Giustizia

  • In attesa di Giustizia: nella patria del diritto è talvolta buio fitto

    Per tre giorni, ad inizio mese, c’è stata astensione dalle udienze degli avvocati penalisti:  una categoria che lo fa per proteggere le garanzie e gli interessi degli altri e mai i propri e – quindi –  rinunciando a guadagni per protestare, per esempio, contro la soppressione dell’istituto della prescrizione voluta da quel raffinato giurista di Alfonso Bonafede ed acclamata dai Davigo d’Italia che rendeva i cittadini imputati per sempre, contro l’inasprimento assurdo delle pene per certi reati, contro l’idea di carcere come unica risposta per garantire la sicurezza che ha avuto come unico risultato l’aumento del numero degli ergastoli inflitti ma non è diminuito quello degli omicidi.

    Avvocati che, se non rispettano un termine processuale, nella maggior parte dei casi non c’è rimedio, la responsabilità è loro e pagano… se, invece, un giudice fissa in 90 giorni il termine per il deposito di una sentenza e la deposita dopo sei mesi, pazienza.

    Avvocati che, se per qualche motivo depositano una querela dopo tre mesi e un giorno dal fatto, la responsabilità è loro e pagano… se il P.M. – che dovrebbe concludere le indagini entro sei mesi – si fa vivo dopo tre anni e nel frattempo l’indagato non ne sa nulla, pazienza.

    Avvocati che, se per ragioni imprevedibili, arrivano in ritardo in udienza, il giudice chiama il processo, nomina un difensore immediatamente reperibile che non conosce gli atti e lo fa discutere, la responsabilità è dell’avvocato e paga. Se il P.M. tarda, lo aspettiamo. Se il giudice tarda, lo aspettiamo. Pazienza, due volte.

    Avvocati che, se sono malati possono chiedere un rinvio per legittimo impedimento, ma il giudice può decidere che non sono abbastanza malati e allora il processo si fa lo stesso, con o senza il difensore di fiducia e lo stesso giudice può anche decidere che per l’avvocato partecipare al funerale del proprio padre non sia una ragione valida di rinvio e che non lo sia neppure assistere un figlio in tenera età che deve subire un intervento chirurgico, perché poteva andarci l’altro genitore. E sì, è successo davvero ma la pazienza si va esaurendo.

    Avvocati che, se il giudice è in maternità da tre mesi ma nessuno ha avvisato – basta una mail – che ci sarebbe stato un rinvio, si sono spostati magari da Cagliari a Monza per fare il loro dovere e pazienza ancora una volta. E’ successo anche questo e anche di peggio.

    Avvocati che, se dimenticano di citare un testimone, la responsabilità è loro e pagano…se la Procura sbaglia cinque volte una notifica all’imputato o il tribunale non fa tradurre l’imputato in udienza, si rinvia e pazienza.

    E, ovviamente, se il reato si prescrive è colpa dell’avvocato che maliziosamente usa astuti cavilli per farla fare franca al suo assistito.

    Avvocati che se commettono un errore nella gestione del processo, la responsabilità è loro e pagano. Se un giudice tiene in carcere per anni un poveraccio che poi risulta innocente, pazienza e… pagate voi.
    Ed, a proposito di proteste, quest’anno abbiano anche assistito alla pantomima dello sciopero dell’A.N.M.: hanno scioperato, senza perdere un centesimo, contro una riforma durante il suo iter parlamentare, quindi contro un Potere dello Stato, per difendere privilegi di casta e rendite di posizione e per dimostrare che loro sono al di sopra di tutto, persino del potere legislativo a cui hanno dichiarato guerra solo perché non si allinea ai loro desiderata.

    Hanno detto, però, che era per difendere l’indipendenza della magistratura, la Costituzione e i cittadini, e invece hanno fatto solo i propri interessi, come sempre, e come sempre faranno a meno che qualcuno non gli faccia capire che loro non sono la legge ma sono al servizio della legge e la legge la fa il Parlamento che rappresenta i cittadini.

    Lo fanno e lo faranno gli avvocati, anche loro posseggono la Costituzione, l’hanno letta e studiata comprensiva degli articoli sul diritto di difesa, la presunzione di innocenza ed il giusto processo…Molti magistrati sembra di no: pazienza: così si spiega perché nella cosiddetta Patria del diritto è talvolta buio fitto.

  • In attesa di Giustizia: in nome del popolo italiano

    C’era una volta un giudice civile del Tribunale di Salerno che – forse mosso ad umana pietà dalla crisi economica che affligge chi non ha la fortuna di un impiego pubblico lautamente pagato – nominava commercialisti suoi amici come consulenti tecnici in materie che non c’entravano nulla con il loro settore: ingegneria, chimica, architettura, smaltimento di rifiuti e scarichi, gestione e manutenzione di impianti…e liquidava loro compensi molto generosi, fino a 230.000 euro. Per questo e altri motivi Corrado D’Ambrosio è stato rimosso dall’ordine giudiziario dalla Sezione Disciplinare del C.S.M. che lo ha giudicato responsabile di una lunghissima serie di illeciti deontologici.

    Giustizia, dunque è fatta? Insomma…  non del tutto perché la decisione – arrivata a 15 anni dai fatti –  non è definitiva e D’Ambrosio continua a restare al suo posto: il processo disciplinare, infatti, fu sospeso obbligatoriamente nel 2010 in attesa dell’esito di quello penale, in cui il giudice è stato assolto in Tribunale da accuse di corruzione ed ha evitato il carcere per altri reati che gli erano stati attribuiti poiché si erano prescritti nel tempo intercorrente tra Primo Grado di Giudizio ed Appello: del resto che motivo c’era di accelerare la celebrazione delle udienze proprio contro un collega? Così, almeno, con i ruoli della magistratura perennemente sotto organico, D’Ambrosio ha potuto continuare a fare il magistrato pronunciando sentenze in nome del Popolo Italiano e pontificando in pubblico su temi della giustizia rilasciando interviste senza nascondere, per esempio, il suo personale favore rivolto ai referendum della Lega e del Partito radicale sulla separazione delle carriere: “il ruolo della pubblica accusa è assolutamente sproporzionato rispetto alle esigenze del sistema. Il P.M. è diventato un potere irresponsabile, ed è pericoloso per la democrazia”, diceva.

    Nei capi d’incolpazione redatti dalla Procura generale della Cassazione – che è l’organo d’accusa nel processo disciplinare – si legge che “con grave inosservanza dei doveri di correttezza e diligenza e agendo con negligenza grave e inescusabile, nominava, nelle cause da lui trattate, consulenti privi del profilo professionale e della competenza compatibili con i quesiti posti”, cioè, come si è detto, i commercialisti suoi amici. A causa della loro inadeguatezza, però, la consulenza “vera” era affidata ad ausiliari, nominati nello stesso momento o in un momento successivo: a loro veniva liquidato autonomamente l’onorario (facendolo rientrare nelle spese vive del consulente) ed in taluni casi senza neppure l’applicazione dei criteri di legge bensì a forfait. Ad esempio, nella causa nr. 1508/2010 D’Ambrosio nominava consulente tecnico d’ufficio il dottor Vittorio Marone, commercialista, per un incarico di natura ingegneristica-architettonica, liquidandogli un compenso finale pari a 130.000 euro non senza averlo autorizzato “ad avvalersi di un ausiliario con competenza specifica, l’ingegnere Luigi Iaquinta” al quale, pure, veniva liquidato un compenso nella misura di 65.569,56 euro.

    Sempre Marone veniva nominato, nella causa nr. 34809/2010, “per un incarico relativo alla valutazione sul corretto adempimento di contratto in materia di gestione e manutenzione di impianti, autorizzandolo ad avvalersi dell’ausiliario ingegner Luigi Panico: a quest’ultimo venivano liquidati 73.663 euro ed al commercialista 230.589,74.

    Il giudice radiato, a tacer del resto ha illegittimamente ed ingiustamente aggravato le spese del processo – che nel giudizio civile sono poste a carico delle parti – che avrebbero ledendone gravemente i diritti patrimoniali. Il tutto in nome del Popolo Italiano.

  • In attesa di Giustizia: la terra dei miracoli

    Italia terra dei miracoli: sarà per la presenza dell’enclave dello Stato Città del Vaticano, o forse perché – come sta scolpito all’EUR – il nostro è un popolo di Santi oltre che di poeti, navigatori, artisti, pensatori, scienziati, trasmigratori ed eroi (e, forse, non a caso non sono citati i giuristi…).

    Fatto sta che dal Colle di Cadibona ai Sette della Città Eterna è un susseguirsi di miracoli: nella sola Genova, addirittura se ne sono verificati ben due! Accade che un fascicolo – secretato ed a carico una volta di più di Giovanni Toti – chiuso nella cassaforte del Procuratore Capo, Nicola Piacente, avendo la meglio sul principio fisico della impenetrabilità dei corpi solidi, approdi nella redazione di un quotidiano dando il via immediato allo sputtanamento a palle incatenate a mezzo stampa.

    Il secondo miracolo è che il Dott. Piacente, come peraltro impone la legge ma tutti abitualmente se ne infischiano, ha aperto un’indagine su questa fuga di notizie: ovviamente si tratterà di un fascicolo al momento senza indagati anche perché essendo proprio Piacente il custode di quel fascicolo non ancora assegnato ad alcuno sostituto, dovrebbe paradossalmente cominciare ad iscrivere se stesso nel registro delle notizie di reato…ma tre miracoli di fila sarebbero troppi.

    A latitudini più basse, nei ministeri piuttosto che alla Commissione Affari Costituzionali, con un percorso di selezione delle professionalità che non può definirsi altro che miracoloso accade che la redazione di testi normativi venga affidata a soggetti che il diritto, soprattutto quello costituzionale, l’hanno imparato frequentando corsi di studio serali…al buio.

    Per farne un paio di esempi e fermandosi agli ultimissimi ecco delle autentiche chicche che anche un lettore non tecnico potrà comprendere senza troppo arrovellarsi: nel tanto decantato decreto sicurezza – a tacer d’altro – si rinviene la previsione che la pena sia aumentata per qualsiasi reato commesso all’interno o nelle immediate vicinanze di una stazione ferroviaria o della metropolitana e cosa significherà mai immediate vicinanze? Nel bar di fronte alla stazione, a 50, 100, 200 metri, al parcheggio dei taxi anche se più distante? Chi deciderà a quale parametro dovrà allinearsi? Il tutto con violazione e buona pace del principio di tassatività della legge penale previsto dalla Costituzione…e – poi – perché solo nelle stazioni ferroviarie e non in quelle degli autobus o negli aeroporti o nelle biglietterie degli aliscafi al Molo Beverello che si propongono in un identico contesto? E tanti saluti anche alla parità di trattamento di fronte alla legge.

    In una nobile competizione con il Ministero della Giustizia anche quello della Pubblica Istruzione ha pensato bene di mettere mano al codice penale suggerendo che sia possibile l’arresto obbligatorio in flagranza per chi abbia cagionato anche solo lesioni lievi al personale docente. Con tutto il rispetto per gli insegnanti vittime di violenze e bullismo ci si sta dimenticando un piccolo dettaglio: che il codice penale per le lesioni lievi prevede che si proceda a querela di parte e cioè a dire che la persona offesa ha tre mesi di tempo per decidere se chiedere la punizione del colpevole oppure no e non si può certo arrestare qualcuno che potrebbe non essere neppure mai querelato…tranne che, per risolvere il problema, non si voglia ardire sino al punto di facultare i bidelli a ricevere querela orale nella immediatezza dei fatti, e munirli di poteri di arresto quali ausiliari facenti funzioni di Carabinieri e Polizia e magari dotandoli di manette e taser, già che ci siamo e potrebbe non essere fantadiritto.

  • In attesa di Giustizia: procure della repubblica delle banane

    Tornano alla ribalta con nuove e mirabolanti intraprese due protagonisti assoluti di questa rubrica: i P.M. De Pasquale e Colace. La prima di queste vicende ruota attorno ad uno stralcio del procedimento Eni- Nigeria, cioè una tranche dell’indagine principale che per varie ragioni è pervenuta a giudizio separatamente ed è a carico di un uomo d’affari nigeriano,  Aliyu Alhaji Abubakar, ancora sotto accusa a Milano per i medesimi fatti già definiti con due sentenze irrevocabili di assoluzione nei confronti di tutti gli altri coimputati. A sostenere l’accusa si è rimaterializzato il P.M. Fabio De Pasquale nonostante la sua condanna in primo grado per omissione di atti d’ufficio nel troncone principale del processo e la retrocessione da procuratore aggiunto a semplice sostituto, confermata dal T.A.R..

    Siamo all’assurdo: all’udienza del 9 ottobre 2024, appena un giorno dopo la condanna di De Pasquale a Brescia che i lettori ricorderanno perché ne abbiamo trattato, a rappresentare la pubblica accusa si è presentato un altro magistrato, anticipando che il fascicolo – come opportunità avrebbe imposto – doveva essere  riassegnato a un nuovo pubblico ministero: il colpo di scena è arrivato l’11 aprile scorso, quando, in occasione dell’udienza fissata per le conclusioni, si è presentato in aula proprio De Pasquale che, di fronte alle obiezioni dei difensori ha chiarito che non c’era nessuna necessità di riassegnare il fascicolo, in quanto già affidato a lui…che, ha chiesto in questa occasione una condanna a cinque anni di carcere in base alle medesime prove che il Tribunale di Brescia ha ritenuto (con sentenza appellata, va detto) che siano state taroccate a discapito degli imputati nel troncone principale.

    Gli avvocati di Abubakar sono insorti ed hanno presentato un esposto al ministro della Giustizia, al Consiglio Superiore della Magistratura ed ai vertici giudiziari milanesi, denunciando quanto accaduto osservando che neppure nel “nuovo” procedimento, a distanza di tempo e nonostante quanto poi verificatosi, De Pasquale ha mai depositato quegli atti favorevoli alle difese furbescamente nascosti: comportamento per il quale – a tacer della condanna penale – il C.S.M., bocciando la sua conferma a procuratore aggiunto, ha definito la condotta oggettivamente connotata da patente gravità. Comunque vada a finire, quel che resta è la considerazione che taluni hanno veramente la faccia come un’area anatomica nota per essere deputata alle deiezioni.

    Come Colace, recentemente sanzionato dal C.S.M. per una raffica di intercettazioni illegali e campione assoluto, quantomeno del Nord Ovest d’Italia, di flop giudiziari che – per il momento – resta al suo posto perché la decisione disciplinare è stata impugnata. L’uomo ha inventato una nuova modalità di argomentare la requisitoria finale in un procedimento concluso pochi giorni addietro avanti il Tribunale di Torino ed ha così singolarmente intonato le roboanti conclusioni di quello che potrebbe essere il suo canto del cigno: “Chiedo la condanna di tutti gli imputati anche se so che il Tribunale non potrà che assolvere”, così come è avvenuto.

    Per fermarsi alle ultime, dopo Bigliettopoli (imputati assolti) e Concorsopoli (imputati prosciolti in udienza preliminare) è, infatti, crollata anche questa inchiesta, denominata Sanitopoli, con quattro assoluzioni su cinque imputati: i primi accusati, in un’indagine avviata sette anni fa, di corruzione e turbativa d’asta per un appalto da 56 milioni dell’ASL TO3  ed, alla fine, è stata inflitta soltanto la pena a nove mesi di reclusione ad un finanziere per rivelazione di segreto d’ufficio.

    Benvenuti nelle Procure della Repubblica delle Banane.

  • In attesa di Giustizia: todos caballeros

    E’  iniziato un “ponte” da fare impallidire quello onirico tra Scilla e Cariddi e per restare in argomento di feste questa settimana la rubrica si occuperà di una non ufficializzata ma assai partecipata in silenzio da alcune migliaia di cittadini, tutti appartenenti all’Ordine Giudiziario: correva l’anno 1966 ed il 25 luglio il Parlamento, prossimo a sua volta ad andare in ferie, approvò la cosiddetta “Legge Breganze”, dal nome del deputato che ne fu proponente, Umberto Breganze, un avvocato e deputato democristiano.

    Questa riforma si poneva nel solco di un principio già affermato nel 1963: le promozioni dei magistrati non avvenivano più sulla base dei posti disponibili (ad esempio: si libera un posto di giudice di Corte d’Appello e, quindi, un singolo viene promosso a quel posto), ma si promuovevano tutti i candidati idonei a prescindere dalla disponibilità dei posti. Si accedeva, quindi, a rango ed incarichi superiori che, però, non esistevano.

    La novità della Legge Breganze consiste nel fatto che le progressioni di carriera non debbano più nemmeno avvenire per concorso ma che la promozione al grado di Magistrato d’Appello avvenga in forma automatica, per mera anzianità. Non paghi, nel 1973 i magistrati chiedono ed ottengono che lo scorrimento automatico avvenga, sempre senza concorso per sola anzianità, fino a magistrato di Cassazione.

    Fu così che il numero di magistrati con il grado di Consigliere di Cassazione crebbe in maniera esponenziale. Passano poco più di dieci anni ed il 6 agosto 1984, mentre ancora una volta gli italiani si godono le meritate vacanze, l’infaticabile legislatore va oltre ed approva la norma sul “galleggiamento”: cioè a dire che a parità di qualifica deve esserci parità di stipendio. Tutti i magistrati, pertanto, percepiscono uno stipendio pari al più alto pagato ad un singolo magistrato che abbia quella determinata qualifica: se in uno specifico livello entra oggi un magistrato che, per vari motivi, percepisce uno stipendio più alto tutti gli altri, automaticamente, “galleggiano” ed hanno diritto a prendere quella identica retribuzione…così nessuno rischia di annegare e la Patria è salva, almeno per otto anni, come vedremo.

    Fra i pochi ad opporsi a queste continue regalie balneari vi fu Giuseppe Gargani, insieme a Cossiga ed altri, compreso il repubblicano Oronzo Reale che era presidente della Commissione Giustizia della Camera, ma fu tutto inutile e l’opposizione mal tollerata, tant’è che Gargani venne chiamato da Flaminio Piccoli il quale gli disse più o meno: “Lascia stare ti portano su una via sbagliata. Questa legge è fondamentale per il nostro Paese”. Gargani tentò ugualmente di prospettare le inique conseguenze tipo che tutti i magistrati, pur rimanendo – magari – Pretori di Capracotta, avrebbero avuto il rango di Cassazionisti e percepito il medesimo stipendio. Era insomma la famigerata progressione automatica delle carriere. Piccoli, come racconta lo stesso Gargani nel libro “Le mani sulla storia” non volle sentire ragioni affermando bruscamente: “Senti, se non passa questa legge ci arrestano tutti”. Se chiedete a qualche magistrato vi dirà che questo generoso trattamento economico è volto ad attuare il precetto costituzionale di indipendenza per evitare che siano soggetti a rivendicazioni da parte di altri Poteri…”

    Gargani non pensò a questo e rimase interdetto: intuì che ci fosse qualcosa sotto di inconfessabile ed ancor oggi non sappiamo cosa fosse perché a richiesta di chiarire il suo pensiero e quali timori lo animassero Flaminio Piccoli rispose: “Capirai, capirai…”.

    Non tutto è intellegibile ancor oggi però è un fatto che meno di due lustri dopo divampò “Mani Pulite”. Forse i favori fatti alla Magistratura anche dagli avvocati che sedevano in Parlamento non sono stati abbastanza.

  • In attesa di Giustizia: femminismo punitivo

    Ad metalla, ad bestias!  L’ergastolo non basta: si è scatenata la querelle mediatica con un attacco frontale alla motivazione della sentenza di condanna di Filippo Turetta per l’omicidio della fidanzata, alimentata da indignati in servizio permanente effettivo che fomentano furori di piazza fuori luogo semplificando il senso di una decisione, attaccando giudicanti ed avvocati (per non farsi mancare mai nulla) nella più totale ignoranza del diritto.

    Lo scandalo, denunciato con informazione spazzatura, non è altro che l’applicazione di giurisprudenza stabilizzata e costante della Cassazione in tema di aggravante della crudeltà nel reato di omicidio. Cerchiamo di fare chiarezza partendo dal presupposto che ogni omicidio è espressione di una forma di crudeltà ma la “crudeltà” che era stata in origine contestata a Turetta è qualcosa di differente, è una circostanza aggravante del reato…e qui non guasterebbe anche una dignitosa conoscenza del latino – ma sarebbe pretendere troppo –  per meglio comprendere il significato di “circostanza”: qualcosa che sta intorno e che in diritto penale caratterizza una particolarità, negativa o positiva (sì: esistono anche le circostanze attenuanti per chi non lo sapesse) dell’azione nel commettere un reato. Dunque nel caso Turetta come in altri, qualcosa in più rispetto alla mera azione omicidiaria della quale deve essere valutata la modalità complessiva e l’intenzionalità soggettiva di infliggere un tormento aggiuntivo al dolore già generato dalla inflizione dei colpi.

    Questo qualcosa in più (quid pluris, per gli addetti ai lavori…) non sta, dunque, necessariamente nel mezzo usato o nel numero di ferite inferte per uccidere ma nella provocazione voluta di una sofferenza: si pensi, per esempio, all’incaprettamento tipico di esecuzioni mafiose o qualsiasi lesione letale che però, volutamente, cagioni la morte solo a seguito di una lenta e tormentata agonia.

    Femminismo punitivo, è questo che si vuole: inutile e fuori dalle regole? E’ comprensibile l’orrore provocato da taluni fatti di sangue non lo è lo stimolo a voler allontanare da noi un soggetto deviante dipingendolo a tutti i costi come un mostro che non solo uccide ma lo fa con crudeltà; certamente così  è più facile perché è anche un facile modo per autoassolverci in quanto si tratta di un ragazzo come tanti, ahimè cresciuto in una società che non ha saputo educarlo a gestire le proprie emozioni e ad accettare un rifiuto, un ragazzo che sicuramente non ha mai tenuto un coltello in mano e che in quel contesto ha agito in modo confuso e violento. Ma la crudeltà è un’altra cosa.

    Il terreno del dibattito è delicatissimo e scivoloso, in parte costruito e sorretto dalle emozioni ma prima di insultare e strepitare occorrerebbero almeno una decina di anni di studi giuridici, possibilmente non conseguendo il titolo abilitativo su Facebook o Chat CPT che consentono unicamente di iscriversi all’Albo degli Imbecilli, istruiti si fa per dire, da docenti poco meno che analfabeti: quelli che parlano di “reato penale”, per intenderci.

  • In attesa di Giustizia: pesca a strascico

    Quella di Torino sembra intenzionata a voler contendere ad altre Procure il primato in materia di clamorosi flop: celeberrimi quelli delle indagini imbastite dall’ormai ex P.M. Gianfranco Colace a cui dobbiamo le accuse all’ex governatore del Piemonte Sergio Chiamparino,  a Chiara Appendino e Piero Fassino per il tempo in cui sono stati sindaci ed a svariati assessori, con ipotesi di inquinamento ambientale colposo a Torino così strampalate che sono stati tutti prosciolti in udienza predibattimentale: un evento talmente raro che si può dire costituisca una prova dell’esistenza di Dio. Non pago è stato sempre lui ad indagare gli ex vertici del Salone del libro di Torino, tra cui, ancora una volta, Fassino e l’ex assessore regionale alla cultura Antonella Parigi, per irregolarità negli appalti, con quale risultato? Tutti assolti ma dopo undici anni.

    A tacer d’altro – e ce ne sarebbero da raccontare – la immergente carriera di Colace si è interrotta in seguito a quella che si è rivelata un’intercettazione illecita, protrattasi per tre anni e circa 500 ascolti, dell’allora senatore Stefano Esposito, rigorosamente senza autorizzazione del Parlamento ed anche in questo caso con esito assolutorio. Cioè a dire: gli piace perdere facile! Questa volta, però, la sua condotta è stata censurata dalla Corte Costituzionale ed il procedimento disciplinare apertosi al C.S.M. ha esitato di recente la sanzione della perdita di un anno di anzianità ed il trasferimento ad altra sede giudiziaria e diverse funzioni, lontano da indagini e manette, ad occuparsi di questioni civili.

    Dietro quest’ultima vicenda, emblematica di come le intercettazioni siano strumento privilegiato di “pesca a strascico” con richieste ed autorizzazioni protratte all’infinito nella speranza che qualcosa rimanga nella rete più che sul presupposto che vi siano gravi indizi di reati in corso di commissione, si cela un’altra realtà ancora da esplorare ed inquietante: dagli atti giudiziari di altro procedimento è emersa l’esistenza di un nucleo di polizia giudiziaria “ombra” in servizio proprio alla Procura di Torino che sembra, tuttavia, non rispondere a nessun magistrato in particolare ma la cui operatività è nota senza che vi sia stato alcun interesse a fare chiarezza sulla sua attività proprio perché le iniziative autonome di questa “sottosezione” possono essersi rivelate utili, pur in assenza di deleghe e coordinamento come vuole la legge, ad estendere le investigazioni in quelle aree di sospetto di cui i P.M. si nutrono avidamente.

    Se confermato nell’ambito di un processo in corso di celebrazione tutto ciò è destinato a scoperchiare un vero e proprio vaso di Pandora, una condizione di illegalità dilagante e – forse – tollerata, se non addirittura stimolata, che fa sfumare sempre più il ricordo delle ragioni per cui, in altri tempi, un po’ aulicamente ma a buon diritto, ci si rivolgeva in Aula al Pubblico Ministero chiamandolo “oratore della legge”.

    Al giorno d’oggi, tra incriminazioni kafkiane, intercettazioni illecite, ipotesi di reato campate in aria per poter inoculare micidiali captatori informatici nei palmari e cani sciolti delle forze dell’ordine soccorre quasi la speranza di essere ufficialmente inseriti in un sistema su modello del Cile della buonanima del generale Pinochet: almeno si sapeva cosa aspettarsi invece che subire il quotidiano ma blasfemo richiamo ai principi sacrosanti della Costituzione ed a quelli informatori sullo Stato di Diritto.

  • In attesa di Giustizia: comune senso del pudore

    Ho visto cose che voi umani non potete nemmeno immaginare: ho visto celebrare processi in videoconferenza e decidere la sorte di un uomo con la connessione intermittente che faceva capire una parola si e tre no, ho visto cancellerie chiuse con i funzionari a casa in smart working ma senza i computer criptati per lavorare e ho visto sentenze della Cassazione sostenere che un certificato medico presentato in udienza da un avvocato non vale nulla perché andava spedito via pec.

    Benvenuti nel meraviglioso mondo del processo penale telematico dove tutto è fantasia, intuizione, colpo d’occhio e velocità di esecuzione, un po’ come sostiene il Perozzi in Amici Miei riferendosi al genio…solo che in questo caso di genialità non c’è nulla, anzi: serve fantasia per interpretare le circolari ministeriali, intuizione per capire come funziona il leviatanico portale di deposito atti, colpo d’occhio per scoprire gli uffici con all’interno un umanoide che sia ancora disposto a darvi retta e velocità di esecuzione per cogliere l’attimo in cui i sistemi informatici messi a disposizione da via Arenula sono miracolosamente funzionanti.

    In questo girone dantesco destinato agli inefficienti che è diventato il back office della giustizia penale la semplificazione che avrebbe dovuto portare ha, invece, fallito miseramente peggiorando le cose ed è ancora più facile imbattersi in forme particolari di mancanza di senso del pudore come nella sentenza della Cassazione che questa settimana offre amari spunti di riflessione.

    Accade che un avvocato, per ragioni di salute, non sia in grado di raggiungere Roma per discutere un processo proprio in Cassazione: come si è fatto per decenni chiede ad un collega la cortesia di andare a chiedere un rinvio per legittimo impedimento inviandogli via mail una copia di certificato medico; per completezza di informazione ricordiamo, anche a chi non è seguace di Davigo e Travaglio, che questi rinvii non valgono a raggiungere la prescrizione perché ne sospendono il corso.

    Risultato: la Suprema Eccellentissima Corte rigetta l’istanza e senza rispetto alcuno per il comune senso del pudore e con sprezzo del ridicolo scrive che la richiesta non può essere accolta perché: 1) il certificato medico è in fotocopia 2) perché doveva essere spedito alla cancelleria via pec.

    E così fu che il ricorso è stato trattato senza il difensore a discuterne le ragioni; questa decisione induce alcune riflessioni: la prima di queste attiene alla primazia che sembra doversi ormai riconoscersi alle macchine ed il vade retro ad un gentiluomo in toga soprattutto se per sostenere le proprie ragioni è munito solamente di una fotocopia…fotocopia che la pec (nell’eventualità remota che qualcuno la legga per tempo o non finisca nella spam a causa della presenza di un allegato sospetto) si direbbe in grado di trasformare miracolosamente in un originale così come la macchinetta della Lavazza sita nel corridoio della cancelleria inizi a mescere Barolo al posto del cappuccino.

    L’etimologia del termine giurisprudenza richiama ad un corretto governo del buon senso nella interpretazione della legge ed, a tacer di questo, il codice prevede espressamente che vi possa essere deposito di atti e documenti in udienza e questa decisione non è priva dello sgradevole retrogusto del sospetto nei confronti di avvocati che si ammalano al momento più opportuno…ammesso che lo siano davvero.  Vergogniamoci per loro che non sono in grado di farlo da soli.

  • In attesa di Giustizia: la legge non è uguale per tutti

    Continua inarrestabile il profluvio di norme penali peggio che inutili: di dubbia legittimità costituzionale ed, a volte, entrambe le cose.

    Meglio dell’8 marzo, come data, non si poteva scegliere per annunciare con il dovuto clamore il disegno di legge di origine governativa che introduce nel codice penale il reato di femminicidio.

    Chi ne ha scritto il testo, a parte una conoscenza approssimativa della lingua italiana, dimostra una volta di più di aver dato una lettura superficiale alla Costituzione che all’art. 3 proclama l’eguaglianza di tutti i cittadini (quindi uomini, donne, LGBTQ e chi più ne ha più ne metta) di fronte alla legge non meno che del 32 che, unico tra tutti, individua come fondamentale il diritto alla salute sottintendendo quello alla vita, anche in questo caso – ovviamente – senza distinguo.

    Il cosiddetto femminicidio è indubbiamente un fenomeno sociale con il quale si devono fare i conti ma anche durante una bevuta di birra al Bar Sport, se questo fosse l’argomento, chiunque si renderebbe conto che la vita di una vittima durante una rapina, di un regolamento di conti piuttosto che di odio razziale non vale meno di un’altra e, a proposito: se in un conflitto a fuoco tra un rapinatore maschio ed un Carabiniere donna fosse quest’ultima a morire che tipo di reato sarebbe? Omicidio o femminicidio? Oppure di un soggetto che ha in corso la transizione di genere? Peggio che mai nell’ipotesi di un gender fluid la cui identità di genere oscilla lungo lo spettro di genere variando nel tempo…

    Si badi bene che l’intenzione non è quella di svilire la portata di un tema sociale drammatico quale quello del crimine di genere, piuttosto quella di criticare una opzione normativa che una volta di più si richiama al più bieco populismo ed è volta all’accaparramento di consenso elettorale.

    Il femminicidio, dunque, rischia (con elevata probabilità di acclamazione bipartisan una volta pervenuto in Aula) di diventare un reato a sé, un omicidio diverso dagli altri: incostituzionale ed inutile perché già allo stato attuale della normazione con l’aggravante dell’odio di genere o altre quali i motivi abietti e futili o la crudeltà può comportare la pena dell’ergastolo.

    Per introdurre un dato di novità rispetto al passato il nostro sciatto legislatore ha pensato bene di descrivere la condotta come quella caratterizzata da odio ed intesa a “reprimere l’esercizio dei diritti, delle libertà e della personalità della vittima”: sembra una supercazzola di Tognazzi, che cosa vorrà mai dire, in concreto, tutto ciò? Sicuramente che un altro canone costituzionale che sfugge alla penna del legislativo di via Arenula è quello di tassatività che impone la determinatezza delle fattispecie criminose utilizzando espressioni precise in modo che sia possibile distinguere ciò che è penalmente lecito da ciò che è sanzionato anche senza avere un dottorato di ricerca all’Istituto di Diritto Penale della Sapienza.

    Trascorsi i tempi bui in cui alla consolle del Ministero della Giustizia sedeva un dj incompetente in utroque jure c’era da sperare in meglio e viene invece da chiedersi a che punto è la notte.

  • In attesa di Giustizia: stica***

    Dal 2018 al 2024 allo Stato sono costati circa 220 milioni di euro gli indennizzi destinati ai cittadini vittime di ingiusta detenzione, cioè che sono stati arrestati salvo poi essere prosciolti o assolti: la cifra si ricava dall’ultima relazione del ministero della Giustizia sulla custodia cautelare e sulle ingiuste detenzioni in Italia…e molte vengono negate con motivazioni quantomeno fantasiose. Quello che colpisce è la distribuzione geografica delle riparazioni economiche: di questi 220 milioni, ben 78 sono stati versati in Calabria, a seguito di decisione delle competenti Corti d’appello di Catanzaro e Reggio. In altre parole, una regione che ospita soltanto 1,8 milioni di abitanti ha assorbito negli ultimi sette anni il 35% dell’intera spesa destinata a risarcire le vittime di ingiusta detenzione: tendenza stabile se, nel 2024, su quasi 27 milioni complessivi, 8,8 (e siamo al 33%) costituiscono il costo della Calabria…e forse c’è una spiegazione, sicuramente i numeri fanno riflettere.

    Non a caso si parla di un’area dominata da procure d’assalto che imbastiscono maxi operazioni contro la criminalità organizzata con decine, se non centinaia di arresti, e che molto spesso si rivelano ingiusti. Le più note – i cui effetti in termini di ricaduta sugli indennizzi diventano ora percettibili a processi conclusi – sono quelle firmate a suo tempo da Nicola Gratteri: prima a Reggio Calabria e poi a Catanzaro dove è stato Procuratore Capo dal 2016 al 2023.

    Ricordiamone alcune: quella contro la ’ndrangheta del 2003, nella Locride, con 125 misure di custodia cautelare (solo in otto vennero condannati e per gli arresti preventivi è necessaria una valutazione degli indizi con prognosi di “elevata probabilità di condanna”); l’operazione “Circolo formato” del 2011, quaranta persone arrestate tra cui il sindaco di Marina di Gioiosa Ionica e diversi assessori, in esito alla quale gli amministratori locali poi vennero assolti; l’ancora più nota operazione “Rinascita-Scott”, nel 2019: 334 persone mandate in carcere ed in primo grado ne sono state assolte 131, praticamente una su tre; buon ultima – ma non esaurisce l’elenco – l’inchiesta del 2018 che sconvolse la politica calabrese, con le accuse di corruzione e abuso d’ufficio contro l’allora Presidente della regione, Mario Oliverio, poi assolto.

    Stiamo parlando di Gratteri che ha sempre sostenuto che i risarcimenti per ingiusta detenzione erano riferibili agli anni prima del suo arrivo a Catanzaro ma adesso che la Corte d’Appello sta trattando proprio gli anni della sua gestione i numeri, anziché diminuire, sembra che aumentino.

    In effetti, nel 2024 il maggior numero di ordinanze di indennizzo per ingiusta detenzione è stato emesso proprio dalla Corte d’Appello di Catanzaro: 110 sulle 552 di tutto il territorio nazionale ed in taluni casi era stata già la Corte di Cassazione a definire le indagini di Gratteri come improntate ad un chiaro pregiudizio accusatorio; e non stati solo decine di cittadini ad avere la vita distrutta ma anche aziende finite ingiustamente nel tritacarne che sono state condotte all’inesorabile fallimento da inette amministrazioni giudiziarie.

    E’ il metodo calabrese: si getta la rete e si pesca a strascico: qualcosa resta sempre impigliato nella rete ma non è certo una pesca miracolosa: stica***… Piuttosto costosa per le casse pubbliche e prima ancora per la vita degli innocenti.

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