Giustizia

  • In attesa di Giustizia: le audaci corbellerie dei solito noti

    Probabilmente aveva ragione il Prof. Gaetano Pecorella quando, a chi gli domandava come mai avesse spostato il suo asse politico dalla estrema sinistra a Forza Italia, rispondeva che lui non si era mai mosso da quello che considerava l’unico credo: le garanzie processuali, un patrimonio disperso dall’area progressista transitata al più bieco giustizialismo e – nel tempo – divenute cavallo di battaglia (un po’ per opportunità, bisogna ammetterlo) del centrodestra, con le dovute eccezioni che confermano la regola…

    Con la riforma sulla separazione delle carriere al momento silenziata e passata in secondo piano rispetto a quella sul premierato, la madre di tutte le battaglie è diventato il contrasto alla proposta di legge volta ad istituire la giornata del ricordo delle vittime di ingiustizia da mettere in calendario il 17 giugno, giorno dell’arresto di Enzo Tortora.

    A dare il via ad una congerie di corbellerie ci ha pensato, da par suo, il Presidente della Associazione Nazionale Magistrati il quale ha pontificato contestando che quello di Tortora possa definirsi un caso di malagiustizia perché in appello è stato assolto e perché istituire una simile ricorrenza contribuirebbe a creare un clima di sfiducia nella magistratura.

    Sua Eccellenza Santalucia, probabilmente, dimentica che oltre alla categoria degli errori giudiziari riferibili solo alle revisioni di condanna divenute definitive esiste quella delle ingiuste detenzioni: il caso di chi arrestato, in ultimo, viene assolto e risarcito dallo Stato. Santalucia, inoltre, pare non essersi accorto che, riferito all’Ordine Giudiziario, l’indice di gradimento del popolo italiano, già adesso, è simile a quello che si può avere per un gattino attaccato alle gonadi. Infine quanto al presunto, finale, trionfo della Giustizia Santalucia farebbe bene a documentarsi sulla sterminata serie di abusi, soprusi, dimostrazioni di iattante disinteresse per il rispetto della legge che hanno caratterizzato il calvario di Enzo Tortora a partire dalla studiata spettacolarizzazione delle immagini, trasmesse a reti unificate, del presentatore condotto via in manette da una caserma dei Carabinieri. E siccome al peggio non c’è limite, con sprezzo del ridicolo, Giuseppe Santalucia è stato capace persino di affermare che la proposta legislativa dia un messaggio in controtendenza rispetto alle numerose giornate in memoria della legalità come se l’arresto e la via crucis fatta patire a qualsiasi innocente possano costituire le note su cui comporre un inno al crimine.

    A quelli come Santalucia servirebbe di lezione (o forse no…) ascoltare Raffale Della Valle –  l’ultimo dei grandi penalisti italiani – che si commuove quando racconta di aver pensato persino di abbandonare la professione quando si è sentito un orpello inutile, indesiderato e quasi deriso durante la difesa di Enzo Tortora, di essersi rivolto per disperazione ad Enzo Biagi che raccolse il suo grido di dolore tramutandolo in una lettera aperta al Presidente della Repubblica pubblicata in prima pagina sul Corriere, denunciando quanto stava accadendo a Napoli grazie a chi veniva definito “Il Maradona del diritto”…stic****, forse in Procura intendevano quel Maradona dell’indimenticabile gol con la mano.

    Obbedisco! Scattano sugli attenti gli sherpa dell’ANM con il PD a dettare la linea in Commissione Giustizia della Camera dove si doveva, tra l’altro, soltanto discutere della unificazione dei tre diversi disegni di legge presentati sulla istituzione della giornata delle vittime di ingiustizia: con comica vigliaccheria la scelta è stata quella dell’astensione dal voto per non essere stati approvati gli alati pensieri che i giuristi vicini al Campo Largo avevano elucubrato per definire la nozione di errore giudiziario senza indispettire i sodali togati.

    Vero è anche che, al di là dei buoni propositi, la cultura della giustizia della attuale maggioranza sembra risiedere nella raffica di nuovi reati (molti dei quali totalmente inutili) introdotti nell’ordinamento in un paio d’anni, nella ignavia rispetto alla tragedia dei suicidi in carcere e delle condizioni di vita nei penitenziari: una cultura che viene plasticamente descritta dalla intima gioia che la masturbazione mentale regala al sottosegretario Andrea Delmastro al pensiero di detenuti che soffocano nei nuovi blindati della Polizia Penitenziaria.

    In conclusione, se in qualche modo può definirsi la bagarre scatenatasi intorno a questa proposta di legge è che stiamo assistendo alla festa della ipocrisia e della viltà bipartisan.

  • In attesa di Giustizia: lui è peggio di me

    Questo era il titolo di un film di una trentina di anni fa interpretato da Andriano Celentano e Renato Pozzetto: ovviamente regalava il sorriso, cosa che non sono in grado di fare Marco Travaglio e Andrea Del Mastro…tanto per scegliere una coppia di impresentabili da commentare in questo numero de Il Patto Sociale.

    Il primo dei due, sempre pronto a commentare come ferite non rimarginabili alla giustizia e democrazia tutte le sentenze che non rechino la parola “condanna”, è – per il momento – rimasto silente a proposito dell’esito del terzo grado di giudizio a carico di Piercamillo Davigo, una notizia che, impropriamente, la maggior parte dei quotidiani ha riportato inserendo nel titolo “Appello bis per Davigo”: vero, ma così si mimetizza una realtà non banale e cioè che l’annullamento della sentenza di condanna da parte della Cassazione è stato solo parziale, essendo divenuta definitiva una parte della sentenza della Corte d’Appello di Brescia che ha condannato l’ex P.M. di Mani Pulite per rivelazione di segreto d’ufficio, una rivelazione senza uguali precedenti  come annotano i giudici bresciani usando proprio il corsivo per meglio evidenziare il concetto.

    Davigo, dunque, nuovamente a giudizio solo per alcune delle condotte contestate che la Corte d’Appello dovrà rivalutare ma ciò non significa che verrà automaticamente assolto mentre risulta definitivamente condannato per altre. Tecnicamente lo si deve definire un pregiudicato ma non si può dire commentando oltre la superficie la notizia di quel parziale successo che significherebbe, per amor di verità (una virtù, peraltro, raramente coltivata dal Fatto Quotidiano), affrontare, la parte meno gradevole della decisione.

    La famiglia Travaglio è in lutto e questo, forse, spiega il silenzio del Direttore che, a suo tempo, sentenziò in anticipo che “Davigo non deve rispondere di nulla perché è riuscito a tutelare il segreto”, una difesa preventiva con inattesi sussulti garantisti che è stata smentita. Questa volta, però, la condanna, sia pure parziale non è motivo di festa come se, in base al metro di giudizio standard di Travaglio, Davigo fosse improvvisamente diventato motivo di imbarazzo, una brutta persona poiché condannato, e fosse preferibile nascondere la circostanza come quando si butta la polvere sotto al tappeto… il che non è: Piercamillo Davigo è uno con cui non avrei mai voluto avere a che fare come imputato e non è stato piacevole neppure da difensore ma non è una brutta persona tantomeno perché è pregiudicato come non lo sono tanti che lui stesso ha fatto condannare da P.M. o condannato con le sue mani quando è passato alle funzioni giudicanti.

    Un bel tacer non fu mai scritto e – detta tutta – l’ammutolimento su dettagli non secondari di questa vicenda è di gran lunga preferibile alle giustificazioni che, invece, ha ritenuto di dare il sottosegretario alla Giustizia Andrea Del Mastro Delle Vedove: uno con il cognome che evoca la fantozziana contessa Serbelloni Mazzanti Vien dal Mare ma anche in questo caso non fa per nulla ridere. Ripugna.

    Ripugna, la notizia non è nuovissima, la sua affermazione secondo la quale è una intima gioia non lasciare nemmeno respirare chi viene trasportato dal nuovo blindato della Polizia Penitenziaria riservato ai detenuti in regime di alta sicurezza o al 41 bis ritenendo che gli agenti della PolPen condividano il suo medesimo entusiasmo ad incalzare chi siede su quel veicolo. Sottosegretario, lei ha forse studiato diritto costituzionale al buio? Forse non ha mai avuto notizia che il precedente motto degli Agenti di custodia era “Vigilando redimere” che – se pure in latino fosse un po’ zoppicante come in diritto costituzionale – non ha bisogno di essere tradotto?

    Ma forse è troppo pretendere da costui che abbia anche solo sfogliato qualche pagina scritta da Cesare Beccaria o letto, figuriamoci capito, cosa sottintende l’articolo 27 della Costituzione dove afferma che le pene devono ispirarsi al senso di umanità…però, almeno qualche giornale oltre la pagina dello sport lo avrà occhieggiato, magari avrà visto un telegiornale che riportava la notizia del soffocamento da parte di agenti della polizia di Minneapolis di un nero, John Floyd, durante l’ arresto per il presunto impiego di una banconota falsa da venti dollari: un presunto innocente martoriato e ucciso senza motivo e sebbene gridasse la sua disperazione “non respiro!” perchè gli agenti, con un ginocchio premuro sul collo, facevano qualcosa che al poco Onorevole Del Mastro sembra provocare orgasmi incontenibili invece che farlo riflettere sulla circostanza che quei poliziotti sono stati processati e l’autore materiale dell’omicidio, commesso tenendo per più di otto minuti il ginocchio sul collo di Floyd che implorava pietà, è stato condannato a ventidue anni di carcere. Probabilmente ignora anche questo e con opportuno uso del participio può definirsi un ignorante.

    “Volevo dire che è alla mafia che non diamo respiro”, ha provato a giustificarsi Del Mastro: la classica pezza peggiore del buco perché quello che ha detto in una occasione pubblica ha un significato inequivocabile. Tranne per chi, oltre a Beccaria (figuriamoci Pietro Verri e Carlo Cattaneo), alla Costituzione e forse al latino, probabilmente non conosce nemmeno l’uso della lingua italiana.

  • In attesa di Giustizia: Milano, provincia di Trani

    Ci risiamo: ancora una volta un Pubblico Ministero che occulta (in questo caso non verbalizzando) prove a discarico degli indagati al fine di poterne chiedere ed ottenere l’arresto; si tratta dell’ex P.M. di Trani, Michele Ruggiero, condannato in primo grado dall’Autorità Giudiziaria di Lecce ed è la seconda sentenza dopo quella – ormai definitiva –  inflitta per i metodi di interrogatorio dei testimoni da Procura della Repubblica delle banane di cui si è interessata in precedenza proprio questa rubrica.

    Tre anni e nove mesi e, se sarà confermata la responsabilità nei successivi gradi di giudizio, la sommatoria delle pene garantiranno a Ruggiero una discreta e meritata permanenza nelle patrie galere: nel frattempo, il nostro pregiudicato (perché tale è a tutti gli effetti), pur trasferito di sede e funzioni ha continuato ad esercitare la giurisdizione nel settore civile e continuerà a farlo salvo un sussulto di dignità della disciplinare del C.S.M.. Alzi la mano chi sarebbe entusiasta se, anche solo per una bega condominiale che lo riguardi, dovesse trovarsi al cospetto di siffatto campione del diritto e delle garanzie costituzionali.

    Per come sono emersi e sono stati ricostruiti i fatti Michele Ruggiero avrebbe omesso di verbalizzare dichiarazioni testimoniali strutturalmente importanti senza le quali si giungeva ad una sintesi non corrispondente al tenore effettivo di domande e risposte che autorizzavano conclusioni ben lontane dalla realtà ed in base alle quali dei cittadini sono stati arrestati, rinviati a giudizio e ne è stata chiesta la condanna.

    La Procura di Trani, purtroppo, non è nuova a scandali di questo genere e viene da domandarsi se, paradossalmente, l’aria di mare che si respira dal Palazzo di Giustizia affacciato sull’Adriatico non risulti nociva per i Pubblici Ministeri e se è vero che una distinzione deve sempre farsi tra la Magistratura e i singoli magistrati il comportamento di alcuni di questi ultimi – non tutti, ma comunque troppi – si riflette inesorabilmente. sull’immagine e la credibilità delle istituzioni e non aiuta nemmeno annotare che, per quanto formalmente corretta sia nella sostanza irragionevole la censura da pochi giorni inflitta da un C.S.M.  (solerte e rigoroso quando vuole) al Dott.  Paolo Storari per essere disperatamente intervenuto al fine di impedire una condanna ingiusta.

    E’ un altro capitolo dell’arcinota vicenda dei verbali secretati consegnati a Davigo: sono state violate delle regole ma, sia pure con un comportamento irrituale, Storari ha onorato la funzione di organo di giustizia che deve riconoscersi al P.M.: in un clima di contrasto, ostilità intestine alla Procura di Milano, sfiducia reciproca, opinabili metodi usati e opaca gestione dell’indagine ENI – NIGERIA il cui finale è noto a tutti e più che mai ai lettori di questa rubrica.

    Grazie allo scomposto ma coraggioso intervento di questo magistrato è emerso lo spaccato inquietante di come possano malamente gestirsi le funzioni inquirenti. Da un lato il “modello De Pasquale” affine al “modello Ruggiero” e dall’altra il “modello Storari”, uno che si è adoperato in tutti i modi per convincere i suoi colleghi a depositare le prove a favore delle difese che stavano imboscando e a dissuaderli dal tentativo di usare un calunniatore professionista per delegittimare il Presidente del Collegio giudicante perché la Procura (così si è espresso Paolo Storari) “non poteva permettersi di perdere il processo ENI”… anche a costo di far perdere la giustizia.

    Per un rompiscatole ignorato, tacciato di creare un clima sfavorevole all’accusa, l’ultima spiaggia divenne rivolgersi a Davigo, sbagliando a fidarsi di lui ma – in ultimo – consentendo di scoprire un verminaio che, dopo aver perso il processo, ha definitivamente fatto perdere la faccia alla Procura.

    Milano provincia di Trani? C’è da augurarsi di no a fronte di un unico (sarà davvero tale?) per quanto grave episodio rispetto alla recidiva reiterata e specifica della Procura pugliese ma c’è da augurarsi una volta di più che abbia torto Davigo quando dice che non ci sono innocenti ma solo colpevoli che la fanno franca.

  • In attesa di Giustizia: ossimori

    Il rischio è quello di sembrare ripetitivi ma una saga è scandita in più puntate, come quella del processo truccato noto come “ENI NIGERIA” riguardante – secondo la Procura di Milano – una mazzetta di entità mai vista ed impareggiabile in un raggio esteso sino ai confini della galassia, caso mai girassero tangenti anche su Nettuno e Plutone.

    Ne abbiamo ricordato alcuni passaggi ed evoluzioni nel numero della settimana scorsa e proprio in questi giorni sono state depositate le motivazioni delle condanne a otto mesi di reclusione dei P.M. Spadaro e De Pasquale, ormai protagonisti assoluti di questa rubrica: motivazioni che fanno riflettere.

    Non v’è dubbio che l’Autorità Giudiziaria di Brescia, competente per i reati attribuiti a magistrati di Milano, non si sia lasciata condizionare dall’altisonanza dei nomi iscritti sul registro delle notizie di reato né si sia fatta scrupoli nel rinviare a giudizio e pronunciare condanne ma…una differenza si nota proprio nelle motivazioni: implacabili con Davigo, ormai in pensione, e – invece –  vagamente contraddittorie in alcuni passaggi della “sentenza De Pasquale”, ancora in servizio come Spadaro, si direbbe quasi in ossequio al noto principio “cane non mangia cane”.

    Nella decisione bresciana è dato leggere, infatti, che De Pasquale e Spadaro nel processo a carico dei vertici dell’ENI hanno selezionato “chirurgicamente” gli elementi a favore della loro tesi stralciando quelli a discolpa degli indagati deliberatamente tacendo l’esistenza di risultanze investigative  in palese ed oggettivo contrasto con i portati accusatori e ciò nonostante le esortazioni contrarie ricevute da altro magistrato in servizio presso la medesima Procura, Paolo Storari, che chiedeva – anche per iscritto con e-mail acquisite al giudizio e richiamate nella sentenza – di utilizzare i verbali da cui risultava che il grande accusatore dei manager ENI fosse un calunniatore…verbali che De Pasquale  chiese che venissero “chiusi in un cassetto” perché ritenuti irrilevanti. Il Tribunale di Brescia ricorda che al P.M. non compete una simile valutazione arrogandosi una sfera illimitata di insindacabilità: è al giudicante che spetta ogni considerazione sulla rilevanza, affidabilità delle prove ed il conseguente impatto sul giudizio finale.

    La sentenza di cui si tratta riporta nel dettaglio le prove “truccate” utilizzate nel processo Paolo Scaroni + Altri a partire dalla perizia su una chat attribuita all’AD di ENI che ne dimostrava la falsità, opportunamente esclusa dal fascicolo, alla “dimenticanza” della corruzione di un teste nigeriano da parte di Vincenzo Armanna (sempre lui!) per affermare il falso contro gli amministratori dell’azienda petrolifera per tacere, infine, del tentativo di far deporre costui per screditare lo sgradito Presidente del Tribunale che li stava giudicando facendolo apparire come corruttibile dai difensori degli imputati.

    Un quadro inquietante, stomachevole, preoccupante per qualsiasi cittadino che dovesse anche lontanamente temere di finire nel tritacarne di questa…chiamiamola giustizia, senza offesa per la Dea Temi. Il Tribunale di Brescia definisce oggettivamente gravi questi comportamenti da parte dei P.M. milanesi ma subito dopo riconosce incomprensibilmente una buona fede di cui, negli elementi a carico che abbiamo sintetizzato (e non sono nemmeno tutti) non vi è traccia. E’ dato leggere che “tutto ciò non significa che si sia inteso perseguire ingiustamente degli innocenti e, quantomeno all’inizio, potevano esserci elementi investigativi che giustificavano il sospetto”. Già, all’inizio…ma poi? Quando si sono palesate evidenze contrarie al teorema accusatorio sono state cestinate ed allora il sospetto che si alimenta è ben altro.

    Ma quale buona fede, ma mi faccia il piacere! Direbbe il Principe De Curtis, il Tribunale di Brescia invece sembra tentare di salvare il salvabile anche sostenendo che la oggettiva gravità delle condotte è attenuata dalla incensuratezza e che è ragionevole aspettarsi per il futuro la cessazione di comportamenti illeciti: a prescindere che con la legislazione attuale l’incensuratezza come valore fruibile per attenuare la responsabilità penale non potrebbe essere utilizzata neppure per nostro Signore prima di crocifiggerlo, aspettarsi che un servitore dello Stato si astenga in futuro dal commettere altri reati è il minimo sindacale, anzi, non avrebbe dovuto commetterli neanche prima e  proprio per le qualità personali, il ruolo e la funzione svolta, lo spergiuro sulla costituzione, quelli già commessi “oggettivamente gravi” dovrebbero essere sanzionati con significativo rigore e non con una pena molto vicina al minimo previsto dal codice.

    Leggendo la sentenza di cui è stato offerto un sunto sembra di poter ricavare due conclusioni: che questa volta non dovrebbero esserci colpevoli che l’hanno fatta franca nonostante una tendenza nel finale al cerchiobottismo e gli “ossimori scomposti” della motivazione. In fondo anche questa volta cane non mangia cane, però qualche morso pur sempre fastidioso è stato dato…morsi che De Pasquale e Spadaro non sono riusciti a dare al cane a sei zampe nemmeno barando.

  • In attesa di Giustizia: autunno caldo

    Ennesima puntata della saga milanese del processo truccato per far condannare qualcuno a tutti i costi: dopo Davigo, condannato dal Tribunale di Brescia – sentenza confermata dalla Corte d’Appello – per l’ uso disinvolto di atti secretati che neppure avrebbe dovuto ricevere e De Pasquale, condannato, appunto, per aver occultato prove a discarico di imputati, tutti assolti a prescindere da questa innocente malizia (figuriamoci che sostanza poteva avere l’accusa…) ora tocca al terzo protagonista dell’articolata vicenda: Paolo Storari P.M. a Milano, che era stato assolto in sede penale per mancanza di dolo dall’accusa di rivelazione di segreto di ufficio avendo indebitamente spedito quei documenti d’indagine proprio a Davigo.

    Ora, per la medesima ragione è “sotto schiaffo” della giustizia del C.S.M. perché il suo agire integrerebbe comunque un illecito disciplinare ed è stata fatta una richiesta di sanzione tutto sommato modesta: la perdita di un anno di anzianità con conseguenze contenute solo sul piano del progresso in carriera e stipendiale.

    Nel chiederne la condanna, la Procura Generale della Cassazione ha argomentato che il comportamento di Storari è di assoluta gravità e che affermare il contrario sarebbe un precedente pericolosissimo per la tutela dell’Ordine Giudiziario anche per la rilevanza mediatica e le ricadute in termini di immagine dell’Ufficio Giudiziario dove lavora e delle persone menzionate in quei verbali…sarà, ma allora che dire di De Pasquale che è ancora al suo posto e che proprio di quegli atti avrebbe voluto fare uso in altro processo, brigando insieme al collega Spadaro sputtanando un collega? Se le condotte di Storari sono così gravi solo per aver contribuito a scoperchiare il vaso di Pandora su una stomachevole combine per mandare in galera degli innocenti che giudizio si dovrebbe dare di chi, ad oggi, risulta essere autore di cotanta indecenza con una dura sentenza del Tribunale di Brescia? Per molto meno il C.S.M. trasferisce tempestivamente i magistrati coinvolti in altre sedi ad occuparsi di ben altre cose che della vita e della libertà dei cittadini. Quanto al discredito all’ufficio giudiziario in cui lavora lo ha provocato Storari o chi, come sembra, ha dimenticato il giuramento fatto sulla Costituzione al momento di assumere le funzioni di magistrato?

    Nel giudizio disciplinare, secondo quanto riferito proprio da Storari è emerso che De Pasquale e Spadaro volevano “togliere di mezzo” lo sgradito Presidente del Tribunale, Tremolada, che stava giudicando il loro processo truccato facendovi deporre un celeberrimo mentitore come il pluripregiudicato avvocato Amara per fargli dire, parlando delle accuse pencolanti a carico dei vertici dell’ENI, che quel Presidente era stato avvicinato da almeno due avvocati per “aggiustare il processo”, informazione che – peraltro – Amara aveva ottenuto di seconda se non terza mano e senza nessuna possibilità di fare verifiche sulla genuinità della fonte.

    Autunno caldo, rovente, per la Procura di Milano e chi scrive, come cittadino, non può commentare altrimenti che questa montagna di porcherie dà il voltastomaco; come avvocato – che non solo predica ma pratica la presunzione di non colpevolezza – fa dire che il giudizio deve essere sospeso in attesa della verità affermata dalle sentenze quando saranno definitive.

    Tuttavia, se all’esito del terzo grado di giudizio questi fatti fossero confermati, altro che promuovere Spadaro alla Procura Europea e limitarsi a retrocedere De Pasquale da Procuratore Aggiunto a semplice Sostituto: in questo caso, il cittadino e l’avvocato vorrebbero vederli in galera, là dove (forse) provavano a mandare degli innocenti e dove qualcuno, in passato, ha preferito chiudere la partita infilandosi un sacchetto di cellophane sulla testa.

    Arriveranno querele per queste considerazioni? Quasi c’è da augurarselo: sarebbe una interessante disfida in Tribunale tra l’arroganza e la voce della libertà e delle garanzie. Basta che non trucchino le carte.

  • In attesa di Giustizia: l’Italia è una repubblica fondata sui dossier

    Chi ricorda di aver almeno mai sentito nominare il Generale Aldo Beolchini…nessuno, vero? E’ stato – tra le tante cose –  Presidente del Consiglio Superiore delle Forze Armate e, per quello che qui interessa, Presidente della omonima Commissione promossa dal Ministro della Difesa Tremelloni nel 1967 per indagare sulle attività “deviate” del SIFAR diretto dal Generale Giovanni De Lorenzo: sigla dei servizi segreti e nome dell’ufficiale in comando  di cui è, probabilmente, più facile avere memoria per il coinvolgimento nel progetto di golpe denominato “Piano Solo”, la cui realizzazione era stata preceduta da una ricchissima raccolta di dossier su esponenti del mondo politico ed economico. Si parla di oltre 150.000 personaggi pubblici (tra i quali, pare, anche il Papa) dei quali si è analizzata ogni caratteristica, dalle tendenze politiche, alle preferenze in materia di vini, passando per quelle sessuali, amanti reali o presunte ed è curioso (forse non più di tanto) il fatto che Confindustria, in quegli anni, condividesse una “casa sicura” del SIFAR in via del Corso, a Roma con un enigmatico ente interessato alle Applicazioni Tecniche.

    La Commissione Beolchini avrebbe dovuto, poi, procedere alla distruzione di quei dossier ma a causa di non meglio precisati inceppamenti della macchina burocratica ciò non avvenne e, di governo in governo fino al 1974, l’operazione è stata rimandata ed a tutt’oggi non è chiaro se tutto il materiale sia stato effettivamente distrutto e che utilizzo ne sia stato fatto, fermo restano che – fino a quando non è stato tolto il segreto di Stato e la documentazione trasmessa alla Commissione Parlamentare Stragi – anche il lavoro di chi aveva investigato su quella monumentale attività di dossieraggio è rimasta in penombra: quei fascicoli (alcuni mastodontici) costituivano la prima esperienza “repubblicana” di una risalente tradizione italica, basti pensare che buona parte del materiale informativo dell’OVRA era transitato pari pari all’Ufficio Affari Riservati del Ministero dell’Interno e che le finalità non potevano essere che ricattatorie.

    Nel frattempo anche una struttura denominata Servizio di Sicurezza, interna proprio al Viminale, aveva avviato analoga iniziativa di raccolta dati…di anno in anno, da un dossieraggio all’altro si è arrivati fino allo “scandalo Telecom” concluso con la scelta di un capro espiatorio, Giuliano Tavaroli, Vice Presidente dell’azienda con delega alla sicurezza, a pagare per tutti un’altra gigantesca opera di raccolta informazioni di cui – evidentemente – non se n’era e non se ne sarebbe fatto nulla a titolo personale. Ma perché con le indagini non si è andati oltre alle apparenze, è forse possibile che si rischiasse di toccare affettuosi amici e amici degli amici delle Procure?

    E che dire dei curiosoni della Direzione Nazionale Antimafia? Le indagini, forse, diranno chi è stato realmente coinvolto, chi eventualmente sapeva e avrebbe dovuto impedire quelle investigazioni illegali, se qualcuno le ha disposte da un rango superiore e – soprattutto – a che fine, su mandato di chi? Qualcuno ci crede che si arriverà a tanto, che interessi davvero scoprire mandanti e beneficiari?

    Chissà mai che non si rilevi, alla fine, una connessione con l’agenzia Equalize che pare realizzasse consulenze aziendali molto particolari la cui attività è emersa nel corso di indagini proprio su quella criminalità organizzata che è oggetto di attenzione della DNA e della DIA…e i numeri dei dossier, delle persone passate ai raggi X cresce con il potenziale aumentato degli strumenti di controllo: sembra che persino farsi un cafferino sia diventato rischioso perché qualcuno ti osserva e ascolta attraverso la macchinetta dell’espresso.

    Orwell, in fondo, ci aveva visto lungo con il suo “1984” non potendo immaginare che tecnologie future avrebbero reso ancor più inquietante e realistico quello scenario distopico di fantapolitica: persino il tanto vituperato Luca Palamara è stato vittima di dossieraggio perché altrimenti non si può definire una intercettazione con captatore informatico disposta su basi giuridiche inconsistenti, acceso e spento secondo le convenienze e con riversamento dei file audio in server esterni alla Procura di Perugia nei quali hanno potuto mettere le mani (e le orecchie) in chissà quanti.

    In questo preoccupante intreccio di interessi oscuri, spie e dossierati, l’immagine che si ricava è quella di un intero Paese che vive “sotto schiaffo” di qualcuno.

    La storia più recente dimostra la primazia che sta acquisendo la SIGINT, la signal intelligence rispetto alla quale nessuno è più al sicuro: l’indagine della Distrettuale Antimafia della Procura Milanese – tra l’altro – evidenzia un preoccupante buco laddove dagli atti risulta che diversi reati di accesso abusivo alle banche dati sarebbero stati commessi “in concorso con quattordici pubblici ufficiali non identificati”, un accadimento tecnicamente impossibile perché per quegli accessi è necessario inserire le proprie credenziali e siccome nella richiesta di misura cautelare i P.M. non accennano a verifiche in corso per dare un nome e un volto a costoro, gli scenari che si possono dedurre sono molto preoccupanti.

    Infatti, o manca la volontà di individuare questo nutrito gruppo di infedeli servitori dello Stato oppure in alternativa si può pensare ad una gestione approssimativa degli accessi alle banche dati e controlli interni all’acqua di rose che consentano ai responsabili di restare ignoti.

    L’ultima eventualità è forse la più probabile e più inquietante: che si tratti di agenti dei servizi segreti ed in questo caso l’attesa di giustizia sarebbe subordinata ad imprevedibili sviluppi.

  • In attesa di giustizia: facce da tribunale

    I lettori di questa rubrica si sono abituati ad avere un po’ l’amaro in bocca dopo aver letto il resoconto settimanale – e neppure completo – dello sprofondo in cui giace il nostro sistema – giustizia tra legislazione sciatta e giurisdizione approssimativa, per usare garbati eufemismi.

    Questa settimana la scelta è stata quella di fare autopromozione di un mio libro che è in uscita nei prossimi giorni e che racchiude le memorie – anche queste non complete – di una lunga vita professionale: un racconto scandito in capitoli che non sono una sequenza narrativa ma hanno un fil rouge: la memoria, appunto, di chi ha conosciuto quei personaggi (la maggior parte dei quali rinominati con nomi di fantasia e contesti leggermente mutati per evidenti ragioni) ha vissuto quelle storie in prima persona e ne ha distillato una raccolta per descrivere il cui contenuto è bene lasciare la parola al mio straordinario editore, Brenno Bianchi e alla bravissima editor Ilaria Iannuzzi che del libro hanno curato la sinossi.

    Il Marchese di Popogna, chi era costui? Lo si scoprirà avventurandosi un capitolo dopo l’altro in questa galleria di “facce da tribunale: imputati, magistrati, cancellieri, avvocati veri e improvvisati.

    Il lettore viene scortato nei vicoli labirintici dei palazzi di giustizia ad incontrare artisti della truffa in abito talare, eleganti falsari specializzati in cartamoneta coloniale ed impeccabili baciamano, colleghe trascinate in improbabili storie di spionaggio sullo sfondo degli Champs Elysèes…aneddoti di una carriera che ha attraversato decenni della storia giudiziaria del nostro Paese: dai tempi perduti della mala milanese, fatta di rapinatori audaci alla guida di auto truccate e contrabbandieri ammantati di romantica ribalderia, all’era delle pec e delle udienze celebrate on line in cui Pretori e Cancellieri si sono dileguati insieme alla ligèra e alla schighèra.

    Con penna sempre brillante e intinta di fine ironia, l’autore intesse una narrazione fatta di episodi leggeri, talvolta paradossali, così come di vicende umane intense, fino ad aprire una finestra sulla speranza che deve assistere l’uomo anche quando si è macchiato di un crimine.

    Tra tanti racconti sorprendenti, ricordi toccanti e qualche burla, Il Marchese di Popogna ed altre storie è un’incursione in un mondo affascinante, un mondo adiacente al nostro, popolato da veri e propri caratteristi che rivelano il lato umano e non da tutti conosciuto della Giustizia.

    I lettori mi scuseranno per questa scelta di fare “consigli per gli acquisti” offrendo loro l’anteprima di uno scritto personale ma, proprio arrivando in fondo al lavoro mi sono reso conto di un aspetto non banale: la maggior parte dei personaggi e degli eventi appartengono a prima della Guerra dei Trent’anni, quella iniziata con Mani Pulite ed ancora non vede una fine e che ha visto opposte una politica debole ed una magistratura debordante occuparne gli spazi lasciati liberi, con buona pace del principio della separazione dei poteri dello Stato.

    Forse, leggendo quel libro, il non addetto ai lavori, insieme ad un sorriso potrà coltivare la speranza che quel tempo, quello che Brenno e Ilaria definiscono “della Giustizia dal volto umano”, non sia perduto per sempre: noi siamo ciò che siamo stati e il culto della memoria è il miglior viatico per guardare con rinnovato ottimismo ad un futuro.

    In attesa di Giustizia.

  • In attesa di Giustizia: gratta e… perdi

    Negli ultimi giorni Nicola Gratteri, Procuratore Capo di Napoli, si è scatenato emettendo autentiche grida manzoniane con le quali preannuncia che spezzerà le reni all’abusivismo edilizio nei Campi Flegrei facendo radere al suolo le abitazioni illegalmente costruite e disseminerà tutta la provincia di telecamere di sorveglianza: tutto molto giusto, perché, se l’abusivismo edilizio è un fenomeno da contrastare fermamente in territori a rischio, lo è a maggior ragione nelle solfatare in un periodo storico in cui l’attività sismica costituisce un concreto pericolo per l’incolumità della popolazione residente in strutture prive dei necessari standard di sicurezza.

    Anche la estensione della rete di videosorveglianza è un’esigenza avvertita in zone ad elevata densità criminale per fronteggiare l’evolversi delle iniziative delinquenziali per le quali non sono più sufficienti gli storici servizi di OCP (Osservazione, Controllo e Pedinamento) delle Forze dell’Ordine i cui ranghi sono inadeguati ad assicurarli attese le aumentate dimensioni della realtà delinquenziale e le molteplici funzioni di istituto già assegnate a Polizia e Carabinieri che sottraggono risorse umane ai pedinamenti che richiedono, oltretutto, notevole attitudine.

    Tutto molto giusto, ma la domanda è: ci sono i fondi? Regione Campania e Comune di Napoli ne hanno stanziati proprio per la installazione di telecamere ma non è chiaro se siano destinati ad implementare la rete o a sostituire quelle obsolete o guaste; quanto agli abbattimenti, che ne sarà degli abitanti di quelle case che di un tetto hanno comunque bisogno?

    Non bastano gli annunci: servono progettualità, dati concreti, come direbbe un imprenditore avveduto un business plan, altrimenti con le chiacchiere stiamo a zero…e di chiacchiere Gratteri ne riempie i giornali, gli eventi cui partecipa, le trasmissioni televisive cui è invitato ma mai una volta che qualcuno gli chieda conto dei disastri che ha combinato. O che lui ne faccia ammenda.

    Chissà, per esempio, come commenterebbe una delle sue ultime intraprese prima di lasciare la Procura di Catanzaro per quella di Napoli: la solita indagine celebrata con squilli di tromba, nel 2021 al momento delle manette per otto persone accusate di associazione a delinquere finalizzata allo smaltimento illecito di rifiuti, investigazioni che coinvolsero anche l’ex vice governatore della Calabria Antonella Stasi ed un gruppo di cui era al vertice con quarant’anni di storia ed oltre quattrocento dipendenti: secondo i P.M., Gratteri in testa, alimentava un impianto di biogas con biomasse di origine vegetale e animale  in modo non conforme alla normativa e smaltiva illecitamente i rifiuti conseguendo, tra l’altro, incentivi pubblici non dovuti.

    Non bastando le misure cautelari, la GdF sequestrò beni per quasi quindici milioni di euro e l’azienda venne posta sotto amministrazione giudiziaria con al timone il solito commissario giudiziario completamente analfabeta delle capacità gestionali indispensabili per mandare avanti una simile realtà: del resto, abbiamo visto che di business plan Gratteri per primo non se ne intende.

    Gratt…e perdi ed è’ storia recentissima, solo l’ultima di troppe: gli imputati, per i quali già il Tribunale della Libertà aveva subito annullato le misure cautelari, sono stati tutti assolti ma l’azienda è stata portata sull’orlo del fallimento, i licenziamenti e l’accumulo di debiti con i fornitori non si contano e rimetterla in sesto non sarà una passeggiata di salute. Per le ingiuste detenzioni esiste la riparazione del danno in termini economici ma per il provocato ed ingiusto dissesto di un’impresa, la perdita di posti di lavoro e di chances, grazie anche alla incapacità di coloro cui è stata affidata, non vi sono rimedi, la legge nulla prevede e chissà se Gratteri definirebbe grottesca una norma a tutela delle imprese di tal senso come ha fatto parlando della recente stretta normativa sull’adozione delle misure restrittive personali che rischia di guastargli il divertimento preferito: di grottesco, per ora, rimane la maschera con cui, in talune Procure, si continuano a celebrare fallimenti investigativi annunciati.

  • In attesa di Giustizia: arrestateli!

    Forse non servivano ulteriori conferme di una esondazione della magistratura dai propri compiti istituzionali perimetrati dal principio costituzionale della separazione dei poteri e dalla guarentigia di indipendenza: potevano bastare, dopo le ragionevoli intuizioni maturate dai primi anni ’90, le confidenze di uno dei componenti del collegio della Cassazione (composto con modalità abnormi in pieno periodo feriale) che confermò, rigettando il ricorso, l’unica condanna di Silvio Berlusconi con la conseguente applicazione della “Legge Severino”, implicando la sua immediata decadenza da parlamentare.

    Se mai qualcuno avesse avuto dei dubbi sulle implicazioni, sottostanti alle affermazioni di quel giudice passato nel frattempo a miglior vita ed alla loro genuinità, il libro-intervista firmato da Sallusti e Palamara tra le tante ragioni di inquietudine rassegna il contenuto di una conversazione intercettata in cui, in sostanza, si dice che – seppur con imputazioni azzardate – Salvini va fermato ad ogni costo: la contiguità subalterna ad una parte politica è indiscutibile.

    La corrispondenza mail intercorsa tra magistrati, diciamo progressisti per evitare almeno qualche querela, che rappresenta la preoccupazione di trovare un metodo per “fermare” un Presidente del Consiglio senza scheletri nell’armadio segna, peraltro, uno dei momenti più bui della lunga notte della Repubblica.

    Il linguaggio impiegato nelle mail, pur correndo sul filo del rasoio, è attento ad evitare l’evidenza di un reato o dell’istigazione a commetterne uno: sono pur sempre magistrati e sanno come esprimersi, un po’ meno si possono definire servitori dello Stato, ma – senza neppure forzare troppo la mano – ce ne sarebbe abbastanza per iscrivere gli autori sul registro delle notizie di reato e approfondire in che modo si stia incitando i propri sodali a porre in essere attività volte a sovvertire l’ordine costituzionale per una volta tanto frutto del voto dei cittadini.

    Ce n’è di sicuro abbastanza per promuovere un disciplinare ma è improbabile che lo faccia il Procuratore Generale della Cassazione visto che uno dei più scalmanati è uno dei suoi colleghi di Ufficio; si può sempre confidare nel Ministro della Giustizia che, pare, abbia già interessato il C.S.M.

    Sarebbero tutti da arrestare ma non nel senso che intendono le Signorie Loro, tanto affezionate al tintinnare delle manette, ma in quello di arginare l’impunito strapotere di cui si stanno appropriando e nutrendo: se non ora, che l’indice di fiducia della magistratura segna i minimi storici, quando? C’è da temere mai.

    Servirebbero una politica diversa, che non si sia indebolita da sola modificando l’articolo 68 della Costituzione dopo averne abusato, e un Ordine Giudiziario che sappia sedere educatamente al tavolo delle istituzioni, stando al suo posto.

    Servirebbero dei pubblici funzionari, dunque anche tutti i rappresentanti eletti, che abbiano almeno letto una volta l’articolo 54 prendendo consapevolezza che le loro mansioni vanno svolte con disciplina e onore.

    E se qualcuno sembra che sia venuto meno ai propri doveri, si tenga pure lo stipendio purchè sia messo in condizione di non nuocere, se non altro fin quando le sue responsabilità non siano confermate o escluse: e fa specie – ma non poi così tanto – che il C.S.M. garantisca la poltrona a magistrati condannati già in primo grado…un po’ a seconda della corrente di appartenenza, questo è anche vero…mentre un sindaco rischia di essere destituito grazie alla Legge Severino solo perché ha autorizzato un ristorante alla realizzazione di una veranda sospettandosi un retrostante fatto corruttivo e prima ancora che siano concluse le indagini.

    Questioni di opportunità suggeriscono che i partecipanti ad una mailing list, chiaramente sovversiva, invece che sedere in Cassazione o in qualche ruolo di prestigio e potere, pur nel rispetto del principio di non colpevolezza, dovrebbero essere spediti velocemente ad ammortare cambiali nella sezione distaccata di Tribunale di Capracotta.

    E dire che fu proprio Davigo ad affermare che “i politici che delinquono vanno mandati a casa prima del giudizio definitivo”: perché i magistrati, no, allora, seguendo questo giacobino ragionamento? Non vale anche per costoro l’articolo 54? Forse no, o forse la presunzione di non colpevolezza per costoro è più intensa? E l’A.N.M. si faccia una ragione che l’Ordine Giudiziario non è più in grado di ammantarsi di quella cultura della giurisdizione rispetto alla quale, a troppi magistrati, manca l’alfabeto di base.

  • Palese mancanza di giustizia

    Una volta ancora pericolosi aderenti alla organizzazione mafiosa sono stati scarcerati per decorrenza dei termini.

    Il problema giustizia, nel senso più pieno della parola, rimane uno dei più gravi problemi italiani, non abbiamo remore a sostenere che è delittuoso tenere in carcere delle persone per anni senza fare loro il processo per accertare la verità e che è altrettanto delittuoso che da tempo, e sempre più spesso, riottengano la libertà, per decorrenza dei termini, persone che sono state messe in carcere perché sospettate, a buon ragioni, di delitti gravissimi.

    In questa ultima occasione hanno ritrovato la libertà dieci complici di Messina Denaro, il famoso boss trapanese, i fiancheggiatori del quale, dopo il suo arresto, non sono stati ancora tutti identificati.

    Far uscire dal carcere per decorrenza dei termini individui sospettati di gravi misfatti non solo è una palese mancanza di giustizia ma anche il modo per far sentire sempre più insicura la società e sempre più arroganti, impunite le associazioni criminali.

    La politica dovrebbe finalmente è più seriamente interpellarsi sui motivi di questo mal funzionamento del sistema giustizia in Italia e correre, senza ulteriore indugio, ai ripari tenendo anche conto di una ulteriore pericolosa conseguenza e cioè quella di demotivare le Forze dell’Ordine che con tanta dedizione, e spesso sprezzo del pericolo, arrestano pericolosi malviventi che poi, senza processo, sono rimessi in libertà.

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