Africa

  • X restricted in Tanzania after police targeted by hackers

    Access to the social media platform X has been restricted in Tanzania after some official accounts of government and private institutions were targeted by hackers.

    On Tuesday, the official police account was compromised, with sexually explicit material and false information that the president had died being posted.

    The police dissociated itself from the information and said an investigation was under way to identify those responsible.

    Hours later data from the internet monitoring organisation Netblocks showed that X was “unreachable on major internet providers” across the country.

    Users in Dar es Salaam, the country’s biggest city, could still not access the site on Wednesday, unless they use virtual private networks (VPNs), which is illegal without a permit, although some people in other regions indicated they were able to log on.

    The authorities have not commented on whether they are blocking access to X.

    But Information Minister Jerry Silaa has acknowledged the hacking and assured MPs in parliament that the affected government social media accounts had since been secured.

    Earlier, government spokesman Gerson Msigwa warned those responsible that immediate action was being taken.

    The problems with accessing X come amid the continued uproar over the deportation of prominent Kenyans – a move that prevented them from attending the court case of opposition leader Tundu Lissu, who is accused of treason.

    On Monday, the president warned activists from its northern neighbour that she would not allow them to “meddle” in her country’s affairs and cause “chaos”.

    She spoke after Kenya’s former Justice Minister Martha Karua along with some others, who had all travelled to attend Lissu’s court case, were deported.

    Another Kenyan activist, Boniface Mwangi, and Ugandan Agather Atuhaire were arrested in Dar es Salaam by suspected military officers on Monday and their whereabouts remain unknown.

    Tanzanian authorities have not commented on their whereabouts.

    Mwangi’s wife, Njeri, told the BBC’s Newsday programme that she had last heard from him on Monday and had not been able to establish where he was.

    “I’m actually concerned for his life. I know my husband, he would have communicated, he’d find a way to call or text me and because he hasn’t, makes me very worried about what state he is in,” she said.

    Boniface Mwabukusi, the president of the Tanganyika Law Society, the body representing lawyers in mainland Tanzania, said on Wednesday that they had learnt that the two were being held by the immigration department. He had earlier said they had been deported.

    “Our legal team on the ground is actively monitoring the situation and exploring appropriate legal remedies to facilitate a just and timely resolution,” he said on X.

  • Donato Barack Obama alla Casa Bianca, ora il Kenya dona tutto il resto alla Cina

    Innalzare le relazioni bilaterali ad un “nuovo livello”, con l’obiettivo di creare una comunità Cina-Africa “adatta a tutte le turbolenze” di fronte al “caos” internazionale. È questa l’ambizione riaffermata dal presidente cinese Xi Jinping e dall’omologo keniota William Ruto in occasione del loro incontro avvenuto a Pechino, durante una visita di Stato di cinque giorni del leader keniota, la prima in Cina dal suo insediamento tre anni fa. Una visita che sancisce il rafforzamento dei legami strategici ed economici tra i due Paesi, in un momento in cui sia Pechino che Nairobi stanno cercando di rivedere le loro alleanze di fronte alla minaccia della guerra commerciale scatenata dal presidente degli Stati Uniti, Donald Trump.

    L’incontro tra Xi e Ruto ha inoltre costituito l’occasione per stipulare 20 accordi di cooperazione incentrati sui progetti legati alla Nuova via della seta e sui settori alta tecnologia, cultura, media, economia e commercio. Nella loro dichiarazione congiunta diffusa al termine dell’incontro, entrambi i leader hanno affermato di essere “impegnati a infondere maggiore stabilità nel mondo con la certezza della solidarietà e della cooperazione tra Cina e Africa”, allo scopo di salvaguardare gli “interessi comuni dei Paesi in via di sviluppo” e di difendere il sistema multilaterale, attraverso una “globalizzazione economica inclusiva”.

    I due leader hanno ribadito la volontà di mantenere fitti scambi al vertice, di consolidare la cooperazione a tutti i livelli, di “sostenersi fermamente a vicenda” su questioni che riguardano i rispettivi interessi e di “opporsi con decisione alle ingerenze e alle pressioni esterne” e hanno convenuto di rafforzare la cooperazione in vari ambiti – infrastrutture, commercio, digitalizzazione, salute, istruzione, finanza ed economia verde – e di incentivare un ulteriore allineamento della Nuova via della seta (Belt and road initiative, Bri) cinese alla Vision 2030 del Kenya.

    Pechino e Nairobi si sono dette pronte ad approfondire ulteriormente gli scambi anche nel campo della sicurezza, con particolare attenzione alla lotta al terrorismo, al narcotraffico e ai crimini transnazionali. “Le parti – recita la nota congiunta – negozieranno attivamente e firmeranno un memorandum d’intesa sulla cooperazione tra le rispettive forze dell’ordine, stabiliranno meccanismi di collaborazione” e “rafforzeranno gli scambi in settori quali la formazione del personale, l’industria e il commercio correlati alla difesa, la lotta al terrorismo, le esercitazioni e l’addestramento congiunti”.

    A livello multilaterale, Cina e Kenya sostengono “la riforma necessaria e il rafforzamento delle istituzioni delle Nazioni Unite, incluso il Consiglio di sicurezza”, per aumentare la rappresentanza dell’Africa e degli altri Paesi in via di sviluppo. “In risposta ad una situazione internazionale di caos e cambiamenti interconnessi, è necessario promuovere una governance globale basata sulla consultazione, sulla costruzione congiunta e sulla condivisione, plasmare un ordine internazionale più giusto e ragionevole, abbandonare risolutamente la legge della giungla e opporsi all’egemonia, alla politica di potenza e a tutte le forme di unilateralismo e protezionismo”, sottolinea il documento.

    Relativamente alla situazione africana, sia Pechino che Nairobi “invitano la comunità internazionale a sostenere gli sforzi dei Paesi del continente e di organizzazioni regionali come l’Unione africana per risolvere autonomamente i problemi africani in modo africano. La Cina sostiene fermamente l’Unione africana nella promozione dell’unità tra i Paesi del continente, nella risposta attiva alle problematiche connesse alla sicurezza regionale e nella mediazione di conflitti e controversie regionali”. I colloqui tra Xi e Ruto, conclude la nota, si sono svolti in “un’atmosfera franca e cordiale”, che ha incentivato un “approfondito scambio di opinioni sulle relazioni bilaterali, sui rapporti Cina-Africa nel quadro della nuova situazione (internazionale), così come su questioni internazionali e regionali di comune interesse”. La visita del presidente keniota viene definita nel documento “un completo successo”.

    Parlando al termine dell’incontro, il presidente cinese Xi Jinping ha dichiarato che la Cina è pronta a lavorare con il Kenya per favorire lo sviluppo delle relazioni di Pechino con il continente e a rafforzare la solidarietà e la cooperazione nel Sud globale. “Cina e Kenya dovrebbero continuare a sostenersi fermamente a vicenda nella salvaguardia della sovranità nazionale, della sicurezza e degli interessi di sviluppo, sostenersi fermamente a vicenda nell’esplorazione di percorsi di sviluppo adatti alle loro condizioni nazionali, approfondire gli scambi di esperienze nella governance statale e divenire compagni di viaggio e veri amici sulla strada della modernizzazione”, ha detto Xi.

    Oltre ad aprire ad un aumento delle importazioni di prodotti kenioti di alta qualità, la Cina punta a collaborare con Nairobi per mantenere una regolare comunicazione a livello politico, promuovere la connettività e il commercio sostenibile, esplorare flussi finanziari diversificati e contribuire al rafforzamento della Nuova via della seta. La Cina, ha aggiunto Xi, “non causa problemi, ma non ne ha paura” ed è pronta a collaborare con altri Paesi per rispondere alle problematiche nel panorama internazionale. Alludendo alla politica daziaria del presidente statunitense Donald Trump, Xi ha detto che “non ci sono vincitori nelle guerre commerciali e tariffarie”, e ha sottolineato la propensione di Pechino a “collaborare con altri Paesi del mondo per rispondere alle diverse problematiche attraverso l’unità e la cooperazione, salvaguardando i propri diritti e interessi legittimi, le regole del commercio internazionale e l’equità e la giustizia internazionali”.

    Il presidente Ruto, da parte sua, si è detto convinto che l’attuale guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina potrebbe sancire la fine del vecchio ordine mondiale, attesa da tempo. Parlando nel corso di una conferenza pubblica tenuta presso l’Università di Pechino, Ruto ha aggiunto che un nuovo sistema commerciale mondiale dovrebbe tenere conto delle attuali realtà di una struttura economica globale ingiusta guidata dalle potenze occidentali, in cui le nazioni sottosviluppate, comprese quelle africane, sono svantaggiate. “L’architettura finanziaria e di sicurezza nata dalle ceneri di quel conflitto ha ampiamente favorito il Nord del mondo a spese del Sud del mondo, con l’esclusione di tutti gli altri”, ha lamentato Ruto, che ha partecipato a una tavola rotonda tra investitori di Kenya e Cina, durante la quale sono stati siglati sette accordi con aziende cinesi allo scopo di investire in nuovi progetti di sviluppo nella più grande economia dell’Africa orientale. Il leader keniota ha inoltre esortato sia Nairobi che Pechino a intensificare la loro campagna per promuovere la causa del Sud del mondo sulla scena internazionale, insistendo sulla riforma delle istituzioni globali “per renderle più rappresentative ed efficienti”. Ruto ha quindi descritto le aziende cinesi come la forza trainante della crescita economica del Kenya nel corso degli anni attraverso gli investimenti.

    Tra gli accordi firmati alla presenza dei due leader, degni di nota sono il memorandum d’intesa sull’economia blu, la pesca e gli affari marittimi, che allinea il Kenya all’accordo dell’Organizzazione mondiale del commercio (Omc) sui sussidi alla pesca, e il protocollo d’intesa sulla cooperazione scientifica e tecnologica per promuovere partnership nella ricerca, nell’innovazione e nei progressi tecnologici. Il fulcro della cooperazione tra Pechino e Nairobi è però il settore delle infrastrutture, con il Kenya che beneficerà di progetti chiave nell’ambito della Nuova Via della Seta (Bri). Tra questi rientrano l’estensione delle fasi 2B e 2C della ferrovia a scartamento standard (Sgr), il raddoppio dell’autostrada Rironi-Mau Summit e 15 strade rurali finanziate dalla Banca di sviluppo cinese (Cdb). Sono inclusi anche i finanziamenti per il raddoppio della tangenziale nord, il raddoppio della Kiambu Road alla tangenziale nord, la costruzione del ponte Nithi, il finanziamento del sistema intelligente di gestione del traffico (Itms) e l’ampliamento delle strade cittadine di Eldoret. Inoltre, un accordo sulle leggi ferroviarie, sulle infrastrutture, sugli standard operativi e sul trasporto multimodale getta le basi per una moderna rete ferroviaria che collega persone e mercati in tutta la regione. È incluso anche un accordo quadro per la fase III del sistema di trasporto intelligente di Nairobi e per il miglioramento degli incroci cittadini, per contribuire a ridurre la congestione del traffico e migliorare la mobilità urbana. Da segnalare infine accordi nei settori della sanità, delle risorse idriche, dell’istruzione professionale, della cooperazione culturale, dello scambio e la diffusione di notizie, della formazione, del commercio elettronico, della produzione sostenibile, dell’agroalimentare, della sostenibilità ambientale, del cyberspazio, dell’intelligenza artificiale, delle procedure di immigrazione e sui visti e della prevenzione della tratta di esseri umani.

    Quello in corso è il terzo viaggio che il presidente Ruto effettua in Cina dal suo insediamento, avvenuto nel settembre 2022, ma si tratta della prima visita di Stato in assoluto che compie a Pechino. In precedenza il leader keniota aveva infatti partecipato al Terzo Forum sulla Via della Seta, nell’ottobre 2023, e al Forum sulla cooperazione Cina-Africa, nel settembre 2024. Una visita, quella di Ruto, che avviene sulla scia dei dazi del 10% applicati dal presidente statunitense Donald Trump su tutte le esportazioni keniote verso gli Stati Uniti, che hanno accelerato il tentativo da parte di Nairobi di diversificare i propri partner commerciali. Tra questi, la Cina riveste un interesse fondamentale, dal momento che Pechino occupa attualmente il primo posto nella lista. Secondo l’Amministrazione generale delle dogane (Adg) di Pechino, nei primi tre mesi dell’anno gli scambi di merci tra i due Paesi sono aumentati dell’11,9% su base annua, raggiungendo i 16,13 miliardi di yuan (circa 2,24 miliardi di dollari), segnando il sesto trimestre consecutivo di crescita. Secondo i dati doganali, nello stesso periodo le esportazioni cinesi verso il Kenya hanno registrato un aumento annuo dell’11,8%, mentre le importazioni dal Kenya sono aumentate del 13,2%.

    Il Kenya è un Paese chiave della Bri, l’ambizioso piano che mira a collegare Africa, Asia ed Europa attraverso imponenti progetti infrastrutturali ed energetici. La Cina ha già finanziato miliardi di dollari per la costruzione di strade, porti e una ferrovia keniota che collega la città costiera di Mombasa alla capitale Nairobi. Cina e Kenya hanno ampliato notevolmente la cooperazione in diversi settori sin dall’instaurazione delle relazioni diplomatiche, avvenuta più di sessant’anni fa. Nel 2017, i loro legami sono diventati un partenariato strategico di cooperazione globale. Oggi la Cina è il principale partner commerciale del Kenya e la principale fonte delle sue importazioni, mentre il Kenya è il principale partner commerciale della Cina nell’Africa orientale. All’inizio della sua presidenza Ruto aveva privilegiato i legami con l’Occidente, e in particolare con gli Stati Uniti, rispetto alla Cina, venendo ricevuto alla Casa Bianca nel maggio 2024 dall’allora presidente Joe Biden, che in quell’occasione annunciò il conferimento al Kenya dello status di “alleato primario non membro della Nato”, assegnato ai Paesi che hanno una cooperazione militare privilegiata con gli Usa, pur non partecipando ad alleanze come la Nato. Tuttavia, dopo l’entrata in carica di Donald Trump, i dazi statunitensi e la riduzione degli aiuti Usa hanno spinto Nairobi a cercare nuovi mercati e investimenti da Pechino.

  • Mercenari rumeni arricchitisi in Africa a fianco del candidato putiniano alla presidenza della Romania

    A marzo l’agenzia di stampa statale russa Tass aveva riportato le affermazioni dell’agenzia di intelligence russa Svr secondo cui l’Ue starebbe cercando di interferire nelle prossime elezioni presidenziali in Romania. L’Svr ha affermato che la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha chiesto a Bucarest di impedire al candidato presidenziale rumeno Calin Georgescu, che è emerso come il favorito nelle elezioni annullate dello scorso anno, di partecipare alla ripetizione delle elezioni a maggio. Georgescu ha elogiato in passato il presidente russo Vladimir Putin come «un uomo che ama il suo Paese» e ha definito l’Ucraina «uno Stato inventato», ma sostiene di non essere filo-russo. Dopo che a dicembre la Corte costituzionale della Romania ha annullato le elezioni due giorni prima del ballottaggio dell’8 dicembre (Georgescu era uscito vincente dal primo turno e aveva dichiarato di non aver speso nulla per la campagna elettorale), i pubblici ministeri in Romania hanno avviato un’indagine in sede penale contro Georgescu, accusandolo di sostegno a gruppi fascisti, «incitamento ad azioni contro l’ordine costituzionale» e false dichiarazioni sul finanziamento della campagna elettorale e sulla divulgazione dei beni.

    Parallelamente le autorità rumene hanno condotto 47 perquisizioni in cinque contee che, secondo quanto riferito, sono collegate ad alcuni dei collaboratori di Georgescu e che hanno portato alla luce un deposito di armi, fra cui lanciagranate e pistole, e diversi milioni di dollari in contanti di varie valute. I procuratori hanno dichiarato che le accuse contro i sospettati includono “false dichiarazioni sulle fonti di finanziamento” di una campagna elettorale, possesso illegale di armi e avvio o creazione di un’organizzazione “a carattere fascista, razzista o xenofobo”.

    Tra gli uomini vicini a Georgeuscu spicca il non di Horatiu Potra, ex Legione straniera francese poi guardaspalle dello stesso Gerorgescu. Potra è diventato milionario con le sue attività nel settore della sicurezza privata: in Congo la sua compagnia è stata schierata a Goma e Sake, in Sierra Leone ha fornito i propri servizi a diverse compagnie minerarie. Sebbene non siano mai stati dimostrati legami coi mercenari russi di Evgeny Prigozhin, Potra era in Repubblica Centrafricana quando, nel 2017, sono arrivati i primi uomini del gruppo Wagner.  Lo scorso dicembre, proprio mentre infuriava la questione delle elezioni presidenziali, Potra è stato arrestato in Romania con altre 20 persone mentre si dirigeva verso Bucarest con denaro e armi per «creare disordini», ma poi è stato rilasciato. Oggi è ricercato e dovrebbe trovarsi a Dubai. La polizia gli ha trovato in casa armi, granate, lanciarazzi e mitragliatrici, ma anche 3,3 milioni dollari e 24 chili d’oro.

  • Gli Atout Del Corno D’Africa

    Sotto la supervisione esperta della Dr. Laurie Marker, il CCF sta conducendo una ricerca ecologica innovativa nel Somaliland, come parte di uno sforzo più ampio per comprendere e tutelare le popolazioni di ghepardi nel Corno d’Africa. Qui si combinano tecnologia e intuizioni della comunità per affrontare la maggiore minaccia per i ghepardi nella regione: il commercio illegale di animali esotici, che continua a decimare le popolazioni selvatiche.

    Di recente, quattro cuccioli di ghepardo sono stati confiscati a circa 60 chilometri dalla capitale Hargeisa. Grazie all’intervento immediato del Ministero dell’Ambiente e dei Cambiamenti Climatici (MoECC), i cuccioli sono stati trasferiti in sicurezza al CCF per le cure. Il soccorso è iniziato immediatamente in loco, dove sono stati reidratati e nutriti velocemente già sul retro del nostro mezzo. Una volta stabilizzati, sono stati collocati in quarantena presso il Cheetah Rescue and Conservation Centre (CRCC) a Geed-Deeble.

    La ricerca ecologica in Somaliland sta avanzando rapidamente, fornendo informazioni essenziali sulla distribuzione dei ghepardi e sulle dinamiche dell’habitat. Nel novembre 2024, un team multidisciplinare ha lanciato una spedizione pionieristica sul campo come parte di un dottorato innovativo presso la Namibia University of Science and Technology. Questa ricerca si concentra sulla mappatura dello stato, dell’areale e della distribuzione dei ghepardi in Somaliland, nello Stato regionale somalo (SRS) dell’Etiopia e nel Puntland.

    Dopo l’approvazione del MoECC nel gennaio 2025, il team ha dispiegato 72 fototrappole nel terreno accidentato e montuoso della regione di Awdal. Condotte in collaborazione con i coordinatori regionali e una Special Protection Unit della Somaliland Police Force, queste indagini forniscono una visione più approfondita dell’habitat del ghepardo e ci aiutano a comprenderne l’attuale popolazione.

    Il coinvolgimento della comunità è fondamentale per questo lavoro. I ricercatori hanno collaborato con i nomadi somali locali, che forniscono un contesto cruciale e un valore aggiunto ai dati ecologici. Questa collaborazione non solo migliora la nostra ricerca, ma crea anche relazioni importanti per far sì che le nostre strategie di conservazione abbiano a costruzione del nuovo Education Centre procede celermente, con più spazi ora completamente chiusi mentre muri e tetti esterni prendono forma. Una volta completata, la struttura fungerà da hub per programmi di formazione e sensibilizzazione, fornendo istruzione ambientale e promuovendo lo sviluppo sostenibile dei mezzi di sostentamento. Dotando le comunità locali di conoscenze e competenze essenziali, il Centro svolgerà un ruolo fondamentale nel promuovere la consapevolezza della conservazione e nel creare opportunità che riducano il conflitto tra umani e fauna selvatica.

    Questi sforzi, il salvataggio dei ghepardi, la promozione della ricerca ecologica e la promozione dell’educazione della comunità sono tutti essenziali per combattere il commercio illegale di animali selvatici. Affrontando sia la dimensione ecologica che quella umana della conservazione, stiamo lavorando per salvaguardare le popolazioni di ghepardi, assicurando al contempo che le esigenze delle comunità locali siano soddisfatte, assicurando un futuro sostenibile sia per le popolazioni che per la fauna selvatica.

    Dalla visione all’azione: promuovere la conservazione dei ghepardi dopo il Global Cheetah Summit

    Il Global Cheetah Summit del 2024 ad Addis Abeba ha gettato le basi per una visione strategica e audace per la conservazione dei ghepardi. Esperti come il dott. Bogdan Cristescu e il signor Abdinasir Hussein hanno evidenziato approcci innovativi per mitigare il commercio illegale di animali selvatici/animali domestici e superare le sfide dello studio di questi felini schivi.

    Combinando una solida ricerca sul campo, il coinvolgimento della comunità e tecnologie all’avanguardia, il lavoro in Somaliland sta definendo un nuovo standard per la conservazione nella regione, affrontando direttamente le minacce poste dal commercio illegale di fauna selvatica e promuovendo al contempo soluzioni sostenibili sia per le persone che per la fauna selvatica.

  • Troppi luoghi comuni intorno all’Africa

    L’Africa è nell’opinione comune un luogo da cui si fugge, per l’eco mediatica che inevitabilmente hanno gli sbarchi verso l’Europa. Genocidi (in Ruanda negli anni ’90), guerre civili o scontri etnici e religiosi (Sudan, Congo) fanno certamente parte del modo di essere, purtroppo, del Continente nero, ma quest’ultimo presenta anche una serie di caratteristiche che le cattive notizie mettono in ombra.

    La notizia può apparire così datata e lontana nel tempo da essere sostanzialmente irrilevante ma l’Africa è considerata la culla del genere umano. La Rift Valley è considerata da molti studiosi; i più antichi resti di Homo sapiens sono stati trovati in Etiopia e nel 1974, vicino Khadr fu trovato lo scheletro di Lucy, un Australopithecus Afarensis che visse circa 3,2 milioni di anni fa, e che molti scienziati ritengono sia il più antico antenato diretto dell’uomo. Lo sviluppo della civiltà in Africa è attestato dalle Piramidi in Egitto, ma in realtà a vantare il maggior numero di queste opere architettoniche è il Sudan: ne ospita 223 contro le 138 dell’Egitto ma le minori dimensioni e l’ubicazione meno accessibile ha fatto sì che a divenire attrazione turistica siano state solo quelle egiziane.

    Secoli dopo l’Africa presentava uno sviluppo anche maggiore di quello europeo. Nel 1500 la città di Timbuktu nel Mali aveva 115mila abitanti, mentre Londra solo 20mila abitanti, ed ospitava anche un università. Oggi in effetti solo il 39% della popolazione africana vive in aree urbane. E benché l’Africa sia il Paese col più veloce sviluppo demografico (oggi vi vivono 1,1 miliardi di persone, nel 2050 saranno 2,3 miliardi), solo il Cairo, Egitto, e Lagos, in Nigeria sono megalopoli con oltre 10 milioni di abitanti (Nigeria ed Egitto sono peraltro i Paesi più popolosi del continente, anche se lo sviluppo demografico più alto si registra in Niger). Più noto è il fatto che l’Africa ha una popolazione prevalentemente giovane: in molti stati africani la metà della popolazione non ha ancora raggiunto i 25 anni; l’aspettativa media di vita nel continente è però bassa: 58 anni.

    Anche se, con le sole eccezioni di Etiopia e Liberia, tutta l’Africa è stata colonizzata da Paesi non africani (Regno Unito, Francia, Belgio, Spagna, Italia, Germania e Portogallo), la lingua più parlata in Africa è l’arabo, rappresentato da vari dialetti: lo parlano 170 milioni di persone e vivono principalmente in Nord Africa (in totale, le lingue parlate nei 54 Stati del continente sono 2.000).

    La povertà in Africa è sicuramente diffusa ma che l’Africa sia un Paese povero è in parte un luogo comune. L’Angola sta vivendo una vera e propria fase di boom economico, tanto da aver invertito i flussi di immigrazione verso il Portogallo (di cui è stata una colonia): oggi sono i portoghesi che emigrano in Angola. L’Angola è anche il paese che ha espresso anche il primo miliardario (in euro) della storia dell’Africa: Isabel dos Santos Fontes.

  • La Cina controlla oltre un quarto dei porti commerciali africani

    Con un totale di 231 porti commerciali esistenti in Africa, le aziende cinesi sono presenti in oltre un quarto degli “hub” marittimi del continente, essendo azioniste attive di 78 porti in 32 Paesi. Lo evidenzia nel suo ultimo studio il Centro per gli studi strategici sull’Africa, istituto affiliato al dipartimento della Difesa degli Stati Uniti, specializzato in ricerche focalizzate su sicurezza e geopolitica. Secondo lo studio, le aziende statali cinesi sono azioniste attive di circa 78 porti come costruttori, finanziatori o operatori diretti, con una predilezione per i terminal dell’Africa occidentale (35 porti), seguiti dalle coste orientale (17), australe (15) e settentrionale (11). Si tratta, osservano i tecnici, di una presenza molto più capillare rispetto a quella di altre regioni: a titolo di confronto, l’Asia ospita 24 porti costruiti o gestiti dalla Cina, l’America latina e i Caraibi dieci.

    In alcuni scali africani le aziende cinesi dominano l’intera impresa di sviluppo portuale, dalla finanza alla costruzione, alle operazioni e alla proprietà azionaria. Grandi conglomerati come la China Communications Construction Corporation (Cccc) si sono aggiudicati i lavori come appaltatori principali, assegnando in seguito subappalti ad aziende sussidiarie come la China Harbor Engineering Company (Chec): è questo il caso del porto nigeriano di Lekki, uno dei più trafficati dell’Africa occidentale, dove la Chec ha effettuato i lavori di progettazione e costruzione dopo aver ottenuto un prestito dalla China Development Bank (Cdb), acquisendo al termine una quota finanziaria del 54 per cento nel porto, che gestisce con un contratto di locazione di 16 anni. Oltre al porto di Lekki, in Africa occidentale le aziende cinesi detengono oltre il 50 per cento di quota nel terminal di Kribi, in Camerun (66 per cento) e in quello di Lomé, in Togo (50 per cento).

    In questo quadro si inserisce il più ampio piano di sviluppo, da parte di Pechino, di una connettività globale articolata lungo sei corridoi, altrettante rotte e diversi porti e Paesi del mondo: si tratta dell’Iniziativa Nuova via della Seta (Belt and Road Initiative, Bri), progetto dal quale l’Italia si è sfilata a fine 2023 ma che continua a rappresentare per la Cina un progetto strategico di primaria importanza, e per l’Africa un’opportunità difficilmente trascurabile. Tre dei sei corridoi del piano cinese attraversano infatti il continente, approdando nell’Africa orientale (Kenya e Tanzania), nella regione egiziana di Suez e in Tunisia. Un fattore che conferma, una volta di più, il ruolo centrale che il continente africano riveste nelle ambizioni globali di Pechino. Nel piano quinquennale Bri (2021-2025), del resto, si sottolinea la volontà di trasformare la Cina in “un forte Paese marittimo”, parte di un più ampio ringiovanimento come “Grande potenza” dotata di “punti di forza strategici all’estero”. Nello sviluppo della Nuova via della Seta, Pechino ha inoltre progettato di collegare i nuovi corridoi commerciali e i 16 Paesi africani senza sbocco al mare ai porti, come strategia di affaccio su nuovi mercati.

    Lo studio si concentra anche sulle ripercussioni in termini di potere territoriale che la gestione di contratti di locazione operativa o di concessioni portuali alla Cina comporta. Tramite le sue aziende, Pechino detiene concessioni operative in 10 porti africani, assicurandosi un controllo strategico degli accessi. Oltre ai benefici finanziari dati dalle attività marittime, infatti, l’operatore portuale determina l’assegnazione dei moli, accetta o nega gli scali portuali e può offrire tariffe e servizi preferenziali per le navi e il carico della sua nazione. Il controllo sulle operazioni portuali da parte di un attore esterno – osservano i relatori del rapporto – solleva dunque preoccupazioni in termini di sovranità e sicurezza, motivo che ha spinto alcuni Paesi a vietare la gestione da parte di operatori portuali stranieri. Nonostante i rischi di perdita del controllo, tuttavia, la tendenza in Africa è quella di privatizzare le operazioni portuali per migliorarne l’efficienza. Fra i rischi collegati ad una gestione portuale affidata ad attori esterni c’è peraltro quello legato al supporto logistico ad attività militari. Il porto Doraleh di Gibuti, ad esempio, per anni promosso da Pechino con scopi unicamente commerciali, è stato ampliato per ospitare nel 2017 una struttura navale. Da quell’anno il piccolo Paese del Corno d’Africa ospita così la prima base militare cinese all’estero, con un modello che secondo alcuni potrebbe essere replicato altrove nel continente.

    La crescente presenza di aziende cinesi nei porti africani promuove inevitabilmente anche gli obiettivi militari di Pechino. In 36 dei 78 siti portuali in cui sono coinvolte le aziende cinesi – oltre il 46 per cento del totale – possono attraccare le navi della Marina dell’Esercito Popolare di Liberazione. È il caso dei porti di Abidjan (Costa d’Avorio), Gentil (Gabon), Casablanca (Marocco), Tamatave (Madagascar), Maputo (Mozambico), Tincan (Nigeria), Pointe-Noire (Repubblica del Congo), Victoria (Seychelles), Durban e Simon’s Town (Sudafrica). Alcuni di questi porti, si precisa ancora nel rapporto, sono stati negli anni anche basi di partenza per esercitazioni militari dell’Esercito Popolare di Liberazione. Tra questi ci sono i porti di Dar es Salaam (Tanzania), Lagos (Nigeria), Durban (Sudafrica) e Doraleh (Gibuti). Quest’ultimo ha coinvolto esercitazioni con l’Etiopia, Paese che dall’indipendenza conquistata dalla vicina Eritrea (1993) è ormai senza sbocco sul mare e persegue un’aggressiva campagna politica per riconquistarlo.

    Le truppe cinesi hanno anche fatto uso di strutture navali e terrestri per alcune delle loro esercitazioni, tra cui la base navale di Kigamboni in Tanzania, il centro di addestramento militare completo di Mapinga e la base aerea di Ngerengere, tutte costruite da aziende cinesi. La Awash Arba War Technical School ha svolto uno scopo simile in Etiopia, così come le basi di altri paesi. In totale, secondo il centro studi statunitense dal 2000 ad oggi l’Esercito Popolare di Liberazione ha effettuato in Africa 55 scali portuali e 19 esercitazioni militari bilaterali e multilaterali. Una presenza che si declina, oltre agli impegni militari diretti, anche nella gestione della logistica militare. Un caso fra molti è quello dell’impresa statale cinese Hutchison Ports, gruppo che detiene una concessione di 38 anni dalla Marina egiziana per gestire un terminal presso la base navale di Abu Qir, a nord-est di Alessandria.

  • Allarme sanitario dell’Unicef per l’Africa sudorientale

    Le emergenze sanitarie, tra cui i focolai di colera, di vaiolo e, più recentemente, di febbri emorragiche virali, rappresentano una minaccia significativa per la sicurezza e il benessere di milioni di bambini nell’Africa orientale e meridionale. Lo denuncia in una nota il Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia (Unicef), secondo cui l’elevato numero di crisi sanitarie, spesso aggravate da shock climatici, sta colpendo comunità già vulnerabili e aggrava i rischi per i bambini della regione. “L’allarmante frequenza delle emergenze sanitarie e delle epidemie nella regione sta distruggendo le reti di sicurezza vitali per i bambini, privandoli del diritto a un ambiente sicuro e accogliente”, ha dichiarato Etleva Kadilli, direttrice regionale dell’Unicef per l’Africa orientale e meridionale. “Le parti interessate a livello globale e regionale devono unirsi per rafforzare i sistemi di protezione offerti dalle famiglie, dalle comunità e dai servizi statali per garantire che ogni bambino possa crescere, anche di fronte a molteplici sfide”, ha aggiunto.

    Nel 2025, 17 Paesi dell’Africa orientale e meridionale sono alle prese con molteplici emergenze sanitarie, la maggior parte delle quali è costituita da focolai di malattie prevenibili da vaccino come la poliomielite, il morbillo e la difterite. Anni di tassi di immunizzazione stagnanti e in calo in molti Paesi della regione hanno portato a una recrudescenza di queste malattie prevenibili. La regione sta vivendo importanti focolai di febbri emorragiche virali, tra cui la malattia da virus Marburg in Tanzania e la malattia di Ebola causata dal virus Sudan in Uganda. Inoltre, il vaiolo continua a rappresentare un problema sanitario significativo, in particolare in Burundi e Uganda, con rischi di trasmissione transfrontaliera a causa degli elevati livelli di movimento della popolazione. Inoltre, il colera sta attualmente colpendo 12 Paesi, tra cui Angola, Burundi, Sud Sudan, Zambia e Zimbabwe, con la regione che registra il maggior numero di decessi per colera e diarrea acquosa acuta a livello globale. I bambini sono intrinsecamente più vulnerabili all’impatto fisico di queste malattie a causa del loro sistema immunitario in via di sviluppo e delle loro caratteristiche fisiologiche uniche. I rischi sono ancora maggiori per i bambini che soffrono di malnutrizione.

    Inoltre, quando un membro della famiglia si ammala, è più probabile che i bambini sperimentino un disagio psicologico e siano maggiormente a rischio di abusi, violenze o addirittura lavoro minorile come strategia di sopravvivenza per le famiglie colpite. I rischi per i bambini, in particolare per le bambine, che spesso sono responsabili dell’assistenza ai membri della famiglia colpiti, aumentano con il convergere di crisi multiple. Durante le emergenze sanitarie, le donne e le bambine sono spesso a maggior rischio di abusi sessuali, violenza e sfruttamento a causa della separazione familiare, dell’interruzione dei servizi sociali come l’istruzione e l’assistenza sanitaria e della maggiore vulnerabilità economica. Queste emergenze concomitanti e spesso cicliche mettono a dura prova le capacità di risposta, compromettendo gli importanti risultati ottenuti nel rafforzamento dei servizi sociali. Oltre a fornire forniture essenziali, lavorare con le comunità e sostenere l’accesso all’istruzione, alla salute, alla nutrizione, all’acqua e ai servizi igienici, l’Unicef sta lavorando in tutta la regione per proteggere i bambini da abusi, sfruttamento e violenza.

    L’Agenzia Onu sta inoltre lavorando per garantire la continuazione dei servizi essenziali per i bambini in modo sicuro, rispettoso e dignitoso per le bambine e i bambini di tutte le età, compresi i bambini con disabilità e altri gruppi vulnerabili. Tuttavia, data la portata delle emergenze sanitarie, l’aumento dei finanziamenti e il sostegno internazionale restano fondamentali. “In qualsiasi emergenza, i bambini e le persone più vulnerabili sono quelli che soffrono di più”, ha dichiarato Kadilli. “Oltre agli investimenti nelle infrastrutture e nei servizi essenziali, alla promozione dell’immunizzazione di routine e all’intervento sui determinanti sociali della salute, è necessario continuare a dare priorità a finanziamenti sostenuti per gli sforzi di protezione, al fine di sostenere il benessere generale dei bambini nella regione”, ha concluso.

  • L’azienda italiana Condotte 1880 investirà a Malabo, in Guinea equatoriale

    L’azienda italiana Condotte 1880, con 144 anni di esperienza nel settore delle infrastrutture e dell’ingegneria civile, ha formalizzato la sua presenza in Guinea Equatoriale. Questa decisione, riferisce il sito d’informazione camerunese “EcoMatin”, è stata ratificata il 14 febbraio a Malabo durante un’udienza tra il vicepresidente della Guinea Equatoriale, Teodoro Nguema Obiang Mangue, e una delegazione di Condotte 1880 guidata dal suo direttore generale, Carlo Calt. L’accordo segna il culmine di un processo iniziato nel 2023, quando il vicepresidente della Guinea Equatoriale, Teodoro Nguema Obiang Mangue, si recò a Roma per discutere di opportunità di investimento. Un soggiorno durante il quale erano già stati firmati i primi accordi. Per giustificare la scelta della Guinea Equatoriale come base per avviare le proprie attività in Africa, l’azienda sottolinea due fattori importanti: “l’impegno politico del management di Malabo e l’interessante clima imprenditoriale che offre la Guinea Equatoriale”, ha dichiarato Calt.

    Il settore dell’edilizia sociale continua a rappresentare una sfida importante per il Paese africano. Secondo il Centro per il finanziamento di alloggi a prezzi accessibili (Cahf), nel 2000 la Guinea Equatoriale ha avviato un importante programma di costruzione di alloggi sociali, molti dei quali sono ancora incompiuti. Per far fronte a questa situazione, Malabo ha recentemente rafforzato la propria strategia firmando, lo scorso 10 febbraio, un accordo con la società egiziana Arab Contractors per la costruzione di 100 mila unità abitative sociali. L’arrivo di Condotte 1880 darà quindi un nuovo impulso a questa dinamica. L’ingresso di Condotte 1880 in Guinea Equatoriale rientra nella volontà del governo di Malabo di aumentare l’attrattività della propria economia e di diversificare le fonti di crescita, al di là del settore petrolifero, che rappresenta ancora la maggior parte delle entrate del Paese. Fondato nel 1880, Condotte 1880 è uno dei principali attori del settore delle costruzioni, specializzato nella realizzazione di opere civili, idrauliche, industriali e grandi infrastrutture. Presente in una cinquantina di Paesi, l’azienda italiana ha realizzato nel 2023 un fatturato di 1,65 milioni di euro (circa 1,08 miliardi di franchi Cfa).

  • Il nuovo presidente dell’Unione africana sposta il continente nero dall’Atlantico alla penisola saudita

    L’elezione del ministro degli Esteri di Gibuti Mahmoud Ali Youssouf alla guida della Commissione dell’Unione africana, avvenuta il 15 febbraio ad Addis Abeba nel corso del 38mo vertice dei capi di Stato e di governo dell’organizzazione continentale, sancisce una dura sconfitta per il Kenya, che puntava sul suo candidato Raila Odinga. Quest’ultimo, ex premier e leader storico dell’opposizione keniota, era dato come favorito da molti alla vigilia del voto, sia nei confronti di Youssouf che del terzo candidato, il malgascio Richard Randriamandrato. Alla fine, tuttavia, Odinga – dopo essere stato in vantaggio nei primi due turni di votazioni – è stato superato da Youssouf e costretto ad uscire dalla corsa: il ministro degli Esteri gibutino è riuscito a quel punto ad assicurarsi i 33 voti necessari all’elezione, conquistando il prestigioso incarico. La sconfitta di Odinga, ritenuto il grande favorito della vigilia e apertamente sostenuto dal presidente keniota William Ruto, potrebbe tuttavia non apparire così sorprendente.

    Sebbene tra la delegazione keniota al quartier generale dell’Unione africana si respirasse un clima di grande ottimismo, una serie di fatti avrebbero indispettito gli altri Paesi, contribuendo a far pendere la bilancia del voto in favore del candidato gibutino. Secondo fonti citate dal quotidiano keniota “Standard Media”, la delegazione keniota è rimasta scossa da una lettera che esortava i membri della Comunità di sviluppo dell’Africa australe (Sadc) a votare per il candidato del Madagascar – Paese membro del blocco regionale meridionale -, provocando la piccata reazione del primo segretario del ministero degli Esteri, Korir Sing’oei, il quale ha contestato la candidatura del Madagascar affermando che non il Paese non sia parte dell’Africa orientale. “Da un punto di vista tecnico, penso che, in realtà, il Madagascar non dovrebbe essere sulla scheda elettorale per quanto riguarda la regione orientale perché se questo fosse il turno della regione meridionale, potrebbe ugualmente candidarsi. Ciò conferisce al Paese un vantaggio ingiusto”, ha dichiarato Sing’oei alla stampa alla vigilia del voto, in apparente violazione di un ordine di riserbo imposto dal segretariato dell’Ua.

    Stando alle stesse fonti, anche altre dichiarazioni di massimi funzionari del Kenya avrebbero sorpreso le altre delegazioni. Ad esempio, il ministro degli Esteri, Musalia Mudavadi, ha affermato che il voto avrebbe dovuto concludersi sabato, quasi alludendo al fatto che alcuni Paesi fossero intenzionati a danneggiare la candidatura di Odinga. “Se non riusciamo a eleggere un presidente in questo momento critico, l’Africa apparirà debole, confusa e indecisa”, ha detto Mudavadi durante una riunione del Consiglio esecutivo dell’Ua, che comprende i ministri degli Esteri, evocando un presunto “complotto” per negare al Kenya la maggioranza dei due terzi di cui avrebbe avuto bisogno per far vincere Odinga. Ma ci sono altre ragioni, anche di natura geopolitica, che potrebbero aver influito sulla mancata elezione del candidato keniota. Il Kenya si trova infatti in una situazione scomoda per via del conflitto nella Repubblica democratica del Congo (Rdc), tra le accuse secondo cui Nairobi sosterrebbe il Ruanda, a sua volta accusato di sostenere i ribelli del Movimento 23 marzo (M23). È il caso di ricordare, in tal senso, che a Nairobi è stata istituita l’Alleanza del fiume Congo (Afc), la piattaforma politica formata da diversi gruppi di opposizione congolesi, tra cui lo stesso l’M23. Non è inoltre un caso se, nelle scorse settimane, il presidente congolese Felix Tshisekedi ha disertato il vertice della Comunità dell’Africa orientale (Eac) – di cui il Kenya è uno dei membri di spicco – preferendo invece partecipare virtualmente a un summit congiunto Eac-Sadc. Sempre nelle ultime settimane, il presidente keniota William Ruto ha ammesso di aver parlato con l’omologo francese Emmanuel Macron della situazione della Rdc, un fatto che ha mandato su tutte le furie i Paesi francofoni dell’Ua, in particolare gli interlocutori del Sahel che più sono ansiosi di tagliare i legami con la loro ex potenza coloniale.

    Lo stesso Ruto, peraltro, si è fatto promotore di un netto avvicinamento del suo Paese agli Stati Uniti, come sancito dalla visita di Stato – la prima di un presidente africano in più di un decennio – effettuata a Washington nel maggio scorso da Joe Biden in occasione del 60mo anniversario delle relazioni Usa-Kenya: una mossa che è apparsa come un chiaro messaggio d’interesse da parte di Washington nei confronti di Nairobi e del suo ruolo di bastione democratico nella regione. In quel frangente, Biden aveva anche annunciato l’intenzione di concedere al Kenya lo status di maggior alleato non Nato, rendendolo il primo Paese dell’Africa sub-sahariana titolare di un riconoscimento che consentirebbe al Paese di ottenere armi più sofisticate dagli Stati Uniti e di impegnarsi con Washington in una cooperazione più stretta in materia di sicurezza. Un avvicinamento, quello agli Usa, che è costato a Ruto e al suo Paese l’appellativo di “marionetta” dell’Occidente, etichetta che si porta dietro dall’inizio della sua presidenza.

    Tale posizione si è ulteriormente acuita per la posizione marcatamente filo-israeliana assunta dal Kenya dopo lo scoppio del conflitto del 7 ottobre 2023, un fatto che potrebbe aver intaccato le possibilità di Odinga di assicurarsi il seggio. L’Unione africana, del resto, ha sempre sostenuto una soluzione a due Stati per il conflitto in Medio Oriente, chiaramente influenzata dalla forte componente araba dei suoi Paesi membri: basti ricordare, ad esempio, che il presidente dell’Autorità nazionale palestinese (Anp), Mahmoud Abbas, ha tenuto sabato scorso un discorso al summit di Addis Abeba, guadagnandosi una “standing ovation”. A contribuire alla mancata elezione di Odinga potrebbe essere stata anche la sua età avanzata (ha appena compiuto 80 anni): un fatto che potrebbe aver alimentato la percezione che Ruto stia cercando di gestire la politica interna assicurando a Raila un ruolo a livello continentale per facilitare il suo percorso di rielezione.

    Quanto al candidato eletto, il gibutino Mahmoud Ali Youssouf, molti analisti attribuiscono la sua vittoria alla sua esperienza nella diplomazia e negli affari dell’Ua, avendo fatto parte del suo Consiglio esecutivo – l’organismo dei ministri degli Esteri – per più di un decennio, al contrario di Odinga che ha brevemente ricoperto soltanto il ruolo di Alto rappresentante dell’Ua per le infrastrutture. Ministro degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale di Gibuti dal 2005, Youssouf ha iniziato la sua carriera diplomatica nel 1993, ricoprendo il ruolo di vicedirettore delle Organizzazioni internazionali al ministero degli Esteri e poi diventandone direttore per il Mondo arabo. Nel 1997 è stato nominato ambasciatore di Gibuti in Egitto e rappresentante permanente presso la Lega degli Stati africani, nonché ambasciatore non residente in Libano, Libia, Sudan, Siria e Turchia. Youssouf è stato poi nominato ministro delegato per la Cooperazione internazionale presso il ministero degli Affari esteri, arrivando a guidare il dicastero quattro anni dopo.

    Così come la bocciatura di Odinga scontenta gli Stati Uniti, l’elezione di Youssouf non può che essere ben vista dai Paesi arabi ma anche dall’altra superpotenza globale, la Cina, che a Gibuti ha la sua unica base militare all’estero (2mila uomini). Vero è che il piccolo Paese del Corno d’Africa ospita diversi avamposti di potenze militari occidentali, tra cui gli stessi Usa (con 4.500 militari), la Francia (con 1.450 militari), il Giappone (con 180 militari), l’Italia (presente con la Base militare italiana di supporto, Bmis, che ospita un centinaio di militari) e la Spagna. Tuttavia, è stata proprio la crescente presenza cinese a Gibuti ad attirare un’attenzione senza precedenti sul Paese africano. Posizionato com’è all’estremità meridionale del Mar Rosso, Gibuti è ritenuto strategicamente cruciale, trovandosi nell’intersezione di importanti passaggi marittimi – tra cui lo stretto di Bab el Mandeb e il Golfo di Aden – e, dunque, vitale per il flusso di petrolio e le esportazioni cinesi. La Cina finanzia inoltre la ferrovia Addis Abeba-Gibuti, inaugurata l’1 gennaio 2018, che collega la capitale etiope Addis Abeba con Gibuti e il suo porto di Doraleh.

    La reazione di Pechino all’elezione di Youssouf, del resto, non si è fatta attendere. Nel corso di una conferenza stampa tenuta oggi, il portavoce del ministero degli Esteri di Pechino, Guo Jiakun, ha dichiarato che la Cina è pronta a lavorare a stretto contatto con il nuovo presidente della Commissione dell’Unione africana e con tutto l’organismo regionale nel promuovere l’integrazione africana e sostenere la voce del continente sulla scena internazionale, e ha definito l’Ua “un vessillo di forte unità per l’Africa e un’importante piattaforma per la cooperazione internazionale”. Il governo cinese si è quindi detto pronto a lavorare insieme per “continuare a sostenere il ruolo guida dell’Ua nel promuovere l’integrazione africana e inviare una voce più forte negli affari internazionali e regionali, promuovere congiuntamente lo sviluppo approfondito delle relazioni della Cina con l’Ua e l’Africa e guidare lo sforzo del Sud del mondo per cercare la forza attraverso l’unità e raggiungere insieme la modernizzazione”.

  • Nel Cuore del Somaliland la missione del CCF per i Ghepardi

    Ancora cuccioli erano stati ritrovati con azioni di intelligence e affidati immediatamente al Cheetah Conservation Fund in Somaliland. Sono i 95 ghepardi sopravvissuti, poiché molti di loro non ce l’avevano fatta, che da quasi cinque anni vivono al CCF e che oggi, grazie alle terapie somministrate che garantiscono loro uno stato di buona salute, sono continuamente monitorati. Avevano subito serissimi danni durante le catture, dalla malnutrizione alla disidratazione, dalla presenza di parassiti a ferite, contusioni, legature alle zampe. Alcuni di loro hanno subito danni irreversibili, come Hanuman che ha subito l’amputazione della coda (a causa di una probabile porta chiusa senza attenzione dai bracconieri). Per questo motivo, i ghepardi, che sono di proprietà del governo, devono restare nel Paese e affidati solo al CCF che se ne assume tutte le responsabilità.

    Attualmente nel centro ci sono 25 recinzioni di dimensioni notevoli che contengono diversi gruppi di ghepardi, spesso fratelli, che vanno dagli undici mesi ai 5/6 anni, ma sempre rigorosamente separati tra maschi e femmine.

    Betty von Hoenning, responsabile del CCF Italia e amica del Patto Sociale, in questo periodo in Somaliland e in Namibia, ci fa sapere che le cure quotidiane sono abbastanza lunghe al mattino e meno nel pomeriggio, alle 6,30 è fresco, il sole sorge e si lavora bene fino alle 11 circa, perché il rischio di contaminazione è alto quando si tratta di animali selvatici.

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