guerra

  • Le menzogne di Putin e la necessità di abbattere i droni sconosciuti che sorvolano l’Europa

    Continuando nelle guerra della controinformazione e delle menzogne, sparate come proiettili potenzialmente mortali per le ripercussioni sugli stati e sulle popolazioni, Putin e la sua banda ci fanno vedere, con il volto ben nascosto da un casco, un presunto pilota russo che, tramite mail, i servizi inglesi e ucraini avrebbero cercato di comperare per fargli fare un attentato in un paese Nato.

    Notizia che si commenta da sola, non esiste un servizio segreto occidentale che possa immaginare di uccidere in un attentato decine di europei per poi avere via libera per procedere a ritorsioni contro la Russia e portare la Nato in guerra.

    Non esiste che un servizio segreto usi mail per comunicazioni così particolari, per arruolare o comperare un pilota o altro militare russo.

    Il presunto pilota parlava in modo che palesemente dimostrava come fosse stato costretto a raccontare evidenti menzogne.

    Putin ha messo in piedi questa ennesima truffa per sostenere che i droni, che sorvolano, in incognito, i cieli e gli aeroporti europei, così come i sistemi elettronici che hanno reso difficoltosi i viaggi aerei di diverse personalità politiche, non sono di provenienza russa.

    Sappiamo quanto valgono le sue dichiarazioni e che cioè sono tutte falsità, basti pensare che negava di prepararsi alla guerra contro l’Ucraina solo a poche ore dal tentativo di invadere Kiev e di uccidere Zelensky e di iniziare la sua ‘operazione speciale’ con morti, deportazioni, distruzioni.

    In tutti i casi se ci saranno ancora droni sconosciuti sopra i cieli europei, specie su siti sensibili, l’unica soluzione è abbatterli.

    Questi droni sono una minaccia con varie sfaccettature, non solo preoccupano le persone, danneggiano i servizi e di conseguenza le economie, ma catturano informazioni su di noi ed i nostri sistemi di controllo, abbatterli è’ l’unica soluzione.

    Se sono di Putin se ne assumerà la responsabilità, se non sono di alcuno lo appureremo guardando i marchi dei vari componenti, in ogni caso dobbiamo pensare alla nostra sicurezza che continua a passare dal sostegno all’Ucraina.

  • Un tatuaggio nel cuore

    All’ambasciata russa non è piaciuto il tatuaggio della bandiera ucraina che Calenda si è fatto per testimoniare la sua vicinanza al coraggioso popolo ucraino che si oppone, con tutte le forze, alla guerra di invasione russa.

    Non amo particolarmente i tatuaggi ma, in questo caso, penso che Calenda abbia compiuto un atto simbolico rilevante ed apprezzo la sua decisione, il suo gesto, augurandomi che sia di esempio e stimolo ad imitarlo per coloro che ai tatuaggi sono abituati.

    All’ambasciatore russo, che vive nei privilegi del suo incarico nella città eterna, ricordo che a molti di noi non sono invece piaciute le parole della Zakarova che ci augurava di finire tra le macerie, i delitti e le stragi del suo presidente Putin, i rapimenti dei bambini ucraini e la distruzione di scuole, ospedali, infrastrutture civili per la luce ed il riscaldamento.

    In tanti abbiamo amato le opere dei grandi artisti russi, abbiamo sofferto per le privazioni e le deportazioni che il popolo russo ha subito negli anni bui dello stalinismo e del comunismo, arrivato fino al 1989, ed auguriamo al popolo russo di ritrovare presto la libertà in ogni campo.

    In tanti soffriamo ancora pensando a quanti milioni di russi non conoscano la libertà di stampa e di espressione, ancora oggi, in quanti sono stati mandati inutilmente a morire combattendo contro una nazione sovrana e indipendente, nella quale le persone erano e sono libere, solo per dare a Putin l’ebrezza di sentirsi più potente, potente come uno zar.

    All’ambasciatore russo diciamo in modo chiaro che, anche se non ci siamo fatti un tatuaggio sulla pelle, il tatuaggio l’abbiamo nel cuore e nell’anima, Putin è un sanguinario massacratore di civili, chi lo sostiene ed asseconda un suo servo, saremo sempre e sempre di più con l’Ucraina, costi quel che costi perché con Putin ed i suoi servi od alleati non c’è Dio, non c è pace, libertà e giustizia.

  • Ne trarremo le conseguenze

    Immagino che l’ambasciatore russo, convocato alla Farnesina, non si sia sentito andare il latte alle ginocchia per la preoccupazione visto che sa bene come il suo zar abbia in Italia fieri ed indefessi sostenitori, nonostante tutte le nefandezze che compie ogni giorno ed ogni notte in Ucraina.

    Certo la convocazione dell’ambasciatore ha un valore simbolico, meno simbolica la dichiarazione che ha fatto Salvini, dopo le parole disgustose della portavoce del ministero degli Esteri di Putin, che ha tenuto a precisare che non si può continuare a sostenere Kiev, sembra un messaggio allo zar del quale fu già sostenitore.

    Con buona pace della Zokharova, non è un errore di battitura, la torre dei Conti, dopo più di mille anni, terremoti, guerre, invasioni, cambiamenti climatici etc etc, è sempre stata su, l’incuria l’aveva salvata poi, con i soldi che nessuno ha dato a Kiev per toglierli agli italiani, si è pensato di ristrutturarla ed è crollata.

    Si accerteranno cause e responsabilità nella speranza, ogni volta che si procederà ad un nuovo restauro di un monumento, che verifiche, competenze, misure di sicurezza siano studiate prima degli interventi, per salvare la vita degli operatori e per evitare che i monumenti crollino.

    Comunque la Zokharova si metta il cuore in pace, l’Italia ha così tanti monumenti che neppure tutte le speranzose maledizioni sue e del suo capo e la possibile imperizia di qualche impresario ci potranno ridurre in macerie, se poi minaccia la guerra, che per altro è già in parte in atto con gli attacchi informatici ed i droni vaganti, ne trarremo le conseguenze.

  • Il Cremlino è al verde e taglia gli ingaggi per i soldati da spedire in Ucraina

    Per la prima volta dall’inizio della guerra contro l’Ucraina, la Russia ha tagliato i premi per chi accetta di andare al fronte. La sforbiciata arriva dopo che si è registrato il record negativo di arruolamenti: i dati aggiornati al secondo trimestre di quest’anno, dunque al periodo tra aprile e giugno, parlano del numero più basso mai registrato dall’invasione dell’Ucraina, nel 2025 gli arruolamenti sono calati del 60%.

    Al Cremlino mancano le risorse per ingaggiare soldati. Il direttore di Sberbank, la più grande banca russa, Herman Gref, nel corso del Forum economico orientale di Vladivostok ha citato l’andamento dell’economia a luglio e agosto ed ha avvertito su «sintomi abbastanza chiari del fatto che ci stiamo avvicinando allo zero». Nel 2025, secondo i dati emersi da studi internazionali e riferiti da Euronews, metà del bilancio dello Stato sarà stato assorbito dalla guerra, portando il deficit a 4.900 miliardi di rubli. Secondo quanto ricostruito dall’agenzia di stampa Adnkronos, citando il giornale russo Kommersant, la regione più colpita dalla decurtazione delle indennità è il Tatarstan, dove il bonus è passato da 3,1 milioni di rubli (27mila euro) a 800mila. Ma anche in Chuvascia, Mari El e a Belgorod l’assegno ha subito una riduzione significativa. In particolate, nella Chuvascia e nel Mari El l’assegno è stato ridotto a 800mila rubli rispettivamente da 2,5 milioni e 3 milioni; a Belgorod da 800mila a 500mila rubli.

    Nei primi sei mesi dell’anno, le autorità federali e regionali hanno speso più di due trilioni di rubli (17 miliardi di euro) per il reclutamento e le spese del personale militare, 499 miliardi di rubli dei quali per l’assegno di reclutamento, 865 milioni per i salari e 765 per le compensazioni per le famiglie dei soldati feriti o caduti.

    È stato poi il sito indipendente di notizie, Storie importanti, a rivelare che fra aprile e giugno di quest’anno, hanno accettato di essere spediti al fronte solo 37.900 soldati, il numero più basso in due anni, anche se in questi mesi c’è stato un visibile aumento della pubblicità per il reclutamento, spesso con la promessa che i nuovi soldati sarebbero stati inviati nelle retrovie e non in ruoli di combattimento, salvo poi essere riassegnati al fronte pochi mesi dopo. Nello stesso periodo del 2024, il numero dei contratti firmati era stato di 92.800. Si tratta di un crollo pari a circa il 60%.

  • Anche l’ambiente tra le vittime di Putin in Ucraina

    Anche l’ambiente è tra le vittime di Putin in Ucraina, come riferisce un reportage del Corriere della Sera.

    Nella foresta rossa, uno dei luoghi più contaminati in seguito all’incidente di Chernobyl nel 1986, ci sono ancora i segni delle trincee scavate disperdendo terreno radioattivo dopo l’attacco russo all’Ucraina. L’imponente sarcofago del reattore numero quattro, più alto della Statua della Libertà, ha ancora un gigantesco buco di quindici metri quadrati causato dall’esplosione di un drone russo. «Il sogno del ritorno della natura a Chernobyl si sta infrangendo con la realtà della guerra» dice Oleksandr Muzychenko, direttore della riserva istituita poco prima della guerra per proteggere l’incredibile rinaturalizzazione che stava prendendo piede nel territorio abbandonato intorno alla centrale. «Ma è l’ambiente di tutta l’Ucraina a subirne le conseguenze in realtà».

    In Ucraina il territorio è di grande valore naturalistico ma reso fragile da anni di inquinamento e dalla pesante eredità sovietica, ed è sotto attacco costante dall’inizio dell’invasione. I campi sono stati e vengono tuttora minati perché l’agricoltura ucraina fallisca. Centrali elettriche e sistemi di depurazione delle acque sono tra i bersagli più frequenti dei bombardamenti russi per costringere la popolazione ucraina alla resa, e così le industrie chimiche e petrolchimiche diventate bombe a orologeria per la popolazione che vive lì vicino. Migliaia di ettari di foreste vengono bruciati nei bombardamenti certe volte per facilitare i movimenti di truppe, la maggior parte delle volte solo per creare una distrazione. Il panorama nel parco naturale di Sviati Hory lascia in effetti senza fiato: chilometri e chilometri di alberi bruciati di cui rimane solo uno stelo annerito, come quello di un fiammifero. «I bombardamenti hanno distrutto oltre seimila ettari di foreste, inclusi boschi di specie ormai rarissime» dice Serhiy Pryimachuk, direttore del parco, mentre parla da una terrazza che si affaccia su tutto il territorio dello Sviati Hory. «Abbiamo provato a salvare il possibile, nonostante ci avessero distrutto i mezzi antincendio, nonostante i bombardamenti, nonostante le mine. Nonostante gli uomini persi durante i tentativi di salvataggio» dice Serhiy, indicando le macchie scure di alberi bruciati all’orizzonte

    Lo Sviati Hory ha patito particolarmente perché si trova in Donbass, a una manciata di chilometri dal fronte e in mezzo a una delle zone più colpite dalla guerra: le campagne intorno sono ancora devastate da incendi causati dall’abbandono e dai bombardamenti costanti, i villaggi sono rovine. La maggior parte dei parchi e delle riserve ucraini ha però comunque patito, e il Mar Nero è forse l’area che più ha sofferto. «I danni degli sversamenti di petrolio, dei bombardamenti sono giganteschi, ma è difficile capire esattamente quanto perché non possiamo accedere a buona parte della costa» dice Ivan Rusev, il direttore del parco delle lagune di Tuzly, vicino Odessa. Nel parco sono cadute centinaia di bombe, e tuttora viene bersagliato dai droni russi. «È successa la stessa cosa con i delfini» aggiunge, mentre mostra una decina di teschi dell’animale, raccolti negli anni della guerra. L’uso di sonar militari e le mine nel Mar Nero ne hanno causato una moria senza precedenti, ma è quasi impossibile fare una stima precisa al momento. «Ne potrebbero essere morti a centinaia, forse migliaia» conclude. Nel Mar Nero si sono però anche riversati i 18 chilometri cubici di acqua della diga Kakhovka, fatta saltare in aria nel luglio 2023. E insieme all’acqua sono arrivati i pesticidi, inquinanti, mine ed esplosivi dei terreni e villaggi travolti dal piccolo tsunami che ha seguito lo svuotamento del bacino.

    Quello che era uno dei laghi artificiali più grandi d’Europa è ora una pianura verde, dove è ricresciuta la vegetazione ma che è ormai inaccessibile; dal belvedere di Prymors’ke, l’ultimo villaggio ancora controllato dagli ucraini e a sette chilometri dal fronte, si sente il tonfo sordo delle bombe da 250kg sganciate dai russi sulle postazioni ucraine. Poco più in là c’è la centrale nucleare di Zaporizhzhya, la più grande in Europa, occupata dai russi dal 2022 e al centro di un pericoloso fuoco incrociato tra le due parti. Le infrastrutture energetiche sono in effetti un altro dei bersagli più comuni dei bombardamenti, parte di una campagna russa diretta a mettere in ginocchio il sistema energetico ucraino e intensificatasi soprattutto dal 2024. La distruzione delle centrali e della rete hanno ridotto a un terzo la capacità energetica ucraina rispetto a prima dell’invasione, con un impatto devastante sulla popolazione ma anche sull’ambiente, soprattutto per il rischio di sversamento di combustibile. Il petrolchimico, ma anche fabbriche di fertilizzanti e altri composti chimici sono stati infatti colpiti di frequente, e di incidenti simili se ne contano a decine: nel febbraio 2024 un drone russo ha colpito un deposito a Kharkiv, creando un fiume in piena di petrolio incendiato che ha ucciso sette persone e devastato le case e l’area intorno. Nemmeno le infrastrutture per l’acqua sono state risparmiate: il quasi mezzo milione di persone della città di Mykolaïv si lava con acqua salmastra a seguito della distruzione russa delle condotte, che hanno costretto le autorità ad approvvigionarsi dalle lagune.

    Condotte e canali distrutti sono un’immagine comune anche nei dintorni di Mykolaïv e in molte altre campagne ucraine, dove l’agricoltura ha forse subito i danni peggiori della guerra. «L’Ucraina è il Paese più minato al mondo» dice Dmitro, sminatore per la cooperazione norvegese. Il suo team lavora con cani, imponenti macchine sminatrici e metal detector per liberare i campi sia dalle mine antiuomo e anticarro lasciate dai russi in ritirata a fine 2022, sia dai missili inesplosi e soprattutto le bombe a grappolo che continuano ad arrivare. Non tutti hanno questi mezzi: poco distante Olena e Oleksandr, due giovani agricoltori ucraini, provano a rendere sicuri i campi con attrezzature improvvisate, vecchi trattori e aratri dismessi. «Ci rendiamo conto che è pericoloso, ma che alternativa abbiamo?» Dice Olesksandr, seduto sullo scheletro di una mietitrebbia distrutta da una mina. «Siamo tornati dopo la liberazione, abbiamo trovato la casa e i campi distrutti. Ma non vogliamo andarcene più. Vogliamo iniziare a ricostruire». Alle sue spalle c’è la sua abitazione, il piano superiore distrutto da una cannonata di carrarmato. I fossi intorno ai campi sono zeppi di bossoli di artiglieria e brandelli di missile raccolti dagli agricoltori lì vicino.

  • Buchi nell’organico delle truppe, l’Ucraina aumenta l’uso di robot da combattimento

    Di fronte a una cronica carenza di personale e alla pressione costante degli attacchi russi, le Forze armate ucraine stanno accelerando l’impiego di veicoli robotici telecomandati per sostituire, almeno in parte, le unità di fanteria in prima linea. Lo riferisce il quotidiano britannico “The Independent” citando fonti militari ucraine e operatori attivi sul fronte orientale. I robot da combattimento, prodotti quasi interamente da aziende ucraine, sono veicoli blindati su ruote o cingolati, impiegati per trasportare munizioni, carburante, viveri, evacuare feriti e caduti, svolgere operazioni di sminamento, detonare cariche esplosive o esplorare zone a rischio. Il loro costo varia tra i mille e i 64 mila dollari a seconda della configurazione, e la loro adozione è in forte crescita lungo l’intero fronte di mille chilometri. Un operatore della Guardia nazionale, nome in codice “Miami”, ha spiegato che il suo plotone ha iniziato a impiegare questi mezzi per missioni logistiche nei pressi di Kostiantynivka, nell’oblast di Donetsk. “Non possono sostituire l’uomo in tutto, ma possono evitare di esporre i soldati in situazioni troppo pericolose”, ha dichiarato. In una missione recente, un robot ha trasportato oltre 200 chilogrammi di materiale in una postazione nascosta nella foresta, muovendosi a circa sei chilometri orari.

    Un altro militare, nome in codice “Akim”, ha spiegato al giornale che spesso il robot non è dotato di videocamera autonoma, ma viene guidato a distanza da un operatore che riceve le immagini da un drone in volo lungo il percorso. “Ogni volta che un drone o un robot compie una missione, significa che un nostro compagno è al sicuro. E, a differenza dell’uomo, la macchina non si stanca”. Tuttavia, l’adozione su larga scala di questi mezzi è ostacolata da diversi fattori: la vulnerabilità agli attacchi nemici, la lentezza nei movimenti su terreni aperti, e i costi, che in alcuni casi possono raggiungere l’equivalente di 9.700 dollari per unità. “Se ne perdi tre o quattro in una settimana, il bilancio diventa pesante”, ha ammesso Miami. Per aumentarne la sopravvivenza, i militari ucraini stanno sperimentando modifiche sul campo, come l’aggiunta di strutture protettive o rulli metallici per l’individuazione di mine. L’esperienza maturata in battaglia viene trasferita rapidamente ai nuovi prototipi in produzione.

    Il comandante in capo ucraino, Oleksandr Syrsky, ha annunciato che entro la fine del 2025 saranno introdotti fino a 15 mila robot terrestri. Tuttavia, secondo altri ufficiali come il generale Serhiy Sobko, l’eccessiva dipendenza da sistemi tecnologici rischia di compromettere la preparazione delle truppe in condizioni operative avverse. “Stiamo perdendo la capacità di operare senza il supporto di droni e robot”, ha dichiarato. Anche se in alcune zone i droni vengono utilizzati per il novanta per cento delle operazioni, l’assenza di fanteria resta insostituibile, ha sottolineato un comandante della 93ma Brigata Meccanizzata. “Senza militari sul terreno, non c’è difesa duratura, anche nell’era dei sistemi automatizzati”. Il ricorso a veicoli robotici rappresenta una delle innovazioni più significative introdotte dall’Ucraina nel conflitto, in un contesto in cui anche l’esercito russo fa sempre più uso di piattaforme telecomandate. Secondo l’International Institute for Strategic Studies, l’esperienza ucraina potrebbe contribuire ad accelerare lo sviluppo globale di dottrine robotiche sul campo di battaglia.

  • Tornati gli eroici deputati italiani

    Gli eroici deputati italiani sono velocemente tornati a casa per il loro piccolo bagno di folla mentre gli altri italiani sono, ovviamente, ancora trattenuti in Israele, come era previsto.

    Non ci saremmo aspettati diversamente visto che ormai la pubblicità c’era stata a sufficienza ma un minimo senso di rispetto, per il ruolo istituzionale che ricoprono e per il voto di quelli che li hanno scelti, avrebbe dovuto suggerire loro di rimanere con gli altri per tornare tutti insieme.

    Certo dividere per giorni le riprese televisive dalle barche, entrare nei telegiornali e nei vari mezzi di informazione è ben diverso che condividere spiacevoli e difficili giorni di detenzione, perciò ‘coerentemente’ hanno scelto di tornare subito in Italia.

    Forse faranno anche in tempo a partecipare a qualche manifestazione pro Palestina, a scrivere qualche interrogazione ed interpellanza, a fare cioè nulla di utile per i palestinesi che si stanno chiedendo che fine abbiano fatto gli aiuti alimentari e sanitari tanto sbandierati.

    Se questi aiuti sono veramente esistiti perché non consegnarli al Patriarca Latino di Gerusalemme, il Cardinale Pizzaballa, per poi proseguire comunque il percorso verso Gaza? Avrebbero ottenuto sia lo scopo di aiutare veramente la popolazione sofferente che di dare una dimostrazione politica.

    Domanda retorica ovviamente, l’operazione era solo politica, non umanitaria e il gioco delle parti continua accendendo ogni giorno nuove pericolose micce di odio e polemica.

  • Accordi di pace

    Sappiamo che il Presidente americano Trump ha un forte ego e ama attribuirsi soluzioni miracolose per le situazioni politiche ed economiche più complicate che altri non hanno saputo risolvere. Chi ha potuto ascoltare la conferenza stampa che ha tenuto con il Primo Ministro israeliano Netanyahu avrà notato come il Tycoon abbia sottolineato almeno due volte che la crisi in Medio Oriente, che dura da almeno duemila anni abbia, grazie a lui, finalmente trovata una risposta positiva e definitiva. Gli ostaggi a Gaza saranno liberati entro 72 ore, l’esercito di Israele si ritirerà dalla Striscia in successive ondate, un nuovo Governo provvisorio che lui stesso coordinerà gestirà il mantenimento dell’ordine e dei servizi essenziali mentre la ricostruzione programmata consentirà a tutti i palestinesi del posto di ritornare (se lo vorranno) nel loro territorio. Un’aggiunta molto importante che ha giustamente tenuto a evidenziare ha riguardato il fatto che tutti i Paesi arabi e musulmani hanno concordato sul piano di pace da lui proposto e collaboreranno alla futura gestione dell’area. Il tono e le parole usate sono state scelte sicuramente in accordo con Netanyahu, che ha confermato tutto quanto detto dal Presidente. Mentre Trump non ha fatto alcun accenno alla questione della Cisgiordania affollata da coloni israeliani abusivi, il Primo Ministro ha però ribadito che la nascita di uno Stato palestinese è inaccettabile poiché costituirebbe un costante pericolo per la sicurezza di Israele.

    Che la possibile soluzione negoziata del conflitto a Gaza, così come presentata, sia un’ottima cosa e perfino il massimo ottenibile vista la situazione attuale resta indiscutibile. Che ciò rappresenti la risposta definitiva ai conflitti medio-orientali e sistemi una diatriba secolare è, tuttavia, una grossolana millanteria basata sul nulla. Diamo pure per buona l’idea che uno Stato di Palestina possa rappresentare un pericolo per la sopravvivenza dello stesso Israele, ma come la si mette allora con tutti i palestinesi che oggi vivono in Cisgiordania? Non sono decine, né centinaia, bensì milioni di persone a molti dei quali è stata sottratta con la forza bruta la terra che coltivavano e le case in cui abitavano. Anche chi di loro ancora può vivere del proprio raccolto e abitare nella propria casa come si organizzerà? L’ANP è screditata ma, pure se non lo fosse, quale governo potrebbe gestire una regione con pezzettini di terra distribuiti a macchia di leopardo e con difficoltà di collegamento tra l’uno e l’altro?

    A tutti noi piacerebbe che quanto detto in conferenza stampa a Washington costituisca davvero la fine dei secolari problemi tra ebrei e arabi in quelle terre ma qualche dubbio non minore rimane. Il problema della convivenza tra ebrei e musulmani non è mai esistito nella storia. A differenza di ciò che hanno fatto i cristiani verso i seguaci di Abramo attraverso pogrom, emarginazioni, persecuzioni ed esilio forzato, gli Stati a maggioranza musulmana li hanno sempre accolti pacificamente e la coesistenza delle due religioni sullo stesso territorio non ha mai creato problemi di alcun genere, tanto è vero che quando gli ebrei furono cacciati dalla Spagna cattolica la maggior parte di loro trovò rifugio e benessere proprio ove a comandare erano i musulmani. Il vero problema è cominciato solo quando i sionisti hanno preteso la creazione dello Stato di Israele e l’ONU ne ha stabilito la nascita formale. Fu allora che, nonostante l’Arabia Saudita in un primo momento e su pressioni inglesi accettasse quella decisione, gli Stati arabi della zona si ribellarono e iniziò la prima delle sanguinose guerre tutte poi vinte da Israele.

    Con gli Accordi di Abramo era sembrato che ci si incamminasse verso una soluzione pacifica ma il problema dei palestinesi era rimasto in sospeso in attesa di (im)possibili nuovi sviluppi. Perfino Riad si stava preparando ad aderirvi e, probabilmente, gli attacchi di Hamas del 7 ottobre furono scatenati proprio per impedirlo. La comprensibile reazione israeliana ha rimesso in discussione persino quell’Accordo già raggiunto rendendo impraticabile la sua continuazione. Ora, se veramente finirà la carneficina di Gaza con l’intesa tra tutti gli Stati coinvolti, gli Accordi di Abramo potrebbero anche rinascere e allargarsi. Non va, tuttavia, sottovalutato il fatto che né a Washington né a distanza, alcun rappresentante dei palestinesi sia stato direttamente coinvolto.

    Dire quindi, come hanno fatto in conferenza stampa, che si “apre una storica pace definitiva” per tutto il problema medio-orientale può essere utile a un Trump che pretende di ottenere il premio Nobel per la pace, ma a chi osserva con obiettività i fatti sembra una vanteria più che esagerata. Forse, se non ci saranno colpi di coda di Hamas (destinata ad auto-annullarsi, cioè “suicidarsi”, secondo le intese annunciate da altri) la popolazione di Gaza potrà tirare un sospiro di sollievo, ma come la metteremo con l’insieme di tutti i palestinesi e della Cisgiordania in particolare?

  • Guerre dimenticate, l’allarme di COOPI: oltre 630 vittime invisibili al giorno

    61 conflitti attivi con la partecipazione di almeno uno Stato, il dato più elevato dal 1946. Si stima che nel solo 2024 siano state uccise almeno 233.000 persone in episodi di violenza armata (mediamente, 638 vittime al giorno, una ogni due minuti) e che ci siano stati più di 123 milioni di sfollati a causa di persecuzioni, conflitti armati, violenze, violazioni dei diritti umani e altri eventi che minacciano gravemente la sicurezza pubblica. Sono i dati dell’Uppsala Conflict Data Program (UCDP) che raccontano di un mondo in cui guerre e crisi armate, alcune poco o per nulla raccontate, stanno facendo aumentare drammaticamente la necessità di interventi umanitari.

    Il drammatico scenario è stato descritto in occasione della decima edizione dell’appuntamento “COOPI Cascina Aperta”, nell’ambito del quale è stato presentato il Bilancio sociale 2024 della organizzazione umanitaria milanese, che ha appena raggiunto l’importante traguardo di 60 anni di attività.

    «Nell’anno in corso – ha spiegato il presidente di COOPI – Cooperazione Internazionale, Claudio Ceravolo – sono 305 milioni le persone che, in tutto il mondo, sono in condizioni di necessità di assistenza umanitaria e protezione, ma spesso restano inascoltate, se non del tutto dimenticate. Oltre ai gravissimi conflitti a Gaza e in Ucraina esistono molte altre aree del pianeta in cui la violenza e le crisi umanitarie sono molto intense, ma rimangono totalmente nell’ombra».

    È il caso dell’Africa meridionale ed orientale, che ospitano il maggior numero di persone bisognose (circa 85 milioni), quasi un terzo del totale a livello mondiale, con la crisi in Sudan che rappresenta il 35% del totale della regione.

    Il Sudan vive attualmente la più grande crisi umanitaria al mondo: a fine agosto 2025 si stimavano quasi 10 milioni di sfollati interni. Attualmente oltre 30 milioni di persone – più della metà della popolazione – hanno bisogno di assistenza umanitaria: il 51.4% sono bambini, il 43.4% adulti e il 5.3% anziani.

    A 10 mesi dalla caduta del governo di Bashar Al-Assad, la crisi umanitaria in Siria resta molto grave. Sono ancora 16,7 milioni le persone che necessitano di assistenza e protezione umanitaria e oltre la metà della popolazione versa in una condizione di insicurezza alimentare. In questo scenario, la situazione dei bambini e dei minori è particolarmente critica: si stima che più del 75% dei 10,5 milioni di bambini siriani siano nati durante i 14 anni della guerra civile, trascorrendo la loro intera esistenza in uno scenario di sfollamento, violenza e devastazione. La portata della crisi educativa siriana ha raggiunto vette sconfortanti: quasi il 50% di bambini e giovani è rimasto escluso dalla scuola, sia all’interno della Siria che nei Paesi che ospitano rifugiati.

    Nella Repubblica Democratica del Congo – soprattutto nella zona orientale del Paese – l’escalation del conflitto armato sta provocando sfollamenti di massa e aggravando un quadro già fortemente emergenziale: attualmente si stima che più di 21 milioni di persone necessitino di supporto immediato in termini di protezione, accesso al cibo, all’acqua pulita, salute, rifugi temporanei e beni di prima necessità. La situazione nutrizionale è allarmante: circa 25,6 milioni di persone affrontano livelli di insicurezza alimentare, di cui 4,5 milioni bambini sotto i cinque anni che necessitano di cure nutrizionali. L’accesso all’istruzione è, naturalmente, compromesso: oltre 2000 scuole e spazi didattici sono stati chiusi nel Nord e Sud Kivu e a quasi 800mila bambini è stata negata la possibilità di ricevere un’educazione. Complessivamente, considerando anche la provincia di Ituri, più di 1,6 milioni di bambini nella Repubblica Democratica del Congo orientale non hanno accesso all’istruzione

    COOPI attualmente è presente, con più di 200 progetti di sviluppo ed emergenza, in 33 paesi del mondo, tra cui Sudan, Siria, Libano, Repubblica Democratica del Congo, Repubblica Centrafricana, Ciad e Niger, tutti Paesi colpiti da crisi complesse e decennali, ma spesso invisibili agli occhi occidentali.  Nel solo 2024, grazie a oltre 1.500 operatori locali e internazionali, ha raggiunto più di 7 milioni di beneficiari e portato avanti 149 progetti di emergenza, 45 progetti di sviluppo, 17 di sostegno a distanza e 2 di contrasto alla povertà alimentare in Italia.

  • Dare vita finalmente alla difesa comune europea

    Velivoli, aerei o grandi droni, hanno sorvolato i cieli di paesi dell’Unione Europea e componenti della Nato, Polonia, Romania ed Estonia.

    I leader di questi Stati, dopo aver attivato le misure di contraerea e sorveglianza per allontanare i velivoli che avevano sconfinato, hanno ufficialmente dichiarato che appartenevano alla Federazione Russa.

    Si è anche verificato un black out negli aeroporti di Bruxelles, Berlino, Londra e Dublino con la conseguenza che decine di voli sono stati cancellati o dirottati su altri aeroporti.

    Putin nega che i velivoli che hanno sconfinato siano suoi.

    I premier dei paesi, i cui cieli sono stati violati, annunciano che sono pronti ad abbattere i velivoli che dovessero nuovamente sconfinare nei loro cieli.

    Putin dice che non teme minacce.

    C’è qualcosa che non quadra, se i velivoli non sono suoi, come afferma e continua a dichiarare, quale minaccia ci sarebbe per le Russia se gli aerei o i droni fossero abbattuti? Il problema riguarderà chi li ha mandati.

    Se la situazione non fosse tragica, per le conseguenze che possono arrivare da una continua violazione dei cieli Nato e dal loro necessario e legittimo abbattimento, sarebbe ridicola, cosa importa a Putin di questi velivoli se non sono suoi?

    Se però si ritiene minacciato dall’abbattimento dei velivoli è evidente che gli appartengono e che sta cercando di capire fino a dove può spingersi, quanto è la capacità di reazione della Nato, qual è il vero impegno dell’Europa e degli Stati Uniti nella difesa comune.

    Senza tanti giri di parole qualunque velivolo che, senza autorizzazione, senza identificarsi, varchi i confini dei paesi europei deve essere abbattuto e l’Europa si deve svegliare dal suo sonno e dare finalmente vita ad una difesa comune non per fare un doppione della Nato ma perché è ormai evidente che gli Stati Uniti non rappresentano più lo scudo che per anni ci ha protetto, per altro impedendo, con modi diversi, che i paesi europei trovassero una coesione in campo strategico e militare.

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