Africa

  • Nel Cuore del Somaliland la missione del CCF per i Ghepardi

    Ancora cuccioli erano stati ritrovati con azioni di intelligence e affidati immediatamente al Cheetah Conservation Fund in Somaliland. Sono i 95 ghepardi sopravvissuti, poiché molti di loro non ce l’avevano fatta, che da quasi cinque anni vivono al CCF e che oggi, grazie alle terapie somministrate che garantiscono loro uno stato di buona salute, sono continuamente monitorati. Avevano subito serissimi danni durante le catture, dalla malnutrizione alla disidratazione, dalla presenza di parassiti a ferite, contusioni, legature alle zampe. Alcuni di loro hanno subito danni irreversibili, come Hanuman che ha subito l’amputazione della coda (a causa di una probabile porta chiusa senza attenzione dai bracconieri). Per questo motivo, i ghepardi, che sono di proprietà del governo, devono restare nel Paese e affidati solo al CCF che se ne assume tutte le responsabilità.

    Attualmente nel centro ci sono 25 recinzioni di dimensioni notevoli che contengono diversi gruppi di ghepardi, spesso fratelli, che vanno dagli undici mesi ai 5/6 anni, ma sempre rigorosamente separati tra maschi e femmine.

    Betty von Hoenning, responsabile del CCF Italia e amica del Patto Sociale, in questo periodo in Somaliland e in Namibia, ci fa sapere che le cure quotidiane sono abbastanza lunghe al mattino e meno nel pomeriggio, alle 6,30 è fresco, il sole sorge e si lavora bene fino alle 11 circa, perché il rischio di contaminazione è alto quando si tratta di animali selvatici.

  • Etiopia e Somalia riallacciano le relazioni diplomatiche

    Inizia a prendere corpo lo storico accordo siglato lo scorso 11 dicembre ad Ankara tra Etiopia e Somalia, volto a porre fine alla grave crisi diplomatica innescata dal controverso memorandum d’intesa firmato il primo gennaio 2024 dal governo etiope con le autorità del Somaliland. Nel corso del fine settimana il presidente somalo Hassan Sheikh Mohamud ha infatti effettuato la sua prima visita bilaterale ad Addis Abeba dall’inizio della crisi, incontrando il primo ministro etiope Abiy Ahmed, con il quale ha concordato il pieno ripristino delle relazioni diplomatiche tra i due Paesi.

    In un comunicato congiunto diffuso al termine dell’incontro, avvenuto sabato 11 gennaio, i due leader hanno concordato di migliorare la cooperazione in materia di sicurezza, incaricando le agenzie competenti di collaborare in modo più efficace nella lotta ai gruppi estremisti nella regione, e hanno discusso del rafforzamento delle relazioni commerciali, della costruzione di infrastrutture congiunte e della promozione degli investimenti per promuovere la prosperità di entrambi i Paesi.

    La visita di Mohamud ha fatto seguito a quella effettuata a Mogadiscio lo scorso 2 gennaio dalla ministra della Difesa etiope Aisha Mohamed Mussa, che è servita anche a definire la partecipazione delle truppe etiopi nella nuova Missione di supporto e stabilizzazione dell’Unione africana in Somalia (Aussom) – che dal primo gennaio ha preso il posto della Missione di transizione dell’Unione africana in Somalia (Atmis) – dopo che le continue schermaglie con Addis Abeba avevano spinto il governo di Mogadiscio a minacciare l’esclusione dell’Etiopia dal contingente a beneficio delle unità egiziane, sollevando una certa inquietudine nella regione.

    Non è un caso, del resto, se nello stesso giorno in cui Mohamud e Ahmed s’incontravano ad Addis Abeba, i ministri degli Esteri di Egitto, Eritrea e Somalia – rispettivamente Badr Abdelatty, Osman Saleh e Ahmed Moalim Fiqi – tenevano colloqui trilaterali al Cairo per discutere la sicurezza regionale. Nell’occasione, i tre ministri hanno concordato di tenere riunioni periodiche nel prossimo futuro e hanno discusso dei preparativi per l’organizzazione di un vertice trilaterale a livello presidenziale.

    La visita di Mohamud ad Addis Abeba, preceduta da quella di Mussa a Mogadiscio, s’inserisce nel quadro dell’accordo concluso l’11 dicembre ad Ankara fra Somalia ed Etiopia, con la mediazione del presidente turco Recep Tayyip Erdogan. Una riunione al termine della quale era stata firmata la cosiddetta Dichiarazione di Ankara, che aveva aperto la strada a ulteriori negoziati per affrontare questioni ancora irrisolte, tra cui il futuro del Somaliland e le dispute territoriali.

    Tra gli impegni presi, Somalia ed Etiopia hanno concordato di avviare negoziati tecnici per definire accordi commerciali e logistici bilaterali, con particolare attenzione all’accesso sicuro e sostenibile dell’Etiopia al Mar Rosso. La Turchia ha svolto un ruolo centrale nella mediazione tra i due Paesi. Erdogan ha lavorato per garantire un dialogo costruttivo, incontrando separatamente Mohamud e Ahmed prima di facilitare l’accordo congiunto. Ankara negli ultimi anni ha ampliato la sua influenza nel Corno d’Africa. Con investimenti strategici sia in Somalia che in Etiopia, la Turchia ha dimostrato di essere un attore chiave nella regione.

    La Dichiarazione di Ankara ha consentito di porre fine alla disputa sorta con il memorandum d’intesa siglato a gennaio 2024 dall’Etiopia con il Somaliland, Stato separatista somalo non riconosciuto da Mogadiscio. In base all’intesa, le autorità di Hargheisa avrebbero dovuto concedere all’Etiopia un tratto di costa di circa 20 chilometri, consentendole così di avere un accesso al Mar Rosso e di costruire una base navale e un porto commerciale nella città di Berbera, in cambio del possibile riconoscimento dell’indipendenza del Somaliland.

    Un accordo che Mogadiscio ha ritenuto da subito una palese violazione della sua sovranità territoriale. Dopo mesi di inconcludenti tentativi di mediazione internazionale e ripercussioni sulla stabilità regionale, i due Paesi hanno concordato di lavorare insieme per risolvere la disputa e iniziare i negoziati tecnici entro la fine di febbraio.

  • Africa sempre più lontana dall’Occidente: il Ciad si riprende un’altra base militare della Francia

    Prosegue il ritiro delle forze armate francesi in Ciad, dove la base militare di Abeché sarà riconsegnata alle Forze armate locali. Lo riferiscono i media francesi, sottolineando che la cerimonia ufficiale per il passaggio di consegne segue la decisione delle autorità al potere a N’Djamena di interrompere la cooperazione con Parigi in materia di difesa e sicurezza.

    La presiederà il ministro ciadiano delle Forze armate e dei veterani, Issakha Maloua Djamous, che ha raggiunto la base dalla capitale N’Djamena. Ad Abeché, decine di persone si sono radunate nei pressi della base militare, salutando con urla e grida di gioia il passaggio del ministro ciadiano. La partenza delle truppe francesi da Abeché è vista con particolare favore, commenta “Rfi”, ricordando che questa città nell’est del Paese, che costituisce un crocevia tra il nord e il sud del Ciad, è stata segnata da diversi massacri durante la colonizzazione francese.

    Quella di Abeché è la seconda delle tre basi francesi che Parigi sta riconsegnando all’esercito ciadiano dopo la richiesta di ritiro formulata dalle autorità di N’Djamena a fine novembre. Il 26 dicembre, le truppe francesi di stanza in Ciad hanno riconsegnato all’esercito ciadiano la base militare di Faya-Largeau, principale città del nord del Paese. Secondo fonti di “Rfi”, i circa 30 uomini che gestivano l’aerodromo di Faya-Largeau hanno lasciato la base al termine di una cerimonia ufficiale, per raggiungere la capitale N’Djamena. Il trasferimento, su una distanza di quasi 800 chilometri, richiede diversi giorni di cammino. Per quanto riguarda le attrezzature, che rappresentano diverse decine di tonnellate, sono state rimpatriate direttamente in Francia tramite aereo cargo. In generale, hanno confermato fonti francesi, tutti i veicoli militari provenienti dalle basi di Faya-Largeau, Abéché e N’Djamena dovranno essere rimpatriati in Francia attraverso il porto di Douala entro il 31 gennaio. Lo Stato maggiore delle Forze armate francesi ha definito l’operazione “conforme al calendario stabilito con il partner ciadiano”. In precedenza, una prima unità di 120 militari francesi è partita da N’Djamena per la Francia, dieci giorni dopo la partenza di due aerei da combattimento.

    La Francia ha avviato il ritiro delle sue forze armate dal Ciad lo scorso 10 dicembre, con il decollo di due aerei da guerra Mirage di base nella capitale N’Djamena. “(La partenza) segna l’inizio del rientro delle attrezzature francesi di stanza a N’Djamena”, ha affermato in quel frangente il portavoce dell’esercito, il colonnello Guillaume Vernet, aggiungendo tuttavia che un calendario per il ritiro delle operazioni avrebbe richiesto ancora diverse settimane per essere finalizzato dai entrambi i governi. Lo scorso 20 dicembre, tuttavia, il governo del Ciad ha chiesto di accelerare le operazioni, affermando che Parigi dovrà terminare il ritiro di tutte le sue forze militari presenti nel Paese – circa mille uomini – entro il prossimo 31 gennaio. La data limite è stata confermata di recente dalle autorità ciadiane come “non negoziabile” in seguito alle dichiarazioni del presidente francese Emmanuel Macron, che nel suo discorso agli ambasciatori, lo scorso 6 gennaio, ha accusato i leader africani di “ingratitudine” rispetto agli sforzi effettuati dalle truppe francesi nel Sahel per contrastare il terrorismo.

  • Il Botswana paga coi diamanti l’accoglienza ai migranti di cui ha bisogno

    Il aprire i confini ai migranti, anche sprovvisti di documenti. L’iniziativa, rivolta anzitutto ai vicini dello Zimbabwe (paese che dall’indipendenza non ha visto certo la popolazione governata meglio di quanto era una colona nuovo presidente del Botswana, paese africano a nord-ovest del Sud Africa, Duma Boko ha promesso di nota come Rhodesia), mira a risolvere, senza intralci legali o burocratici da parte delle amministrazioni pubbliche, il fabbisogno degli operatori economici di braccianti nei campi, nell’edilizia o nei servizi di cura domestica. Il neopresidente è convinto che molte di queste persone accetteranno mansioni che gli abitanti del posto trovano ormai poco attraenti e che così si colmerà il gap di unità produttive di cui il Botswana ha bisogno. Secondo Boko, «in qualsiasi cantiere del Botswana la maggior parte dei lavoratori qualificati arrivano dallo Zimbabwe» e piuttosto che respingerli conviene dunque «apprendere le loro competenze».

    All’Espresso Christian John Makgala, professore di Storia e politica economica presso l’Università del Botswana, ha spiegato che «finora il governo ha speso una fortuna per arrestare e deportare i migranti, che poi riattraversavano nuovamente il confine appena possibile. Non è affatto detto che le regolarizzazioni abbiano un impatto profondo sull’economia, ma almeno così si allarga la base imponibile e si aumentano le entrate fiscali dello Stato». Per far fronte ai costi dell’iniziativa Boko punta a ridiscutere con De Beerà e Anglo American la quota di spettanza del governo di Gaborone dei proventi dei diamanti, di cui il paese è ricco.

    I kenyoti, che non vivono particolarmente vicino al Botswana, fanno invece gola alla Germania. Secondo l’Ufficio federale per il lavoro di Berlino mancano all’appello 400mila persone l’anno e già sono in arrivo i 500 medici e infermieri, mentre nel Paese africano c’è chi denuncia il rischio di un impoverimento della sanità locale.

    In Asia invece la Thailandia ha appena avviato la più grande regolarizzazione della storia di persone senza cittadinanza a beneficio di oltre 335mila rohingya in fuga dal Myanmar o appartenenti ad altre comunità neglette (in quasi la metà dei casi a beneficiare della misura saranno bambini nati in Thailandia da genitori migranti). L’iniziativa è in linea con gli obiettivi fissati da una campagna delle Nazioni Unite che si chiama “Global Alliance to End Stateless”.

  • Apple accusata di usare minerali provenienti da zone di conflitto

    La Repubblica Democratica del Congo ha denunciato le filiali del colosso tecnologico Apple in Francia e Belgio accusandole di usare minerali in zone di conflitto. Agendo per conto del governo congolese, gli avvocati hanno sostenuto che Apple è complice di crimini commessi da gruppi armati che controllano alcune delle miniere nella parte orientale della Repubblica Democratica del Congo. La società statunitense ha affermato di “contestare fermamente” le affermazioni e di essere “profondamente impegnata nell’approvvigionamento responsabile” di minerali.

    Le autorità in Francia e Belgio esamineranno se ci sono prove sufficienti per proseguire con l’azione legale.

    In una dichiarazione, gli avvocati della Repubblica Democratica del Congo hanno parlato della contaminazione della filiera di Apple con “minerali del sangue”. Affermano che lo stagno, il tantalio e il tungsteno vengono prelevati da aree di conflitto e poi “riciclati attraverso filiere di fornitura internazionali, sottolineando che queste attività hanno alimentato un ciclo di violenza e conflitti finanziando milizie e gruppi terroristici e hanno contribuito al lavoro minorile forzato e alla devastazione ambientale. Apple ha respinto le accuse affermando di mantenere i suoi “fornitori ai massimi standard del settore”.

    L’est della Repubblica Democratica del Congo è una delle principali fonti di minerali e la sete globale di questi minerali ha alimentato guerre per decenni.

    I gruppi per i diritti umani hanno a lungo affermato che grandi quantità di minerali provenienti da miniere legittime, così come da strutture gestite da gruppi armati, vengono trasportate nel vicino Ruanda e finiscono nei nostri telefoni e computer.

    In passato, il Ruanda ha descritto l’azione legale del governo congolese contro Apple come una trovata mediatica, negando di aver venduto minerali di aree di conflitto alla società tecnologica.

  • Il Kenya chiede di valutare anche l’impatto sugli animali dei mutamenti climatici

    Il Kenya ha lanciato un appello per portare sul tavolo di discussione sulla crisi climatica anche la fauna selvatica, minacciata dalla mancanza d’acqua o dalla riduzione dell’habitat. Specie iconiche come elefanti, rinoceronti bianchi e neri, leoni, iene, ghepardi e molti altri rischiano letteralmente di scomparire, vittime degli impatti del cambiamento climatico. il quotidiano The Star cita il segretario per la fauna selvatica del ministero del Turismo del Kenya, Shadrack Ngene, secondo il quale “le discussioni sulla fauna selvatica dovrebbero essere parte dell’agenda poiché anche loro subiscono gli impatti del cambiamento climatico come noi”.

    Il censimento del 2021 ha mostrato che il Kenya ha 36.280 elefanti, rinoceronti neri (897), rinoceronti bianchi (842), rinoceronti settentrionali (2), leoni (2.589), iene (5.189), ghepardi (1.160), licaoni (865) e bufali (41.659). Altri animali sono la giraffa Masai (13.530), la giraffa reticolata (19.725), la giraffa della Nubia (938), la zebra comune (121.911), la zebra di Grevy (2.649), l’eland (13.581), l’alcelafo (7.332), lo gnu (57.813) e la gazzella di Grant (66.709). Tuttavia, gli impatti del cambiamento climatico minacciano di spazzare via queste specie iconiche: il 5 novembre 2022, il Wildlife research and training institute (Wrti, l’ente keniano che si occupa dei parchi e della fauna selvatica) ha pubblicato un rapporto che mostrava che la maggior parte di queste specie erano morte a causa della mancanza di acqua e pascoli.

    “Come Dipartimento di Stato, stiamo facendo ciò per identificare tutte le misure di mitigazione, adattamento e resilienza necessarie, e poi stanziare un budget per esse in modo da poter anche mobilitare le risorse necessarie per garantire che il settore della fauna selvatica possa affrontare i problemi legati al cambiamento climatico” ha detto Ngene, annunciando che il piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici nel settore della fauna selvatica per il Paese sarà lanciato l’anno prossimo.

    Il Wrti, in uno studio, mostra che nelle precedenti due stagioni (da ottobre 2021 a maggio 2022) il Paese ha ricevuto precipitazioni inferiori alla media e sono stati registrati più di 1.000 decessi: le specie più colpite sono gli gnu, le zebre comuni, gli elefanti, le zebre di Grevy e i bufali, con gli ecosistemi di Amboseli, Tsavo e Laikipia-Samburu che sono stati i più colpiti. Secondo le statistiche, in quel periodo sono morti 512 gnu, 381 zebre comuni, 205 elefanti, 49 zebre di Grevy e 51 bufali. È già in corso una seconda fase del censimento nazionale della fauna selvatica.

    Un articolo della rivista online The Conversation Africa riferisce che dal 1960 a oggi la temperatura media delle pianure keniane del Masai Mar è aumentata di 5,3 gradi, che è calata la disponibilità di acqua e dunque anche la vegetazione e che gli animali sono sempre più in lotta, sia tra loro che con l’uomo, per la disponibilità di risorse idriche.

    Attualmente il governo del Kenya protegge il 19% del suo territorio, di cui l’8% è costituito da parchi e riserve e l’11% da riserve comunitarie o private: Ngene ha detto che lo Stato ha dovuto fornire un’alimentazione mirata per alcune specie di animali selvatici come la zebra di Grevy durante la siccità e ha detto anche che il Paese sta cercando di espandere le riserve comunitarie dall’11% al 20% entro il 2030, potenziando le aree per la cattura della Co2 e promuovendo un turismo sostenibile attraverso la governance e i piani di utilizzo del territorio. “Il settore della fauna selvatica nel paese contribuisce molto al raggiungimento di ciò che vogliamo ottenere in termini di mitigazione del clima, adattamento e resilienza” ha detto Ngene: il Kenya ospita 25.000 specie animali, tra cui molti grandi mammiferi, 7.000 specie di piante e 2.000 specie di funghi e batteri.

  • From freedom fighter to Namibia’s first female president

    Nicknamed NNN, Netumbo Nandi-Ndaitwah has made history by being elected as Namibia’s first female president.

    The 72-year-old won more than 57% of the vote, with her closest rival, Panduleni Itula, getting 26%, according to the electoral commission.

    It is just the latest episode in a life packed with striking events – Nandi-Ndaitwah has fought against occupying powers, fled into exile and established herself as one of the most prominent women in Namibian politics.

    However, Itula has rejected her victory. He said the election was “deeply flawed”, following logistical problems and a three-day extension to polling in some parts of the country.

    His Independent Patriots for Change (IPC) party said it would challenge the result in court.

    Nandi-Ndaitwah has been a loyal member of the governing party, Swapo, since she was a teenager and pledges to lead Namibia’s economic transformation.

    Nandi-Ndaitwah was born in 1952, in the northern village of Onamutai. She was the ninth of 13 children and her father was an Anglican clergyman.

    At the time, Namibia was known as South West Africa and its people were under occupation from South Africa.

    Nandi-Ndaitwah joined Swapo, then a liberation movement resisting South Africa’s white-minority rule, when she was only 14.

    A passionate activist, Nandi-Ndaitwah became a leader of Swapo’s Youth League.

    The role set her up for a successful political career, but at the time Nandi-Ndaitwah was simply interested in freeing South West Africa.

    “Politics came in just because of the circumstances. I should have become maybe a scientist,” she said in an interview this year.

    While still a high school student, Nandi-Ndaitwah was arrested and detained during a crackdown on Swapo activists.

    As a result of this persecution, she decided she could not stay in the country and joined several other Swapo members in exile.

    She continued to organise with the movement while in Zambia and Tanzania, before moving to the UK to undertake an International Relations degree.

    Then in 1988 – 14 years after Nandi-Ndaitwah fled her country – South Africa finally agreed to Namibian independence.

    Nandi-Ndaitwah returned home and subsequently joined the post-independence, Swapo-run government.

    In the years since, she has held a variety of posts, including ministerial roles in foreign affairs, tourism, child welfare and information.

    Nandi-Ndaitwah became known as an advocate for women’s rights. In one of her key achievements, she pushed the Combating of Domestic Violence Act through the National Assembly in 2002.

    According to Namibian media, Nandi-Ndaitwah criticised her male colleagues for trying to ridicule the draft law, sternly reminding them that the Swapo constitution condemns sexism.

    She continued to rise despite Namibia’s traditional and male-dominated political culture, and in February this year she became vice-president.

    She suceeded Nangolo Mbumba, who stepped up after the death of then-President Hage Geingob.

    In her personal life, Nandi-Ndaitwah is married to Epaphras Denga Ndaitwah, the former chief of Namibia’s defence forces. The couple has three sons.

    Throughout her career, Nandi-Ndaitwah has displayed a hands-on, pragmatic style of leadership.

    She once declared in a speech: “I am an implementer, not a storyteller.”

  • Il Ciad revoca gli accordi militari con la Francia, Parigi guarda alla Nigeria per restare nel Sahel

    Evocando “una svolta storica”, il governo del Ciad ha annunciato la revoca degli accordi di difesa e sicurezza in vigore con la Francia, Paese di cui ospita sul suo territorio circa mille militari. “È ora per il Ciad di affermare la sua piena sovranità e di ridefinire i suoi partenariati strategici, sulla base delle sue priorità nazionali”, ha dichiarato in un comunicato il ministro degli Esteri, Abderaman Koulamallah, precisando che la decisione non rimette in questione “le relazioni storiche e il legame di amicizia fra i due Paesi”. Il capo della diplomazia di N’Djamena sottolinea che la scelta è frutto di “un’analisi approfondita” e che il Ciad si impegna a collaborare con le autorità francesi ad assicurare “una transizione armoniosa”, senza tuttavia precisare una data per il ritiro delle forze straniere. Il governo del Ciad – prosegue il testo – “rimane determinato a mantenere relazioni costruttive con la Francia in altri ambiti di interesse comune”, esprime “la sua gratitudine alla Repubblica francese per la cooperazione condotta nel quadro dell’accordo” e “rimane aperto ad un dialogo costruttivo per esplorare nuove forme di partenariato”.

    Non è forse un caso se le autorità di N’Djamena hanno deciso di “smarcarsi” dall’ex potenza coloniale nell’anniversario dell’indipendenza, avvenuta nel 1958, con un annuncio che segue di poche ore la partenza dal Paese del ministro degli Esteri francese Jean-Noel Barrot, ricevuto ieri dal presidente Mahamat Idriss Deby. Una missione ufficialmente destinata – secondo Parigi – a rafforzare la richiesta regionale di un cessate il fuoco nel vicino Sudan, ma che in ogni caso non è servita a dissuadere i militari al potere in Ciad dal rompere i rapporti bilaterali di difesa. Lunedì scorso, inoltre, l’inviato speciale per l’Africa del presidente Emmanuel Macron, Jean-Marie Bockel, ha consegnato al capo dell’Eliseo il suo rapporto sulla presenza militare francese in Africa, con all’interno proposte dettagliate su come ridurre gli effettivi in Ciad, Gabon e Costa d’Avorio. In quest’ottica la decisione ciadiana non sembra essere un evento del tutto inatteso per Parigi. L’annuncio di N’Djamena, peraltro, segue quello con cui il governo ciadiano ha minacciato di ritirare il suo fondamentale sostegno dalla Forza multinazionale congiunta (Mmf), missione regionale cui contribuiscono dal 1994 anche Nigeria, Benin, Camerun e Niger allo scopo di fronteggiare il terrorismo jihadista. Dopo la Nigeria, con i suoi 3 mila uomini, il Ciad ne è il principale contributore. Il presidente Mahamat Deby Itno – al potere dall’aprile 2021, quando subentrò a suo padre Idriss Deby Itno, ucciso in battaglia rai ribelli – ha lamentato uno sforzo eccessivo da parte del suo esercito per la stabilità regionale, in un momento in cui lo stesso Ciad deve far fronte a continue offensive sul suo territorio: l’ultima, lo scorso 28 ottobre, ha visto cadere 40 militari ciadiani in un violento attacco contro la base militare di Barkaram, nella regione frontaliera del lago Ciad.

    Con la rottura annunciata da N’Djamena, cade dunque l’ultimo baluardo francese nel Sahel, e per Parigi all’orizzonte si prospettano altre difficoltà. Il presidente del Senegal, Bassirou Faye Diomaye, è infatti tornato a chiedere la chiusura nel Paese di tutte le basi francesi, nel nome della sovranità nazionale. “Il Senegal è un Paese indipendente, è un Paese sovrano e la sovranità non accetta la presenza di basi militari”, ha dichiarato in un’intervista a “France 2”. Faye ha precisato che non è nelle sue intenzioni tagliare le relazioni con Parigi come fatto da altri nella regione, e che l’argomento vale per tutti, nessuno escluso: “Oggi la Cina è il nostro più grande partner commerciale in termini di investimenti e scambi. La Cina ha una presenza militare in Senegal? No. Ciò significa che le nostre relazioni sono interrotte? No”, ha specificato. Poche ore prima dell’intervista Macron ammetteva in una lettera a Faye le responsabilità coloniali francesi in quello che ha definito il “massacro” di fucilieri senegalesi nel 1944 nel campo militare di Thiaroye (Dakar), quando i militari africani chiesero di essere pagati per il servizio prestato al fianco di Parigi durante la Seconda guerra mondiale. Il gesto di Macron è stato riconosciuto come “un passo coerente” dal capo di Stato senegalese, che tuttavia rimane fermo sulla posizione militare già espressa durante la campagna elettorale.

    Nel tentativo di mantenere una presa sul Sahel, da dove la Francia è stata negli ultimi quattro anni progressivamente estromessa (prima del Ciad, era stata la volta delle giunte golpiste di Mali, Burkina Faso e Niger), Macron tenta ora di rafforzare le relazioni con la Nigeria, il cui presidente Bola Tinubu è in visita ufficiale a Parigi proprio in questi giorni. Accolto personalmente dal presidente francese e ospitato prima al Consiglio d’affari franco-nigeriano poi alla riunione dell’influente Medef (la Confindustria locale), Tinubu è il primo capo dello Stato nigeriano a visitare la Francia da 20 anni a questa parte. Per Parigi, che per necessità si trova a dover guardare con maggior interesse all’area anglofona saheliana, la Nigeria può giocare un ruolo – se non militare, certamente economico – strategico. Principale partner commerciale di Parigi nell’Africa sub-sahariana davanti a Sudafrica, Costa d’Avorio e Angola, Abuja rappresenta oltre il 20 per cento del commercio francese nella regione, concentrato per l’export in settori come la farmaceutica, le attrezzature meccaniche, i veicoli e i prodotti chimici, per l’import sugli idrocarburi. Rafforzare le relazioni con la Nigeria, primo motore dell’Africa occidentale e seconda del continente, è per Parigi un’occasione vitale per non perdere del tutto presa su una regione che guarda ormai alla Francia in modo diffidente e spesso ostile.

  • Kenya less open to visitors despite visa-free policy – report

    Kenya has plunged in the latest rankings of how open it is to visitors from other African countries despite introducing a “visa-free policy” earlier this year.

    It dropped 17 places to 46th out of 54 nations, according the 2024 Africa Visa Openness Index (AVOI).

    Last year, President William Ruto was highly praised after announcing that Kenya would drop visa requirements for all visitors from the continent.

    But in their place most travellers now have to apply online for authorisation before leaving their country, which some have criticised as “a visa under another name”.

    The system, known as the Electronic Travel Authorisation (ETA), determines if applicants are eligible to travel to Kenya and can take up to three days to be processed.

    Citizens from the East African Community regional bloc are exempt.

    The AVOI, supported by the African Union and run by the African Development Bank Group (AfDB), evaluates accessibility of African countries based on visa policies.

    It says Kenya’s “requirement for ETAs prior to travel for most travellers from other African countries lowered [its] score”.

    Looking at the continent overall, AfDB director Joy Kategekwa said the fact that “Africans continue to require visas for the most part to enter other African countries is one of the most profound contradictions to the continent’s aspirations on regional integration”.

    She noted that the report also “investigates the question of [ETAs] which, notwithstanding intent, resemble features of a visa”.

    The report says that the “introduction of ETAs by some countries added additional layers of requirements to the traveller and did not facilitate ease of movement”.

    Last October, President Ruto said Kenya would be going “visa-free” beginning in January this year, noting that the country was “the cradle of mankind”.

    But the latest ranking has come as no surprise to some Kenyans.

    “I did raise this very matter in January 2024,” says Mohamed Hersi, a hotelier and former chairman of the Kenya Tourism Federation.

    In January, Mr Hersi, said that the ETA was “not the same as visa-free”, and could make it more difficult for potential visitors to come to the country.

    Others have called for change in the policy.

    “The ETA isn’t progress—it’s still a visa, adding another bureaucratic layer and making travel to Kenya harder, not easier. Time for a serious rethink on accessibility,” says Kenyan entrepreneur Gina Din.

    Documents needed to get an ETA include flight details and proof of a hotel booking.

    Except for EAC citizens, all travellers must now pay $30 (£24) is valid for 90 days. Previously travellers were able to pay $50 for a multiple-entry visa that could be valid for several years.

    Before the introduction of the ETA, visitors from more than 40 countries including several from Africa, were able to arrive in Kenya, get a stamp on their passport and enter without paying.

    But there was a security element to the introduction of the new system.

    A government spokesperson told the BBC earlier this year that the ETA was necessary for vetting travellers.

    “Terrorism is one of the global threats at the moment, so we need mechanisms to ensure everyone who is coming to Kenya is [not a risk] to the country,” he said.

    Kenya has been targeted by al-Shabab jihadist militants from neighbouring Somalia in several notorious attacks.

    But looking at people travelling to Kenya overall, from Africa and beyond, the ETA does not appear to have discouraged tourists from coming.

    The country welcomed more than a million international visitors in the first six months of 2024, a 21% increase from last year, according to the Kenya Tourism Board.

    According to the AVOI, Benin, The Gambia, Rwanda and the Seychelles are ranked the highest in visa openness, with Africans requiring no visas to enter the countries.

    Sudan is bottom of the index, followed by Libya, Equatorial Guinea and Eritrea.

    The report’s authors say that overall, despite welcome change in some places, the continent’s score has dropped by a small amount.

  • Somaliland opposition leader wins presidential election

    The opposition leader of the self-declared republic of Somaliland, Abdirahman Mohamed Abdullahi, has won the territory’s presidential election.

    More popularly known as Irro, he won with 64% of the vote to become Somaliland’s sixth president since it broke away from Somalia in 1991.

    The 69-year-old, a former speaker of Somaliland’s parliament, beat incumbent Musa Abdi Bihi, who took 35% of the vote.

    During campaigning, Irro said his party would review a controversial deal to lease landlocked Ethiopia a 20km (12-mile) section of its coastline for 50 years to set up a naval base – an agreement that has caused a diplomatic feud in the region.

    As part of the deal, announced on New Year’s Day, Somaliland expects to be recognised by Addis Ababa as an independent nation.

    This has upset Somalia, which regards Somaliland as part of its territory – and it has said it views the deal as an act of aggression.

    Irro has never rejected the deal out of hand, but when discussing it has used diplomatic language, which suggests a change of tack.

    Somaliland is located in a strategic part of the world, and is seen as a gateway to the Gulf of Aden and the Red Sea.

    Despite its relative stability and regular democratic elections, it has not been recognised internationally.

    “We are all winners, the Somaliland state won,” Irro said, commending everyone for the peaceful vote on 13 November that was witnessed by diplomats from nine European countries and the US.

    He also thanked outgoing President Bihi, who has led the breakaway region since 2017.

    Critics say Bihi lost support because of a paternalistic style – saying he had been dismissive of public opinion at a time when economic difficulties have undermined the value of the local currency.

    The president-elect, who will be sworn in on 14 December, is seen as a more unifying figure.

    But he has said he will continue Somaliland’s relations with Taiwan – over which China claims sovereignty.

    When the two established diplomatic relations in 2021 it angered both China and Somalia.

    Somaliland is a former British protectorate that joined the rest of Somalia on 1 July 1960.

    In a conflict leading up to the overthrow of President Siad Barre in 1991, tens of thousands of people were killed in Somaliland and its main city of Hargeisa was completely flattened in aerial bombardments.

    In the chaos that followed Barre’s departure, Somaliland declared its independence and has since rebuilt the city, created its own currency, institutions and security structures.

    This is often contrasted to Somalia, which collapsed into anarchy for decades and still faces many challenges, including from Islamist militants, and does not hold direct elections.

    Born in Hargeisa, Irro went to school in Somalia and later attended college in the US – graduating with a master’s degree in business administration.

    After university he pursued a diplomatic career, joining Somalia’s foreign service in 1981.

    He was posted to Moscow where he worked at Somalia’s embassy. During the civil war, he became the country’s acting ambassador to the former Soviet Union.

    Many people fled Somalia during the conflict, which tore the nation apart, including Irro’s family who went to live in Finland.

    He was able to be reunited with them there and obtained Finnish citizenship.

    Irro returned to Somaliland several years later, entering politics in 2002 as co-founder of the opposition Justice and Welfare party (UCID).

    He went on to serve as speaker of the parliament for 12 years.

    It was during this time that he established the Wadani Party, which has grown to be a powerful political force in Somaliland and on whose ticket he won this year’s election.

    Additional reporting by Bidhaan Dahir and BBC Monitoring.

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