Giustizia

  • In attesa di Giustizia: Articolo 40

    No, articolo 40 non è il nome di un complesso rock e la rubrica questa settimana non si occuperà di musica: è una norma contenuta nel codice penale: prevede che “non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo”.

    La riflessione su questa regola nasce dal processo a carico di Matteo Salvini, in corso a Palermo, per i fatti legati al divieto di sbarco ad Agrigento dei migranti a bordo della imbarcazione Open Arms: sei anni di reclusione chiesti dalla Procura per sequestro di persona ed altri reati “minori”; a prescindere dalla considerazione che per fatti assolutamente analoghi, l’allora Ministro dell’Interno è già stato prosciolto in udienza preliminare a Catania, colpevole o innocente che sia, con lui al banco degli imputati manca qualcuno…

    I P.M. di Palermo sembrano essersi dimenticati che, prima di attraccare ad Agrigento, la Open Arms è stata filmata casualmente dall’equipaggio di un sottomarino della Marina Militare e non appariva in condizioni di pericolo imminente tant’è che il Comandante della Open Arms si allontanò in tutta fretta dal naviglio italiano ed altre opzioni di attracco e sbarco furono rifiutate: Tunisia, Spagna, Malta…abbastanza scontato se si ha a bordo un carico umano che, sembra,  non stia correndo alcun pericolo. La rotta è decisa verso Italia e Sicilia in particolare ed il resto è altrettanto storia nota, con qualche interrogativo.

    Perché un fatto che non è reato a Catania lo è a Palermo?

    Perché si sarebbe dovuto autorizzare l’ingresso di clandestini, già messi in salvo, sul territorio nazionale?

    Perché il Comandante della Open Arms non è a giudizio insieme a Salvini se, rifiutando diverse e più agevoli ed immediate opzioni di sbarco, ha ritardato l’attracco? Ammesso e non concesso che vi fosse una condizione di pericolo sin qui da escludere: ma se non c’era per lui…

    E soprattutto, perché non è sul banco degli imputati in Procuratore della Repubblica di Agrigento, per intenderci quello che è salito a bordo a farsi un giretto per accertarsi come stessero equipaggio e “passeggeri” e, nonostante tutto quanto premesso ed a lui noto, ha ritenuto poi che fosse in corso un sequestro di persone?

    Ecco, in base all’articolo 40 avrebbe dovuto immediatamente impedire che venisse protratta – anche di un solo minuto – la commissione del reato che ipotizzava (ed oggi costituente imputazione), liberando quelli che considerava prigionieri: lui stesso ebbe modo di dire che “la politica e l’alta amministrazione sono libere di prendere le scelte che ritengono opportune: alla magistratura resta la valutazione giuridica di quanto avviene su sfere e ambiti diversi. Ovviamente, qualsiasi limitazione della libertà personale deve fare i conti con il codice penale e di procedura penale, non si scappa”. Invece è tornato in ufficio a compilare scartoffie per una ventina di giorni prima di ordinare lui stesso quello sbarco che avrebbe dovuto e potuto disporre senza indugi, valendosi dell’ausilio della Polizia Giudiziaria: è come dire che un militare dei Carabinieri assiste a una rapina e invece che intervenire come il dovere e il codice penale gli impongono che fa? Prende il telefono, chiama la Polizia e se ne va…

    In fondo, però, di tutto questo ormai interessa poco: Patronaggio è stato promosso andando a dirigere una Procura Generale, dei migranti della Open Arms non sappiamo più nulla di preciso su dove sono e cosa fanno, la giustizia per Matteo Salvini oscilla come un pendolo tra indifferenza dei diversi esiti diversi già acquisiti ed incertezza su quelli futuri, provando a dimenticare (o fingendo di farlo) quanto è emerso dal primo libro di Luca Palamara e Alessandro Sallusti e cioè che Salvini doveva essere eliminato per via giudiziaria  disinteressandosi totalmente del fatto che la sua condotta non fosse penalmente rimproverabile.

    Il vero problema, come dimostrano anche le ultime vicissitudini dell’ex Governatore della Liguria, è che la giustizia non è malata, è una malattia che infetta il Paese.

  • In attesa di Giustizia: vergogniamoci per lui

    Chi ricorda il settimanale satirico Cuore? Tra le tante, spassosissime, c’era una rubrica: “Vergogniamoci per loro: servizio di pubblica utilità per chi non è in grado di farlo da solo”.

    Ecco, talvolta, mi illudo che questa rubrica sia capace di riproporne l’impostazione senza far ridere ma – piuttosto – riflettere.

    Orbene, uno che ha urgente bisogno di aiuto per recuperare il senso della vergogna è Piercamillo Davigo del quale vale la pena richiamare alcune delle prodezze dialettiche, senza pretesa di enumerarle tutte, prima di offrire ai lettori l’ultima perla…ma solo in termini di tempo: c’è da temere perché l’uomo si è talmente calato nella parte del fustigatore di costumi da essersi trasformato in una maschera, smarrendo il senso dell’umanità e traboccante di boriosa presunzione sin dai tempi in cui affermava che “i magistrati sono il meglio della società ed i P.M. il meglio del meglio del meglio” e che, in tale veste, avrebbero “rivoltato l’Italia come un calzino”. Immaginate, se non avete mai letto una sentenza scritta da lui, l’equilibrio che può aver mostrato quando passò alle funzioni giudicanti diventando il manifesto della opportuna separazione delle carriere.

    Uno dei suoi palcoscenici preferiti, a parte talk show dove si presenta esclusivamente se gli permettono di cantare e di ballarsela da solo, sono diventati gli eventi e feste del Fatto Quotidiano del quale è un editorialista di punta: in una di queste occasioni, parlando dei femminicidi ha detto – tutto divertito – che costano meno tempo e pena di un divorzio. Se voleva essere una battuta, non fa ridere: senonchè, dopo questa uscita ha registrato altre spiritosaggini in un’intervista che si può rivedere su Youtube facendo conti grossolanamente sbagliati sulla pena irrisoria che rischierebbe un uxoricida in base a riferimenti normativi volutamente piegati alla sua interpretazione con abile ed ingannevole travisamento che, però, il cittadino comune non è in grado di svelare, anzi, ci crede…quello è il Dottor Sottile di Mani Pulite!

    Più recente ed ampiamente nota è l’intemerata conclusa con l’affermazione che “un innocente è solo un colpevole che l’ha fatta franca” e chissà cosa avrebbe dovuto pensare di se stesso se a Brescia lo avessero assolto…

    Tuttavia, a parte i settori della informazione e della comunicazione vicini a Travaglio, più in generale alla comunità manettara, sembra che il suo appeal sia in calo tanto che, per avere un po’ di spazio si è dovuto accomodare nel salotto di Federico Lucia lasciando allibito persino lui quando ha sostenuto che i suicidi in carcere sono una tragedia perché privano i P.M. di possibili fonti informative.

    Daje, Camillino, sparane un’altra perché al peggio non c’è limite e lui non se lo è fatto ripetere. Alla prima occasione, cioè intervenendo nel dibattito aperto dal “decreto carceri” (obiettivamente non un capolavoro di tecnica normativa e diritto) ha condiviso l’ipotesi che si tratti di un provvedimento “salva colletti bianchi” ed, a proposito della annotazione che nei nostri istituti i detenuti in attesa di giudizio sono in una percentuale, cioè stanno in carcere dei presunti innocenti (una parolaccia che Davigo ha orrore solo a pensare di pronunciare) ha detto che tutto dipende solo da quella bassa dei detenuti in espiazione di una pena definitiva. Insomma, si dovrebbe essere contenti di stare in galera da innocente o presunto tale perché in fondo sono pochi i colpevoli conclamati…e non solo soccorre un implicito richiamo alla sua teoria dei colpevoli che la fanno franca ma equivale a dire che in guerra non è grave bombardare i civili se scarseggiano gli obiettivi militari.

    Vergogniamoci per lui: che resti fulgido esempio di ciò che ogni buon magistrato non deve mai essere. Non seguire i suoi insegnamenti è il migliore omaggio ai tanti giudici e pubblici ministeri che hanno sacrificato la propria vita senza sparare stupidaggini buone solo ad alimentare a dismisura il proprio ego e una vuota smania di protagonismo.

  • In attesa di Giustizia: il buon selvaggio

    Bravi, davvero bravi gli investigatori, sono Carabinieri, e bravo il P.M. che ha coordinato le indagini sull’omicidio di Sharon Verzeni: non era di facile soluzione come non lo è nessun delitto che – almeno all’apparenza – non ha un movente che può far risalire al possibile autore restringendo la rosa dei sospetti: e questo non ne aveva nessuno come si è accertato in seguito.

    Un lavoro certosino che è andato avanti settimane, per esclusione, scandagliando nella vita privata della vittima, ascoltando le persone a lei vicine, analizzando il contenuto del suo computer e del telefono cellulare, guardando ore di filmati delle telecamere di sorveglianza fino a portare l’attenzione su un misterioso ciclista notturno che avrebbe potuto essere un testimone e, invece, sembra proprio essere il responsabile di un fatto di sangue assolutamente gratuito, avendolo confessato, ed avendo alle spalle un passato di comportamenti anomali, aggressivi, ed un abuso di stupefacenti.

    Ha sortito effetto un richiamo alla cittadinanza affinchè qualcuno si facesse avanti per contribuire alla identificazione di quell’uomo che – comunque – dalle immagini ed in contestualità temporale era in prossimità del luogo del delitto e avrebbe potuto vedere qualcosa e invece…

    L’indagine è tutt’altro che finita: ci sono ancora zone d’ombra ma la macchina della giustizia sembra funzionare e bisognerà attendere il processo per averle completamente rischiarate ma, nel frattempo, serpeggia già nell’opinione pubblica un anelito di punizione corrispondente alla gravità del reato ed il Ministro Salvini si è subitaneamente messo alla testa delle brigate giustizialiste invocando una pena esemplare e senza sconti.

    Così non va per niente bene: la pena non deve mai essere esemplare, perché ciò implica che la amministrazione della giustizia serva a dare esempi svolgendo funzione di deterrenza,  ma giusta e quanto agli sconti è opportuno ricordare che non è più possibile ricorrere al il giudizio abbreviato, che prevedeva – e neppure sempre – la sostituzione dell’ergastolo (ipotizzabile in questo caso con le aggravanti che sono state contestate) con la pena a trent’anni di reclusione; caso mai, e non è invece da escludere a priori, l’imputato risultasse affetto da vizi di mente le conseguenze non sono certo quelle di un sistema troppo incline alla clemenza.

    Di esemplare, come si è voluto ricordare all’inizio, vi sono stati – viceversa – l’impegno e l’intuito degli inquirenti per i quali non vi è stata una sola parola di apprezzamento che da un rappresentante delle Istituzioni sarebbe stata la scelta migliore e l’unica da favorire mentre, secondo costume, non sono mancati i riferimenti alla origine etnica dell’indagato dimenticando due cose per nulla banali: che è nato e cresciuto in Italia con tutte le opportunità date da una famiglia già normoinserita, né più né meno come il giovane che ha contribuito ad individuarlo in maniera decisiva con la sua testimonianza e non ritiene neppure di dover essere ringraziato perché ha fatto solo il suo dovere civico.

    Probabilmente l’“Emile ou de l’education” di Rousseau non è posato sul comodino di Matteo Salvini e vi è quindi da dubitare che ne conosca la teoria del buon selvaggio secondo la quale nessun uomo nasce malvagio e che la natura – quindi l’origine – non insegna mai il male: quegli insegnamenti derivano, se mai, dal contesto, dalla società e dal modello di civilizzazione in cui si cresce e se due giovani, due “italiani” di seconda generazione sono uno l’antipodo dell’altro non è certo l’etnia su cui si misurano le sentenze. Nemmeno quelle della voce popolare.

  • In attesa di Giustizia: un bel tacer…

    I lettori di questa rubrica saranno, forse, stupiti di non avere ancora letto un commento sulla vicenda giudiziaria del Governatore della Liguria che tiene banco da settimane: in effetti, stimoli ce ne sono stati tanti e c’era anche pronto un titolo per l’articolo: “la legge non è uguale per Toti” e nel corpo del pezzo il suggerimento al legislatore di varare una modifica della Costituzione prevedendo che “è attribuito alla Procura della Repubblica competente per territorio il potere di scioglimento delle giunte comunali e regionali e la facoltà di indicare la data delle elezioni amministrative”. Ma poi ho pensato che già molti hanno scritto in proposito ed, inoltre, la conoscenza degli atti di indagine è molto limitata per poter esprimere una opinione ragionata. Titolo e suggerimento di legge costituzionale possono però tenersi buoni per il futuro.

    La scelta è, invece, ricaduta sulla permanente criticità di condizioni della popolazione carceraria che tende a diminuire solo a causa dei continui suicidi: un dramma che questo, come altri governi, dimostra di essere del tutto inetto ad affrontare mentre da qualcuno vengono offerte indicazioni, che vorrebbero essere giustificazioni, in un’ottica geometrica di superfici fruibili, magari considerando anche le parti comuni di una galera (cortili adibiti al parcheggio dei blindati compresi) come se si trattasse di un condominio e sulle quali ogni parere è ammesso.

    Tutto dipende dall’idea che si ha del valore delle vite umane e della dignità dell’uomo: anche del peggior criminale: nelle navi negriere, per esempio, i corpi degli schiavi venivano ammassati uno sull’altro perché le perdite calcolate – con cibo e viveri al limite della sussistenza – si aggiravano intorno ad un 12% che garantiva comunque lauti profitti: un po’ quello che fanno le catene della grande distribuzione nel prezzare i prodotti messi in vendita tenuto conto dell’incidenza dei furti e del deperimento degli alimentari invenduti.

    Ebbene, se l’uomo è considerato alla stregua di merce di scambio tutto è possibile in termini di valutazione del problema.

    Ecco allora che il dibattito sul sovraffollamento carcerario tende a ripetersi, a riproporsi inesorabilmente a distanza di pochi anni dall’ultima soluzione tampone adottata confermando che chi dovrebbe occuparsi del problema non se ne occupa affatto e lo fa con dilettantesca approssimazione solo quando si perviene ad un punto di non ritorno.

    In questa cornice di solerte inattività si inserisce il pensiero di illustri giuristi come Marco Travaglio che è stato capace di scrivere che la questione dovrebbe essere posta al contrario perché in Italia i detenuti non sono affatto troppi rispetto al numero di reati e di delinquenti, sono se mai troppo pochi.

    Certo, tutto torna se si prende per buona la teoria del suo autorevole editorialista, il pregiudicato Piercamillo Davigo, secondo il quale non esistono innocenti ma solo colpevoli che l’hanno fatta franca.

    Ma c’è qualcosa che, invece, stona nel Travaglio pensiero che prevede anche lo zero nel rating del rispetto dovuto ai propri simili e farebbe meglio a tacere, perché tenendo conto delle linee di tendenza dei fenomeni (ed i numeri non mentono) si rileva che nel nostro Paese i reati sono in diminuzione da qualche anno mentre il numero dei detenuti continua a crescere ed una percentuale elevata, come noto, è di imputati in attesa di giudizio e non definitivamente condannati.

    E qui viene da ripensare che un carcere disumano non è fonte di sicurezza per i cittadini perché coloro che lo hanno subito non solo non ne usciranno migliori ma saranno ancora più inclini alla recidiva, un po’ per mancanza di alternative e non poco per un senso di rivalsa verso una società che li ha emarginati in moderne (ma non troppo) triremi evocando scenari di un carcere duro come medicina per la devianza, lontano dai nostri riferimenti costituzionali, dalle migliori tradizioni del pensiero illuministico, quel pensiero che non illumina certo le menti grette che popolano talune redazioni ma – per fortuna – non  quella de Il Patto Sociale che a chi scrive offre sempre uno spazio per parlare di attesa di giustizia, quella giustizia che è  insita anche in pene irrogate al termine di un equo processo ed in grado di proporre ai condannati un percorso di riabilitazione e non soltanto retributivo.

  • Un ubbidiente sistema “riformato” di [in]giustizia

    Servitù è il vero nome di quell’obbedienza che non è virtù.

    Lorenzo Milani

    Il sistema della giustizia è uno dei pilastri sui quali si fonda uno Stato. Come tale è perciò molto importante per la costituzione di una sana e funzionante democrazia. La storia, dall’antichità ad oggi, ce lo insegna. Un sistema di giustizia che funziona in base alle leggi in vigore rappresenta una garanzia per i cittadini. Così com’è una garanzia anche per lo sviluppo multidimensionale del Paese dove quel sistema è operativo.

    Da quando gli esseri umani hanno cominciato a vivere in comunità hanno sentito anche il bisogno di avere delle regole per gestire la loro vita. Regole che si adattavano alle condizioni sociali delle comunità e che, con il passare del tempo, stabilivano i diritti e i doveri di ciascuno nei rapporti con gli altri. Gli esseri umani, in base alle tante diverse e spesso anche sofferte esperienze di vita vissuta, sono diventati consapevoli della necessità di quelle regole. Regole che in seguito sono state anche scritte e tramandate di generazione in generazione. L’insieme di quelle regole era anche l’embrione delle future legislazioni in vari Paesi. E coloro che si erano incaricati di controllate l’applicazione di quelle regole erano anche gli antichi funzionari dei sistemi di giustizia.

    Uno dei più noti storici della Grecia antica, Strabone, vissuto circa venti secoli fa, ci ha lasciato, tra l’altro, anche delle preziose informazioni legate alle leggi e a coloro che se ne erano occupati. Uno di essi era Zaleuco di Locri vissuto nel VII secolo a.C.. Strabone considerava addirittura che le leggi stabilite da Zaleuco di Locri, riconosciute anche come il suo Codice o legislazione, sono state le prime leggi scritte ed applicate dagli antichi greci stabiliti nella Magna Grecia. Leggi che, allo stesso tempo, rispecchiavano anche le esperienze delle altre città dell’antica Grecia. In base a dei diversi documenti scritti, risulterebbe che la legislazione di Zaleuco abbia consolidato il buon funzionamento dell’allora sistema giuridico, servendo come base per i secoli a venire. Demostene, noto oratore e politico ateniese, vissuto circa ventitré secoli fa, affermava che parte integrante della legislazione di Zaleuco era anche una legge, secondo la quale “…l’abrogazione o la modifica di una legge poteva essere proposta solo dopo essersi presentati dinnanzi all’assemblea con un laccio al collo che, in caso di rifiuto della proposta, sarebbe diventato strumento di morte per il proponente”. L’esistenza di una simile legge l’avrebbe confermata anche lo storico Polibio, vissuto nel secondo secolo a.c. Secondo documenti a lui riferiti, risulterebbe che Zaleuco di Locri avesse stabilito che “…nel caso in cui, rispetto all’interpretazione di un decreto, magistrato e cittadino presentassero opinioni differenti dovrebbero entrambi presentarsi davanti all’assemblea cittadina, indossando un laccio che sarebbe poi stato stretto attorno al collo di colui la cui interpretazione si sarebbe rivelata errata”. Un rigido obbligo, quello proposto da Zaleuco di Locri, che ideava ed evidenziava l’esigenza della massima responsabilità, sia da parte dei legislatori che proponevano, abrogavano e modificavano le leggi, che dei giudici che interpretavano quelle leggi. Ma anche dei cittadini che pretendevano i loro diritti.

    Nei secoli successivi e soprattutto durante il periodo dell’illuminismo europeo sono stati elaborati nuovi concetti nel campo della giurisprudenza e sono stati stabiliti anche nuovi principi riguardanti le forme dell’organizzazione e del funzionamento dello Stato, in tutte le forme all’epoca conosciute e funzionanti. Principi che stabilivano anche le garanzie del funzionamento normale di una democrazia. Tra i più noti filosofi che hanno trattato ed elaborato i principi del funzionamento della democrazia c’è stato anche Charles-Louis de Secondat, barone di Montesquieu, comunemente noto come Montesquieu. Nel 1748, dopo ben quattordici anni di studi e di lavoro, pubblicò un insieme di trentuno libri, raccolti in due volumi ed intitolato De l’esprit des lois (Spirito delle leggi; n.d.a.). Un’opera quella che rappresentava un trattato in cui Montesquieu evidenziava e definiva i tre poteri che dovevano essere divisi ed indipendenti. E si riferiva al potere legislativo, al potere esecutivo e a quello giudiziario. Ovviamente Montesquieu si riferiva all’organizzazione dello Stato dell’epoca in cui viveva. Per lui il potere legislativo “…verrà affidato e al corpo dei nobili e al corpo che sarà scelto per rappresentare il popolo”. Invece il potere esecutivo “…deve essere nelle mani d’un monarca, perché questa parte del governo, che ha bisogno quasi sempre d’una azione istantanea, è amministrata meglio da uno che da parecchi”. Mentre il potere giudiziario doveva essere “la bouche de la lois” (la bocca della legge; n.d.a.).

    Da allora sono passati altri secoli, durante i quali si sono evolute anche le forme dell’organizzazione dello Stato, orientandosi verso la forma democratica che si basava sul principio della separazione dei poteri, elaborato da Montesquieu. Ma, purtroppo, ci sono degli Stati in cui la democrazia non funziona come dovrebbe. E ci sono, in diverse parti del mondo, anche Stati in cui la democrazia è solo una facciata per camuffare una realtà ben diversa. Stati dove non funziona più il principio della separazione dei poteri e dove un autocrate controlla tutto e tutti. Uno dei Paesi dove da circa dieci anni si è restaurata e si sta consolidando una nuova dittatura sui generis è anche l’Albania. E perciò, si tratta di un Paese dove anche il potere giudiziario non è più indipendente dai due altri poteri. Ma per camuffare questa preoccupante realtà, nel 2015, l’attuale primo ministro, durante il suo primo mandato, presentò quella che è stata echeggiata dalla propaganda governativa come una innovatrice riforma del sistema giudiziario. E già dalla prima bozza si capì subito che si trattava di una “riforma” che mirava la messa sotto controllo del sistema della giustizia. Una “riforma” che purtroppo, fatti accaduti, documentati e resi pubblici alla mano, è stata fortemente appoggiata anche dai “rappresentanti internazionali” in Albania. Le cattive lingue, già da allora, dicevano che un simile loro comportamento era dovuto a dei progetti voluti, ideati e poi anche messi in atto da un multimiliardario speculatore di borsa da oltreoceano. Le cattive lingue dicevano e tuttora dicono che un simile comportamento dei “rappresentanti internazionali” in Albania era ed è altresì dovuto a degli ingenti finanziamenti per la “riforma” della giustizia sia da oltreoceano, che dalle istituzioni dell’Unione europea. Finanziamenti che si devono giustificare, mettendo in rilievo “l’utilità della riforma”. Il nostro lettore è stato da allora in poi molto spesso informato di tutto ciò.

    Era proprio il 22 luglio 2016 quando tutti i 140 deputati del parlamento albanese, alle ore 1.30 del mattino, in piena unanimità, hanno votato gli emendamenti costituzionali che avrebbero aperto la strada all’attuazione della riforma di giustizia. Da allora sono passati ben otto anni ormai. Ma purtroppo, sempre fatti accaduti, documentati e pubblicamente denunciati alla mano, risulta che il sistema di giustizia è stato messo sotto il controllo del primo ministro. Proprio come era stato voluto da chi ha ideata la “riforma”. Un sistema che nonostante le innumerevoli prove documentate che testimoniano il diretto coinvolgimento del primo ministro, dei suoi stretti familiari e collaboratori in clamorosi scandali milionari, non vede, non sente e non capisce niente. Chissà perché?!

    Chi scrive queste righe, fatti alla mano, è convinto che il sistema della giustizia in Albania purtroppo, è solo un ubbidiente sistema “riformato” di [in]giustizia. I massimi rappresentanti delle “riformate” istituzioni di quel sistema sono purtroppo diventati dei servi che seguono solo gli ordini di chi comanda in Albania. Aveva ragione don Lorenzo Milani, servitù è il vero nome di quell’obbedienza che non è virtù. Chissà cosa avrebbe proposto Zaleuco di Locri per coloro che hanno ideato e attuato la “riforma” del sistema albanese di giustizia?! Primo ministro in testa.

  • In attesa di Giustizia: quinto grado

    Non bastano programmi televisivi che si arrogano il diritto di svolgere vere e proprie indagini parallele sui fatti di cronaca nera senza evitare di esprimere giudizi, generalmente di colpevolezza perché al pubblico piace sapere che il bene vince sempre ed i cattivi hanno una punizione segnata nel destino: per chi si perdesse qualche puntata, ci pensa la carta stampata a celebrare un quinto grado di giudizio alimentando la fame di gogna di quel popolo italiano nel cui nome – lo abbiamo ricordato molte volte – è amministrata la giustizia e dovrebbe, pertanto, ricevere un’informazione corretta in proposito stimolando la funzione di controllo di una comunità che aspiri ad essere democratica a tutela dei diritti del cittadino dinanzi alle prevaricazioni del potere

    Un’ennesima e recente esperienza dimostra – invece – che la cronaca giudiziaria, più che ad una doverosa e corretta informazione, sia intesa a sollecitare indignazione fomentando una pericolosa deriva illiberale che Tribunali e legislatore sono facilmente disposti ad assecondare: basti pensare al vergognoso sit in organizzato a Genova contro il Governatore agli arresti con provvedimenti in cui il Ministro della Giustizia ha affermato di far fatica a comprendere cosa ci sia scritto.

    Questa volta parliamo della concessione degli arresti domiciliari, con braccialetto elettronico, ad uno dei due ragazzi americani accusati per l’uccisione del Vicebrigadiere dei Carabinieri Mario Cerciello, avvenuta nel luglio 2019 a Roma.

    Nessuno tra i cronisti ha ritenuto opportuno mettere in evidenza che si tratta di un imputato sotto processo (non ancora concluso) che ha già sofferto cinque anni di carcerazione preventiva e la cui pena, dopo l’annullamento da parte della Corte di Cassazione, è stata dimezzata per una ragione giuridicamente ineccepibile: il suo ruolo è risultato essere quello del concorrente anomalo nell’omicidio. Il che, tradotto, significa che ha partecipato all’aggressione nei confronti del sottufficiale dell’Arma ma senza l’intenzione di uccidere. Una differenza non banale rispetto all’omicidio volontario tutt’ora contestato al suo coimputato, colpevole materiale di quella morte.

    La detenzione domiciliare con un dispositivo elettronico di controllo è – dunque – coerente con il tipo di responsabilità attribuita e proporzionata bilanciando la pena residua con quella già espiata in attesa di giudizio ed è stata disposta  presso l’unico domicilio disponibile in Italia, quello dei nonni che non hanno colpa se risiedono a Fregene: tutto ciò è diventato ghiotto pretesto per sollecitare su alcuni quotidiani sentimenti di rabbia e rancore, come si trattasse di un crimine impunito, con titoli del tipo “Il killer del carabiniere va ai domiciliari al mare”. Ovviamente silenzio circa su quella dinamica processuale che, come altre anche questa volta, la nostra rubrica cerca di rendere comprensibile anche a lettori non tecnici.

    Altrettanto ovviamente nessuno ha inteso ricordare l’immagine di questo giovane fotografato all’interno di una caserma che veniva predisposto all’interrogatorio del P.M. bendato e con le mani legate dietro la schiena con un garbato metodo di persuasione in salsa magiara.

    Ecco allora che altri titoli come Cerciello: un killer ai domiciliari. La moglie: giustizia al contrario ed a seguire un articolo che trasuda in alternativa malafede o ignoranza dei fatti e del diritto (forse entrambe), scegliete voi, parla di un’informazione disinteressata alla comprensione dei fatti che, però, possono esercitare una pressione indebita sui giudici, anche compromettendo la loro indipendenza e imparzialità, generando sfiducia nelle istituzioni e promuovendo sentimenti di vendetta piuttosto che di giustizia.

  • In attesa di Giustizia: a scuola di democrazia

    Sembra che alle Signorie Loro l’unica cosa che piace ascoltare siano le intercettazioni: certamente non le opinioni diverse, tantomeno le critiche.

    E’ capitato di recente che, per protestare contro l’iniziativa di legge del Governo per la separazione delle carriere, la sezione distrettuale dell’Emilia Romagna dell’Associazione Nazionale Magistrati abbia comunicato che non intende più partecipare ad attività formative o dibattiti organizzati dalle Camere Penali che, notoriamente, sostengono la riforma a prescindere che quest’ultima sia l’argomento di discussione: decisione degna del Consiglio di Istituto dell’asilo Mariuccia ma che ancora non mostra il digiuno di elementare grammatica della democrazia di cui è intriso il comunicato stampa della Giunta del Piemonte e della Valle d’Aosta del sindacato delle toghe con cui viene condannato “l’ennesimo attacco portato avanti nei confronti di un singolo magistrato con toni ed espressioni che di certo superano il diritto di critica” esprimendo solidarietà al P.M. di Torino Gianfranco Colace cui Il Foglio aveva dedicato un articolo elencando la sterminata serie di insuccessi delle sue indagini.

    All’origine di questa diatriba c’è l’ultima prodezza del Dott. Colace che merita di essere ricordata: l’imputazione dell’ex Governatore del Piemonte Sergio Chiamparino, degli ex sindaci Piero Fassino e Chiara Appendino nonché di tutti gli ex assessori con delega all’ambiente tra il 2015 ed il 2019 accusati di inquinamento ambientale colposo per non avere adottato adeguate misure per ridurre il livello di  sostanze nocive, smog e polveri sottili  determinando in tal modo la morte di un migliaio di cittadini torinesi.

    Sono stati tutti assolti un paio di settimane fa in udienza predibattimentale, cioè senza che sia stato neppure necessario arrivare ad un processo: l’incolpazione del resto, oltre che senza precedenti nella storia giudiziaria, appariva a prima vista quantomeno strampalata.

    Con forbita supponenza, il comunicato dell’A.N,M. insegna che certe critiche rivolte al Pubblico Ministero sembrano fondarsi su una errata concezione del suo lavoro che “si vorrebbe gravata da una obbligazione di risultato contrastante con il fisiologico sviluppo del processo penale”; tradotto per i non addetti ai lavori significa che i processi si fanno proprio perché servono a vagliare la fondatezza delle accuse e non è scontato che il P.M. abbia sempre ragione, anzi, ma abbia invece il diritto-dovere di far valutare ad un organo giudicante le sue tesi indipendentemente dall’esito finale dei giudizi.

    Tutto vero e giusto ma c’è un ma ed è il limite che incontrano le imputazioni azzardate che quando diventano una consuetudine non appartengono più alla fisiologia ma ostentano estremi patologici. Il mancato riscontro di accuse fondate su prove argillose evita fortunatamente di produrre clamorosi errori giudiziari ma  non la devastazione dell’esistenza di cittadini che nel frattempo – esposti alla gogna – perdono o rischiano di perdere onorabilità, affetti, posto di lavoro e sopportano anni di stress e costi di assistenza legale mentre sull’altro fronte le risorse dello Stato vengono spese a piene mani per intercettazioni, consulenze ed indagini inutili e di marca illiberale, sottraendo altresì la polizia giudiziaria a compiti istituzionali meno cervellotici.

    A pensar male si fa peccato ma non è detto che si sbagli e dietro questa dura difesa corporativa forse si cela un’altra delle recenti preoccupazioni della casta dei magistrati: l’introduzione del “fascicolo personale” di ciascuno di loro, conservato presso il C.S.M., contenente dati, giudizi ed informazioni utili alla valutazione per i progressi in carriera; ci manca solo che alle blande critiche (quando proprio non se ne può fare a meno) provenienti dai consigli giudiziari facciano supplenza le inchieste giornalistiche!

    L’A.N.M. dovrebbe tornare a scuola di democrazia perchè nel fomentare queste polemiche sembra ignorare che la giustizia è amministrata in nome del popolo, appartiene a cittadini che hanno il diritto di formarsi un’opinione e rendersi conto se vengono rispettate le regole ed i principi di uno Stato di diritto.

  • In attesa di Giustizia: insufficienza piena

    Rendere visita ai carcerati è una delle opere di carità e come tutte le leggi ed i precetti contiene dei precetti sottintesi il primo dei quali – sulla premessa maggiore, tipica del cattolicesimo, che deve praticarsi il perdono – è la umanizzazione della condizione detentiva non privandola, tra le altre cose, dalla possibilità di coltivare gli affetti.

    Parlando del fenomeno dei suicidi in carcere, di cui questa rubrica si è già occupata (e che non riguarda solo i detenuti ma anche gli agenti della polizia penitenziaria), la condizione in cui complessivamente versano i nostri istituti non sembra aver trovato una possibile soluzione tramite i rimedi proposti dal Governo con il “decreto carceri” che non impatta minimamente – e tantomeno in tempi rapidi – sulla condizione in cui nelle carceri italiane si vive e – soprattutto – si muore.

    La tragica conta annota 53 morti dall’inizio dell’anno e non è certo l’aumento del numero consentito delle telefonate ai famigliari che potrà offrire sollievo ad anime martoriate dalla modalità inumane di esecuzione della pena.

    Meno che mai può risultare utile la nuova procedura volta a riconoscere un beneficio che è già presente nel nostro ordinamento: la liberazione anticipata (45 giorni a semestre) per buona condotta. Procedura, tra l’altro, piuttosto farraginosa e con la quale, francamente, nulla si risolve nell’ottica di fronteggiare il cronico sovraffollamento.

    Risibile, inoltre, rispetto alla carenza di organico, è l’impegno ad assumere 500 unità di agenti del Corpo di Polizia penitenziaria…comunque per l’anno prossimo: ahimè devono farsi sempre i conti con le esauste casse dello Stato, che impediscono sulla possibilità di incrementare l’applicazione delle misure penali di comunità e la creazione di strutture idonee per i condannati per reati meno gravi o, comunque, considerati a bassa pericolosità.

    Dimenticati, una volta di più, gli interventi volti ad assicurare cura e assistenza ai soggetti affetti da fragilità e disagi psichici mentre una maggiore responsabilità nell’adozione di misure cautelari in carceri rimane affidata ad un disegno di legge in fase di esame alla Camera che ne attribuisce il potere ad un GIP non più monosoggettivo ma collegiale ed al pio desiderio che così strutturato risulti effettivo portatore di maggiori garanzie e meditata riflessione sulle richieste di cattura. Al momento, tuttavia, per il funzionamento di questo nuovo organo giudicante non vi sono neppure magistrati in ruolo in numero sufficiente e dovranno essere reclutati con un concorso dedicato: se ne riparlerà, forse, negli anni a venire e sempre che si trovino, anche in questo caso, i soldi per pagare gli stipendi.

    Un recentissimo monito del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa ha intimato l’Italia ad adottare misure efficaci per far fronte ad un numero di suicidi senza precedenti e ad assicurare luoghi di collocamento alternativi al carcere per i detenuti che soffrono di disturbi psichiatrici: il Governo ha risposto con questo provvedimento che non è neppure un pannicello caldo e merita un’insufficienza piena.

    Va detto che neppure un’amnistia, un condono, sarebbero utili se non nel breve periodo come storia e statistica di queste “indulgenze” insegna ma non sarebbero neppure la resa dello Stato di cui ha parlato il Ministro Nordio, uno dal quale era lecito aspettarsi qualcosa di più: la resa dello Stato è nelle vite che gli sono state affidate e non ha saputo (o, peggio, voluto) fare qualcosa per salvare, è nella inadeguatezza delle strutture trattamentali volte alla rieducazione, istruzione, avviamento al lavoro dei detenuti e nelle condizioni di oggettiva inciviltà in cui versano le carceri in Italia al cui confronto quelle turche dell’indimenticabile “Fuga di mezzanotte” sembrano dei Club Mediterranèe.

    E’ ora che la politica abbandoni gli slogan con cui denomina provvedimenti vuoti di significato e scelga di operare ponendo in essere rimedi immediati realmente sottesi all’umanizzazione della pena ed al superamento delle attuali condizioni degli istituti di pena che possono definirsi solo di sostanziale illegalità.

  • In attesa di Giustizia: nel paese del diritto è talvolta buio fitto

    Nel libro dell’Apocalisse, il giorno del giudizio viene fatto coincidere con la fine del mondo; spigolando in un decreto legge in fase di emanazione proprio in quella che viene considerata la sua culla si direbbe che si voglia far corrispondere la fine del mondo del diritto e del giusto processo con il giorno in cui si celebra l’ultimo grado di giudizio e più nella sede giurisdizionale più alta del nostro sistema: la Corte di Cassazione, le cui decisioni sono finalizzate ad interpretare della legge e valutare la sua corretta applicazione.

    Così è se vi pare, e se non vi pare è così lo stesso: l’articolo 12 del Decreto Infrastrutture, intitolato modifiche al codice di procedura penale per l’efficienza del procedimento penale senza considerare che efficienza non è sinonimo di efficacia (che sarebbe preferibile), può ritenersi una sorta di iniezione letale somministrata al terzo grado del processo che trasforma la solennità della discussione davanti alla Corte di Legittimità, che si vorrebbe ricca di spunti e approfondimenti in contraddittorio, l’ultima fermata in attesa di giustizia, in un anodino scambio di e-mail tra i difensori, il Procuratore Generale ed il Giudice Relatore. Siamo di fronte alla mutazione genetica della Corte in un sentenzificio.

    I lettori penseranno: ma con le infrastrutture tutto questo cosa c’entra? Secondo le peggiori tradizioni della nostrana sciatteria normativa, questa disciplina che impatta sull’effettività del diritto di difesa è frammista, anzi in coda, alla regolamentazione di concessioni autostradali, al rafforzamento della capacità tecnica della fondazione lirico sinfonica Petruzzelli e Teatri di Bari, alle misure per il sostegno della presenza delle imprese italiane nel continente africano ed altre disposizioni totalmente disomogenee rispetto al rito penale.

    Una tecnica (parola grossa) normativa che richiama alla memoria la riforma del Testo Unico sugli stupefacenti comportante notevoli aggravamenti delle pene che fu inserita in un decreto legislativo avente ad oggetto aspetti organizzativi delle Olimpiadi Invernali del Sestrière con un eccesso di delega che non sarebbe dovuto sfuggire neppure a chi avesse studiato diritto costituzionale alle scuole serali…al buio ma che provocò per anni decine di migliaia di sentenze illegali prima che qualcuno se ne accorgesse ed alle quali fu solo in parte possibile porre rimedio. Andatelo a raccontare a chi ha scontato lunghe detenzioni a causa di una legge che, semplificando il concetto, non poteva neppure essere emanata. Non in quel modo, perlomeno, e fu fatta a pezzi dalla Corte Costituzionale.

    Parola d’ordine, dunque: efficienza, l’efficacia può attendere. Pervenire ad un tale risultato è impossibile in un sistema in perenne debito d’ossigeno con le risorse umane ed economiche e allora cosa c’è di meglio che sfrattare – un termine diverso non sovviene – gli avvocati dalle aule di cui sono considerati, all’evidenza delle riforme e della prassi, un orpello fastidioso, purtroppo costituzionalmente irrinunciabile, che fa perdere tempo tanto è vero che vi è stato anche chi, recentemente e con la solennità derivata dello scranno di provenienza, ha sollecitato i difensori alla massima sintesi perché con la discussione sottraggono tempo alla camera di consiglio ed alla ponderata decisione dei ricorsi. Tradotto: cari avvocati, non servite a niente.

    Ed allora, addio alle aule sostituendo un turbinoso intreccio di posta elettronica ai difensori che le scriveranno con impegno e passione non meno che amarezza mentre i Sostituti Procuratori Generali potranno redigere requisitorie severe ma giuste da spedire comodamente dal terrazzo di casa mentre sorseggiano un limoncello dopo cena e la lettura delle quali stimolerà il furore intellettuale dei Giudici relatori che potranno esprimere la loro diuturna applicazione allo studio estendendo ponderate relazioni anche dalla vasca idromassaggio.

    Tutto o quasi può, quindi, farsi senza l’incomodo di dover far presenziare gli avvocati in udienza e  – in barba al diritto di difesa – sono stati anche sensibilmente ridotti i termini di legge per la proposizione di motivi di ricorso nuovi e memorie: così “si fa prima”. Il segnale che viene dato non è equivocabile.

    Sia dunque benvenuto “l’avvocato in Costituzione” per garantire l’effettività della tutela dei diritti e quello inviolabile alla difesa come proposto da un’altra riforma messa in cantiere ma purché lo faccia senza disturbare più di tanto il manovratore che ha già tanti pensieri che alimentano il tormento della decisione. Come diceva qualcuno: nel Paese del diritto è talvolta buio fitto.

  • In attesa di Giustizia: insurrezione ed amnesia

    Magistrati, Pubblici Ministeri, Giudici di Tribunale e delle Corti, toghe rosse della rivoluzione e delle legioni, ascoltate! L’ora segnata dal destino bussa alle porte delle nostre aule…l’ora, l’ora delle decisioni irrevocabili: la dichiarazione di guerra è già stata consegnata ai Presidenti di Camera e Senato!

    Così, in buona sostanza, suona la chiamata alle armi dell’Associazione Nazionale Magistrati nel giorno più buio della sua storia: l’approdo al Parlamento del disegno di legge di origine governativa sulla separazione delle carriere che, fino ad ora, era riuscita a prevenire ed evitare.

    Il Presidente dei pasdaran dell’ANM, Giuseppe Santalucia, accanito avversario la riforma, è uno che, non a caso, ha saltabeccato tra uffici inquirenti e giudicanti ed ha alle spalle una brillante carriera fuori ruolo come vice e poi capo dipartimento dell’Ufficio Legislativo del Ministero della Giustizia, senza contare altri incarichi di prestigio come magistrato addetto al Massimario della Cassazione (una struttura che con criteri quanto meno nebulosi seleziona le sentenze che vanno, poi, a blindare la giurisprudenza sulla base di precedenti decisioni) ed ha fatto esperienza anche presso l’Ufficio Studi del CSM, ed è proprio dalla voce di Santalucia che viene annunciata una mobilitazione articolata dell’intero Ordine Giudiziario.

    Dissotterrando l‘ascia di guerra, con minaccia di ricorrere ad un’astensione dalle attività giudiziarie senza precedenti, la magistratura associata intende, altresì, dar vita ad una campagna di sensibilizzazione del popolo italiano aggiungendone una nuova alle trite litanie con le quali viene ferocemente avversata questa riforma: la separazione delle carriere indebolirebbe le garanzie riservate ai cittadini dalla Costituzione, contrasta il loro interesse ad una giustizia giusta.

    Permane misterioso quale potrà essere in tutto ciò il contributo degli italiani che in tempi recenti hanno sottoscritto massicciamente un legge di iniziativa popolare proprio per la separazione delle carriere ed hanno votato una maggioranza parlamentare che l’aveva nel programma di governo…forse è un caso di amnesia ma le amnesie del sindacato delle toghe non finiscono qui: paventano una assimilazione del nostro processo penale al sistema americano – dove da sempre vi è la separazione delle carriere – che sarebbe privo di garanzie perché, tra l’altro, non è previsto il giudizio di appello, ed i P.M. sono sottoposti al potere politico. Per la verità, negli USA si può fare una sterminata quantità di appelli e ricorsi (persino per inadeguatezza della difesa mentre proprio da noi c’è la tendenza a marginalizzare gli uni e gli altri) e che i Pubblici Ministeri, diversamente da quanto accade ed accadrebbe in Italia anche dopo la riforma, siano connotati da una matrice politica perché elettivi, peraltro come i giudici. Tutto ciò a tacere del fatto che da quel sistema la nostra Cassazione, con il contributo dell’ufficio del Massimario di cui Santalucia ha fatto parte, stia mutuando il meccanismo della Corte Suprema che blinda i precedenti al punto che se è stato deciso che Gesù è morto di freddo da quella giurisprudenza è quasi impossibile discostarsi anche nei giudizi di grado inferiore. Amnesie.

    Naturalmente viene riproposto il timore della perdita di indipendenza della magistratura, non si sa bene in base a cosa posto che è assicurata dalla Costituzione sia ai giudicanti che ai pubblici ministeri in più articoli e con garanzie specifiche e che il giusto processo (articolo 111) sia affidato ad un giudice terzo, cioè senza “apparentamenti” con le altre parti. Ancora amnesie… In ultimo, la preoccupazione è che verrebbe limitata la possibilità di maturare esperienze diverse che arricchiscono il sapere e la cultura dei magistrati, come se la specializzazione in un settore debba essere vista un limite.

    L’ANM – così solerte in questo caso – sembra essersi dimenticata che anche altri problemi avrebbero meritato una civile mobilitazione da parte di coloro che amministrando la giustizia decidono della vita dei cittadini e, solo per citarne un paio come esempio, non si sono annotate manifestazioni di ansia con riferimento al fenomeno dei suicidi in carcere o alla mancanza di strutture adeguate per accogliere i condannati affetti da malattie mentali che vengono incarcerati senza adeguate terapie insieme agli altri detenuti. Amnesie, succede…

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