Giustizia

  • In attesa di Giustizia: il ponte delle spie

    E’ bastato che Giorgia Meloni andasse a prendersi un cafferino con Trump e, come per caso o per magia, gli Ayatollah hanno rilasciato la giornalista Cecilia Sala fino ad allora trattenuta in un carcere di massima sicurezza senza accuse precise ed in realtà senza colpe diverse dall’essere donna, occidentale e soprattutto cittadina di quel Paese che aveva in custodia l’ingegnere iraniano Mohammad Abedini, colpito da provvedimento di arresto internazionale ed in attesa di estradizione verso gli Stati Uniti con l’accusa di aver fornito componenti elettronici impiegati per un attentato a militari in Giordania.

    Cosa si siano detti e cosa abbiano condiviso la Premier e il Presidente eletto non è dato sapere ma la triangolazione giudiziaria tra USA, Italia ed Iran sembra ora avviarsi ad un lieto fine tutto sommato prevedibile: liberata l’italiana, il difensore del persiano ha subito chiesto alla Corte d’Appello di Milano (competente per decidere sulla consegna agli americani) di concedere al suo assistito gli arresti domiciliari con braccialetto elettronico e, guarda caso, lo stesso giorno del rientro in Italia di Cecilia Sala c’è stato un vertice a Palazzo Chigi con la partecipazione di Carlo Nordio e Alfredo Mantovano.

    Per una serie di coincidenze, dopo tale incontro e prima della decisione della Corte d’Appello di Milano, è pervenuta una richiesta del Ministro della Giustizia che, facendo leva su prerogative che gli sono proprie, ha chiesto di revocare la misura di arresto a carico di Abedini perché mancherebbe il requisito della doppia incriminazione posto alla base delle procedure di estradizione, e cioè a dire che i fatti attribuiti all’accusato siano considerati reato sia nel paese che richiede la consegna che in quello in cui è stato arrestato. Detta tutta, questa è una decisione che spetterebbe alla Corte d’Appello contro il cui provvedimento è possibile fare ricorso per Cassazione e solo l’ultima parola spetta al Ministro della Giustizia ed è, diciamo così, insolito che quest’ultimo intervenga mentre è in corso il giudizio, così come è piuttosto strano che – con atteggiamento ed interpretazione della legge di senso opposto – avesse dato seguito alla richiesta di estradizione quando era pervenuta dagli Stati Uniti meno di un mese prima.

    La sostanza è che non sapremo mai cosa si sono detti Giorgia e Don ed è giusto così: la diplomazia ad alti livelli deve conservare i suoi margini di riservatezza come la elasticità nella gestione dei rapporti tra Paesi alleati e non: ma che nessuno ci venga a raccontare che quella è stata una visita di cortesia o che il vertice Nordio-Mantovano, come da loro stessi affermato, non aveva nulla a che vedere con questo caso e mano che mai che qualche giudice Iraniano abbia subito la moral suasion dell’ambasciatore italiano (visto che la Sala non aveva neppure un difensore) e si sia convinto che non c’erano ragioni per trattenerla ad Evin o meno che mai lo abbia fatto per un sussulto di coscienza.

    Le coincidenze esistono ma quando sono troppe non possono considerarsi più tali e se c’è stata qualche forzatura nelle procedure, in fondo, nessuno se ne lamenti posto che l’ingegnere Abedini è da considerarsi comunque presunto innocente che ha già fatto ritorno al suo Paese con il primo volo e Cecilia Sala una innocente tout court.

    Scambi di questo tipo – perché di ciò si tratta in ultima analisi – se ne sono fatti a decine durante la guerra fredda ed in quei casi si trattava quasi sempre di vere e proprie spie e se ne sono fatti anche in tempi recenti coinvolgendo Paesi come Francia, Gran Bretagna e, naturalmente, USA; uno degli ultimi è stato un giocatore di basket americano che Putin ha restituito in cambio di Viktor Bout che non era proprio un galantuomo ma uno dei trafficanti di armi più ricercati del pianeta: nulla di tutto ciò si può dire ancora di uno dei protagonisti né lo si potrà mai neppure ipotizzare dell’altra tranne a voler considerare che la redazione del Foglio ospiti un’antenna della CIA.

    Con buona pace di Corrado Augias, Michele Santoro e persino Rosy Bindi – resuscitati dai rispettivi sepolcri per l’occasione – che avevano preconizzato l’inutilità della missione della Premier a Palm Beach e l’inerzia del Governo di fronte al dramma di una concittadina ingiustamente detenuta in un paese canaglia, la differenza rispetto al passato è che certi scambi possono concordarsi e realizzarsi di fatto davanti a un cafferino e un vassoio di cookies e non a Berlino sul Ponte delle Spie. E Giustizia, in fondo, è fatta.

  • In attesa di Giustizia: buon anno

    Buon 2025 a voi lettori e buon anno, soprattutto, ai cittadini milanesi che – grazie alla ennesima iniziativa green – del sindaco Sala potranno disporre di un presidio in più a tutela della loro salute: il divieto di fumo all’aperto se tra il vizioso di turno e l’astante più vicino intercorre uno spazio inferiore ai dieci metri.

    Cosa c’entra tutto ciò con la giustizia? C’entra, c’entra perché avverso le contravvenzioni amministrative è possibile, a seconda dei casi, fare ricorso al Giudice di Pace o al T.A.R.  e c’è da prevedere un intasamento senza precedenza dei ruoli di udienza da parte di fumatori colti in flagrante accensione di sigaretta in un contesto in cui evitare la sanzione sarà per un verso pressochè impossibile e per altro diabolico da dimostrare il mancato rispetto della distanza.

    A prescindere dalla considerazione che in alcuni luoghi il divieto dovrebbe ritenersi sostanzialmente assoluto per le caratteristiche di pedonabilità ed affollamento in determinati giorni ed orari, in particolare nelle grandi arterie commerciali come Corso Vittorio Emanuele piuttosto oppure nelle zone della movida sul genere dei Navigli, proviamo ad immaginare cosa potrebbe accadere, per esempio, ad un residente in Corso Buenos Aires che rientra a casa dal lavoro, sotto sera in una condizione di maggiore tranquillità…

    …I negozi sono chiusi o prossimi alla chiusura ed anche i bar si stanno spopolando degli appassionati di quella tradizione tipicamente milanese che è l’aperitivo, persino il traffico veicolare si va riducendo ed il nostro immaginario cittadino dopo una giornata in ufficio decide di godersi una fumatina, appena uscito dalla metropolitana o disceso da un tram, lungo l’ultimo tratto a piedi: dovrà, tuttavia, procedere a zig zag per schivare, mantenendo la distanza, i pedoni che gli vengono incontro, forse dotandosi di un paio di smart glasses muniti di telemetro. La mancanza di specchietti retrovisori montati sul cappotto volti ad  adocchiare  quelli provenienti alle spalle comporta il rischio di esporli  a micidiali esalazioni durante l’avvicinamento e l’eventuale sorpasso. Permane, tuttavia, la difficoltà di tutelare da una mezza boccata di Marlboro quelle specie protette che sono i ciclisti o centauri in monopattino che sfrecciano e sbucano da ogni dove, incuranti di semafori, senso di marcia, attraversamenti pedonali e rischiano di terminare la giornata spiattellandosi contro una Tesla (sia pure munita di benedizione da Palazzo Marino dell’autista cultore dell’elettrico) che silenziosamente impegna un incrocio o una fiancata del tram 9.

    Che ne sarà di costui? Ci saranno ronde di cittadini salutisti pronti a chiamare le Forze dell’Ordine dopo aver immortalato l’inquinatore con il telefono, posti di blocco della Polizia Locale dotati di apposita strumentazione laser per calcolare le distanze oppure si andrà a occhio?  E che dire del momento della contestazione?

    “Concilia?”  “No, guardi, signor Vigile, secondo i miei Ray Ban Meta erano dieci metri e otto centimetri e non nove e novanta come dice lei”…e, come osserverebbero i giuristi più raffinati: quid juris se le  potenziali “vittime” fossero fumatori a loro volta, che magari avevano appena spento la lor sigaretta? il divieto vale anche nei loro confronti? Bisognerebbe, forse interpellare come testimoni tutti i presenti prima di redigere il verbale e sentire anche la loro versione circa la distanza? Sono solo alcuni esempi di ciò che potrebbe accadere.

    Delle due l’una: o nessuno verrà mai multato vanificando la rigorosa scelta del Primo Cittadino oppure – anche nel malcelato intento di fare cassa – vi saranno raffiche di sanzioni che saranno puntualmente impugnate soffocando definitivamente di ricorsi gli uffici giudiziari deputati ad esaminarli.

    E il Sindaco come reagirà? A Dio piacendo non potrà candidarsi per un ulteriore mandato, e siccome manca ancora un po’ di tempo alla fine di questo, qualcuno potrebbe dargli un suggerimento: perché, in luogo di queste iperboliche idiozie non dispone un censimento degli impianti di riscaldamento delle Case ALER e spende un po’ di soldi per sostituirli, posto che ancora funzionano quasi tutti a gasolio (qualcuno, non è da escludere, persino a carbone) ognuno dei quali in un’ora inquina più del Titanic con le macchine a tutta forza per tentare di evitare l’iceberg?

    Nel frattempo, Buon Anno di cuore a tutti voi: fumatori e non, ciclisti virtuosi e possessori di diesel Euro 6 che dovreste vergognarvi di avere.

  • In attesa di Giustizia: Buon Natale

    I lettori probabilmente si ricordano di uno degli antieroi di questa rubrica, l’ex Pubblico Ministero di Trani Michele Ruggiero, ma riassumiamo: trasferito a fare il giudice civile in Piemonte dopo una prima condanna per i metodi con cui interrogava i testimoni – tecnicamente definiti “tentativo di violenza privata”-  è stato  ritenuto colpevole anche in un successivo processo perché i verbali di interrogatorio li falsificava pure quando la sua moral suasion non era sufficiente a farsi dire quello che voleva per spedire qualcuno in carcere. Il totale è di quasi cinque anni di galera che dovrà scontare se saranno confermate le sentenze nei gradi successivi di giudizio. Dopo la seconda e più recente condanna il C.S.M. lo ha sospeso dalle funzioni per due anni ma…tranquilli, il panettone a tavola lo potrà mettere comunque perché la regola vuole che gli venga comunque corrisposto un assegno “alimentare” pari a circa 4.500 euro al mese che sono calcolati sul suo più elevato trattamento stipendiale di quando era in servizio: Buon Natale, quindi a Michele Ruggiero che non patirà la fame, pagato per non fare nulla, o meglio, pagato meno di quanto percepiva per, come sembra, faceva il suo lavoro ma, se non altro, senza nuocere.

    Buon Natale anche a Luca Turco, P.M. di Firenze che compie i 70 anni proprio come Gesù Bambino il 24 dicembre e in quella data andrà in pensione al culmine di una carriera che è stata costellata da una serie imbarazzante di flop: l’ultima delle sue inchieste, cosiddetta “Open” a carico di Matteo Renzi ed altri dieci imputati, si è conclusa dopo cinque anni con una sentenza  del G.U.P. di non luogo a procedere nei confronti di tutti, il che equivale a dire che il giudice non ha rilevato il benchè minimo elemento che potesse giustificare l’avvio di un processo con una anche minima possibilità di condanna per qualcuno. Per dare la misura del fallimento di quella indagine basti dire che il proscioglimento in udienza preliminare è una decisione talmente infrequente che gli avvocati la considerano una sorta di prova della esistenza di Dio. Nel palmares di Turco, però, non vanno dimenticate – tanto per fare altri esempi – l’inchiesta  per truffa e riciclaggio in danno del sistema sanitario a carico di Alberto e Lucia Aleotti, patron della “Menarini” avviata nel 2011 e conclusa dopo nove anni con assoluzioni definitive e per non parlare di quella su presunti concorsi universitari truccati a carico di quarantaquattro professori e ricercatori di diritto tributario in tutta Italia con sette arresti, ventidue interdizioni all’insegnamento: tutte le posizioni sono state addirittura archiviate (a Venezia perché aveva sbagliato grossolanamente ad individuare la competenza di Firenze) non senza aver subito anche la gogna mediatica, pregiudizi di immagine e progresso in carriera. Infine Turco, in quella che sembra essere una forma di ossessione nei confronti della famiglia Renzi, ha indagato e fatto arrestare per false fatturazioni e bancarotta i genitori e la sorella del leader di Italia Viva…tutti assolti. Sotto l’albero, tuttavia, questo P.M. troverà una sostanziosa liquidazione per i suoi quarant’anni in magistratura (malcontati circa 350.000 euro) e una dignitosa pensione sui 9.500 euro lordi al mese, ovviamente con tanto di tredicesima, al culmine di una carriera rimasta illibata sol perché un procedimento disciplinare nei suoi confronti sembra che al C.S.M. sia andato perduto e dopo il pensionamento Turco non è più giudicabile sotto questo profilo.

    Buon Natale, infine, anche al Procuratore Generale di Cagliari, Luigi Patronaggio, che da Procuratore Capo di Agrigento si fece un giretto sulla Open Arms per vedere cosa stava succedendo e poi se ne tornò tranquillamente in ufficio a ragionare su come e con quale incriminazione mettere sotto processo Matteo Salvini. I migranti vennero fatti sbarcare settimane dopo (ma non direttamente grazie a lui) e nel frattempo Patronaggio aveva indagato il Ministro dell’Interno per sequestro di persona senza rendersi conto che, nel suo ruolo, avrebbe dovuto impedire che si protraesse anche solo di un minuto l’ipotizzato sequestro di persona: il che, per il nostro codice penale, equivale ad esserne complici. Ma non c’è più nulla da temere per l’ex Procuratore, che è stato anche avanzato di grado, perché tanto Salvini è stato assolto perché il fatto non sussiste (tradotto: inesistenza originaria del delitto attribuito) e, d’altro canto, nessuno si è mai interrogato – neppure dopo che il fascicolo è passato per competenza a Palermo – se, nel caso, ci fossero anche altri compartecipi del presunto reato…Buon Natale, quindi anche a Giuseppe Conte e Danilo Toninelli che con Salvini condividevano certamente una responsabilità collegiale ma sarebbero stati assolti anche loro: se non altro, si sono risparmiati anni di tormenti giudiziari…di ciò se ne compiacciano.

    Buon Natale, di cuore, a voi lettori.

                                                                                  

  • In attesa di Giustizia: le audaci corbellerie dei solito noti

    Probabilmente aveva ragione il Prof. Gaetano Pecorella quando, a chi gli domandava come mai avesse spostato il suo asse politico dalla estrema sinistra a Forza Italia, rispondeva che lui non si era mai mosso da quello che considerava l’unico credo: le garanzie processuali, un patrimonio disperso dall’area progressista transitata al più bieco giustizialismo e – nel tempo – divenute cavallo di battaglia (un po’ per opportunità, bisogna ammetterlo) del centrodestra, con le dovute eccezioni che confermano la regola…

    Con la riforma sulla separazione delle carriere al momento silenziata e passata in secondo piano rispetto a quella sul premierato, la madre di tutte le battaglie è diventato il contrasto alla proposta di legge volta ad istituire la giornata del ricordo delle vittime di ingiustizia da mettere in calendario il 17 giugno, giorno dell’arresto di Enzo Tortora.

    A dare il via ad una congerie di corbellerie ci ha pensato, da par suo, il Presidente della Associazione Nazionale Magistrati il quale ha pontificato contestando che quello di Tortora possa definirsi un caso di malagiustizia perché in appello è stato assolto e perché istituire una simile ricorrenza contribuirebbe a creare un clima di sfiducia nella magistratura.

    Sua Eccellenza Santalucia, probabilmente, dimentica che oltre alla categoria degli errori giudiziari riferibili solo alle revisioni di condanna divenute definitive esiste quella delle ingiuste detenzioni: il caso di chi arrestato, in ultimo, viene assolto e risarcito dallo Stato. Santalucia, inoltre, pare non essersi accorto che, riferito all’Ordine Giudiziario, l’indice di gradimento del popolo italiano, già adesso, è simile a quello che si può avere per un gattino attaccato alle gonadi. Infine quanto al presunto, finale, trionfo della Giustizia Santalucia farebbe bene a documentarsi sulla sterminata serie di abusi, soprusi, dimostrazioni di iattante disinteresse per il rispetto della legge che hanno caratterizzato il calvario di Enzo Tortora a partire dalla studiata spettacolarizzazione delle immagini, trasmesse a reti unificate, del presentatore condotto via in manette da una caserma dei Carabinieri. E siccome al peggio non c’è limite, con sprezzo del ridicolo, Giuseppe Santalucia è stato capace persino di affermare che la proposta legislativa dia un messaggio in controtendenza rispetto alle numerose giornate in memoria della legalità come se l’arresto e la via crucis fatta patire a qualsiasi innocente possano costituire le note su cui comporre un inno al crimine.

    A quelli come Santalucia servirebbe di lezione (o forse no…) ascoltare Raffale Della Valle –  l’ultimo dei grandi penalisti italiani – che si commuove quando racconta di aver pensato persino di abbandonare la professione quando si è sentito un orpello inutile, indesiderato e quasi deriso durante la difesa di Enzo Tortora, di essersi rivolto per disperazione ad Enzo Biagi che raccolse il suo grido di dolore tramutandolo in una lettera aperta al Presidente della Repubblica pubblicata in prima pagina sul Corriere, denunciando quanto stava accadendo a Napoli grazie a chi veniva definito “Il Maradona del diritto”…stic****, forse in Procura intendevano quel Maradona dell’indimenticabile gol con la mano.

    Obbedisco! Scattano sugli attenti gli sherpa dell’ANM con il PD a dettare la linea in Commissione Giustizia della Camera dove si doveva, tra l’altro, soltanto discutere della unificazione dei tre diversi disegni di legge presentati sulla istituzione della giornata delle vittime di ingiustizia: con comica vigliaccheria la scelta è stata quella dell’astensione dal voto per non essere stati approvati gli alati pensieri che i giuristi vicini al Campo Largo avevano elucubrato per definire la nozione di errore giudiziario senza indispettire i sodali togati.

    Vero è anche che, al di là dei buoni propositi, la cultura della giustizia della attuale maggioranza sembra risiedere nella raffica di nuovi reati (molti dei quali totalmente inutili) introdotti nell’ordinamento in un paio d’anni, nella ignavia rispetto alla tragedia dei suicidi in carcere e delle condizioni di vita nei penitenziari: una cultura che viene plasticamente descritta dalla intima gioia che la masturbazione mentale regala al sottosegretario Andrea Delmastro al pensiero di detenuti che soffocano nei nuovi blindati della Polizia Penitenziaria.

    In conclusione, se in qualche modo può definirsi la bagarre scatenatasi intorno a questa proposta di legge è che stiamo assistendo alla festa della ipocrisia e della viltà bipartisan.

  • In attesa di Giustizia: lui è peggio di me

    Questo era il titolo di un film di una trentina di anni fa interpretato da Andriano Celentano e Renato Pozzetto: ovviamente regalava il sorriso, cosa che non sono in grado di fare Marco Travaglio e Andrea Del Mastro…tanto per scegliere una coppia di impresentabili da commentare in questo numero de Il Patto Sociale.

    Il primo dei due, sempre pronto a commentare come ferite non rimarginabili alla giustizia e democrazia tutte le sentenze che non rechino la parola “condanna”, è – per il momento – rimasto silente a proposito dell’esito del terzo grado di giudizio a carico di Piercamillo Davigo, una notizia che, impropriamente, la maggior parte dei quotidiani ha riportato inserendo nel titolo “Appello bis per Davigo”: vero, ma così si mimetizza una realtà non banale e cioè che l’annullamento della sentenza di condanna da parte della Cassazione è stato solo parziale, essendo divenuta definitiva una parte della sentenza della Corte d’Appello di Brescia che ha condannato l’ex P.M. di Mani Pulite per rivelazione di segreto d’ufficio, una rivelazione senza uguali precedenti  come annotano i giudici bresciani usando proprio il corsivo per meglio evidenziare il concetto.

    Davigo, dunque, nuovamente a giudizio solo per alcune delle condotte contestate che la Corte d’Appello dovrà rivalutare ma ciò non significa che verrà automaticamente assolto mentre risulta definitivamente condannato per altre. Tecnicamente lo si deve definire un pregiudicato ma non si può dire commentando oltre la superficie la notizia di quel parziale successo che significherebbe, per amor di verità (una virtù, peraltro, raramente coltivata dal Fatto Quotidiano), affrontare, la parte meno gradevole della decisione.

    La famiglia Travaglio è in lutto e questo, forse, spiega il silenzio del Direttore che, a suo tempo, sentenziò in anticipo che “Davigo non deve rispondere di nulla perché è riuscito a tutelare il segreto”, una difesa preventiva con inattesi sussulti garantisti che è stata smentita. Questa volta, però, la condanna, sia pure parziale non è motivo di festa come se, in base al metro di giudizio standard di Travaglio, Davigo fosse improvvisamente diventato motivo di imbarazzo, una brutta persona poiché condannato, e fosse preferibile nascondere la circostanza come quando si butta la polvere sotto al tappeto… il che non è: Piercamillo Davigo è uno con cui non avrei mai voluto avere a che fare come imputato e non è stato piacevole neppure da difensore ma non è una brutta persona tantomeno perché è pregiudicato come non lo sono tanti che lui stesso ha fatto condannare da P.M. o condannato con le sue mani quando è passato alle funzioni giudicanti.

    Un bel tacer non fu mai scritto e – detta tutta – l’ammutolimento su dettagli non secondari di questa vicenda è di gran lunga preferibile alle giustificazioni che, invece, ha ritenuto di dare il sottosegretario alla Giustizia Andrea Del Mastro Delle Vedove: uno con il cognome che evoca la fantozziana contessa Serbelloni Mazzanti Vien dal Mare ma anche in questo caso non fa per nulla ridere. Ripugna.

    Ripugna, la notizia non è nuovissima, la sua affermazione secondo la quale è una intima gioia non lasciare nemmeno respirare chi viene trasportato dal nuovo blindato della Polizia Penitenziaria riservato ai detenuti in regime di alta sicurezza o al 41 bis ritenendo che gli agenti della PolPen condividano il suo medesimo entusiasmo ad incalzare chi siede su quel veicolo. Sottosegretario, lei ha forse studiato diritto costituzionale al buio? Forse non ha mai avuto notizia che il precedente motto degli Agenti di custodia era “Vigilando redimere” che – se pure in latino fosse un po’ zoppicante come in diritto costituzionale – non ha bisogno di essere tradotto?

    Ma forse è troppo pretendere da costui che abbia anche solo sfogliato qualche pagina scritta da Cesare Beccaria o letto, figuriamoci capito, cosa sottintende l’articolo 27 della Costituzione dove afferma che le pene devono ispirarsi al senso di umanità…però, almeno qualche giornale oltre la pagina dello sport lo avrà occhieggiato, magari avrà visto un telegiornale che riportava la notizia del soffocamento da parte di agenti della polizia di Minneapolis di un nero, John Floyd, durante l’ arresto per il presunto impiego di una banconota falsa da venti dollari: un presunto innocente martoriato e ucciso senza motivo e sebbene gridasse la sua disperazione “non respiro!” perchè gli agenti, con un ginocchio premuro sul collo, facevano qualcosa che al poco Onorevole Del Mastro sembra provocare orgasmi incontenibili invece che farlo riflettere sulla circostanza che quei poliziotti sono stati processati e l’autore materiale dell’omicidio, commesso tenendo per più di otto minuti il ginocchio sul collo di Floyd che implorava pietà, è stato condannato a ventidue anni di carcere. Probabilmente ignora anche questo e con opportuno uso del participio può definirsi un ignorante.

    “Volevo dire che è alla mafia che non diamo respiro”, ha provato a giustificarsi Del Mastro: la classica pezza peggiore del buco perché quello che ha detto in una occasione pubblica ha un significato inequivocabile. Tranne per chi, oltre a Beccaria (figuriamoci Pietro Verri e Carlo Cattaneo), alla Costituzione e forse al latino, probabilmente non conosce nemmeno l’uso della lingua italiana.

  • In attesa di Giustizia: Milano, provincia di Trani

    Ci risiamo: ancora una volta un Pubblico Ministero che occulta (in questo caso non verbalizzando) prove a discarico degli indagati al fine di poterne chiedere ed ottenere l’arresto; si tratta dell’ex P.M. di Trani, Michele Ruggiero, condannato in primo grado dall’Autorità Giudiziaria di Lecce ed è la seconda sentenza dopo quella – ormai definitiva –  inflitta per i metodi di interrogatorio dei testimoni da Procura della Repubblica delle banane di cui si è interessata in precedenza proprio questa rubrica.

    Tre anni e nove mesi e, se sarà confermata la responsabilità nei successivi gradi di giudizio, la sommatoria delle pene garantiranno a Ruggiero una discreta e meritata permanenza nelle patrie galere: nel frattempo, il nostro pregiudicato (perché tale è a tutti gli effetti), pur trasferito di sede e funzioni ha continuato ad esercitare la giurisdizione nel settore civile e continuerà a farlo salvo un sussulto di dignità della disciplinare del C.S.M.. Alzi la mano chi sarebbe entusiasta se, anche solo per una bega condominiale che lo riguardi, dovesse trovarsi al cospetto di siffatto campione del diritto e delle garanzie costituzionali.

    Per come sono emersi e sono stati ricostruiti i fatti Michele Ruggiero avrebbe omesso di verbalizzare dichiarazioni testimoniali strutturalmente importanti senza le quali si giungeva ad una sintesi non corrispondente al tenore effettivo di domande e risposte che autorizzavano conclusioni ben lontane dalla realtà ed in base alle quali dei cittadini sono stati arrestati, rinviati a giudizio e ne è stata chiesta la condanna.

    La Procura di Trani, purtroppo, non è nuova a scandali di questo genere e viene da domandarsi se, paradossalmente, l’aria di mare che si respira dal Palazzo di Giustizia affacciato sull’Adriatico non risulti nociva per i Pubblici Ministeri e se è vero che una distinzione deve sempre farsi tra la Magistratura e i singoli magistrati il comportamento di alcuni di questi ultimi – non tutti, ma comunque troppi – si riflette inesorabilmente. sull’immagine e la credibilità delle istituzioni e non aiuta nemmeno annotare che, per quanto formalmente corretta sia nella sostanza irragionevole la censura da pochi giorni inflitta da un C.S.M.  (solerte e rigoroso quando vuole) al Dott.  Paolo Storari per essere disperatamente intervenuto al fine di impedire una condanna ingiusta.

    E’ un altro capitolo dell’arcinota vicenda dei verbali secretati consegnati a Davigo: sono state violate delle regole ma, sia pure con un comportamento irrituale, Storari ha onorato la funzione di organo di giustizia che deve riconoscersi al P.M.: in un clima di contrasto, ostilità intestine alla Procura di Milano, sfiducia reciproca, opinabili metodi usati e opaca gestione dell’indagine ENI – NIGERIA il cui finale è noto a tutti e più che mai ai lettori di questa rubrica.

    Grazie allo scomposto ma coraggioso intervento di questo magistrato è emerso lo spaccato inquietante di come possano malamente gestirsi le funzioni inquirenti. Da un lato il “modello De Pasquale” affine al “modello Ruggiero” e dall’altra il “modello Storari”, uno che si è adoperato in tutti i modi per convincere i suoi colleghi a depositare le prove a favore delle difese che stavano imboscando e a dissuaderli dal tentativo di usare un calunniatore professionista per delegittimare il Presidente del Collegio giudicante perché la Procura (così si è espresso Paolo Storari) “non poteva permettersi di perdere il processo ENI”… anche a costo di far perdere la giustizia.

    Per un rompiscatole ignorato, tacciato di creare un clima sfavorevole all’accusa, l’ultima spiaggia divenne rivolgersi a Davigo, sbagliando a fidarsi di lui ma – in ultimo – consentendo di scoprire un verminaio che, dopo aver perso il processo, ha definitivamente fatto perdere la faccia alla Procura.

    Milano provincia di Trani? C’è da augurarsi di no a fronte di un unico (sarà davvero tale?) per quanto grave episodio rispetto alla recidiva reiterata e specifica della Procura pugliese ma c’è da augurarsi una volta di più che abbia torto Davigo quando dice che non ci sono innocenti ma solo colpevoli che la fanno franca.

  • In attesa di Giustizia: ossimori

    Il rischio è quello di sembrare ripetitivi ma una saga è scandita in più puntate, come quella del processo truccato noto come “ENI NIGERIA” riguardante – secondo la Procura di Milano – una mazzetta di entità mai vista ed impareggiabile in un raggio esteso sino ai confini della galassia, caso mai girassero tangenti anche su Nettuno e Plutone.

    Ne abbiamo ricordato alcuni passaggi ed evoluzioni nel numero della settimana scorsa e proprio in questi giorni sono state depositate le motivazioni delle condanne a otto mesi di reclusione dei P.M. Spadaro e De Pasquale, ormai protagonisti assoluti di questa rubrica: motivazioni che fanno riflettere.

    Non v’è dubbio che l’Autorità Giudiziaria di Brescia, competente per i reati attribuiti a magistrati di Milano, non si sia lasciata condizionare dall’altisonanza dei nomi iscritti sul registro delle notizie di reato né si sia fatta scrupoli nel rinviare a giudizio e pronunciare condanne ma…una differenza si nota proprio nelle motivazioni: implacabili con Davigo, ormai in pensione, e – invece –  vagamente contraddittorie in alcuni passaggi della “sentenza De Pasquale”, ancora in servizio come Spadaro, si direbbe quasi in ossequio al noto principio “cane non mangia cane”.

    Nella decisione bresciana è dato leggere, infatti, che De Pasquale e Spadaro nel processo a carico dei vertici dell’ENI hanno selezionato “chirurgicamente” gli elementi a favore della loro tesi stralciando quelli a discolpa degli indagati deliberatamente tacendo l’esistenza di risultanze investigative  in palese ed oggettivo contrasto con i portati accusatori e ciò nonostante le esortazioni contrarie ricevute da altro magistrato in servizio presso la medesima Procura, Paolo Storari, che chiedeva – anche per iscritto con e-mail acquisite al giudizio e richiamate nella sentenza – di utilizzare i verbali da cui risultava che il grande accusatore dei manager ENI fosse un calunniatore…verbali che De Pasquale  chiese che venissero “chiusi in un cassetto” perché ritenuti irrilevanti. Il Tribunale di Brescia ricorda che al P.M. non compete una simile valutazione arrogandosi una sfera illimitata di insindacabilità: è al giudicante che spetta ogni considerazione sulla rilevanza, affidabilità delle prove ed il conseguente impatto sul giudizio finale.

    La sentenza di cui si tratta riporta nel dettaglio le prove “truccate” utilizzate nel processo Paolo Scaroni + Altri a partire dalla perizia su una chat attribuita all’AD di ENI che ne dimostrava la falsità, opportunamente esclusa dal fascicolo, alla “dimenticanza” della corruzione di un teste nigeriano da parte di Vincenzo Armanna (sempre lui!) per affermare il falso contro gli amministratori dell’azienda petrolifera per tacere, infine, del tentativo di far deporre costui per screditare lo sgradito Presidente del Tribunale che li stava giudicando facendolo apparire come corruttibile dai difensori degli imputati.

    Un quadro inquietante, stomachevole, preoccupante per qualsiasi cittadino che dovesse anche lontanamente temere di finire nel tritacarne di questa…chiamiamola giustizia, senza offesa per la Dea Temi. Il Tribunale di Brescia definisce oggettivamente gravi questi comportamenti da parte dei P.M. milanesi ma subito dopo riconosce incomprensibilmente una buona fede di cui, negli elementi a carico che abbiamo sintetizzato (e non sono nemmeno tutti) non vi è traccia. E’ dato leggere che “tutto ciò non significa che si sia inteso perseguire ingiustamente degli innocenti e, quantomeno all’inizio, potevano esserci elementi investigativi che giustificavano il sospetto”. Già, all’inizio…ma poi? Quando si sono palesate evidenze contrarie al teorema accusatorio sono state cestinate ed allora il sospetto che si alimenta è ben altro.

    Ma quale buona fede, ma mi faccia il piacere! Direbbe il Principe De Curtis, il Tribunale di Brescia invece sembra tentare di salvare il salvabile anche sostenendo che la oggettiva gravità delle condotte è attenuata dalla incensuratezza e che è ragionevole aspettarsi per il futuro la cessazione di comportamenti illeciti: a prescindere che con la legislazione attuale l’incensuratezza come valore fruibile per attenuare la responsabilità penale non potrebbe essere utilizzata neppure per nostro Signore prima di crocifiggerlo, aspettarsi che un servitore dello Stato si astenga in futuro dal commettere altri reati è il minimo sindacale, anzi, non avrebbe dovuto commetterli neanche prima e  proprio per le qualità personali, il ruolo e la funzione svolta, lo spergiuro sulla costituzione, quelli già commessi “oggettivamente gravi” dovrebbero essere sanzionati con significativo rigore e non con una pena molto vicina al minimo previsto dal codice.

    Leggendo la sentenza di cui è stato offerto un sunto sembra di poter ricavare due conclusioni: che questa volta non dovrebbero esserci colpevoli che l’hanno fatta franca nonostante una tendenza nel finale al cerchiobottismo e gli “ossimori scomposti” della motivazione. In fondo anche questa volta cane non mangia cane, però qualche morso pur sempre fastidioso è stato dato…morsi che De Pasquale e Spadaro non sono riusciti a dare al cane a sei zampe nemmeno barando.

  • In attesa di Giustizia: autunno caldo

    Ennesima puntata della saga milanese del processo truccato per far condannare qualcuno a tutti i costi: dopo Davigo, condannato dal Tribunale di Brescia – sentenza confermata dalla Corte d’Appello – per l’ uso disinvolto di atti secretati che neppure avrebbe dovuto ricevere e De Pasquale, condannato, appunto, per aver occultato prove a discarico di imputati, tutti assolti a prescindere da questa innocente malizia (figuriamoci che sostanza poteva avere l’accusa…) ora tocca al terzo protagonista dell’articolata vicenda: Paolo Storari P.M. a Milano, che era stato assolto in sede penale per mancanza di dolo dall’accusa di rivelazione di segreto di ufficio avendo indebitamente spedito quei documenti d’indagine proprio a Davigo.

    Ora, per la medesima ragione è “sotto schiaffo” della giustizia del C.S.M. perché il suo agire integrerebbe comunque un illecito disciplinare ed è stata fatta una richiesta di sanzione tutto sommato modesta: la perdita di un anno di anzianità con conseguenze contenute solo sul piano del progresso in carriera e stipendiale.

    Nel chiederne la condanna, la Procura Generale della Cassazione ha argomentato che il comportamento di Storari è di assoluta gravità e che affermare il contrario sarebbe un precedente pericolosissimo per la tutela dell’Ordine Giudiziario anche per la rilevanza mediatica e le ricadute in termini di immagine dell’Ufficio Giudiziario dove lavora e delle persone menzionate in quei verbali…sarà, ma allora che dire di De Pasquale che è ancora al suo posto e che proprio di quegli atti avrebbe voluto fare uso in altro processo, brigando insieme al collega Spadaro sputtanando un collega? Se le condotte di Storari sono così gravi solo per aver contribuito a scoperchiare il vaso di Pandora su una stomachevole combine per mandare in galera degli innocenti che giudizio si dovrebbe dare di chi, ad oggi, risulta essere autore di cotanta indecenza con una dura sentenza del Tribunale di Brescia? Per molto meno il C.S.M. trasferisce tempestivamente i magistrati coinvolti in altre sedi ad occuparsi di ben altre cose che della vita e della libertà dei cittadini. Quanto al discredito all’ufficio giudiziario in cui lavora lo ha provocato Storari o chi, come sembra, ha dimenticato il giuramento fatto sulla Costituzione al momento di assumere le funzioni di magistrato?

    Nel giudizio disciplinare, secondo quanto riferito proprio da Storari è emerso che De Pasquale e Spadaro volevano “togliere di mezzo” lo sgradito Presidente del Tribunale, Tremolada, che stava giudicando il loro processo truccato facendovi deporre un celeberrimo mentitore come il pluripregiudicato avvocato Amara per fargli dire, parlando delle accuse pencolanti a carico dei vertici dell’ENI, che quel Presidente era stato avvicinato da almeno due avvocati per “aggiustare il processo”, informazione che – peraltro – Amara aveva ottenuto di seconda se non terza mano e senza nessuna possibilità di fare verifiche sulla genuinità della fonte.

    Autunno caldo, rovente, per la Procura di Milano e chi scrive, come cittadino, non può commentare altrimenti che questa montagna di porcherie dà il voltastomaco; come avvocato – che non solo predica ma pratica la presunzione di non colpevolezza – fa dire che il giudizio deve essere sospeso in attesa della verità affermata dalle sentenze quando saranno definitive.

    Tuttavia, se all’esito del terzo grado di giudizio questi fatti fossero confermati, altro che promuovere Spadaro alla Procura Europea e limitarsi a retrocedere De Pasquale da Procuratore Aggiunto a semplice Sostituto: in questo caso, il cittadino e l’avvocato vorrebbero vederli in galera, là dove (forse) provavano a mandare degli innocenti e dove qualcuno, in passato, ha preferito chiudere la partita infilandosi un sacchetto di cellophane sulla testa.

    Arriveranno querele per queste considerazioni? Quasi c’è da augurarselo: sarebbe una interessante disfida in Tribunale tra l’arroganza e la voce della libertà e delle garanzie. Basta che non trucchino le carte.

  • In attesa di Giustizia: l’Italia è una repubblica fondata sui dossier

    Chi ricorda di aver almeno mai sentito nominare il Generale Aldo Beolchini…nessuno, vero? E’ stato – tra le tante cose –  Presidente del Consiglio Superiore delle Forze Armate e, per quello che qui interessa, Presidente della omonima Commissione promossa dal Ministro della Difesa Tremelloni nel 1967 per indagare sulle attività “deviate” del SIFAR diretto dal Generale Giovanni De Lorenzo: sigla dei servizi segreti e nome dell’ufficiale in comando  di cui è, probabilmente, più facile avere memoria per il coinvolgimento nel progetto di golpe denominato “Piano Solo”, la cui realizzazione era stata preceduta da una ricchissima raccolta di dossier su esponenti del mondo politico ed economico. Si parla di oltre 150.000 personaggi pubblici (tra i quali, pare, anche il Papa) dei quali si è analizzata ogni caratteristica, dalle tendenze politiche, alle preferenze in materia di vini, passando per quelle sessuali, amanti reali o presunte ed è curioso (forse non più di tanto) il fatto che Confindustria, in quegli anni, condividesse una “casa sicura” del SIFAR in via del Corso, a Roma con un enigmatico ente interessato alle Applicazioni Tecniche.

    La Commissione Beolchini avrebbe dovuto, poi, procedere alla distruzione di quei dossier ma a causa di non meglio precisati inceppamenti della macchina burocratica ciò non avvenne e, di governo in governo fino al 1974, l’operazione è stata rimandata ed a tutt’oggi non è chiaro se tutto il materiale sia stato effettivamente distrutto e che utilizzo ne sia stato fatto, fermo restano che – fino a quando non è stato tolto il segreto di Stato e la documentazione trasmessa alla Commissione Parlamentare Stragi – anche il lavoro di chi aveva investigato su quella monumentale attività di dossieraggio è rimasta in penombra: quei fascicoli (alcuni mastodontici) costituivano la prima esperienza “repubblicana” di una risalente tradizione italica, basti pensare che buona parte del materiale informativo dell’OVRA era transitato pari pari all’Ufficio Affari Riservati del Ministero dell’Interno e che le finalità non potevano essere che ricattatorie.

    Nel frattempo anche una struttura denominata Servizio di Sicurezza, interna proprio al Viminale, aveva avviato analoga iniziativa di raccolta dati…di anno in anno, da un dossieraggio all’altro si è arrivati fino allo “scandalo Telecom” concluso con la scelta di un capro espiatorio, Giuliano Tavaroli, Vice Presidente dell’azienda con delega alla sicurezza, a pagare per tutti un’altra gigantesca opera di raccolta informazioni di cui – evidentemente – non se n’era e non se ne sarebbe fatto nulla a titolo personale. Ma perché con le indagini non si è andati oltre alle apparenze, è forse possibile che si rischiasse di toccare affettuosi amici e amici degli amici delle Procure?

    E che dire dei curiosoni della Direzione Nazionale Antimafia? Le indagini, forse, diranno chi è stato realmente coinvolto, chi eventualmente sapeva e avrebbe dovuto impedire quelle investigazioni illegali, se qualcuno le ha disposte da un rango superiore e – soprattutto – a che fine, su mandato di chi? Qualcuno ci crede che si arriverà a tanto, che interessi davvero scoprire mandanti e beneficiari?

    Chissà mai che non si rilevi, alla fine, una connessione con l’agenzia Equalize che pare realizzasse consulenze aziendali molto particolari la cui attività è emersa nel corso di indagini proprio su quella criminalità organizzata che è oggetto di attenzione della DNA e della DIA…e i numeri dei dossier, delle persone passate ai raggi X cresce con il potenziale aumentato degli strumenti di controllo: sembra che persino farsi un cafferino sia diventato rischioso perché qualcuno ti osserva e ascolta attraverso la macchinetta dell’espresso.

    Orwell, in fondo, ci aveva visto lungo con il suo “1984” non potendo immaginare che tecnologie future avrebbero reso ancor più inquietante e realistico quello scenario distopico di fantapolitica: persino il tanto vituperato Luca Palamara è stato vittima di dossieraggio perché altrimenti non si può definire una intercettazione con captatore informatico disposta su basi giuridiche inconsistenti, acceso e spento secondo le convenienze e con riversamento dei file audio in server esterni alla Procura di Perugia nei quali hanno potuto mettere le mani (e le orecchie) in chissà quanti.

    In questo preoccupante intreccio di interessi oscuri, spie e dossierati, l’immagine che si ricava è quella di un intero Paese che vive “sotto schiaffo” di qualcuno.

    La storia più recente dimostra la primazia che sta acquisendo la SIGINT, la signal intelligence rispetto alla quale nessuno è più al sicuro: l’indagine della Distrettuale Antimafia della Procura Milanese – tra l’altro – evidenzia un preoccupante buco laddove dagli atti risulta che diversi reati di accesso abusivo alle banche dati sarebbero stati commessi “in concorso con quattordici pubblici ufficiali non identificati”, un accadimento tecnicamente impossibile perché per quegli accessi è necessario inserire le proprie credenziali e siccome nella richiesta di misura cautelare i P.M. non accennano a verifiche in corso per dare un nome e un volto a costoro, gli scenari che si possono dedurre sono molto preoccupanti.

    Infatti, o manca la volontà di individuare questo nutrito gruppo di infedeli servitori dello Stato oppure in alternativa si può pensare ad una gestione approssimativa degli accessi alle banche dati e controlli interni all’acqua di rose che consentano ai responsabili di restare ignoti.

    L’ultima eventualità è forse la più probabile e più inquietante: che si tratti di agenti dei servizi segreti ed in questo caso l’attesa di giustizia sarebbe subordinata ad imprevedibili sviluppi.

  • In attesa di giustizia: facce da tribunale

    I lettori di questa rubrica si sono abituati ad avere un po’ l’amaro in bocca dopo aver letto il resoconto settimanale – e neppure completo – dello sprofondo in cui giace il nostro sistema – giustizia tra legislazione sciatta e giurisdizione approssimativa, per usare garbati eufemismi.

    Questa settimana la scelta è stata quella di fare autopromozione di un mio libro che è in uscita nei prossimi giorni e che racchiude le memorie – anche queste non complete – di una lunga vita professionale: un racconto scandito in capitoli che non sono una sequenza narrativa ma hanno un fil rouge: la memoria, appunto, di chi ha conosciuto quei personaggi (la maggior parte dei quali rinominati con nomi di fantasia e contesti leggermente mutati per evidenti ragioni) ha vissuto quelle storie in prima persona e ne ha distillato una raccolta per descrivere il cui contenuto è bene lasciare la parola al mio straordinario editore, Brenno Bianchi e alla bravissima editor Ilaria Iannuzzi che del libro hanno curato la sinossi.

    Il Marchese di Popogna, chi era costui? Lo si scoprirà avventurandosi un capitolo dopo l’altro in questa galleria di “facce da tribunale: imputati, magistrati, cancellieri, avvocati veri e improvvisati.

    Il lettore viene scortato nei vicoli labirintici dei palazzi di giustizia ad incontrare artisti della truffa in abito talare, eleganti falsari specializzati in cartamoneta coloniale ed impeccabili baciamano, colleghe trascinate in improbabili storie di spionaggio sullo sfondo degli Champs Elysèes…aneddoti di una carriera che ha attraversato decenni della storia giudiziaria del nostro Paese: dai tempi perduti della mala milanese, fatta di rapinatori audaci alla guida di auto truccate e contrabbandieri ammantati di romantica ribalderia, all’era delle pec e delle udienze celebrate on line in cui Pretori e Cancellieri si sono dileguati insieme alla ligèra e alla schighèra.

    Con penna sempre brillante e intinta di fine ironia, l’autore intesse una narrazione fatta di episodi leggeri, talvolta paradossali, così come di vicende umane intense, fino ad aprire una finestra sulla speranza che deve assistere l’uomo anche quando si è macchiato di un crimine.

    Tra tanti racconti sorprendenti, ricordi toccanti e qualche burla, Il Marchese di Popogna ed altre storie è un’incursione in un mondo affascinante, un mondo adiacente al nostro, popolato da veri e propri caratteristi che rivelano il lato umano e non da tutti conosciuto della Giustizia.

    I lettori mi scuseranno per questa scelta di fare “consigli per gli acquisti” offrendo loro l’anteprima di uno scritto personale ma, proprio arrivando in fondo al lavoro mi sono reso conto di un aspetto non banale: la maggior parte dei personaggi e degli eventi appartengono a prima della Guerra dei Trent’anni, quella iniziata con Mani Pulite ed ancora non vede una fine e che ha visto opposte una politica debole ed una magistratura debordante occuparne gli spazi lasciati liberi, con buona pace del principio della separazione dei poteri dello Stato.

    Forse, leggendo quel libro, il non addetto ai lavori, insieme ad un sorriso potrà coltivare la speranza che quel tempo, quello che Brenno e Ilaria definiscono “della Giustizia dal volto umano”, non sia perduto per sempre: noi siamo ciò che siamo stati e il culto della memoria è il miglior viatico per guardare con rinnovato ottimismo ad un futuro.

    In attesa di Giustizia.

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