Italia

  • Ok di Tunisia e Algeria: il corridoio del gas per rifornire Italia, Austria e Germania può partire

    Tunisia e Algeria si aggiungono al patto tra Italia, Austria e Germania per trasportare idrogeno tra le due sponde del Mediterraneo. Con la firma, il 21 gennaio a Roma, di una nuova dichiarazione comune di intenti tra i cinque paesi, il progetto del Corridoio Sud dell’Idrogeno inizia a fare qualche passo avanti concreto.

    L’intesa siglata a Villa Madama non aggiunge né modifica le linee fondamentali del progetto SouthH2 Corridor. Punta invece a rafforzare la cooperazione, soprattutto a livello tecnico, tra tutti iPpaesi interessati dai 3.300 chilometri di gasdotti adatti a trasportare anche idrogeno. Roma, Vienna e Berlino avevano già compiuto un passo del genere a fine maggio 2024. L’accordo prevedeva di trasformare il supporto politico in lavori tecnici e cooperazione tra gli stakeholder rilevanti dei 3 Paesi. La dichiarazione d’intenti firmata il 21 gennaio 2025 estende il perimetro dell’iniziativa a Tunisia e Algeria. Prevede per i 5 Paesi l’impegno di riunirsi semestralmente a livello di gruppo di lavoro tecnico per monitorare e sostenere l’attuazione del progetto.

    Finora, la tabella di marcia è rispettata. L’intesa allargata a Tunisia e Algeria era prevista nella prima metà del 2025. Entro fine 2025 dovrà avvenire lo sviluppo di un rapporto di definizione dell’ambito del SouthH2Corridor. E l’ok allo status di Progetti di reciproco interesse (PMI) nell’ambito del regolamento sulla rete transeuropea per l’energia (TEN-E) nel settimo elenco PCI/PMI europeo.

    Il Corridoio Sud dell’Idrogeno prevede la costruzione di nuove pipeline, o il riadattamento di condutture esistenti, per trasportare in Europa l’idrogeno prodotto in Nord Africa. Il SouthH2 Corridor rientra nella strategia europea per il vettore energetico, che prevede di importare dall’estero entro il 2030 almeno 10 milioni di tonnellate di idrogeno rinnovabile.

    Da progetto, la pipeline di 3.300 km dovrebbe trasportare 4 milioni tonnellate di idrogeno l’anno, il 40% del target Ue. Idrogeno che dovrebbe essere generato in Algeria (manca però adeguata capacità rinnovabile affinché sia H2 verde) e trasportato via Tunisia fino a Mazara del Vallo, dove sarebbe immesso nella rete italiana per poi accedere ai mercati dell’Europa centrale attraverso Tarvisio. Con una possibile diramazione attraverso la Svizzera (Passo Gries), paese che ha il ruolo di osservatore nel progetto. Il segmento italiano sarà quello principale: lungo 2.300 chilometri, circa 70% dei quali da ottenere tramite riconversione delle condutture gas esistenti e 30% da costruire ex novo.

    A inizio dicembre 2024, il Corridoio Sud dell’Idrogeno è stato inserito nella lista dei progetti bandiera dell’Ue per il 2025 sotto l’iniziativa Global Gateway, che facilita finanziamenti e realizzazione dell’opera. In precedenza, era già stato inserito nella lista dei progetti di interesse europeo.

  • Accordo con un autocrate che è anche un buffone quando serve

    Talvolta il comportamento pragmatico è necessario; ma chi cerca di fare di necessità virtù, conclude poco, anzi spesso peggiora quello che è chiamato a riparare.

    Ralf Dahrendorf, Per un nuovo liberalismo, 1987

    Le numerose favole di Esopo, un noto scrittore della Grecia antica, vissuto circa ventisei secoli fa, sono state e continuano ad essere una fonte di ispirazione. Favole che, per il loro valore educativo e morale, continano ad essere attuali e rappresentano una fonte di insegnamento per molti. Ebbene, dai tanti insegnamenti di Esopo ce n’è uno che si riferisce alle false amicizie. La sua saggezza ci insegna e ci ammonisce che un amico incerto è peggio di un nemico dichiarato. Un insegnamento, sempre attuale per il genere umano. Un insegnamento dal quale devono imparare anche tutti coloro che hanno delle responsabilità pubbliche ed istituzionali, sia a livello locale che internazionale.

    L’autore di queste righe ha pienamente condiviso l’articolo di Cristiana Muscardini “La sicurezza, i dati sensibili, Musk”, pubblicato su “Il Patto Sociale” l’8 gennaio scorso. Lei, dopo aver trattato il tema della sicurezza nazionale e quello delle “amicizie con i grandi del mondo”, logicamente si poneva la domanda: “È possibile che di fronte al potere, al miraggio di una tecnologia sempre più oltre, al desiderio di sentirsi amici ed apprezzati da chi, da uomo più ricco, si sta trasformando nell’uomo più potente del mondo, chi ci governa sia accecato, incapace di comprendere i pericoli immediati ed a lungo termine, vanificando le speranze che tanti avevano avuto, speranze di libertà, indipendenza, democrazia vera?”. Una domanda sulla quale si deve riflettere.

    Dal 14 al 16 gennaio scorso ad Abu Dhabi, capitale degli Emirati Arabi Uniti, si è svolto il Vertice mondiale sull’Energia del futuro (World Future Energy Summit; n.d.a.). Durante quel vertice, il 15 gennaio, è stato firmato anche un’Accordo tra l’Italia, gli Emirati Arabi Uniti e l’Albania. Si tratta di un accordo per la produzione di energia rinnovabile in Albania con impianti prodotti negli Emirati da esportare poi in Italia, tramite un elettrodotto sottomarino. L’accordo, che dovrebbe essere operativo tra tre anni, sarà valido per cinque anni ed avrà un costo di circa 1 miliardo di Euro. L’accordo prevede la produzione fino a 3 GW di energia elettrica da fonti rinnovabili. Fonti che, secondo un comunicato congiunto dei tre Paesi firmatari, sono “il fotovoltaico solare, l’eolico e delle soluzioni ibride con potenziale di accumulo tramite batterie”.

    Nella cerimonia della firma dell’accordo erano presenti l’anfitrione, il presidente degli Emirati Arabi Uniti, la presidente del Consiglio dei ministri dell’Italia ed il primo ministro dell’Albania. L’accordo, per gli Emirati Arabi Uniti è stato firmato dal ministro dell’Industria e delle Tecnologie Avanzate degli Emirati il quale, allo stesso tempo, è anche il presidente di Masdar, una nota impresa privata a livello mondiale nel settore delle energie rinnovabili. Ma lui però è anche l’Amministratore delegato della Abu Dhabi National Oil Company, la compagnia statale per l’estrazione del petrolio negli Emirati Arabi Uniti. Per l’Italia l’Accordo è stato firmato dal ministro dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica, mentre per l’Albania dalla vice primo ministro e ministro delle Infrastrutture e dell’Energia. E dopo la firma dell’accordo hanno fatto le loro dichiarazioni sia la Presidente del Consiglio dei Ministri dell’Italia ed il suo omologo albanese, sia il ministro dell’Industria e delle Tecnologie Avanzate degli Emirati Arabi Uniti. Dichiarazioni che sono state riportate dai media in Italia ed il nostro lettore ha avuto la possibilità di conoscerle.

    In Albania non si sapeva niente dell’accordo energetico firmato il 15 gennaio scorso ad Abu Dhabi. Ma ormai questo fatto da anni non è più una novità, Perciò questo modo di agire del Primo Ministro albanese non stupisce nessuno. Tutto si è saputo soltanto dopo che in Italia i media hanno parlato di questo accordo. Quanto è accaduto in Italia, riferendosi proprio al sopracitato accordo, comprese le reazioni critiche, soprattutto da parte dei rappresentanti dell’opposizione, ma anche dai media, ormai è di dominio pubblico anche in Albania. Invece nessuna reazione in difesa dell’accordo da parte del Primo Ministro, che non perde occasione, anche per delle cose futili, di reagire e di dire la sua. Purtroppo non c’è stata nessuna notizia e/o reazione neanche dai media controllati e vergognosamente ubbidienti.

    Appena è stata resa nota pubblicamente in Italia la firma dell’accordo sono state immediate anche le reazioni in Albania. Reazioni fatte da quei pochi media ancora non controllati dal primo ministro e/o da chi per lui. Reazioni che denunciavano la totale mancanza di trasparenza sull’accordo, sul suo contenuto ed altro. Ma sia i media che ne hanno parlato, sia i rappresentanti dell’opposizione politica, nelle loro reazioni critiche, hanno altresì sottolineato che in Albania questo “modo di procedere”, e cioè la totale mancanza di trasparenza in casi del genere, è ormai una consuetudine. Il primo ministro albanese, da autocrate onnipotente qual è diventato, calpesta consapevolmente gli obblighi costituzionali e quelli delle leggi in vigore. Lui ignora ormai da anni tutte le istituzioni e decide da solo e/o con quei pochi suoi stretti collaboratori ed alcuni oligarchi, suoi clienti. Ma nella memoria collettiva in Albania è ancora presente un altro caso simile, quello dell’accordo sui migranti firmato il 6 novembre 2023 a Roma. Anche in quel caso è stata verificata la stessa totale mancanza della dovuta ed obbligatoria trasparenza, come la scorsa settimana, dopo che si è saputo del sopracitato accordo energetico. Ragion per cui in quasi tutte le reazioni molto critiche fatte in Albania si faceva riferimento, oltre che all’accordo energetico firmato il 15 gennaio scorso, anche all’accordo sui migranti e al suo fallimento, almeno fino ad ora.

    In Albania le reazioni critiche, legate all’accordo energetico firmato mercoledì scorso ad Abu Dhabi, si riferivano anche ad alcuni passaggi delle dichiarazioni del primo ministro albanese. Dopo la firma dell’accordo lui ha detto, tra l’altro, che “l’Albania è al 100% con l’energia rinnovabile. Ora stiamo diversificando con il solare”. Ma, come sempre, da innato bugiardo qual è, il primo ministro non ha detto tutta la verità. Sì perché la verità è che quasi tutta la produzione dell’energia elettrica in Albania, circa il 98%, è quella idroelettrica! Ovviamente non ha parlato neanche dei clamorosi ed evidenziati abusi legati alla vendita, sotto prezzo, dell’energia elettrica generata in Albania e l’acquisto, con prezzi non giustificabili dell’energia elettrica dal mercato energetico internazionale. Perché l’Albania non riesce a produrre tutto il suo fabbisogno energetico. Il primo ministro non ha neanche ammesso che l’Albania non ha una strategia nazionale approvata per l’energia.

    Dai media italiani si è saputo che durante il Vertice mondiale sull’Energia del futuro ad Abu Dhabi il primo ministro albanese ha approfittato dell’occasione per fare, come spesso accade in simili casi, anche il buffone. Si perché proprio il 15 gennaio era anche il 48o compleanno della presidente del Consiglio dei ministri dell’Italia. Lui le aveva portato un regalo. Inginocchiandosi davanti alla sua “cara sorella”, l’ha chiamata “Her Majesty” e le ha presentato un foulard di seta bianco con delle strisce in grigio e nero. Questo e tutto il resto hanno messo in difficoltà la festeggiata. Ma lui ha molto bisogno di apparire a fianco di qualche “grande del mondo”, facendo anche il buffone, soprattutto adesso, prima delle elezioni politiche dell’11 maggio prossimo. E soprattutto in un così difficile momento per lui, dovuto agli innumerevoli scandali che coinvolgono, lui, alcuni suoi familiari molto stretti ed altri. Ragion per cui l’appoggio della sua “cara sorella” diventa vitale.

    Chi scrive queste righe trova però molto significativo l’insegnamento di Esopo, secondo cui un amico incerto è peggio di un nemico dichiarato. Egli trova altresì saggio quanto scriveva il noto sociologo, politologo e politico Ralf Dahrendorf. E cioè che talvolta il comportamento pragmatico è necessario; ma chi cerca di fare di necessità virtù conclude poco, anzi spesso peggiora quello che è chiamato a riparare. Ad ognuno però la propria scelta. Ma anche le inevitabili conseguenze!

  • Lo “spread energetico”

    Lo spread indica il differenziale di rendimento tra i titoli del debito pubblico italiani e quelli tedeschi. Il suo basso livello attuale, che viene erroneamente interpretato come una valutazione positiva relativa alla strategia economica del governo in carica, dipende invece dal fatto che la Germania si conferma in recessione. In altri termini, nonostante il valore dello spread sia come detto assolutamente sostenibile, le condizioni economiche all’inizio del 2025 risultano molto simili a quelle del novembre 2011, alle quali vanno aggiunti oltre 1.000 miliardi di debito pubblico, avendo raggiunto e superato quota 3000 miliardi.

    Questo principio del confronto tra valori andrebbe adottato anche nel campo dei costi energetici, e stiamo parlando dello spread energetico, inteso come il differenziale tra i diversi costi energetici praticati alle famiglie e alle imprese, tra due Paesi che, nello specifico, possono essere rappresentati dalla Francia e dall’Italia. Ecco allora come questo differenziale risulti in forte crescita, esprimendo quindi il maggiore costo energetico pagato e subito in Italia, le cui ragioni sono interamente addebitabili alla mancanza di una politica energetica negli ultimi 30 anni, e confermata anche dal governo in carica che continua nella cessione di asset delle aziende energetiche.

    La sintesi finale di questa mancanza ultra decennale di competenza in ambito energetico determinerà un diverso destino economico e sociale riservato alla Francia rispetto a quello assicurato all’Italia.

    Come anticipato nel maggio 2023, le prospettive “energetiche” dei due Paesi erano già allora chiaramente differenti (*) ma quanto sta avvenendo nel gennaio 2025 conferma clamorosamente il trend a favore dell’economia francese. L’autorità energetica francese infatti ha deciso di ridurre del -15% il costo dell’elettricità praticato tanto alle famiglie quanto alle imprese francesi (**), mentre nel nostro Paese le aspettative relative al costo energetico sono di una crescita fino ad un +30%.

    Come logica conseguenza si prospetta un difficile futuro per le famiglie e per le imprese italiane, le quali vedranno aumentare di 30/45 punti lo spread energetico, a favore dei consumatori e delle imprese francesi.

    Questo, infatti, è l’effetto combinato della diminuzione decisa dall’autorità transalpina (-15%) e l’immediato aumento in Italia già in bolletta del +15%, destinato in più ad arrivare nei prossimi tre mesi addirittura ad un +30% portando quindi lo spread energetico finale ad un +45 punti.

    In questo contesto le famiglie italiane vedranno ancora una volta ridurre la propria disponibilità economica, ed inevitabilmente di consumo, drenata dai maggiori costi energetici, la quale si tradurrà con una ulteriore riduzione dei consumi ed ovviamente della crescita economica complessiva.

    Le imprese, viceversa, espressione del made in Italy o di filiere complesse internazionali, dovranno subire una ulteriore diminuzione della propria competitività in un mercato globale sempre più concorrenziale. Le ventidue flessioni consecutive della produzione industriale vanno interpretate anche come un effetto diretto di questa mancata tutela energetica.

    L’unica politica industriale rimane quella energetica, da troppo tempo dimenticata o, peggio, addirittura caratterizzata dalla cessione di asset fondamentali nazionali ai fondi internazionali che adottano inevitabilmente la propria logica speculativa. Per le famiglie e le imprese italiane quindi lo scenario futuro si tinge, una volta di più, di fosche tinte.

    (*) https://www.ilpattosociale.it/attualita/il-diverso-destino-di-italia-e-francia/

    (**) https://www.francetvinfo.fr/economie/pouvoir-achat/electricite-la-commission-de-regulation-de-l-energie-annonce-une-baisse-de-15-en-moyenne-du-tarif-reglemente_7017836.html

  • Via Montenapo a Tunisi: il made in Italy spopola nel Paese africano

    Il Made in Italy guida la classifica degli scambi commerciali della Tunisia anche nel 2024, confermando un trend che dura già da qualche anno. L’Italia è infatti il primo fornitore del Paese nordafricano con 9,7 miliardi di dinari (2,9 miliardi di euro) di merci esportate nel 2024, in calo del 2,8% rispetto al 2023 (9,9 miliardi di dinari, circa 3 miliardi di euro), ma pur sempre avanti agli altri Paesi competitor. Seguono la Cina con 9,1 miliardi di dinari o 2,7 miliardi di euro (+7,8%), la Francia con 8,3 miliardi di dinari o 2,5 miliardi di euro (+0,5%), l’Algeria con 6 miliardi di dinari o 1,8 miliardi di euro (+9,2%).

    Tra i principali prodotti esportati dall’Italia verso la Tunisia vi sono materie prime energetiche (petrolio raffinato), metalli, tessuti, cuoio e pellami, apparecchi di cablaggio, materie plastiche e prodotti in plastica, motori generatori e trasformatori, prodotti chimici e farmaceutici, impianti e macchinari. Tra i principali prodotti che l’Italia invece importa figurano gli articoli di abbigliamento e calzature, parti e accessori per veicoli, oli e grassi, motori generatori e trasformatori, articoli in plastica, prodotti chimici e fertilizzanti, prodotti della siderurgia, petrolio greggio.

    Secondo i dati dell’Istituto nazionale di statistica (Ins) nel 2024 il commercio estero tunisino ha mostrato segni contrastanti. Le esportazioni hanno mantenuto lo stesso livello dell’anno precedente, attestandosi a 62 miliardi di dinari (18,8 miliardi di euro), mentre le importazioni sono aumentate del 2,3%, raggiungendo 81 miliardi di dinari (24,56 miliardi di euro). Nonostante la stabilità delle esportazioni, il commercio estero tunisino ha chiuso il 2024 con un saldo negativo più ampio rispetto all’anno precedente. Il deficit commerciale è aumentato di quasi 2 miliardi di dinari (610 milioni di euro), raggiungendo i 18,9 miliardi di dinari (5,73 miliardi di euro). Il tasso di copertura, che misura il rapporto tra esportazioni e importazioni, è sceso di 1,8 punti percentuali, attestandosi al 76,6%.

    Secondo Ins, la stabilità delle esportazioni nel 2024 deriva da un lato dall’aumento delle esportazioni del settore delle industrie agroalimentari (+14,6%), del settore energetico (+0,5%) nonché delle esportazioni dei settori meccanico ed elettrico (+1,2%) e, dall’altro, dal calo delle esportazioni del settore minerario, fosfati e derivati (-26,3%) e di quelle del tessile, abbigliamento e pellami (-4,8%). L’aumento delle importazioni (+2,3 per cento) deriva dall’incremento registrato nelle importazioni di prodotti energetici (+9,1%), beni strumentali (+5,6%) e beni di consumo (+6,3%). In flessione si sono invece registrate le importazioni di materie prime e semilavorati (-2,6%) e il gruppo dei prodotti alimentari (-6,1%).

    Le esportazioni tunisine verso l’Unione europea (69% del totale) sono diminuite dell’1,8%. Questo sviluppo si spiega da un lato con il calo delle esportazioni da Tunisi verso alcuni partner europei, come la Francia (-4,6%) e il Belgio (-1,5%), e dall’altro con l’aumento osservato con l’Italia (+2,5%), la Germania (+1,5%) e la Spagna (+0,4%). Verso i Paesi arabi, invece, le esportazioni sono aumentate con Algeria (+37,6 %) ed Egitto (+8%). In calo, invece, la Libia (-7,5%) e il Marocco (-5,9%). Le importazioni dall’Ue sono invece aumentate del 2% nel 2024, raggiungendo 35,1 miliardi di dinari (10,4 miliardi di euro). Al di fuori dell’Ue, la Cina, l’India e la Svizzera hanno aumentato le loro esportazioni verso la Tunisia, mentre Russia e Turchia hanno registrato una contrazione.

    La bilancia commerciale tunisina ha registrato un deficit di 18,9 miliardi di dinari (5,7 miliardi di euro) nel 2024. Ciò è principalmente dovuto agli scambi con alcuni Paesi chiave. In particolare, i maggiori deficit si sono registrati con la Cina (-9 miliardi di dinari, circa 2,7 miliardi di euro), la Russia (-5,3 miliardi di dinari, circa 1,6 miliardi di euro), l’Algeria (-4,3 miliardi di dinari, circa 1,3 miliardi di euro), la Turchia (-2,8 miliardi di dinari, circa 860 milioni di euro), l’India (-1,4 miliardi di dinari, circa 445 milioni di euro) e l’Ucraina (-1,3 miliardi di dinari, circa 406 milioni di euro). D’altro canto, il saldo della bilancia commerciale delle merci ha registrato un surplus con gli altri Paesi, principalmente Francia (5,1 miliardi di dinari, 1,5 milioni di euro), Germania (2,3 miliardi di dinari, 716 milioni di euro), Italia (1,9 miliardi di dinari, 592 milioni di euro), Libia (2,2 miliardi di dinari, 696 milioni di euro) e Marocco (267,8 milioni di dinari, 81,1 milioni di euro). Il forte aumento del deficit energetico, che è passato da 9,6 miliardi di dinari a 10,8 miliardi di dinari (3,2 miliardi di euro), ha pesato significativamente sulla bilancia commerciale complessiva. Escludendo l’energia, il deficit si è ridotto a 8 miliardi di dinari (2,4 miliardi di euro).

  • In attesa di Giustizia: il ponte delle spie

    E’ bastato che Giorgia Meloni andasse a prendersi un cafferino con Trump e, come per caso o per magia, gli Ayatollah hanno rilasciato la giornalista Cecilia Sala fino ad allora trattenuta in un carcere di massima sicurezza senza accuse precise ed in realtà senza colpe diverse dall’essere donna, occidentale e soprattutto cittadina di quel Paese che aveva in custodia l’ingegnere iraniano Mohammad Abedini, colpito da provvedimento di arresto internazionale ed in attesa di estradizione verso gli Stati Uniti con l’accusa di aver fornito componenti elettronici impiegati per un attentato a militari in Giordania.

    Cosa si siano detti e cosa abbiano condiviso la Premier e il Presidente eletto non è dato sapere ma la triangolazione giudiziaria tra USA, Italia ed Iran sembra ora avviarsi ad un lieto fine tutto sommato prevedibile: liberata l’italiana, il difensore del persiano ha subito chiesto alla Corte d’Appello di Milano (competente per decidere sulla consegna agli americani) di concedere al suo assistito gli arresti domiciliari con braccialetto elettronico e, guarda caso, lo stesso giorno del rientro in Italia di Cecilia Sala c’è stato un vertice a Palazzo Chigi con la partecipazione di Carlo Nordio e Alfredo Mantovano.

    Per una serie di coincidenze, dopo tale incontro e prima della decisione della Corte d’Appello di Milano, è pervenuta una richiesta del Ministro della Giustizia che, facendo leva su prerogative che gli sono proprie, ha chiesto di revocare la misura di arresto a carico di Abedini perché mancherebbe il requisito della doppia incriminazione posto alla base delle procedure di estradizione, e cioè a dire che i fatti attribuiti all’accusato siano considerati reato sia nel paese che richiede la consegna che in quello in cui è stato arrestato. Detta tutta, questa è una decisione che spetterebbe alla Corte d’Appello contro il cui provvedimento è possibile fare ricorso per Cassazione e solo l’ultima parola spetta al Ministro della Giustizia ed è, diciamo così, insolito che quest’ultimo intervenga mentre è in corso il giudizio, così come è piuttosto strano che – con atteggiamento ed interpretazione della legge di senso opposto – avesse dato seguito alla richiesta di estradizione quando era pervenuta dagli Stati Uniti meno di un mese prima.

    La sostanza è che non sapremo mai cosa si sono detti Giorgia e Don ed è giusto così: la diplomazia ad alti livelli deve conservare i suoi margini di riservatezza come la elasticità nella gestione dei rapporti tra Paesi alleati e non: ma che nessuno ci venga a raccontare che quella è stata una visita di cortesia o che il vertice Nordio-Mantovano, come da loro stessi affermato, non aveva nulla a che vedere con questo caso e mano che mai che qualche giudice Iraniano abbia subito la moral suasion dell’ambasciatore italiano (visto che la Sala non aveva neppure un difensore) e si sia convinto che non c’erano ragioni per trattenerla ad Evin o meno che mai lo abbia fatto per un sussulto di coscienza.

    Le coincidenze esistono ma quando sono troppe non possono considerarsi più tali e se c’è stata qualche forzatura nelle procedure, in fondo, nessuno se ne lamenti posto che l’ingegnere Abedini è da considerarsi comunque presunto innocente che ha già fatto ritorno al suo Paese con il primo volo e Cecilia Sala una innocente tout court.

    Scambi di questo tipo – perché di ciò si tratta in ultima analisi – se ne sono fatti a decine durante la guerra fredda ed in quei casi si trattava quasi sempre di vere e proprie spie e se ne sono fatti anche in tempi recenti coinvolgendo Paesi come Francia, Gran Bretagna e, naturalmente, USA; uno degli ultimi è stato un giocatore di basket americano che Putin ha restituito in cambio di Viktor Bout che non era proprio un galantuomo ma uno dei trafficanti di armi più ricercati del pianeta: nulla di tutto ciò si può dire ancora di uno dei protagonisti né lo si potrà mai neppure ipotizzare dell’altra tranne a voler considerare che la redazione del Foglio ospiti un’antenna della CIA.

    Con buona pace di Corrado Augias, Michele Santoro e persino Rosy Bindi – resuscitati dai rispettivi sepolcri per l’occasione – che avevano preconizzato l’inutilità della missione della Premier a Palm Beach e l’inerzia del Governo di fronte al dramma di una concittadina ingiustamente detenuta in un paese canaglia, la differenza rispetto al passato è che certi scambi possono concordarsi e realizzarsi di fatto davanti a un cafferino e un vassoio di cookies e non a Berlino sul Ponte delle Spie. E Giustizia, in fondo, è fatta.

  • Quale politica industriale

    L’Unione Europea si trova all’interno di una crisi industriale senza precedenti dal dopoguerra ad oggi, espressione di una incapacità assoluta di comprendere come il mondo globale abbia modificato i mercati e contemporaneamente di una cieca applicazione dei precetti ideologici di natura ambientalista. Questa incapacità si esprime anche attraverso le analisi che ora, e solo ora, vengono propinate sulle soluzioni per evitare le ormai devastanti conseguenze, in termini occupazionali e sociali, che questa crisi inevitabilmente sta già producendo.

    Da qualche tempo si sente affermare come l’Italia in particolare, ma vale anche per l’intero continente europeo, risulti deficitaria di una vera politica industriale, una affermazione sostanzialmente corretta che parte da una errata presunzione. È opinione diffusa che una strategia industriale espressa dai maggiori vertici istituzionali ed accademici si espliciti attraverso la scelta di privilegiare determinati settori industriali e di penalizzarne altri in quanto considerati indifendibili, come nel passato fu, per esempio, per il tessile abbigliamento. Quando, invece, una corretta politica industriale si dovrebbe esplicitare nella ricerca di assicurare le migliori condizioni all’interno delle quali il libero mercato possa premiare le eccellenze industriali che le diverse culture professionali ed industriali nazionali riescono ad esprimere.

    Per realizzare, quindi, un “ambiente” favorevole allo sviluppo di ogni potenzialità industriale e professionale molti individuano nella riduzione della burocrazia la principale soluzione, la quale certamente rappresenta il peso della intrusione delle istituzioni europee e nazionali nelle dinamiche economiche.

    Tuttavia la vera politica industriale non è rappresentata dalla scelta di quali settori privilegiare, come ora si ipotizza nel voler dirottare le competenze dall’automotive verso il settore aerospaziale, quando invece la sola politica industriale si traduce in una precisa ed articolata strategia di approvvigionamento energetico che possa assicurare le migliori condizioni di disponibilità energetica a costi competitivi e, di conseguenza, favorire ogni settore industriale all’interno del mercato globale.

    In questo senso, la stessa scelta di Stellantis di privilegiare la produzione di auto in Spagna (1.000.000) rispetto alla riduzione sotto le 500.000.000 auto prodotte in Italia (livello del 1956) nasce proprio dal costo energetico spagnolo che risulta inferiore del – 53% rispetto a quello pagato in Italia.

    Solo una politica energetica assicura quindi le condizioni favorevoli allo sviluppo delle potenzialità professionali, artigianali ed industriali di una nazione o di un continente, che, poi, altro non è se non la strategia energetica che Enrico Mattei aveva adottato con l’obiettivo di assicurare uno sviluppo al sistema industriale italiano attraverso un costo energetico competitivo.

    Non comprendere la validità di questa strategia rappresenta il peccato originale imputabile ancora oggi all’intera classe governativa quanto alla minoranza liberale, entrambe incapaci di comprendere le dinamiche speculative innescate dalla cessione di asset attraverso privatizzazioni o infantili liberalizzazioni ai fondi privati.

    Lo stesso approvvigionamento energetico dovrebbe rappresentare quindi settore di sostegno a favore delle più diverse realtà industriali e non una occasione di speculazione anche finanziaria come la Borsa di Amsterdam ancora una volta sta confermando.

    Anche perché solo il sistema industriale è in grado di avviare il moltiplicatore del valore aggiunto.

    In ultima analisi, l’unica politica industriale in grado di assicurare lo sviluppo ad un sistema industriale è rappresentata da una strategia di approvvigionamento energetico che esprima delle visioni a medio e lungo termine, e quindi lontana anni luce dai deliri ambientalisti, per altro assolutamente non tenuti in alcuna considerazione dalla principale economia in termini di emissioni: la Cina.

  • Dei delitti e delle pene

    La sicurezza stradale rappresenta per ogni governo che si sia trovato alla guida del Paese, ed indipendentemente dal proprio orientamento politico ed ideologico, il parco giochi all’interno del quale sviluppare la propria virilità normativa e punitiva.

    Prova ne è che le sanzioni per quanto riguarda le infrazioni stradali hanno subito dei progressivi aumenti e nel prossimo futuro per le infrazioni stradali più gravi non è da escludere che si possa passare direttamente alla esecuzione della pena capitale direttamente in autostrada o sul ciglio della strada.

    In altre parole, il codice della strada rappresenta forse l’unico settore nel quale risulta estremamente facile e possibile testimoniare la propria esistenze e presenza politica, da parte di una classe politica molto spesso rappresentata da persone intellettualmente povere.

    L’ultimo inasprimento delle sanzioni amministrative in relazione soprattutto a violazioni che non mettono in pericolo la vita dei conducenti, ha raggiunto un livello ormai insopportabile anche in rapporto a quanto avviene negli altri paesi della Comunità Europea, dove le sanzioni amministrative risultano decisamente inferiori soprattutto in rapporto al reddito medio.

    Qualora albergasse un minimo di buon senso all’interno delle stanze del potere partendo dalla considerazione che lo stipendio medio mensile in Italia risulta di 1.700 euro, questo dovrebbe invitare, nella quantificazione di una sanzione amministrativa, come insuperabile il limite indicato nel 10% del reddito medio. Questo poi potrebbe aumentare di un +5%, qualora venisse ripetuta la medesima infrazione nell’arco del medesimo semestre.

    Contemporaneamente andrebbe istituito il protocollo di revisione della rete stradale ogni quattro anni, in quanto la mancata manutenzione concorre a creare le condizioni per incidenti anche gravi soprattutto all’interno della rete comunale e della quale dovrebbe risponderne lo stato assieme agli enti locali.

    Per non parlare di un inevitabile adeguamento dei limiti di velocità alle nuove autovetture che hanno dei sistemi frenanti assolutamente superiori rispetto alle automobili per le quali i limiti sono stati pensati.

    Qualcuno potrebbe obiettare che in questo modo i ricchi pagherebbero molto poco percentualmente (*) rispetto a chi ha redditi Inferiori, ma proprio per salvaguardare i redditi più bassi risulta insopportabile che una sanzione possa arrivare al 50/60/70% se non di più del reddito medio.

    Questo ovviamente vale solo per sanzioni amministrative e non certo nei casi in cui viene prevista anche la sospensione della patente, cioè nel caso di guida in stato di ebbrezza o sotto l’effetto di sostanze stupefacenti, per le quali la sanzione sospensiva risulterebbe sufficiente ad essere considerato come un deterrente.

    L’approccio puramente ideologico alla sicurezza stradale dimostra ancora una volta come si consideri centrale nella prevenzione la sola applicazione di una pena pesante, mentre lo Stato continua a non rispondere minimamente delle condizioni stradali nelle quali gli automobilisti sono costretti a viaggiare. In più rimane inaccettabile che la stessa sicurezza stradale venga utilizzata come un bancomat per sanare i conti di molti enti locali.

    (*) La stessa scuola di pensiero che ha criticato gli sconti sugli accise in quanto avrebbero favorito i possessori di Ferrari ma che dimenticano invece che la cilindrata media delle auto è di 1.553 cc e quindi l’applicazione inversa dell’utilità marginale decrescente favorirebbe proprio i redditi più bassi

  • L’università di Vienna insidia la produzione di mele in Alto Adige

    L’Aldo Adige/Sud Tirol è il più grande produttore di mele d’Europa, dalla Val Venosta, nella parte occidentale della provincia di Bolzano, arriva il 10% delle mele in vendita sui banchi di mercati e supermercati. Il settore, che impiega circa 7mila agricoltori, è però insidiato da uno studio dell’università Boku di Vienna in collaborazione con i colleghi dell’ateneo tedesco Rptu di Kaiserslautern.

    Analizzando l’impiego di pesticidi, i ricercatori dei due atenei hanno rilevato diverse sostanze nei campioni di terreno e vegetazione, anche in zone, come l’Alta Val Venosta, dove le caratteristiche orografiche o l’altitudine fanno sì che non vi sia nessuna o quasi nessuna coltivazione.

    Dall’analisi dei campioni, prelevati all’inizio del mese di maggio, è emersa la presenza in particolare di 27 pesticidi diversi: 10 insetticidi, 11 fungicidi e 6 erbicidi. Una concentrazione di sostanze nocive eccessiva o comunque preoccupante che avrebbe colpito anzitutto gli agenti insetti impollinatori, come api e farfalle, la cui presenza si sarebbe diradata laddove maggiore è la presenza rinvenuta di pesticidi. Proprio per questo, i ricercatori hanno suggerito di “promuovere pratiche di gestione che incoraggino le benefiche interazioni insetti-parassiti” come ad esempio prati ricchi di fiori da distribuire sul territorio che circonda i meleti per creare habitat capaci di attrarre gli insetti antagonisti dei parassiti delle mele. Altra misura consigliata sono e monitoraggi sistematici nei diversi luoghi della valle per stimare l’impatto dei pesticidi durante i diversi mesi dell’anno.

    La questione dell’abuso di pesticidi nel territorio della Val Venosta è peraltro oggetto di discussione e accesi dibattiti da tempo, anche fra la popolazione locale. Nel 2014, oltre il 75% degli abitanti di Malles, uno dei Comuni più coinvolti dalla melicoltura intensiva, si erano espressi a favore di un referendum locale che chiedeva di vietare l’uso di fertilizzanti e pesticidi nel territorio comunale. La vicenda scatenò subito un contenzioso legale, attraverso il quale centinaia di agricoltori chiesero l’annullamento dell’ordinanza del Comune successiva al referendum. Sia il Tar di Bolzano che il Consiglio di Stato hanno dato ragione agli agricoltori.

  • L’atomo in Italia? A Caorso ci sarà fino al 2036

    Doveva essere la centrale atomica più potente d’Italia, ma a tutt’oggi la centrale di Caorso resta una cattedrale nel deserto, un rottame di cui ci si deve ancora disfare. Inservibile per produrre energia dal momento in cui l’atomo è stato bandito in Italia, deve essere ancora dismessa, con tutti gli accorgimenti necessari vista la tipologia di impianto e il problema delle radiazioni.

    La struttura contiene tremila tonnellate di ferro e settemila di macchinari, valvole, tubature, bulloni, motori ampiamente made in Italy (a realizzare l’impianto hanno collaborato Ansaldo, Breda, Fochi, Enel e Cnen) e tenerla ferma e è costato quasi 300 milioni al giorno. C’è gente che ci ha lavorato, o meglio è stata stipendiata fino alla pensione, senza mai vedere la centrale in funzione. Oggi Viviana Cruciani guida la squadra di Sogin (azienda specializzata nello smantellamento di impianti simili) che deve smontare pezzo per pezzo l’impianto e poi tagliare, svitare, decontaminare, riciclare, mettere in sicurezza tutto quanto.

    La dismissione degli impianti atomici italiani per i quai era stata creata appositamente la Sogin doveva doveva essere in realtà completata per il 2019, ma scadenze e costi sono stati ridefiniti più volte e la chiusura del ciclo è stata posticipata prima al 2025, poi al 2032; ora si parla già di 2036. L’impegno finanziario per smantellare l’intero parco nazionale, da Caorso a Latina, da Garigliano a Trino Vercellese, è passato da 5,7 miliardi a 7,5 miliardi. Per quanto riguarda specificamente Caorso ci sono voluti sette anni per costruirla, quattro per aggiustarla e renderla più sicura, cinque per vederla funzionare. E venti per tenerla ferma. I cost preventivati all’epoca ammontavano a 140 miliardi di vecchie lire e salirono a 740. Ora  ci vogliono 460 milioni di euro per smantellarla.

    Lo smantellamento produrrà 322 mila tonnellate di materiali, tra metallo e calcestruzzo. Come 3 portaerei, 40 torri Eiffel o l’intero l’Empire State Building. «Di queste tonnellate almeno 300 mila composte da metalli e calcestruzzo saranno inviate a recupero», dice Cruciani.

    Il futuro, una volta compiuta la dismissione, è una sorta di via Gluck a contrario: lì dove c’era il cemento ci dovrebbe essere il verde. Sogin, la societa pubblica responsabile della dismissione degli impianti nucleari in Italia e della gestione dei rifiuti radioattivi, si è impegnata nella riqualificazione e nel riequilibrio ambientale dell’area. Gian Luca Artizzu, amministratore delegato di Sogin, dice che «la nuova vita dei siti nucleari va resa disponibile in ottica di economia circolare». Primo obiettivo è la minimizzazione dei rifiuti radioattivi. Impresa che deve fare i conti con un’incognita che pesa sulla politica: dove mettere le scorie. In Italia non c’è il sito per lo stoccaggio. Non c’è mai stato. Quelle di Caorso riprocessate e ridotte sono in attesa del deposito nazionale. La carta delle aree idonee di Sogin ha indicato 51 località. Il ministero dell’Ambiente deve valutarne l’impatto sul territorio. Per anni si era parlato di Scanzano Ionico. Oggi è fuorigioco. Si palleggiano altre aree in provincia di Torino, Alessandria e Viterbo.

  • Italia, Francia e Austria ricevono 392 milioni di euro dal Fondo di solidarietà dell’UE per la ripresa e la ricostruzione dopo le alluvioni

    La Commissione ha versato 392,2 milioni di euro a titolo del Fondo di solidarietà dell’UE (FSUE) per aiutare l’Italia, la Francia e l’Austria a riprendersi dai danni causati dalle devastanti alluvioni dello scorso anno.

    351,9 milioni di euro sono stati versati all’Italia per le alluvioni in Emilia-Romagna (maggio 2023) e in Toscana (ottobre e novembre 2023), 35 milioni di euro alla Francia per le alluvioni nel Nord-Pas-de-Calais (novembre 2023) e 5,2 milioni di € all’Austria per le alluvioni nel sud del paese (agosto 2023).

    La Commissione ha versato all’Emilia-Romagna 284,1 milioni di euro, che si aggiungono ai 94,7 milioni di euro già erogati come anticipo all’Italia nel novembre 2023. Il sostegno totale dell’UE alla regione ammonta così a 378,8 milioni di euro.

    Le alluvioni in Emilia-Romagna hanno avuto gravi conseguenze, causando 14 morti e provocando gravi distruzioni a livello di infrastrutture e di beni pubblici e privati. Oltre 1 500 frane hanno danneggiato strade, edifici e infrastrutture chiave come i sistemi idrici e le reti di trasporto.

    La Toscana ha ricevuto 67,8 milioni di euro per far fronte alle conseguenze dell’alluvione che ha colpito la regione, in particolare le province di Prato, Firenze, Pisa, Pistoia e Livorno. Le forti precipitazioni hanno causato sette morti, costretto migliaia di abitanti a lasciare le loro case e provocato notevoli perdite economiche.

    Gli esborsi odierni, che vanno ad aggiungersi agli anticipi versati lo scorso anno, portano il sostegno del FSUE all’Italia per queste catastrofi naturali a 446,6 milioni di euro.

    In tutti i casi l’assistenza del FSUE può essere utilizzata per coprire parte dei costi delle operazioni di emergenza: protezione del patrimonio culturale, ripristino di infrastrutture chiave (energia, acqua, acque reflue, telecomunicazioni, trasporti, sanità e istruzione), pulizia delle zone colpite dalle catastrofi e servizi di soccorso e alloggio temporaneo. Le operazioni di emergenza e di recupero possono essere finanziate dal FSUE retroattivamente a partire dal primo giorno della catastrofe.

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