Giustizia

  • Un ubbidiente sistema “riformato” di [in]giustizia

    Servitù è il vero nome di quell’obbedienza che non è virtù.

    Lorenzo Milani

    Il sistema della giustizia è uno dei pilastri sui quali si fonda uno Stato. Come tale è perciò molto importante per la costituzione di una sana e funzionante democrazia. La storia, dall’antichità ad oggi, ce lo insegna. Un sistema di giustizia che funziona in base alle leggi in vigore rappresenta una garanzia per i cittadini. Così com’è una garanzia anche per lo sviluppo multidimensionale del Paese dove quel sistema è operativo.

    Da quando gli esseri umani hanno cominciato a vivere in comunità hanno sentito anche il bisogno di avere delle regole per gestire la loro vita. Regole che si adattavano alle condizioni sociali delle comunità e che, con il passare del tempo, stabilivano i diritti e i doveri di ciascuno nei rapporti con gli altri. Gli esseri umani, in base alle tante diverse e spesso anche sofferte esperienze di vita vissuta, sono diventati consapevoli della necessità di quelle regole. Regole che in seguito sono state anche scritte e tramandate di generazione in generazione. L’insieme di quelle regole era anche l’embrione delle future legislazioni in vari Paesi. E coloro che si erano incaricati di controllate l’applicazione di quelle regole erano anche gli antichi funzionari dei sistemi di giustizia.

    Uno dei più noti storici della Grecia antica, Strabone, vissuto circa venti secoli fa, ci ha lasciato, tra l’altro, anche delle preziose informazioni legate alle leggi e a coloro che se ne erano occupati. Uno di essi era Zaleuco di Locri vissuto nel VII secolo a.C.. Strabone considerava addirittura che le leggi stabilite da Zaleuco di Locri, riconosciute anche come il suo Codice o legislazione, sono state le prime leggi scritte ed applicate dagli antichi greci stabiliti nella Magna Grecia. Leggi che, allo stesso tempo, rispecchiavano anche le esperienze delle altre città dell’antica Grecia. In base a dei diversi documenti scritti, risulterebbe che la legislazione di Zaleuco abbia consolidato il buon funzionamento dell’allora sistema giuridico, servendo come base per i secoli a venire. Demostene, noto oratore e politico ateniese, vissuto circa ventitré secoli fa, affermava che parte integrante della legislazione di Zaleuco era anche una legge, secondo la quale “…l’abrogazione o la modifica di una legge poteva essere proposta solo dopo essersi presentati dinnanzi all’assemblea con un laccio al collo che, in caso di rifiuto della proposta, sarebbe diventato strumento di morte per il proponente”. L’esistenza di una simile legge l’avrebbe confermata anche lo storico Polibio, vissuto nel secondo secolo a.c. Secondo documenti a lui riferiti, risulterebbe che Zaleuco di Locri avesse stabilito che “…nel caso in cui, rispetto all’interpretazione di un decreto, magistrato e cittadino presentassero opinioni differenti dovrebbero entrambi presentarsi davanti all’assemblea cittadina, indossando un laccio che sarebbe poi stato stretto attorno al collo di colui la cui interpretazione si sarebbe rivelata errata”. Un rigido obbligo, quello proposto da Zaleuco di Locri, che ideava ed evidenziava l’esigenza della massima responsabilità, sia da parte dei legislatori che proponevano, abrogavano e modificavano le leggi, che dei giudici che interpretavano quelle leggi. Ma anche dei cittadini che pretendevano i loro diritti.

    Nei secoli successivi e soprattutto durante il periodo dell’illuminismo europeo sono stati elaborati nuovi concetti nel campo della giurisprudenza e sono stati stabiliti anche nuovi principi riguardanti le forme dell’organizzazione e del funzionamento dello Stato, in tutte le forme all’epoca conosciute e funzionanti. Principi che stabilivano anche le garanzie del funzionamento normale di una democrazia. Tra i più noti filosofi che hanno trattato ed elaborato i principi del funzionamento della democrazia c’è stato anche Charles-Louis de Secondat, barone di Montesquieu, comunemente noto come Montesquieu. Nel 1748, dopo ben quattordici anni di studi e di lavoro, pubblicò un insieme di trentuno libri, raccolti in due volumi ed intitolato De l’esprit des lois (Spirito delle leggi; n.d.a.). Un’opera quella che rappresentava un trattato in cui Montesquieu evidenziava e definiva i tre poteri che dovevano essere divisi ed indipendenti. E si riferiva al potere legislativo, al potere esecutivo e a quello giudiziario. Ovviamente Montesquieu si riferiva all’organizzazione dello Stato dell’epoca in cui viveva. Per lui il potere legislativo “…verrà affidato e al corpo dei nobili e al corpo che sarà scelto per rappresentare il popolo”. Invece il potere esecutivo “…deve essere nelle mani d’un monarca, perché questa parte del governo, che ha bisogno quasi sempre d’una azione istantanea, è amministrata meglio da uno che da parecchi”. Mentre il potere giudiziario doveva essere “la bouche de la lois” (la bocca della legge; n.d.a.).

    Da allora sono passati altri secoli, durante i quali si sono evolute anche le forme dell’organizzazione dello Stato, orientandosi verso la forma democratica che si basava sul principio della separazione dei poteri, elaborato da Montesquieu. Ma, purtroppo, ci sono degli Stati in cui la democrazia non funziona come dovrebbe. E ci sono, in diverse parti del mondo, anche Stati in cui la democrazia è solo una facciata per camuffare una realtà ben diversa. Stati dove non funziona più il principio della separazione dei poteri e dove un autocrate controlla tutto e tutti. Uno dei Paesi dove da circa dieci anni si è restaurata e si sta consolidando una nuova dittatura sui generis è anche l’Albania. E perciò, si tratta di un Paese dove anche il potere giudiziario non è più indipendente dai due altri poteri. Ma per camuffare questa preoccupante realtà, nel 2015, l’attuale primo ministro, durante il suo primo mandato, presentò quella che è stata echeggiata dalla propaganda governativa come una innovatrice riforma del sistema giudiziario. E già dalla prima bozza si capì subito che si trattava di una “riforma” che mirava la messa sotto controllo del sistema della giustizia. Una “riforma” che purtroppo, fatti accaduti, documentati e resi pubblici alla mano, è stata fortemente appoggiata anche dai “rappresentanti internazionali” in Albania. Le cattive lingue, già da allora, dicevano che un simile loro comportamento era dovuto a dei progetti voluti, ideati e poi anche messi in atto da un multimiliardario speculatore di borsa da oltreoceano. Le cattive lingue dicevano e tuttora dicono che un simile comportamento dei “rappresentanti internazionali” in Albania era ed è altresì dovuto a degli ingenti finanziamenti per la “riforma” della giustizia sia da oltreoceano, che dalle istituzioni dell’Unione europea. Finanziamenti che si devono giustificare, mettendo in rilievo “l’utilità della riforma”. Il nostro lettore è stato da allora in poi molto spesso informato di tutto ciò.

    Era proprio il 22 luglio 2016 quando tutti i 140 deputati del parlamento albanese, alle ore 1.30 del mattino, in piena unanimità, hanno votato gli emendamenti costituzionali che avrebbero aperto la strada all’attuazione della riforma di giustizia. Da allora sono passati ben otto anni ormai. Ma purtroppo, sempre fatti accaduti, documentati e pubblicamente denunciati alla mano, risulta che il sistema di giustizia è stato messo sotto il controllo del primo ministro. Proprio come era stato voluto da chi ha ideata la “riforma”. Un sistema che nonostante le innumerevoli prove documentate che testimoniano il diretto coinvolgimento del primo ministro, dei suoi stretti familiari e collaboratori in clamorosi scandali milionari, non vede, non sente e non capisce niente. Chissà perché?!

    Chi scrive queste righe, fatti alla mano, è convinto che il sistema della giustizia in Albania purtroppo, è solo un ubbidiente sistema “riformato” di [in]giustizia. I massimi rappresentanti delle “riformate” istituzioni di quel sistema sono purtroppo diventati dei servi che seguono solo gli ordini di chi comanda in Albania. Aveva ragione don Lorenzo Milani, servitù è il vero nome di quell’obbedienza che non è virtù. Chissà cosa avrebbe proposto Zaleuco di Locri per coloro che hanno ideato e attuato la “riforma” del sistema albanese di giustizia?! Primo ministro in testa.

  • In attesa di Giustizia: quinto grado

    Non bastano programmi televisivi che si arrogano il diritto di svolgere vere e proprie indagini parallele sui fatti di cronaca nera senza evitare di esprimere giudizi, generalmente di colpevolezza perché al pubblico piace sapere che il bene vince sempre ed i cattivi hanno una punizione segnata nel destino: per chi si perdesse qualche puntata, ci pensa la carta stampata a celebrare un quinto grado di giudizio alimentando la fame di gogna di quel popolo italiano nel cui nome – lo abbiamo ricordato molte volte – è amministrata la giustizia e dovrebbe, pertanto, ricevere un’informazione corretta in proposito stimolando la funzione di controllo di una comunità che aspiri ad essere democratica a tutela dei diritti del cittadino dinanzi alle prevaricazioni del potere

    Un’ennesima e recente esperienza dimostra – invece – che la cronaca giudiziaria, più che ad una doverosa e corretta informazione, sia intesa a sollecitare indignazione fomentando una pericolosa deriva illiberale che Tribunali e legislatore sono facilmente disposti ad assecondare: basti pensare al vergognoso sit in organizzato a Genova contro il Governatore agli arresti con provvedimenti in cui il Ministro della Giustizia ha affermato di far fatica a comprendere cosa ci sia scritto.

    Questa volta parliamo della concessione degli arresti domiciliari, con braccialetto elettronico, ad uno dei due ragazzi americani accusati per l’uccisione del Vicebrigadiere dei Carabinieri Mario Cerciello, avvenuta nel luglio 2019 a Roma.

    Nessuno tra i cronisti ha ritenuto opportuno mettere in evidenza che si tratta di un imputato sotto processo (non ancora concluso) che ha già sofferto cinque anni di carcerazione preventiva e la cui pena, dopo l’annullamento da parte della Corte di Cassazione, è stata dimezzata per una ragione giuridicamente ineccepibile: il suo ruolo è risultato essere quello del concorrente anomalo nell’omicidio. Il che, tradotto, significa che ha partecipato all’aggressione nei confronti del sottufficiale dell’Arma ma senza l’intenzione di uccidere. Una differenza non banale rispetto all’omicidio volontario tutt’ora contestato al suo coimputato, colpevole materiale di quella morte.

    La detenzione domiciliare con un dispositivo elettronico di controllo è – dunque – coerente con il tipo di responsabilità attribuita e proporzionata bilanciando la pena residua con quella già espiata in attesa di giudizio ed è stata disposta  presso l’unico domicilio disponibile in Italia, quello dei nonni che non hanno colpa se risiedono a Fregene: tutto ciò è diventato ghiotto pretesto per sollecitare su alcuni quotidiani sentimenti di rabbia e rancore, come si trattasse di un crimine impunito, con titoli del tipo “Il killer del carabiniere va ai domiciliari al mare”. Ovviamente silenzio circa su quella dinamica processuale che, come altre anche questa volta, la nostra rubrica cerca di rendere comprensibile anche a lettori non tecnici.

    Altrettanto ovviamente nessuno ha inteso ricordare l’immagine di questo giovane fotografato all’interno di una caserma che veniva predisposto all’interrogatorio del P.M. bendato e con le mani legate dietro la schiena con un garbato metodo di persuasione in salsa magiara.

    Ecco allora che altri titoli come Cerciello: un killer ai domiciliari. La moglie: giustizia al contrario ed a seguire un articolo che trasuda in alternativa malafede o ignoranza dei fatti e del diritto (forse entrambe), scegliete voi, parla di un’informazione disinteressata alla comprensione dei fatti che, però, possono esercitare una pressione indebita sui giudici, anche compromettendo la loro indipendenza e imparzialità, generando sfiducia nelle istituzioni e promuovendo sentimenti di vendetta piuttosto che di giustizia.

  • In attesa di Giustizia: a scuola di democrazia

    Sembra che alle Signorie Loro l’unica cosa che piace ascoltare siano le intercettazioni: certamente non le opinioni diverse, tantomeno le critiche.

    E’ capitato di recente che, per protestare contro l’iniziativa di legge del Governo per la separazione delle carriere, la sezione distrettuale dell’Emilia Romagna dell’Associazione Nazionale Magistrati abbia comunicato che non intende più partecipare ad attività formative o dibattiti organizzati dalle Camere Penali che, notoriamente, sostengono la riforma a prescindere che quest’ultima sia l’argomento di discussione: decisione degna del Consiglio di Istituto dell’asilo Mariuccia ma che ancora non mostra il digiuno di elementare grammatica della democrazia di cui è intriso il comunicato stampa della Giunta del Piemonte e della Valle d’Aosta del sindacato delle toghe con cui viene condannato “l’ennesimo attacco portato avanti nei confronti di un singolo magistrato con toni ed espressioni che di certo superano il diritto di critica” esprimendo solidarietà al P.M. di Torino Gianfranco Colace cui Il Foglio aveva dedicato un articolo elencando la sterminata serie di insuccessi delle sue indagini.

    All’origine di questa diatriba c’è l’ultima prodezza del Dott. Colace che merita di essere ricordata: l’imputazione dell’ex Governatore del Piemonte Sergio Chiamparino, degli ex sindaci Piero Fassino e Chiara Appendino nonché di tutti gli ex assessori con delega all’ambiente tra il 2015 ed il 2019 accusati di inquinamento ambientale colposo per non avere adottato adeguate misure per ridurre il livello di  sostanze nocive, smog e polveri sottili  determinando in tal modo la morte di un migliaio di cittadini torinesi.

    Sono stati tutti assolti un paio di settimane fa in udienza predibattimentale, cioè senza che sia stato neppure necessario arrivare ad un processo: l’incolpazione del resto, oltre che senza precedenti nella storia giudiziaria, appariva a prima vista quantomeno strampalata.

    Con forbita supponenza, il comunicato dell’A.N,M. insegna che certe critiche rivolte al Pubblico Ministero sembrano fondarsi su una errata concezione del suo lavoro che “si vorrebbe gravata da una obbligazione di risultato contrastante con il fisiologico sviluppo del processo penale”; tradotto per i non addetti ai lavori significa che i processi si fanno proprio perché servono a vagliare la fondatezza delle accuse e non è scontato che il P.M. abbia sempre ragione, anzi, ma abbia invece il diritto-dovere di far valutare ad un organo giudicante le sue tesi indipendentemente dall’esito finale dei giudizi.

    Tutto vero e giusto ma c’è un ma ed è il limite che incontrano le imputazioni azzardate che quando diventano una consuetudine non appartengono più alla fisiologia ma ostentano estremi patologici. Il mancato riscontro di accuse fondate su prove argillose evita fortunatamente di produrre clamorosi errori giudiziari ma  non la devastazione dell’esistenza di cittadini che nel frattempo – esposti alla gogna – perdono o rischiano di perdere onorabilità, affetti, posto di lavoro e sopportano anni di stress e costi di assistenza legale mentre sull’altro fronte le risorse dello Stato vengono spese a piene mani per intercettazioni, consulenze ed indagini inutili e di marca illiberale, sottraendo altresì la polizia giudiziaria a compiti istituzionali meno cervellotici.

    A pensar male si fa peccato ma non è detto che si sbagli e dietro questa dura difesa corporativa forse si cela un’altra delle recenti preoccupazioni della casta dei magistrati: l’introduzione del “fascicolo personale” di ciascuno di loro, conservato presso il C.S.M., contenente dati, giudizi ed informazioni utili alla valutazione per i progressi in carriera; ci manca solo che alle blande critiche (quando proprio non se ne può fare a meno) provenienti dai consigli giudiziari facciano supplenza le inchieste giornalistiche!

    L’A.N.M. dovrebbe tornare a scuola di democrazia perchè nel fomentare queste polemiche sembra ignorare che la giustizia è amministrata in nome del popolo, appartiene a cittadini che hanno il diritto di formarsi un’opinione e rendersi conto se vengono rispettate le regole ed i principi di uno Stato di diritto.

  • In attesa di Giustizia: insufficienza piena

    Rendere visita ai carcerati è una delle opere di carità e come tutte le leggi ed i precetti contiene dei precetti sottintesi il primo dei quali – sulla premessa maggiore, tipica del cattolicesimo, che deve praticarsi il perdono – è la umanizzazione della condizione detentiva non privandola, tra le altre cose, dalla possibilità di coltivare gli affetti.

    Parlando del fenomeno dei suicidi in carcere, di cui questa rubrica si è già occupata (e che non riguarda solo i detenuti ma anche gli agenti della polizia penitenziaria), la condizione in cui complessivamente versano i nostri istituti non sembra aver trovato una possibile soluzione tramite i rimedi proposti dal Governo con il “decreto carceri” che non impatta minimamente – e tantomeno in tempi rapidi – sulla condizione in cui nelle carceri italiane si vive e – soprattutto – si muore.

    La tragica conta annota 53 morti dall’inizio dell’anno e non è certo l’aumento del numero consentito delle telefonate ai famigliari che potrà offrire sollievo ad anime martoriate dalla modalità inumane di esecuzione della pena.

    Meno che mai può risultare utile la nuova procedura volta a riconoscere un beneficio che è già presente nel nostro ordinamento: la liberazione anticipata (45 giorni a semestre) per buona condotta. Procedura, tra l’altro, piuttosto farraginosa e con la quale, francamente, nulla si risolve nell’ottica di fronteggiare il cronico sovraffollamento.

    Risibile, inoltre, rispetto alla carenza di organico, è l’impegno ad assumere 500 unità di agenti del Corpo di Polizia penitenziaria…comunque per l’anno prossimo: ahimè devono farsi sempre i conti con le esauste casse dello Stato, che impediscono sulla possibilità di incrementare l’applicazione delle misure penali di comunità e la creazione di strutture idonee per i condannati per reati meno gravi o, comunque, considerati a bassa pericolosità.

    Dimenticati, una volta di più, gli interventi volti ad assicurare cura e assistenza ai soggetti affetti da fragilità e disagi psichici mentre una maggiore responsabilità nell’adozione di misure cautelari in carceri rimane affidata ad un disegno di legge in fase di esame alla Camera che ne attribuisce il potere ad un GIP non più monosoggettivo ma collegiale ed al pio desiderio che così strutturato risulti effettivo portatore di maggiori garanzie e meditata riflessione sulle richieste di cattura. Al momento, tuttavia, per il funzionamento di questo nuovo organo giudicante non vi sono neppure magistrati in ruolo in numero sufficiente e dovranno essere reclutati con un concorso dedicato: se ne riparlerà, forse, negli anni a venire e sempre che si trovino, anche in questo caso, i soldi per pagare gli stipendi.

    Un recentissimo monito del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa ha intimato l’Italia ad adottare misure efficaci per far fronte ad un numero di suicidi senza precedenti e ad assicurare luoghi di collocamento alternativi al carcere per i detenuti che soffrono di disturbi psichiatrici: il Governo ha risposto con questo provvedimento che non è neppure un pannicello caldo e merita un’insufficienza piena.

    Va detto che neppure un’amnistia, un condono, sarebbero utili se non nel breve periodo come storia e statistica di queste “indulgenze” insegna ma non sarebbero neppure la resa dello Stato di cui ha parlato il Ministro Nordio, uno dal quale era lecito aspettarsi qualcosa di più: la resa dello Stato è nelle vite che gli sono state affidate e non ha saputo (o, peggio, voluto) fare qualcosa per salvare, è nella inadeguatezza delle strutture trattamentali volte alla rieducazione, istruzione, avviamento al lavoro dei detenuti e nelle condizioni di oggettiva inciviltà in cui versano le carceri in Italia al cui confronto quelle turche dell’indimenticabile “Fuga di mezzanotte” sembrano dei Club Mediterranèe.

    E’ ora che la politica abbandoni gli slogan con cui denomina provvedimenti vuoti di significato e scelga di operare ponendo in essere rimedi immediati realmente sottesi all’umanizzazione della pena ed al superamento delle attuali condizioni degli istituti di pena che possono definirsi solo di sostanziale illegalità.

  • In attesa di Giustizia: nel paese del diritto è talvolta buio fitto

    Nel libro dell’Apocalisse, il giorno del giudizio viene fatto coincidere con la fine del mondo; spigolando in un decreto legge in fase di emanazione proprio in quella che viene considerata la sua culla si direbbe che si voglia far corrispondere la fine del mondo del diritto e del giusto processo con il giorno in cui si celebra l’ultimo grado di giudizio e più nella sede giurisdizionale più alta del nostro sistema: la Corte di Cassazione, le cui decisioni sono finalizzate ad interpretare della legge e valutare la sua corretta applicazione.

    Così è se vi pare, e se non vi pare è così lo stesso: l’articolo 12 del Decreto Infrastrutture, intitolato modifiche al codice di procedura penale per l’efficienza del procedimento penale senza considerare che efficienza non è sinonimo di efficacia (che sarebbe preferibile), può ritenersi una sorta di iniezione letale somministrata al terzo grado del processo che trasforma la solennità della discussione davanti alla Corte di Legittimità, che si vorrebbe ricca di spunti e approfondimenti in contraddittorio, l’ultima fermata in attesa di giustizia, in un anodino scambio di e-mail tra i difensori, il Procuratore Generale ed il Giudice Relatore. Siamo di fronte alla mutazione genetica della Corte in un sentenzificio.

    I lettori penseranno: ma con le infrastrutture tutto questo cosa c’entra? Secondo le peggiori tradizioni della nostrana sciatteria normativa, questa disciplina che impatta sull’effettività del diritto di difesa è frammista, anzi in coda, alla regolamentazione di concessioni autostradali, al rafforzamento della capacità tecnica della fondazione lirico sinfonica Petruzzelli e Teatri di Bari, alle misure per il sostegno della presenza delle imprese italiane nel continente africano ed altre disposizioni totalmente disomogenee rispetto al rito penale.

    Una tecnica (parola grossa) normativa che richiama alla memoria la riforma del Testo Unico sugli stupefacenti comportante notevoli aggravamenti delle pene che fu inserita in un decreto legislativo avente ad oggetto aspetti organizzativi delle Olimpiadi Invernali del Sestrière con un eccesso di delega che non sarebbe dovuto sfuggire neppure a chi avesse studiato diritto costituzionale alle scuole serali…al buio ma che provocò per anni decine di migliaia di sentenze illegali prima che qualcuno se ne accorgesse ed alle quali fu solo in parte possibile porre rimedio. Andatelo a raccontare a chi ha scontato lunghe detenzioni a causa di una legge che, semplificando il concetto, non poteva neppure essere emanata. Non in quel modo, perlomeno, e fu fatta a pezzi dalla Corte Costituzionale.

    Parola d’ordine, dunque: efficienza, l’efficacia può attendere. Pervenire ad un tale risultato è impossibile in un sistema in perenne debito d’ossigeno con le risorse umane ed economiche e allora cosa c’è di meglio che sfrattare – un termine diverso non sovviene – gli avvocati dalle aule di cui sono considerati, all’evidenza delle riforme e della prassi, un orpello fastidioso, purtroppo costituzionalmente irrinunciabile, che fa perdere tempo tanto è vero che vi è stato anche chi, recentemente e con la solennità derivata dello scranno di provenienza, ha sollecitato i difensori alla massima sintesi perché con la discussione sottraggono tempo alla camera di consiglio ed alla ponderata decisione dei ricorsi. Tradotto: cari avvocati, non servite a niente.

    Ed allora, addio alle aule sostituendo un turbinoso intreccio di posta elettronica ai difensori che le scriveranno con impegno e passione non meno che amarezza mentre i Sostituti Procuratori Generali potranno redigere requisitorie severe ma giuste da spedire comodamente dal terrazzo di casa mentre sorseggiano un limoncello dopo cena e la lettura delle quali stimolerà il furore intellettuale dei Giudici relatori che potranno esprimere la loro diuturna applicazione allo studio estendendo ponderate relazioni anche dalla vasca idromassaggio.

    Tutto o quasi può, quindi, farsi senza l’incomodo di dover far presenziare gli avvocati in udienza e  – in barba al diritto di difesa – sono stati anche sensibilmente ridotti i termini di legge per la proposizione di motivi di ricorso nuovi e memorie: così “si fa prima”. Il segnale che viene dato non è equivocabile.

    Sia dunque benvenuto “l’avvocato in Costituzione” per garantire l’effettività della tutela dei diritti e quello inviolabile alla difesa come proposto da un’altra riforma messa in cantiere ma purché lo faccia senza disturbare più di tanto il manovratore che ha già tanti pensieri che alimentano il tormento della decisione. Come diceva qualcuno: nel Paese del diritto è talvolta buio fitto.

  • In attesa di Giustizia: insurrezione ed amnesia

    Magistrati, Pubblici Ministeri, Giudici di Tribunale e delle Corti, toghe rosse della rivoluzione e delle legioni, ascoltate! L’ora segnata dal destino bussa alle porte delle nostre aule…l’ora, l’ora delle decisioni irrevocabili: la dichiarazione di guerra è già stata consegnata ai Presidenti di Camera e Senato!

    Così, in buona sostanza, suona la chiamata alle armi dell’Associazione Nazionale Magistrati nel giorno più buio della sua storia: l’approdo al Parlamento del disegno di legge di origine governativa sulla separazione delle carriere che, fino ad ora, era riuscita a prevenire ed evitare.

    Il Presidente dei pasdaran dell’ANM, Giuseppe Santalucia, accanito avversario la riforma, è uno che, non a caso, ha saltabeccato tra uffici inquirenti e giudicanti ed ha alle spalle una brillante carriera fuori ruolo come vice e poi capo dipartimento dell’Ufficio Legislativo del Ministero della Giustizia, senza contare altri incarichi di prestigio come magistrato addetto al Massimario della Cassazione (una struttura che con criteri quanto meno nebulosi seleziona le sentenze che vanno, poi, a blindare la giurisprudenza sulla base di precedenti decisioni) ed ha fatto esperienza anche presso l’Ufficio Studi del CSM, ed è proprio dalla voce di Santalucia che viene annunciata una mobilitazione articolata dell’intero Ordine Giudiziario.

    Dissotterrando l‘ascia di guerra, con minaccia di ricorrere ad un’astensione dalle attività giudiziarie senza precedenti, la magistratura associata intende, altresì, dar vita ad una campagna di sensibilizzazione del popolo italiano aggiungendone una nuova alle trite litanie con le quali viene ferocemente avversata questa riforma: la separazione delle carriere indebolirebbe le garanzie riservate ai cittadini dalla Costituzione, contrasta il loro interesse ad una giustizia giusta.

    Permane misterioso quale potrà essere in tutto ciò il contributo degli italiani che in tempi recenti hanno sottoscritto massicciamente un legge di iniziativa popolare proprio per la separazione delle carriere ed hanno votato una maggioranza parlamentare che l’aveva nel programma di governo…forse è un caso di amnesia ma le amnesie del sindacato delle toghe non finiscono qui: paventano una assimilazione del nostro processo penale al sistema americano – dove da sempre vi è la separazione delle carriere – che sarebbe privo di garanzie perché, tra l’altro, non è previsto il giudizio di appello, ed i P.M. sono sottoposti al potere politico. Per la verità, negli USA si può fare una sterminata quantità di appelli e ricorsi (persino per inadeguatezza della difesa mentre proprio da noi c’è la tendenza a marginalizzare gli uni e gli altri) e che i Pubblici Ministeri, diversamente da quanto accade ed accadrebbe in Italia anche dopo la riforma, siano connotati da una matrice politica perché elettivi, peraltro come i giudici. Tutto ciò a tacere del fatto che da quel sistema la nostra Cassazione, con il contributo dell’ufficio del Massimario di cui Santalucia ha fatto parte, stia mutuando il meccanismo della Corte Suprema che blinda i precedenti al punto che se è stato deciso che Gesù è morto di freddo da quella giurisprudenza è quasi impossibile discostarsi anche nei giudizi di grado inferiore. Amnesie.

    Naturalmente viene riproposto il timore della perdita di indipendenza della magistratura, non si sa bene in base a cosa posto che è assicurata dalla Costituzione sia ai giudicanti che ai pubblici ministeri in più articoli e con garanzie specifiche e che il giusto processo (articolo 111) sia affidato ad un giudice terzo, cioè senza “apparentamenti” con le altre parti. Ancora amnesie… In ultimo, la preoccupazione è che verrebbe limitata la possibilità di maturare esperienze diverse che arricchiscono il sapere e la cultura dei magistrati, come se la specializzazione in un settore debba essere vista un limite.

    L’ANM – così solerte in questo caso – sembra essersi dimenticata che anche altri problemi avrebbero meritato una civile mobilitazione da parte di coloro che amministrando la giustizia decidono della vita dei cittadini e, solo per citarne un paio come esempio, non si sono annotate manifestazioni di ansia con riferimento al fenomeno dei suicidi in carcere o alla mancanza di strutture adeguate per accogliere i condannati affetti da malattie mentali che vengono incarcerati senza adeguate terapie insieme agli altri detenuti. Amnesie, succede…

  • In attesa di Giustizia: metamorfosi e nemesi

    La magistratura associata preannuncia scioperi, sollevazioni di piazza e barricate contro il disegno di legge di origine governativa sulla separazione delle carriere dimenticando il dettaglio – non banale – che quel disegno di legge è stato controfirmato per autorizzarne la presentazione nelle Aule Parlamentari da Sergio Mattarella che, oltre che garante della Costituzione, è anche il Presidente del C.S.M.

    E’ una scenario che, in altri tempi, avrebbe visto Piercamillo Davigo schierato in prima fila in questo agone, possibilmente nei talk show che gli garantiscono assenza di contraddittori e non gli impongono limiti alla ben nota incontinenza verbale, nonchè sparando a palle incatenate contro la riforma ed il Ministro della Giustizia dalle colonne del Fatto Quotidiano.

    Invece tace, perlomeno più del solito: l’alfiere della eliminazione del secondo grado di giudizio – probabilmente suggerito in tal senso dai suoi eccellenti difensori – è stato impegnato nel seguire la stesura del corposo ricorso per Cassazione contro la sentenza della Corte d’Appello di Brescia che, confermando la condanna in primo grado per rivelazione di informazioni su indagini in corso coperte dal segreto istruttorio, ha messo il carico da novanta sulla sentenza del Tribunale che il  nostro aveva educatamente commentato affermando al cospetto dell’inclita utenza di intellettuali che si abbevera al podcast di Fedez che “a Brescia non sempre le cose le capiscono”.

    La motivazione è stata durissima e, tra i tanti passaggi, è dato leggere che: “Piercamillo Davigo si è determinato ad una sovraesposizione personale del tutto singolare non necessitata e che, per quanto ponderata, si è risolta in una serie di irrituali ed illecite confidenze che hanno poi sortito una fuga di notizie senza eguali precedenti”, “violazioni tutt’altro che formali” “Un’opera diffamatoria contro Sebastiano Ardita”. Quest’ultimo era un componente del C.S.M. ed ex sodale proprio di Davigo nella costituzione della corrente nuova della magistratura che gli faceva capo: ma si sa, i regolamenti di conti tra magistrati sono molto cruenti in quella che – ora sappiamo – è un’allarmante frequenza.

    Insomma, siamo al cospetto di una metamorfosi che lo stesso Davigo dovrebbe definire una “Berlusconizzazione”: per salvarsi, prima attacca i giudici poi impugna tutte le loro decisioni e, senza entrare in dettagli complicati per i lettori (anche un po’ superflui), è pronto a smentire se stesso ricorrendo ad argomenti difensivi ad assetto variabile.

    Ad una metamorfosi fa il paio la nemesi: infatti, la giurisprudenza sulla quale si fonda la sua condanna è frutto della costante elaborazione di principi risalenti in buona misura proprio a quella Seconda Sezione della Corte di Cassazione che Davigo ha presieduto per anni.

    Rispettiamo il principio di non colpevolezza ma, in Cassazione, troverà a contrastare le sue ragioni una dottrina che da qualche anno suscita perplessità nei nemici di un tempo, gli avvocati: la forza del giudicato (inteso come interpretazione di principi diritto stabilizzatasi che preclude, salvo casi eccezionali, ripensamenti), un concetto “all’americana” estraneo alla nostra tradizione, ed i limiti alla valutazione nel terzo grado di giudizio della cosiddetta doppia conforme…cioè a dire che se un Tribunale ha deciso in un modo e poi una Corte d’Appello ne ha confermato la sentenza, anche qualora abbiano argomentato e messe per iscritto delle grossolane bestialità va bene così e la Cassazione, salvo rarissimi casi, dichiara inammissibile il ricorso.

    Metamorfosi e nemesi: manca solo che affermi che non ci sono innocenti ma solo colpevoli che l’hanno fatta franca, tranne uno e sarebbe, tutt’al più, l’eccezione che conferma la regola. Sic transit gloria mundi.

  • In attesa di Giustizia: 2 giugno

    E’ iniziata, con prima tappa a Cagliari il 29 maggio, la maratona oratoria a livello nazionale della durata di due mesi organizzata dall’Unione delle Camere Penali: avvocati, docenti universitari, garanti dei detenuti e rappresentanti di associazioni, con interventi della durata di un’ora ciascuno, si alterneranno a staffetta per giornate intere davanti ai Tribunali per informare e coinvolgere la società civile sul tema delle condizioni e dei suicidi nelle carceri che sono già oltre trenta da inizio anno.

    Vigilando redimere era il motto del Corpo degli Agenti di Custodia prima che venisse trasformato in Polizia Penitenziaria e, senza scomodare Cesare Beccaria, dice tutto: il carcere deve essere un luogo destinato alla rieducazione e non una discarica umana nella quale rinchiudere uomini e donne – in attesa di giudizio, così come i condannati – a marcire con la punizione aggiuntiva della mancanza di igiene, spazi vivibili e strutture adeguate sia sanitarie che volte al recupero per restituirli migliorati alla libertà.

    La Repubblica festeggiata il 2 giugno è, purtroppo, lontana da quella pensata e disegnata dai Padri Costituenti, è una Repubblica sotto processo che negli ultimi trent’anni ha visto sfumare la funzione essenziale della Giustizia attraverso il conflitto tra magistratura e politica e poi – o, meglio, nel frattempo –  quello interno all’Ordine Giudiziario con rese dei conti e contrapposizioni che sono emerse in una realtà ancor più desolante e preoccupante di quanto si era immaginato dopo le rivelazioni di Luca Palamara e l’analisi impietosa che dell’indagine a carico di costui ha fatto Alessandro Barbano (licenziato dopo solo un mese dalla direzione del “Messaggero”, forse perché troppo liberale) in un libro in cui illustra come il regime delle intercettazioni distrugge vite e sovverte le regole del potere.

    Ecco, da trent’anni a questa parte le riforme, quelle strutturali e ragionate, l’adeguamento degli istituti penitenziari ai canoni costituzionali, il rispetto per le vite umane, hanno subito l’effetto di bracci di ferro come quello tra i magistrati e Berlusconi la cui morte non ha chiuso la partita; e poi, populismo normativo con leggi che sono meri spot elettorali, l’assalto al Quirinale con la sconclusionata inchiesta sulla Trattativa Stato-Mafia, le lotte intestine alle correnti per l’aggiudicazione delle Procure più ambite e chi più ha memoria più ne metta.

    Come dire: la storia d’Italia degli ultimi decenni si è scritta di più nei tribunali che nelle aule parlamentari e la deriva giustizialista non conosce confini: un esempio recentissimo si rinviene nella motivazione con cui è stata respinta la richiesta di scarcerazione dell’ex presidente dell’Autorità Portuale di Genova, Paolo Signorini: “perché non si è mostrato consapevole del disvalore della sua condotta”, insomma non si è pentito a sufficienza, stia in galera. Il ragionamento è più da Stato etico che di diritto e ben potrebbe essere uscita dalla penna di un GIP di Teheran come se il carcere dovesse servire a questo.

    Vittime di un sistema, questo sì autoritario ed arroccato nella protezione del proprio debordante potere,   sono state le centinaia di persone arrestate e assolte durante la stagione di Mani Pulite o sarebbe meglio dire mani grondanti di sangue se si considerano i quarantuno suicidi senza risposta risalenti all’epoca di Tangentopoli che ha segnato un modo di intendere la carcerazione preventiva che continua a mietere capri espiatori senza colpa né peccato mentre in carcere si continua a morire per una disperazione che non di rado è frutto della consapevolezza di patire ingiustamente quel tormento in condizioni che hanno indignato i partner europei o per sfiducia nella giustizia.

    Troppe sono le morti di chi lo Stato dovrebbe salvaguardare e recuperare, morti che sono delle ferite inferte alla democrazia e non solo “possibili fonti informative perdute” come ritiene, mostrando ripugnante insensibilità Piercamillo Davigo.

    Ma lo spirito di Einaudi e di quelli come lui che costituirono la classe dirigente del miracolo del dopoguerra è pur sempre nel DNA di questo Paese e dovrà pure tornare a manifestarsi insieme a quella disciplina ed onore che la Costituzione pretende dai cittadini, dunque anche i magistrati, cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di impiegare nel loro adempimento…in attesa di Giustizia.

  • In attesa di Giustizia: R.I.P.

    Se il Governo, per la parata del 2 giugno, avesse fatto sfilare la portaerei Trieste nel Mar Nero e sbarcare il Battaglione San Marco a Odessa avrebbe generato meno apprensione che approvando il D.D.L. sulla separazione delle carriere dei giudici e pubblici ministeri…almeno tra la magistratura associata e nelle redazioni di Repubblica e del Fatto Quotidiano.

    Così è, se vi pare: dopo decenni di discussione dopo la promulgazione del codice che regola il processo penale nel 1989 con cui meglio si adatterebbe, quella che è una regola ordinamentale in molte democrazie occidentali di tradizione liberale, come il Regno Unito, sembra che stia per diventare legge anche da noi.

    L’Associazione Nazionale Magistrati, in nome della indipendenza ed autonomia della magistratura si paluda da intemerato paladino di questi principi che non sono messi in discussione da un progetto di riforma che, per il divieto imposto da più di un articolo della Costituzione, non potrebbe neppure sottoporre il Pubblico Ministero al controllo del Ministro della Giustizia condizionando o impedendone le iniziative.

    Ma, allora, se questa riforma non è un rischio per la democrazia – non è credibile che gentiluomini che i genitori hanno fatto studiare e praticano la giurisprudenza non lo comprendano – qual è o può essere il timore che attanaglia un gran numero (non tutti…) di appartenenti all’Ordine Giudiziario?

    A pensar male si fa peccato ma, a volte, non si sbaglia: le ansie sono, forse, di natura diversa? Magari quella perdita di chance che deriva dal poter transitare da una funzione all’altra senza insormontabili ostacoli traguardando l’obiettivo di sempre nuovi incarichi direttivi che sono anche la rampa di lancio verso prestigiose e ben remunerate posizioni fuori ruolo, elezioni al C.S.M, candidature…?

    In due parole può essere una questione di denaro e potere legati al raggiungimento di questi risultati di carriera per i quali il merito conta molto meno degli accordi spartitori tra le correnti della magistratura. Queste ultime sono tutte guidate da Pubblici Ministeri che – a loro volta – acquistano visibilità grazie ad inchieste gestite senza rispetto della riservatezza e spesso sviluppate applicando al contrario il criterio di Eudosso – un matematico dell’Asia Minore del V secolo A.C. – utilizzato per calcolare la superficie di figure geometriche irregolari: delimitano e misurano la superficie del teorema accusatorio come se gli indagati fossero già colpevoli conclamati, poi iniziano a centellinare dettagli alla stampa lasciando credere che si stiano avvicinando sempre più ad una verità assoluta facendo crescere interesse ed indignazione moralistica negli specialisti dei giudizi a priori e dando l’impressione che la quadratura del cerchio sia ormai prossima.

    La separazione delle carriere, ahimè, prevede la creazione di due C.S.M.: uno per i giudicanti e l’altro per gli inquirenti con la conseguente perdita di controllo dei P.M. sui giudici, subalterni ai poteri correntizi (profondamente politicizzati) che, allo stato, ne gestiscono incarichi e progressi in carriera per le ragioni dette. E poi, senza vergogna, parlano di timore di finire sotto il controllo del Governo…

    Il Guardasigilli, presentando la riforma, ha ricordato che la separazione delle carriere era stata auspicata da Giovanni Falcone, suscitando incomprensibile indignazione, tra gli altri, quella di Alfredo Morvillo (ex giudice) che ha negato vibratamente che suo cognato abbia mai sostenuto la separazione delle carriere ed anche che: “sia gravemente offensivo definire i giudici come passacarte delle procure, influenzabili solo per aver fatto lo stesso concorso. Ma risponde ad un’operazione portata avanti negli ultimi anni per diffondere sfiducia nella giustizia e quando in un paese viene meno la fiducia nella giustizia cominciano ad essere in pericolo anche le libertà democratiche”.

    Ecco, un pizzico di allarme fascismo non guasta mentre Morvillo, a proposito di sfiducia nella magistratura, sembra non avere mai sentito parlare dell’affaire Palamara né letto il documentatissimo libro “La gogna” di Antonio Barbano, soprattutto sembra non ricordare chi disse queste parole: “Il P.M. non deve avere nessun tipo di parentela con il giudice e non deve essere, come è oggi, una specie di paragiudice. Chi, come me, chiede che giudice e P.M. siano invece due figure strutturalmente differenziate nelle competenze e nella carriera, viene bollato come nemico della indipendenza del Magistrato, un nostalgico della discrezionalità dell’azione penale, desideroso di porre il P.M. sotto il controllo dell’esecutivo”.

    Questa riflessione appartiene a proprio a Giovanni Falcone: riposi in pace a patto di non guardare cosa accade quaggiù all’interno di quell’Ordine Giudiziario di cui è un martire e con il quale non ha nulla a che spartire.

  • In attesa di Giustizia: attacco alle garanzie

    Milàn l’è semper un gran Milàn: così si dice per sottolineare una sorta di eccellenza della città in diversi settori; con la locale Procura, dai primi anni ’90, vanta anche il primato nel calpestare le garanzie degli indagati: i trucchetti per eludere il termine di durata massima delle indagini prevista per legge svolgendole a totale insaputa dei destinatari, fascicoli con un unico numero di registrazione iniziale creando una sorta di discarica per centinaia di notizie di reato in cui la difesa è di fatto impossibilitata ad orientarsi adeguatamente, il “gioco a nascondino” delle prove a favore degli accusati (quello che ha determinato l’incriminazione del Procuratore Aggiunto Fabio De Pasquale è solo il più noto) sono solo alcuni dei fantasiosi metodi con cui addomesticare i rigori della legge che, nel loro complesso, hanno preso il nome di Codice Ambrosiano, rimarcando una discontinuità rispetto al resto della penisola che tanto il carnevale quanto la Messa avevano già segnato.

    L’ultima tendenza è quella di indagare gli avvocati nell’ambito degli stessi processi in cui sono impegnati nella difesa: ecco così, poco dopo il caso legato al difensore di Alessia Pifferi, una richiesta di interdizione all’esercizio della professione per un anno nei confronti di due professionisti, collegata ad un’inchiesta per traffico di stupefacenti nella quale risultano assistere alcuni dei presunti trafficanti.

    Tale richiesta costituisce un attacco concentrico alle garanzie processuali, alla libertà dell’avvocato e all’esercizio del diritto di difesa che non sono generiche enunciazioni di principio ma canoni costituzionali.

    Ai due sventurati è stato attribuito il reato di ricettazione che consiste nel fatto di chi riceve denaro o altri beni provenienti da reato per procurare a sé o ad altri un profitto e ne sono sospettati per aver ottenuto il compenso per l’attività professionale svolta da parte di soggetti che si presume commercino droga.

    Impressiona per la sua natura l’ipotesi di accusa a carico di clienti che – probabilmente –  non presentano il Modello Unico all’Agenzia delle Entrate ma che dire, allora, se la difesa riguardasse un manager imputato di falso in bilancio o un imprenditore con il vizietto della bustarella, piuttosto che il produttore di salumi che falsamente certifica l’appartenenza al consorzio “Prosciutto di Parma” (sì, può essere un reato anche questo): gli esempi si sprecano e qui si arrestano per questioni di brevità.

    Fortunatamente, non solo a Berlino ma anche a Milano qualche giudice si trova ancora ed in questo caso il Giudice per le Indagini Preliminari cui era stata avanzata la richiesta l’ha rigettata con una motivazione ricca di riferimenti alla giurisprudenza, alle prove ed al buon senso laddove rimarca che il difensore dovrebbe addirittura rinunciare totalmente ai propri compensi allorquando l’assistito sia reo confesso.

    L’iniziativa della Procura, al di là della condivisibile decisione del giudice chiamato a vagliarla, ha determinato una ferma reazione dell’Ordine degli Avvocati di Milano, della Giunta dell’Unione e della Camera Penale di Milano rimarcando la prassi giudiziaria in inarrestabile deriva da quei principi costituzionali, che la magistratura sistematicamente disattende con buona pace della “cultura della giurisdizione” alla quale si dice appartenere anche il pubblico ministero.

    Emerge, viceversa una pericolosa assimilazione della difesa dell’indagato a quella del reato, se non ad una condivisione implicita di scelte criminali.

    Novelli influencers del diritto e della pubblica opinione, è bene che i P. M. si rendano conto che sono lontani i tempi di Mani Pulite e delle manifestazioni davanti al Palazzo di Giustizia con i cartelli “Di Pietro, Davigo, Colombo, fateci sognare”, che la schiera dei loro followers si sta drasticamente riducendo e tra questi non mancano i giudici.

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