispetto al 2023. L’Arabia Saudita segue con 2,15 milioni di tonnellate, pari al 6,5% del totale, ma anche qui si nota un calo importante del 23,8%. Complessivamente, le importazioni dall’intera area mediorientale si attestano a 5,48 milioni di tonnellate, rappresentando il 16,5% delle importazioni italiane, ma con una contrazione del 27,1%.

    Un’altra area di rilievo è l’Africa, che ha fornito il 35,9 per cento del greggio importato dall’Italia nel 2024, per un totale di 11,94 milioni di tonnellate. La Nigeria emerge come il principale fornitore africano dopo la Libia, con 2,1 milioni di tonnellate e un incremento del 31,3%. Anche paesi meno tradizionalmente noti per l’export petrolifero, come il Ghana e il Camerun, hanno mostrato un ruolo crescente, con un aumento rispettivamente del 104,3% e del 42,3% nelle loro esportazioni verso l’Italia. Infine, un dato interessante riguarda le importazioni dagli Stati Uniti, che ammontano a 3,21 milioni di tonnellate, coprendo il 9,7% delle importazioni totali italiane. Sebbene ci sia stato un calo del 14,7% rispetto all’anno precedente, gli Usa rimangono un fornitore importante. In generale, il 2024 ha visto una lieve diminuzione complessiva delle importazioni di greggio in Italia rispetto al 2023, con un calo del 3,3%.

  • Il Ciad arresta due influencer russi

    Il sociologo russo Maksim Shugalej ed il suo collaboratore Samer Sueifan, vicini al leader defunto dell’ex gruppo paramilitare Wagner Evgenij Prigozhin, sono stati arrestati in Ciad in compagnia di E. Tsaryov, uomo del quale è nota solo l’iniziale. Lo ha riferito il ministero degli Esteri russo, affermando di essere “in stretto contatto” con le autorità di N’Djamena e di aver adottato tutte le “misure necessarie nell’interesse del loro rapido rilascio”. Secondo quanto riferito dall’agenzia di stampa russa “Ria Novosti”, i tre sono stati trattenuti lo scorso 19 settembre al loro arrivo all’aeroporto di N’Djamena, quando i servizi di sicurezza ciadiani hanno rifiutato il loro ingresso. Il ministero degli Esteri russo ha aggiunto che un cittadino bielorusso era stato arrestato insieme ai tre uomini russi in Ciad, e lo ha identificato come A. Denisevich.

    Amico intimo di Prighozin – morto nell’agosto 2023 nello schianto di un aereo dopo una tentata rivolta contro il Cremlino – Shugaley è considerato “l’uomo di Mosca” in Africa. Inizia la sua carriera come sociologo e consulente politico di alto livello a San Pietroburgo prima di essere nominato a capo della rete russa di Wagner in Africa, con responsabilità legate in particolare alla gestione delle risorse minerarie. Soggetto a sanzioni dell’Unione europea dal 25 febbraio del 2023, viene ritenuto un contributore importante delle attività di propaganda e disinformazione del gruppo Wagner (ora rinominato Africa Corps). Viene notato in Ciad già in due occasioni: la prima come “osservatore” elettorale e sostenitore del leader Mahamat Deby alle presidenziali dello scorso marzo, la seconda quest’estate in occasione dell’inaugurazione della “Casa russa”, sorta di centro culturale russo nel Paese africano.

    All’inizio del 2019 Shugalev viene inviato in Libia alla guida di un team di sociologi con l’idea di redigere un rapporto da presentare in occasione del Forum economico Russia-Africa di Sochi, in agenda nell’ottobre dello stesso anno. Tuttavia, a maggio del 2019 Shugaley e Sueifan – che ugualmente partecipa alla missione – vengono rapiti a Tripoli con l’accusa di aver tentato di influenzare lo svolgimento delle future elezioni, accuse smentite da parte russa. Consegnati alle Forze di deterrenza speciale (Rada), potente milizia libica affiliata al Consiglio presidenziale e specializzata nella lotta al terrorismo e alla criminalità organizzata, saranno rilasciati solo il 10 marzo del 2020 dopo mesi di ostaggio nelle prigioni di Mitiga, controllate dai rapitori.

    Shugaley viene ritenuto un ingranaggio determinante della propaganda russa in Africa anche per l’attività esercitata nel quadro dell’Associazione per la libera ricerca e la cooperazione internazionale (Afric), organizzazione soggetta a sanzioni da parte del Tesoro statunitense per l’acclarato ruolo di società di copertura per le operazioni di influenza di Prigozhin “tramite false missioni di monitoraggio elettorale in Zimbabwe, Madagascar, Repubblica democratica del Congo, Sudafrica e Mozambico”. Il ruolo di “influencer” politico di Shugaley vede il sociologo attivo anche in Repubblica Centrafricana, altro territorio dove il gruppo Wagner ha una solida presenza. In occasione delle elezioni presidenziali del dicembre del 2020, quando il presidente uscente Faustin-Archange Touadera fu rieletto al primo turno, per le strade di Bangui campeggiarono manifesti a suo nome nei quali venivano promossi sondaggi in base ai quali la rielezione di Touadera veniva data per certa (“oltre il 98 per cento” delle preferenze) e con la richiesta di arrestare “i banditi della Cpc” – la Coalizione dei patrioti per il cambiamento, unione di gruppi armati formata nel 2020 per impedire la rielezione di Touadera – voluta dall’87,5 per cento dei presunti intervistati.

  • Russia e Cina sono amici, ma in Africa sono concorrenti

    La guerra in Ucraina sta ridisegnando le alleanze internazionali e anche quelle in Africa. Cina e Russia, per diversi motivi, stanno portando avanti le rispettive marce di “conquista” del continente africano, con interessi diversi e per taluni aspetti divergenti, anche se hanno in comune un medesimo tratto: né Mosca né Pechino chiedono principi di condizionalità ai partner africani. Ma il capitale che può offrire la Cina non è certo nelle disponibilità della Russia.

    Non è un caso che il commercio sino-africano abbia superato i 2mila miliardi di dollari nell’ultimo decennio e la Cina è rimasta il principale partner commerciale dell’Africa. Nel 2022 i nuovi investimenti diretti della Cina in Africa sono stati pari a 3,4 miliardi di dollari. Sembra, quasi, che la Cina lasci al suo partner russo in Africa solo le briciole.

    L’approccio che Pechino e Mosca riservano all’Africa, poi, è molto diverso. L’azione russa si è sempre rivolta a Paesi ad alto rischio come il Sudan, il Mozambico, parte del Sahel – Mali e Burkina Faso in testa – nella Repubblica Centrafricana, nel Nord, in Libia in particolare, in buona sostanza dove, inoltre, vi è una forte presenza jihadista. L’offerta russa si basa su un approccio securitario attraverso la Compagnia di mercenari Wagner che combattono a fianco degli eserciti regolari, come nel Sahel, o a supporto di milizie. E, poi, attraverso la fornitura di equipaggiamenti militari. Questa è un’arma di penetrazione che consente a Mosca di fare crescere la sua influenza. È stato evidente nel Sahel, in particolare in Mali, dove è riuscita, in pochissimo tempo, a sostituire l’influenza francese con la sua, anche grazie a un’azione di propaganda, attraverso i social, che ha fatto crescere il sentimento anti-francese e avvicinato le opinioni pubbliche alle sue posizioni. Le bandiere russe hanno sventolato nelle piazze di Bamako.

    L’azione della Cina, invece, è capillare e diffusa ovunque. I numeri dell’interscambio e degli investimenti diretti lo dimostrano, anche se il rapporto rimane squilibrato e a favore del dragone che sembra inamovibile dal divano africano. L’obiettivo, tuttavia, della Cina è quello di portare le importazioni cinesi dal continente africano a 100 miliardi di dollari per arrivare a 300 miliardi di dollari all’anno entro il 2035. Tutto ciò dimostra, se ce ne fosse ancora bisogno, che Mosca non ha nemmeno lontanamente la capacità di influenza politica ed economica che, invece, la Cina esercita in Africa.

    Anche per queste ragioni Mosca e Pechino rimangono competitor e non partner nel continente. Ma c’è un ‘ma’, come sempre. Se l’Africa ha bisogno della Cina – sono in molti gli analisti che pensano sia in atto una nuova colonizzazione da parte di Pechino – la Russia ha bisogno dell’Africa. Ha detto Marco di Liddo, direttore del Centro Studi Internazionali: «A Mosca servirà il supporto africano. Per due motivi: il primo perché deve trovare nuovi partner, nuove fonti di approvvigionamento, e nuovi mercati alternativi a quello europeo. In secondo luogo perché il sogno della Russia è quello di rafforzare il suo ruolo di gigante minerario per cercare poi di militarizzare le risorse, sviluppando tecnologia bellica. Questa è una partita che non va sottovalutata, cruciale anche per il nostro futuro, perché l’Europa è molto fragile, e rischia di perdere terreno di influenza in Africa, con le sue risorse sempre più contese strategicamente».

  • Il calo demografico colpisce anche Asia e Africa

    Uno studio dell’Institute for Health Metrics and Evaluation (Ihme), apparso sulla rivista The Lancet, stima che, seppur meno che nella misura drammatica dell’Occidente, anche in Asia e, in misura minore, in Africa si registrerà un calo delle nascite. Entro il 2050 – afferma la ricerca –  “oltre tre quarti (155 su 204) dei Paesi non avranno tassi di fertilità sufficientemente elevati per sostenere la dimensione della popolazione nel tempo; questa percentuale aumenterà fino al 97% (198 su 204) entro il 2100”. La dimensione globale del fenomeno è “catturata” da due dati. Il tasso di fertilità globale – il numero medio di nascite per donna – è sceso da circa 5 figli nel 1950 a 2,2 nel 2021. Oltre la metà di tutti i Paesi e territori (110 su 204) è “al di sotto del livello di sostituzione della popolazione pari a 2,1 nascite per donna”.
    Nei prossimi decenni, secondo lo studio, “si prevede che la fertilità globale diminuirà ulteriormente, raggiungendo un tasso di circa 1,8 nel 2050 e 1,6 nel 2100, ben al di sotto del livello di sostituzione. Si prevede che entro il 2100 solo sei dei 204 Paesi e territori (Samoa, Somalia, Tonga, Niger, Ciad e Tagikistan) avranno tassi di fertilità superiori a 2,1 nascite per donna”. In 13 Paesi, tra cui Bhutan, Bangladesh, Nepal e Arabia Saudita, si prevede che i tassi scenderanno addirittura al di sotto di un figlio per donna.

    «Stiamo affrontando un cambiamento sociale sconcertante», ha affermato l’autore senior dello studio, il professor Stein Emil Vollset dell’Ihme, evidenziando che tra i problemi da mettere in conto vi sono «la forza lavoro in diminuzione e la crescente pressione sui sistemi sanitari e di sicurezza sociale dovuto all’invecchiamento della popolazione». La forbice tra Paesi si allargherà drammaticamente. Già oggi il mondo cresce a velocità diverse. Nel 2021, il 29% dei bambini del mondo è nato nell’Africa sub-sahariana. E il disequilibrio crescerà: entro il 2100, si prevede che la percentuale aumenterà fino a oltre la metà (54%) di tutti i bambini. Secondo i ricercatori, il doppio binario avrà inevitabili ricadute “politiche”, perché «la popolazione più giovane e in più rapida crescita del pianeta» si addenserà «in alcuni dei luoghi politicamente ed economicamente più instabili». «Una volta che la popolazione di quasi tutti i Paesi diminuirà, il ricorso all’immigrazione aperta diventerà necessario per sostenere la crescita economica“, è la conclusione di Natalia Bhattacharjee dell’Ihme, coautrice del rapporto.

  • L’India ‘scippa’ il Kenya alla Cina e si prende l’aeroporto di Nairobi

    L’aeroporto di Nairobi, in Kenya, è uno dei fronti caldi della partita tra grandi potenze in Africa. Qui il gruppo indiano Adani, di proprietà dell’omonimo imprenditore Gautam, è pronto a investire 1,85 miliardi di dollari in cambio della concessione trentennale dello scalo. È già chiuso l’accordo con il governo keniota, guidato dal presidente William Ruto, che insiste sull’opportunità di approfittare dei fondi indiani per portare “tecnologie avanzate e infrastrutture moderne” all’aeroporto internazionale “Jomo Kenyatta”. Eppure, il progetto incontra forti resistenze.

    Nella notte tra il 10 e l’11 settembre l’Unione dei lavoratori aeroportuali del Kenya ha avviato uno sciopero che ha completamente paralizzato lo scalo, tra i primi dieci in Africa in termini di traffico passeggeri. Centinaia di passeggeri, tra cui una ventina di cittadini italiani, sono rimasti bloccati all’interno dell’aeroporto. Il sindacato sostiene che l’accordo con Adani porterebbe a licenziamenti e a un peggioramento delle condizioni di lavoro. Le critiche all’accordo, però, non si fermano qui: secondo gli oppositori, la concessione dell’aeroporto di Nairobi al gruppo Adani priverebbe lo Stato keniota di profitti che, ad oggi, costituiscono circa il 5 per cento del Prodotto interno lordo (Pil) nazionale.

    Nella notte tra l’11 e il 12 settembre lo sciopero è stato sospeso, ma la questione resta aperta e potrebbe continuare a logorare un governo, quello di Ruto, che già la scorsa estate ha traballato vistosamente durante le proteste di massa contro gli aumenti delle tasse decise dalle autorità nell’ultima manovra finanziaria, poi revocata. Anche perché, nel frattempo, contro l’accordo con Adani è stata mossa un’azione legale da parte della Commissione per i diritti umani del Kenya e dell’associazione nazionale degli avvocati, che ritengono l’intesa incostituzionale. Nell’esposto all’Alta corte keniota la concessione viene definita “irrazionale”, poiché violerebbe “i principi costituzionali di buona governance, di trasparenza, di prudente e responsabile uso del denaro pubblico”.

    La vicenda per il Kenya è delicata, soprattutto perché s’intreccia con una complicata trama d’interessi geopolitici. Il Paese, con Ruto al potere (domani, 13 settembre, la sua presidenza compirà due anni), è diventato il più stretto alleato degli Stati Uniti in Africa. Lo scorso maggio Ruto è stato il primo leader africano invitato alla Casa Bianca da 15 anni a questa parte. Nell’occasione, il presidente Joe Biden ha nominato il Kenya “maggior alleato non-Nato”, attribuzione che consentirà a Nairobi di accedere a prestiti nel settore della difesa, programmi di addestramento e attrezzature militari sofisticate di produzione statunitense. L’amministrazione Ruto, da parte sua, ha manifestato un attivismo internazionale senza precedenti. Lo ha fatto inviando mille agenti di polizia a Haiti nel quadro di una missione internazionale contro la gang criminali che controllano la capitale Porto Principe, ma anche svolgendo un importante ruolo di mediazione per la conclusione della guerra civile nel Tigrè, in Etiopia, e per la riduzione delle violenze nell’est della Repubblica democratica del Congo (Rdc). Il Kenya, insomma, si è trasformato in un bastione degli interessi degli Stati Uniti in un’area, quella dell’Africa orientale, nella quale negli ultimi anni era stata soprattutto la Cina, con i suoi investimenti, ad accrescere il proprio peso.

    Appare dunque ben probabile che Washington abbia benedetto l’investimento del gruppo indiano a Nairobi proprio in funzione anti-cinese. Allo stesso modo, è plausibile che Pechino, dopo che la scorsa settimana il presidente Xi Jinping ha annunciato 51 miliardi di dollari d’investimenti nei prossimi tre anni in Africa, si stia mobilitando per contenere la penetrazione economica indiana nella regione. Una penetrazione che vede in prima fila proprio il gruppo Adani, che nel frattempo ha anche ottenuto la concessione per trent’anni di un terminal container al porto di Dar es Salaam, in Tanzania. A giugno un rapporto dell’Ufficio nazionale di statistica di Nairobi indicava come l’India abbia ormai superato la Cina quale principale investitore straniero in Kenya. Due anni fa era stato lo stesso Gautam Adani, presidente del gruppo, ad anticipare gli sviluppi attuali. “Prevedo che la Cina, che a lungo è stata vista come campione della globalizzazione, si sentirà sempre più isolata. L’incremento del nazionalismo, la mitigazione dei rischi nelle catene di fornitura globali, le restrizioni alle tecnologie avranno un impatto”, aveva detto il tycoon indiano commentando la perdita di slancio della Nuova via della seta (Belt and road initiative, Bri).

    In Kenya, del resto, la maxi-iniziativa infrastrutturale cinese non è stata un successo. Il principale dei progetti finanziati da Pechino, la Ferrovia a scartamento normale (Sgr) tra la capitale Nairobi e il porto di Mombasa, è stato inaugurato nel 2017 alla presenza dell’allora presidente Uhuru Kenyatta. Tuttavia, il piano iniziale prevedeva che la linea fosse collegata all’Uganda e, potenzialmente, ad altri Paesi della regione senza sbocco sull’Oceano Indiano (Ruanda, Burundi, Repubblica democratica del Congo), con una movimentazione di merci che avrebbe consentito al governo keniota di ripagare i prestiti da circa 4,7 miliardi di dollari ottenuti dalle banche cinesi. Invece due anni dopo, per mancanza di fondi, i lavori della ferrovia si sono fermati a Naivasha, nella Rift Valley, meno di 100 chilometri a nord di Nairobi e quasi 300 chilometri da Malaba, città di frontiera dell’Uganda. La questione è stata al centro della visita di Ruto a Pechino la scorsa settimana, in occasione del Forum sulla cooperazione Cina-Africa (Focac). Non è chiaro se il presidente keniota sia riuscito a ottenere impegni concreti dal governo cinese (almeno 5 miliardi di dollari i fondi necessari al prolungamento della ferrovia Sgr), come preannunciato alla vigilia della visita. È ben possibile, però, che Pechino tenti di condizionare ulteriori aiuti a un cambio di rotta della politica estera di Nairobi.

  • Ethiopia hits out at Egypt as Nile dam row escalates

    But for Ethiopia, the huge project, set to be the largest hydroelectric plant in Africa, is an integral part of its efforts to develop the country and get electricity to millions of households.

    The dam is nearing its completion, with the reservoir filling with water since 2020, and has already started generating power.

    Egypt, along with Sudan – through which the Nile also flows, have been raising concerns that their essential water supplies would be under threat, especially if there are successive years of drought.

    Multiple diplomatic efforts to reach a binding deal have not succeeded.

    The most recent efforts ended in December last year with both countries accusing the other of intransigence.

    In its letter to the Security Council, Ethiopia said Egypt was “only interested in perpetuating its self-claimed monopoly” over the river.

    In recent weeks, tensions across the Horn of Africa have grown, especially after a military pact was agreed between Egypt and Ethiopia’s eastern neighbour Somalia.

    Relations between Mogadishu and Addis Ababa deteriorated after landlocked Ethiopia signed a deal in January with the self-declared Republic of Somaliland over access to the sea and possible use of the coastline for a naval base.

    Somalia sees Somaliland as part of its territory and said the agreement was an act of aggression.

    This weekend, Ethiopia’s Prime Minister Abiy Ahmed warned against attacks on his country, saying anyone from “afar and nearby” daring to invade the country would be repelled.

    He did not specify which country he was talking about.

  • La progressiva scomparsa dei leoni minaccia l’intero habitat del pianeta

    Dal 1993 al 2016 è scomparso il 43% dei leoni africani e ne resta un numero variabile, a seconda delle stime, tra i 20mila e i 35mila. In Africa la loro presenza è ormai circoscritta all’8% del loro territorio storicamente abituale, soprattutto per via del bracconaggio. I leoni si sarebbero già estinti in ben 26 Paesi dell’Africa e sono presenti solo in 27 Stati del continente (e solo in 7 di questi Stati vi è un numero di esemplari superiore alle 1000 unità).

    In quanto predatore ai vertici delle catene alimentari, il leone africano (Panthera leo) è fondamentale per l’integrità e la stabilità degli ecosistemi e la sua progressiva riduzione numerica, secondo il Wwf, può determinare effetti negativi a catena su diversi ecosistemi. La scomparsa dei leoni ha conseguenze dirette sulla vegetazione e sulla diffusione di malattie. Il degrado degli habitat riduce la capacità degli ecosistemi di fornire acqua e cibo. Gli habitat dove i leoni vivono contribuiscono infatti alla tutela delle sorgenti, vitali per la fornitura di acqua potabile alle comunità locali, così come il mantenimento degli habitat dei leoni, come foreste e savane alberate, contribuisce allo stoccaggio del carbonio. Analogamente, queste aree garantiscono il sostentamento alimentare delle comunità locali e contribuiscono alla protezione dagli eventi estremi causati dal cambiamento climatico. Alcuni studi stimano che le aree di presenza del leone forniscano circa l’11% dei servizi ecosistemici legati al controllo dell’erosione, alla protezione delle coste e alla mitigazione degli effetti delle alluvioni.

    Sulla base del World Wide Fund for Nature il Wwf ha inserito il leone nella lista rossa degli animali a rischio di estinzione. Tra i motivi di allarme per le sorti di questo felino vi è anche il fatto che il progressivo ridursi degli esemplari riduce le possibilità di accoppiamento e porta quindi a un indebolimento genetico, con conseguenti aggravarsi del rischio di estinzione, dovuto al fatto che la scarsità di partner porta ad accoppiamenti tra esemplari consanguinei (il che produce appunto indebolimento genetico).

    Nel 2022 la Banca Mondiale ha emesso il primo bond al mondo dedicato alla fauna selvatica (Rhino bond), raccogliendo 150 milioni di dollari destinati alla conservazione dei rinoceronti neri in due riserve in Sudafrica. Sulla stessa falsariga, una delle più grandi banche commerciali africane ha dichiarato di voler vendere 200 milioni di dollari di obbligazioni per contribuire alla reintroduzione dei leoni nel Parco Nazionale del Limpopo in Mozambico. Un altro importante strumento per la conservazione della biodiversità, che potrà presto andare in soccorso a specie in via d’estinzione, sono i Biodiversity credit, veri e propri crediti emessi contabilizzando un miglioramento dello stato di specie ed ecosistemi dovuto ad azioni di conservazione e di ripristino. I Biodiversity credit possono essere messi sul mercato per soddisfare il desiderio di attori privati (e non solo) di contribuire al miglioramento dello stato della biodiversità nel mondo.

  • Consegnate al Congo le prime 200mila dosi di vaccini per il vaiolo delle scimmie

    Le prime 200 mila dosi di vaccini contro il Mpox, precedentemente noto come vaiolo delle scimmie, sono state consegnate a partire dal giovedì 5 settembre 2024, alla Repubblica democratica del Congo (Rdc). Lo ha annunciato oggi all’emittente “Rfi” il direttore generale dei Centri africani per il controllo e la prevenzione delle malattie (Cdc Africa), Jean Kaseya, secondo cui le dosi, che saranno consegnate in due lotti da 100 mila l’uno, sono state trasportate in aereo a Kinshasa tra giovedì 5 e venerdì 6 settembre e poi distribuite tra la capitale, Goma e Lubumbashi. La distribuzione di un totale di 3,6 milioni di dosi assicurate dall’Africa Cdc è programmata poi nei successivi 15 giorni, in altri Paesi africani colpiti dall’epidemia di Mpox: Gabon, Burundi, Repubblica Centrafricana e Costa d’Avorio. “Siamo molto soddisfatti dell’arrivo di questo primo lotto di vaccini nella Rdc. Si tratta di 99.100 dosi che arriveranno domani giovedì 5 settembre alle 12:10 all’aeroporto di Kinshasa”, ha detto Kaseya. “Ringraziamo l’Unione europea, attraverso l’Autorità europea di risposta alle emergenze sanitarie, per aver risposto immediatamente al nostro appello di solidarietà volto a garantire l’accesso al vaccino contro il morbo nei paesi colpiti dall’Unione africana”, ha aggiunto.

    Il continente africano è oggi l’epicentro dell’infezione. Con oltre 15.600 casi segnalati e 537 decessi dall’inizio dell’anno, la Repubblica democratica del Congo (Rdc) è il Paese più colpito dal Mpox in Africa, dove la maggior parte dei decessi sono bambini sotto i 15 anni di età, ma casi – seppur in entità minore – sono stati registrati anche in altri 11 paesi africani (Sudafrica, Kenya, Ruanda, Uganda, Burundi, Repubblica Centrafricana, Repubblica del Congo, Camerun, Nigeria, Costa d’Avorio e Liberia). Un caso della nuova variante Clade 1b è stato segnalato in Svezia, il primo al di fuori del continente. Un bilancio che lo scorso 14 agosto ha spinto l’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms) a dichiarare l’Mpox “emergenza di salute pubblica internazionale”. In Africa, la Nigeria è stato il primo Paese a ricevere vaccini per combattere l’epidemia: dagli Stati Uniti sono state donate 10 mila dosi, destinate alle persone più a rischio.

    Di fronte alla rapida diffusione del virus Mpox (in precedenza noto come vaiolo delle scimmie) nell’Africa orientale, nel Corno d’Africa e nell’Africa meridionale, l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Iom) ha lanciato un appello a raccogliere 18,5 milioni di dollari per sostenere gli sforzi di prevenzione, controllo e risposta all’infezione, in particolare per le popolazioni migranti e sfollate. Queste, sottolinea in una nota Oim, sono più esposte al contagio a causa delle condizioni di vita precarie e dei numerosi ostacoli all’accesso alle cure. Secondo Unicef, i casi di bambini e persone vulnerabili sono in aumento soprattutto in cinque Paesi dell’Africa orientale e meridionale: Kenya, Uganda, Burundi, Ruanda e Sudafrica. La nuova variante Clade 1b è stata identificata in tutti i Paesi colpiti, tranne il Sudafrica, e desta preoccupazione per il suo potenziale di trasmissione a gruppi di età più ampi, in particolare ai bambini piccoli. Il Burundi sta registrando il maggior numero di infezioni in tutta la regione: al 20 agosto 2024, sono stati rilevati 170 casi confermati di Mpox in 26 dei 49 distretti del Paese, di cui il 45,3 per cento sono donne. I bambini e gli adolescenti di età inferiore ai 20 anni costituiscono quasi il 60 per cento dei casi rilevati, mentre i bambini sotto i 5 anni rappresentano il 21 per cento dei casi.

    Fra i Paesi dell’Unione europea che hanno annunciato l’invio di vaccini ci sono la Germania e la Spagna. Da Berlino è arrivata la promessa di 100 mila dosi. Per Steffen Hebestreit, portavoce del cancelliere Olaf Scholz, lo scopo dell’iniziativa è di “sostenere in modo solidale gli sforzi internazionali per contenere l’mpox sul continente africano”. Le dosi saranno disponibili “a breve termine”, ha detto Hebestreit, annunciando anche la creazione di un laboratorio mobile in Congo. Da parte sua, la Spagna donerà 500 mila dosi di vaccino contro l’mpox, come annunciato dal ministero della Salute di Madrid. Il governo spagnolo ha informato la Commissione europea che donerà il 20 per cento del suo stock di vaccini, ossia 100 mila fiale equivalenti a 500 mila dosi, e ha chiesto all’istituzione di estendere agli altri Paesi membri la proposta di donare il 20% del loro stock di vaccini.

  • Serbatoio di migranti? No, l’Africa è anche l’area con la più impetuosa urbanizzazione al mondo

    L’Africa non è solo una, se non geograficamente, perché i 54 Paesi che ne fanno parte non sono tutti omogenei. Come spiega il giornalista Federico Rampini, che sul Continente Nero ha scritto un saggio (La speranza africana), vi è anzitutto una fascia di nazioni che nel biennio 2023-24 avranno una crescita economica superiore al 5% annuo: Ruanda, Costa d’Avorio, Benin, Etiopia, Tanzania. Vi è poi un secondo gruppo di Paesi che possono aspirare al 5% annuo di aumento del Pil: Repubblica Democratica del Congo, Gambia, Mozambico, Senegal, Togo e Niger.

    Vedere l’Africa come il luogo da cui partono immigrati diretti in Europa, come da mentalità prevalente nel Vecchio Continente e in Italia, appare insomma riduttivo. Cina anzitutto, ma anche India, Arabia saudita, Emirati, Turchia vedono nell’Africa un luogo dove fare investimenti, un luogo cioé che promette sviluppo e ritorni per chi è disposto a scommetterci.

    Un rapporto della società di consulenza McKinsey sull’Africa evidenzia del resto che l’Africa sta registrando l’urbanizzazione più rapida al mondo e sta impetuosamente raggiungendo la soglia fatidica in cui sarà gli abitanti delle sue città avranno superato quelli delle campagne. Su questa base, Rampini fa presente che gli unici spostamenti di grandi masse, oggi come in futuro, rientrano nella categoria dell’urbanizzazione: abbandono di zone rurali, spostamento verso le città, con un parallelo miglioramento del benessere (come già accaduto altrove: in Cina, India e altre aree emergenti). Non importa se all’inizio molti ex-contadini vanno ad abitare in quartieri cittadini poveri e degradati, baraccopoli sprovviste di servizi essenziali: il loro reddito è comunque superiore ed infatti i consumi stanno migliorando più rapidamente che nel resto del mondo (da qui gli investimenti da parte di imprese cinesi, indiane, saudite, turche).

    Se si prende come riferimento lo Human Development Index (indice dello sviluppo umano), che raccoglie e analizza dati che riguardano il benessere economico insieme con i livelli di istruzione e la salute, si constata che Seychelles e Mauritius hanno livelli superiori alla media mondiale e che il Botswana si avvicina a questa media. Certo, appunto, esistono più Afriche e a fronte di Paesi tanto sviluppati ne restano altri, come Repubblica centrafricana e Niger, che hanno livelli che sono meno della metà rispetto alla media globale. Ma resta il fatto che vedere l’Africa solo come una minaccia, di flussi migratori, e non anche come un’opportunità è riduttivo.

  • Gridlock in Nigeria amid fuel shortages and price hikes

    Nigerians have been hit by a double whammy of chronic fuel shortages and a hike in prices by the state-owned oil company.

    The Nigerian National Petroleum Corporation (NNPC), which imports the country’s fuel and distributes it to private sellers, blamed its debts and rising global prices for its difficulty in getting fuel.

    Many people have been left stranded with long queues at petrol stations nationwide. Commuters in Lagos have been lining up at bus stations, but there very few buses operating.

    Others told the BBC they have been forced to trek long distances as public transport prices have doubled along some routes.

    On Tuesday, the NNPC said it was putting up the petrol price from 617 naira ($0.40, £0.30) to 897 naira a litre.

    Its petrol stations have the cheapest fuel on sale in the country – but at the vast majority of other private garages the pump price is much higher.

    When the NNPC puts up the price, so do private sellers and in some states, like Oyo, Kano and Kaduna, petrol is now selling for as much as 1,200 naira a litre.

    Many garages around the country have shut because they have run out of fuel, others have closed to adjust their prices.

    In the capital, Abuja, most are open but all have long queues as desperate drivers wait their turn – some slept in their cars overnight.

    Fuel stations are not rationing supply, so there is a danger their wait will be futile.

    A motorcycle rider in Kano, the main trading hub of northern Nigeria, said it was frustrating: “Most of the fuel stations here in Kano are closed because they want to adjust their pumps to the new price.

    “I was able to get fuel at 950 naira at a particular station, but other places have already started selling at 1,200 per litre,” Aminu Danyaro told the BBC.

    Black-market traders, who buy fuel from petrol stations and sell it by the roadside from jerrycans at inflated prices, are doing a brisk trade in Kano, where there is significantly less traffic than usual.

    The Nigeria Labour Congress (NLC) – the country’s main trade union body – says it feels “betrayed”, explaining that the reason it accepted the new minimum monthly wage of 70,000 naira ($44, £34) in July was because there was an agreement with the government that petrol price would not be increased.

    When President Bola Tinubu came to power last year, he shocked Nigerians on his first day by removing a subsidy that kept the price of fuel low.

    This – amongst other policies – has led to the worst economic crisis in a generation and cost-of-living protests, dubbed “10 days of rage”, were held countrywide last month.

    Nigerians are now pinning their hopes on the new privately owned Dangote Petroleum Refinery, which has been built by one of Africa’s richest man, Aliko Dangote.

    On Monday, it was announced with great fanfare that the refinery had just started producing petrol – a milestone in Nigeria which despite being Africa’s largest producer of crude oil imports all its refined fuel.

    But it is not clear how long Nigerians will have to wait to see ready availability of petrol or a drop in prices.

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