Politica

  • Gli scenari di guerra

    La Cina, in risposta al divieto statunitense di esportatore tecnologia verso centoquaranta aziende operanti in Cina ed in particolare con azionariato cinese in vigore dal 31.12.2024, ha deciso di fermare le esportazioni di terre rare (gallio germanio ed antimonio) le quali soni fondamentali per la realizzazione di semiconduttori.

    Questo ennesimo episodio di “rappresaglia commerciale” rappresenta l’ultimo atto di un conflitto politico e strategico che sta definendo lo scenario bellico che vedrà sempre più contrapposte le due vere superpotenze mondiali: Stati Uniti e Cina.

    Proprio questo conflitto dalle dimensioni e ripercussioni simili ad un conflitto nucleare riduce ogni altro scenario di guerra in corso a semplici fattori strutturali e specifici ma soprattutto funzionali alla strategia bellica complessiva.

    In particolare lo scenario del conflitto russo ucraino acquisisce all’interno della nuova strategia statunitense un valore strategico fondamentale. Le prime bozze del piano di pace che sembra l’amministrazione Trump proporrà ai due contendenti si potrebbero sintetizzare in un congelamento delle posizioni attuali, la nascita di una zona cuscinetto ed il divieto per l’Ucraina di aderire alla Nato valevole per i prossimi vent’anni. L’obiettivo dell’amministrazione americana, quindi, risulta quello di concedere a Putin, in considerazione anche dell’impossibilità dell’Ucraina di resistere a lungo, un parziale riconoscimento delle proprie ambizioni territoriali.  Una concessione che ovviamente non terrebbe in alcuna considerazione le responsabilità dello stesso conflitto, ma avrebbe l’importante funzione di allontanare la Russa dall’alleanza dell’ultimo periodo imbastita con la Cina.

    Sul fronte opposto, ma non meno importante, la scelta di rinominare il medesimo mediatore che riuscì a creare le condizioni per un incontro tra i leader della Corea del Nord ed il presidente Trump va intesa nella medesima ottica in quanto la sua nomina risulta funzionale ad una volontà di creare un progressivo, anche se solo parziale, isolamento della Cina sul versante coreano.

    Nel sentiment statunitense, infatti, viene considerata molto probabile l’apertura di un nuovo scenario bellico, e non solo commerciale, che dovrebbe coinvolgere la Cina e Taiwan. Quest’ultima rappresenta una realtà fondamentale nell’economia mondiale per la propria produzione di microchip, molto spesso con capitali statunitensi.

    Tornando al divieto di export delle terre rare, deciso appunto in risposta dalle autorità cinesi alla politica statunitense, sarebbe allora interessante capire se esista una minima percezione e consapevolezza da parte delle autorità istituzionali, politiche, strategiche ed economiche dell’Unione Europea in relazione alle conseguenze che si potrebbero determinare con il mantenimento delle posizioni europee in uno scenario strategico e politico nuovamente polarizzato da Stati Uniti e Cina. In altre parole, se sia “possibile e sostenibile” il mantenimento delle strategie ideologiche ambientaliste completamente svincolate dal contesto internazionale verso una elettrificazione della mobilità, e quindi una diretta dipendenza dall’export cinese, che sicuramente determinerà una riduzione dell’indipendenza politica ed economica, quindi democratica, dell’Unione europea.

    I termini del nuovo confronto, o meglio del nuovo conflitto mondiale, non saranno più determinati, come in passato, da una divisione tra due blocchi, occidentale ed orientale, ma tra due complesse articolazioni economiche ed istituzionali: quella statunitense e la rivale cinese.

    L’idea, quindi, di agevolare attraverso l’adozione di facilitazioni politiche e normative una “transumanza elettrica” made in China non solo rappresenta la condizione per il suicidio politico, economico ed occupazionale della stessa Unione Europea, in più potrebbe essere interpretata come una scellerata scelta di campo da parte di entrambi i contendenti.

  • Le decisioni della Corte Costituzionale sull’Autonomia Differenziata

    Ovvero un sostanziale giudizio negativo della Consulta sull’Autonomia Differenziata, che, così com’è, non è compatibile con il dettato Costituzionale.

    Finalmente l’attesa decisione che conferma l’incostituzionalità della norma in così tanti punti che, di fatto, equivalgono quasi ad una totale abrogazione.

    Calderoli, come sempre quando è a corto di argomenti, ha appena dichiarato che la Corte Costituzionale ha dato un complessivo giudizio positivo alla legge (?), chiedendo la modifica di alcuni aspetti della stessa (?), per le quali saranno presto trovati i correttivi in Parlamento (?).

    Affermazioni propagandistiche e bugiarde per nascondere la polvere sotto il tappeto. In realtà la Corte Costituzionale ha fatto un ottimo lavoro, individuando una lunga serie di incostituzionalità che hanno demolito totalmente la legge, e non sarà per niente facile apportare modifiche alla stessa, anche perché l’obbiettivo principale della norma, e cioè il mantenimento nei territori delle regioni ricche delle risorse erariali versate dai contribuenti, ne esce totalmente devastato.

    Fine della storia, con buona pace di chi ha tentato l’assalto alla diligenza delle risorse erariali dello stato.

    Tornando alla decisione della Consulta, non è facile dedurre i particolari da un comunicato stampa, essendo possibile ogni doveroso approfondimento solo dopo che saranno depositate nel dettaglio le decisioni della sentenza.

    Ma dal comunicato emergono con chiarezza alcune questioni che erano state al centro delle critiche sulla legge di attuazione dell’Autonomia Differenziata, e motivo di scontri politici e accuse di volere favorire le regioni opulente del Nord, a discapito del resto del Paese.

    Ed è questo il punto che la Corte Costituzionale ha indicato come incostituzionale e cioè la violazione dell’art. 116, terzo comma, della Costituzione che deve essere interpretato nel contesto della forma di Stato italiana, e cioè che ogni provvedimento adottato, come ad esempio l’autonomia differenziata, deve essere rispettoso dei principi dell’unità della Repubblica, della solidarietà tra le regioni, dell’eguaglianza e della garanzia dei diritti dei cittadini, oltre che dell’equilibrio di bilancio.

    Calderoli e compagni hanno fatto l’esatto contrario con questa legge, mettendo a rischio la solidarietà tra le regioni, l’eguaglianza e la garanzia dei diritti dei cittadini, gli equilibri di bilancio e soprattutto i principi di Unità della Repubblica.

    Da qui la Corte costituzionale ha ritenuto che la distribuzione delle funzioni legislative e amministrative tra i diversi livelli territoriali di governo, in attuazione dell’articolo 116, terzo comma, non debba corrispondere all’esigenza di un riparto di potere tra i diversi segmenti del sistema politico, ma debba avvenire in funzione del bene comune della società e della tutela dei diritti garantiti dalla nostra Costituzione. Quindi, a tal fine, individua nel principio costituzionale di sussidiarietà la regola fondamentale di distribuzione delle funzioni tra Stato e regioni.

    Da qui le diverse cause di incostituzionalità individuate:

    In merito alle intese tra Stato e Regioni, insieme alla successiva legge di differenziazione nel trasferimento delle nuove materie, la devoluzione delle materie da specifiche funzioni legislative non può prescindere da specifiche funzioni legislative e amministrative e deve essere giustificata, in relazione ad ogni singola regione, alla luce del principio di sussidiarietà;

    In merito alla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni (LEP) concernenti i diritti civili e sociali, occorre che siano prima definiti idonei criteri direttivi, con la conseguenza che la decisione sostanziale deve essere rimessa nelle mani del governo, il che limita il ruolo costituzionale del Parlamento,

    La determinazione dell’aggiornamento dei LEP non può essere effettuata da un decreto (DPCM) del Presidente del Consiglio;

    Così come è incostituzionale la procedura prevista dalla legge n. 197 del 2022 (legge di bilancio per il 2023), per la determinazione dei LEP con DCPM, fino all’entrata in vigore dei decreti legislativi per definire i LEP;

    Va eliminata la possibilità di modificare con decreto ministeriale le aliquote della compartecipazione al gettito dei tributi erariali per finanziare le funzioni trasferite, in caso di scostamento tra il fabbisogno di spesa e l’andamento dello stesso gettito;

    Va eleminata la facoltatività, piuttosto che la doverosità, da parte delle regioni destinatarie della devoluzione, del concorso agli obiettivi di finanza pubblica, con conseguente indebolimento dei vincoli di solidarietà e unità della Repubblica;

    Va eliminata la parte in cui nella legge dell’Autonomia Differenziata prevede una procedura per le regioni a Statuto speciale, che invece, per ottenere maggiori forme di autonomia, possono ricorrere alle procedure previste dai loro statuti speciali;

    La Corte Costituzionale ha inoltre interpretato in modo costituzionalmente orientato altre previsioni della legge e ribadito che spetta al Parlamento colmare i vuoti derivanti dall’accoglimento di alcune delle questioni sollevate dalle regioni ricorrenti.

    Insomma, un parere assolutamente condivisibile che costituisce un vincolo difficilmente superabile per la copertura dei vuoti derivanti dalla sentenza.

    L’impianto della norma prevede infatti l’obiettivo di impoverire l’erario nazionale, a favore degli interessi delle regioni ricche di diventare ancora più opulente, con la trattenuta delle risorse erariali versate dai propri abitanti allo Stato, ed è proprio questo aspetto ad essere stato di fatto del tutto smantellato dalle varie incostituzionalità.

    La possibilità quindi di “colmare i vuoti” appare del tutto impossibile stando così le cose, e Calderoli non credo abbia strumenti per superare tale impedimento.

    Il referendum abrogativo a questo punto appare chiaro che non si terrà, mentre occorre mantenere il massimo di attenzione e vigilare sule intenzioni di come vorrà procedere la maggioranza di governo su ciò che resta del provvedimento, che così com’è non produrrà alcun processo di Autonomia Differenziata, ma in compenso grazie alla Consulta sono stati restituiti in pieno i valori, i principi ed i diritti Costituzionali all’intero Paese.

  • La crisi economica rappresenta l’elemento di “coesione” nazionale

    Novecentoquindici sono i chilometri che costituiscono la distanza tra lo stabilimento Bosch di Bari e quello di Quero, in provincia di Belluno. Queste due realtà economiche e occupazionali, tuttavia, risultano molto più vicine di quanto la lunga distanza possa far pensare. Entrambi gli stabilimenti, infatti, rientrano all’interno di un articolato piano di ristrutturazione industriale e conseguente riduzione del personale che la tedesca Bosch sta attuando per affrontare la crisi del settore Automotive.

    In questo drammatico contesto sociale esplode per l’ennesima volta la questione di una presunta legittimità relativa al progetto di autonomia regionale, per la quale il 22 ottobre 2017 era stato istituito un referendum nel quale la maggioranza dei veneti dimostrò il proprio consenso.

    Da allora sono passati sette anni caratterizzati da:

    . il covid

    . l’esplosione dei costi energetici

    . perdita del potere di acquisto delle famiglie per l’inflazione esogena

    . inflazione dei beni alimentari

    . la guerra Russo Ucraina

    . il PNRR

    . la consueta esplosione della spesa pubblica

    . crescita esponenziale del debito pubblico

    . la conseguente crescita dei costi di   servizio al debito

    . inflazione relativa alla crescita della tassazione sui carburanti e bollette energetiche

    . la crisi arabo israeliana

    . le elezioni statunitensi

    Ed ancora oggi, dopo sette anni, ci si ritrova al punto di partenza con la solita contrapposizione politica, per di più  relativa alla interpretazione di quanto deciso dalla Corte Costituzionale (la cui sentenza verrà pubblicata a dicembre), mentre una pletora di esponenti istituzionali continuano a contrapporsi semplicemente in ragione degli schieramenti politici ed ora più che mai si dimostrano lontani dalle allarmanti aspettative della Working Class, quella che negli Stati Uniti ha votato Donald Trump.

    Sarebbe carino capire se per le quaranta famiglie di Quero, poco più di tremila anime in provincia di Belluno, a 109 chilometri da Cortina d’Ampezzo sede delle prossime olimpiadi invernali del 2026, sia più importante la diatriba giuridica che dimostra come il progetto iniziale presentato dalla regione sia, ancora oggi, soggetto ad una serie di sette correzioni fondamentali da parte della Corte Costituzionale, oppure il mantenimento del proprio posto di lavoro. In più, dopo  venti mesi di sospensione dalla realtà, di fronte alle continue e consecutive flessioni della produzione industriale, oltre un anno e mezzo, l’intero mondo della politica nazionale e veneta, come tutte le associazioni di categoria tanto industriali quanto sindacali, hanno dimostrato di  sottostimare negli effetti immediati come nel medio termine.

    Ora, invece, siamo all’interno di una crisi senza precedenti dal dopoguerra ad oggi e che potrà avere degli effetti talmente devastanti molto simili a quelli  di un conflitto nucleare.

    Francamente vedere ancora una volta tutti questi personaggi che da oltre sette anni continuano a rimpallarsi le  responsabilità relative  ad un possibile mancato raggiungimento della autonomia del Veneto diventa veramente non solo stucchevole ma soprattutto insultante per quelle persone che stanno perdendo al posto di lavoro.

    Il vero problema ora non è più l’autonomia ma la competenza di chi l’ha proposta come di chi l’ha combattuta in questi termini, entrambi espressione  di un mondo e di un  modello politico completamente assenti ed ignoranti della realtà circostante.

    Il  mondo del lavoro si trova ora in una situazione di una difficoltà senza precedenti, mentre la politica, per nulla interessata, continua a  considera la propria contrapposizione politica primaria rispetto al futuro delle famiglie investite dalla crisi economica ed occupazionale.

    In ultima analisi è decisamente paradossale come, più della contrapposizione squisitamente ideologica tra favorevoli e contrari al progetto di autonomia regionale, il vero elemento di coesione del territorio italiano venga rappresentato dalla crisi economica ed occupazionale.

  • Dalla caduta del muro di Berlino ai nuovi assetti mondiali: l’Europa si svegli

    Il 9 novembre 1989 abbiamo tutti festeggiato la caduta del muro di Berlino e la riunificazione della Germania che rappresentava anche una nuova speranza per un’Unione Europea più forte e coesa.

    A distanza di tempo rimangono ancora irrisolti i problemi dovuti alla riunificazione, non solo quelli economici, tutti gli stati europei hanno infatti, in misura diversa, contribuito a pagarne il costo, ma quelli culturali legati alla permanenza, per tanti anni, degli abitanti della Germania dell’est sotto il giogo comunista e senza conoscere il valore autentici della libertà e della democrazia.

    Oggi la Germania, per molto tempo pilastro fondamentale dell’Unione, sta vivendo una crisi preoccupante per i risvolti interni ed esterni: formazioni politiche estremiste, crisi di governo, riduzione della crescita sono problemi che, assommati a quelli derivanti dalla guerra russa contro l’Ucraina, dalla mancanza di unione politica e di difesa in Europa e dal nuovo corso che con Trump prederanno gli Stati Uniti, destano significative preoccupazioni.

    Il diverso corso che prenderà la politica statunitense verso l’Europa, anche tendendo conto degli altri risvolti internazionali, e l’attuale debolezza tedesca, che va di pari passo a quella francese, e non solo, dovrebbero finalmente convincere il Consiglio europeo ad affrontare immediatamente al proprio interno il confronto sulla urgente necessità di attuare quanto fino ad ora è stato solo enunciato e promesso.

    L’Europa è veramente unita solo se si dota, finalmente, di una politica comune di difesa e di progettualità sociale ed economica, senza l’Unione politica siamo destinati ad un inesorabile declino con catastrofiche conseguenze per noi e per i paesi nostri partner, a cominciare dall’Africa che è sempre più colonizzata da Cina e Russia.

    Il nuovo patto di offesa, più che di difesa, tra Russia e Corea del Nord, la ormai stretta amicizia tra Russia e Cina, la confluenza degli interessi di alcuni paesi Bric verso la ricerca di un diverso ordine mondiale, il che non significa solo modifica di assetti economici ma soprattutto di sistemi culturali e del concetto di libertà e democrazia, non consentono all’Europa ulteriori indugi.

    Anche a noi cittadini il compito di ricordarlo ai nostri rappresentanti nazionali ed europei, solo se sentiranno che la nostra voce è forte e decisa finalmente faranno seguire i fatti alle troppe parole inutili.

  • Nell’indifferenza dei partiti l’astensionismo è la prima forza in Italia e questo non fa bene alla democrazia

    Bene, in Liguria il centro destra ha vinto e il Pd è il primo partito della regione, i 5 Stelle si sono ridotti al lumicino e la Lega si è dimezzata.

    Detto questo ed aggiunti altri eventuali commenti sui successi ed insuccessi dei partiti colpisce, una volta di più, fino a quando troveremo la forza di stupirci, che all’analisi delle forze politiche, ma anche di molti media, continui a mancare il dato principale: il forte astensionismo.

    Certo c’era il maltempo, molte parti della regione erano state sconvolte, certo c’erano stati scandali, che per altro non hanno impedito la vittoria del centro destra con un sindaco che è stato un esempio nella gestione della tragedia ponte di Genova, ma niente giustifica la non partecipazione al voto, specie in un momento così delicato, se non la disaffezione, l’indifferenza, insofferenza che troppi cittadini hanno verso le forze politiche.

    L’astensionismo non è un rifiuto alla politica ma è invece la più palese espressione di contestazione proprio alla mancanza della politica in un sistema dove sempre più la partitocrazia si è sostituita ad un progetto di bene comune che ogni partito dovrebbe avere come faro di riferimento per le sue attività.

    Non si è fatta, come sempre accade da troppi anni, campagna elettorale per sostenere un proprio modello di società ma per contrastare, colpire l’avversario.

    Qualcuno anni fa ha inneggiato alla morte delle ideologie, la verità è che sono morte le idee, le visioni, i progetti, è morta la ragion d’essere di quello che i partiti avrebbero dovuto rappresentare e cioè la proposta offerta a tutti, non solo ai propri iscritti e simpatizzanti, di dare vita ad una società capace di indicare percorsi che includano ciascuno, nel rispetto e nella comprensione di esigenze diverse e mai prevaricatrici del bene comune.

    Partitocrazia, leaderismo, annunci e slogan fini a se stessi, pressapochismo, dichiarazioni non seguite dai fatti, mancanza di conoscenza dei reali problemi dei cittadini, arroganza e autoreferenzialità, solo per citare alcuni dei difetti delle forze politiche, hanno portato alla costante e progressiva disaffezione dei cittadini resi ancor più sospettosi dai tanti scandali che, vicendevolmente, i partiti si trovano ad affrontare e dalle reciproche accuse.

    Diciamolo molto chiaramente la democrazia è a rischio quando tanta parte dell’elettorato non va al voto e vi sono leggi elettorali e proposte di leggi elettorali per le quali con la maggioranza di una minoranza di aventi diritto al voto si può pensare di governare a nome di tutti usufruendo di un parlamento di fatto blindato.

    Nel 1953 un sistema di questo tipo si era chiamato ‘Legge truffa’ e ben fece allora il MSI a combatterla, una legge non è buona perché ci premia, ci fa comodo, una legge è buona se preserva la democrazia e il diritto di rappresentanza di tutti, in primis dei cittadini che oggi continuano ad essere esautorati dal loro diritto di eleggere i propri parlamentari.

  • Violenza di genere: il silenzio della politica

    Colpisce, di fronte alla spaventosa escalation di delitti contro le donne, dalle più anziane alle quasi bambine, la mancanza di un serio ragionamento politico e sociale non solo sulle cause ma sulle contromisure culturali e pratiche da adottare.

    Alcuni media dedicano al problema intere puntate ricche di opinionisti che, più o meno esperti in criminologia, sociologia od altro, si affannano a stigmatizzare quanto è noto da anni a tutti coloro che nella quotidianità vivono, non obnubilati dal politicamente corretto che implica, ormai da tempo, la giustificazione di qualunque tipo di comportamento e, lasciatemelo dire, di devianza.

    Avremmo immaginato, nella nostra ingenuità, che il governo, o magari autonomamente le singole forze politiche, le stesse parti sociali, iniziassero una capillare campagna pubblicitaria, manifesti, spot televisivi, radiofonici, sulla Rete, per mandare messaggi contro la violenza, messaggi educativi per il rispetto verso ogni essere vivente, ogni sesso, anche quello liquido…

    Avremmo immaginato che partissero fin dalle scuole elementari e forse, visto l’uso degli smartphone da parte dei più piccoli, anche dall’asilo, specifici insegnamenti contro la violenza, i rapporti scorretti, l’incapacità di accettare i no ed i divieti, accompagnati da quegli insegnamenti che aiutano alla comprensione ed al rispetto reciproco.

    Certo in una realtà dove la violenza verbale, spesso la menzogna e più spesso la controinformazione, fanno costantemente parte del confronto politico diventa difficile ottenere che si comincino ad usare strumenti culturali che invitino alla comprensione dell’altro e alla giusta severità verso figli, allievi, giovani ed adulti perché quando le persone, i giovani cominciano ad avere comportamenti scorretti sempre più spesso possono diventare manipolatori, violentatori, nelle parole e nelle azioni, e poi anche assassini.

    Certo è che la situazione è degenerata e la mancanza di una concreta e solerte iniziativa culturale ad ampio raggio porta sempre più a ritenere che siamo di fronte ad una classe politica, comprese le associazioni di categoria e tutti coloro che, a vario titolo, hanno voce nel Paese, completamente incapaci di affrontare i temi più tragici e pericolosi della nostra epoca.

    Molti anni fa in Guadalupe e Martinica, terre francesi metropolitane, contro la piaga della violenza contro le donne, dovuta all’abuso di alcool, vi erano ovunque manifesti, rivolti in molti casi anche agli adolescenti, per condannare la violenza, per invitare a non bere in modo smodato, insomma vi erano segnali che facevano comprendere come la politica non fosse indifferente e cercasse di mandare messaggi sociali e culturali.

    Oggi in Italia, tolta qualche dichiarazione post delitto e qualche programma di elencazione dei fatti, tutto tace il che la dice molto lunga sulla capacità di comprensione, da parte della politica, di questo terribile problema della violenza, una classe politica incapace anche di ragionare e confrontarsi sulla realtà di un sempre più evidente astensionismo, gli italiani, al di là delle percentuali di questo o quel partito, sanno che al momento non si possono aspettare di essere compresi ed aiutati.

  • Cristiana Muscardini al convegno di Milano sulla storia dei partiti politici

    Venerdì 8 novembre, alle ore 17:30, in via San Maurilio 21 a Milano, si svolgerà l’incontro Storia dei Partiti politici nell’ambito del ‘Corso di formazione e cultura politica per i giovani’ organizzato da ‘Crescere con la buona politica’ in collaborazione con Lions, Osservatorio Metropolitano di Milano e Rotary.

    All’evento, moderato da Enrico Marcora, parteciperanno Cristiana Muscardini, Luigi Corbani, Gian Stefano Milani, Roberto Mazzotta, Andrea Orsini, Franco De Angelis.

    Sarà l’occasione per un momento di riflessione sulla storia della politica italiana ed europea.

  • Il progresso non è solo far camminare più velocemente il treno, è anche tirare il freno quando serve

    A riprova di quanto sia illusorio, in presenza di eventi storici, ritenere che l’immediato futuro sia migliore del recente passato, è sufficiente ricordare anche per sommi capi cosa è accaduto dall’ultimo decennio del XX secolo al secondo decennio del XXI.

    In soli trent’anni è radicalmente mutato il mondo intero, da ogni punto di vita: geopolitico, economico, sociale, culturale, scientifico…

    Dal 1989 ad oggi: cade il muro di Berlino, scompare l’Unione Sovietica, finisce la guerra fredda…L’undici settembre, il terrorismo internazionale, Al Qaeda e Isis, la invasione dell’Afghanistan e dell’Iraq, le stragi islamiste in Europa, le primavere (?) arabe, riesplode il conflitto Israele/arabopalestinese, le due intifada e l’uccisione di Rabin, la guerra civile in Siria e Libano, il pericolo della teocrazia iraniana, la strage del 7 ottobre e le note, attuali conseguenze.  E ancora: l’imperialismo neozarista di Putin, l’invasione della Crimea e dell’Ucraina, l’ascesa al rango di potenza globale della Cina capitalcomunista, truppe nordcoreane a fianco dei russi…La Brexit e la debolezza dell’Unione europea….

    Contemporaneamente a questi enormi sconvolgimenti geopolitici, in Vaticano si succedono tre papi, due dei quali sono tali contemporaneamente…Il fallimento della Lehman Brothers e la crisi dei mutui subprime determinano una recessione economica globale con enormi ripercussioni sociali non solo nell’Occidente liberalcapitalista. Inoltre, il Covid fa rivivere la peste dei secoli bui mentre la scienza apre nuove frontiere e pone inediti quesiti etici nel campo medico (utilizzo delle cellule staminali), in quello filosofico (intelligenza artificiale), in quello culturale (realtà virtuale e fake news dei socialmedia).

    Assodato che, con buona pace di Fukujama, la storia non è finita nel 1990, anzi…non è difficile comprendere perché oggi la società occidentale è e si sente disorientata, priva di solidi ancoraggi valoriali, di certezze che infondano sicurezza (o almeno non generino paure). Viviamo tempi oggettivamente ansiogeni e agli sconvolgimenti del passato più recente si sommano cupe, ma non necessariamente infondate, previsioni circa il rischio di una nuova guerra mondiale, di ondate migratorie di enorme consistenza, dell’imminente tracollo dell’ecosistema globale. E c’è finanche chi teorizza che il futuro sarà segnato dal postumanesimo.

    Tutto ciò spiega perché nelle società occidentali sono sempre meno coloro che confidano nelle “magnifiche e progressive sorti” dell’umanità e sempre più numerosi sono coloro che pensano che “il progresso non è solo far camminare più velocemente il treno, è anche tirare il freno quando serve” (Benjamin Franklin).

    Negli ultimi anni, sul piano politico elettorale, il “freno” è stato individuato dagli europei prevalentemente nelle forze di destra, molto diverse tra loro e non sempre tra loro compatibili, ma con un profilo culturale e valoriale caratterizzato da alcuni importanti elementi comuni. A partire dalla difesa della identità delle comunità nazionali: una identità formatasi nel tempo sulla base di valori e tradizioni, usi e c costumi, condivisi perché da sempre trasmessi di padre in figlio, una generazione dopo l’altra.

    Avere coscienza della propria identità, cioè sapere in ragione di quali radici profonde, che non gelano, “si è quel che si era e si sarà” (Roger Scruton) rassicura, protegge dal timore di un futuro peggiore del presente. La destra l’ha compreso perché lo ha sempre saputo e quasi ovunque (ma le eccezioni ci sono e vanno denunciate) ha ben chiara la differenza valoriale tra uguaglianza ed omologazione, tra patriottismo e nazionalismo, tra etnia e razza, tra integrazione e cosmopolitismo, tra laicità e laicismo, tra libero mercato e finanziarizzazione dell’economia, tra europeismo e burocrazie di Bruxelles…

    Al contrario la sinistra, almeno nella sua componente riformista e liberale, non più postcomunista e non più  anticapitalista, paladina dei diritti civili ma dimentica dei diritti sociali e del tutto insensibile all’armonia tra diritti e doveri…La sinistra che “parla di becero populismo ogni qualvolta si accorge che il popolo non la segue più” (Jean Michel Naulot) non annette alcuna importanza alla identità come valore, come caratteristica  positiva da armonizzare, come tratto distintivo di ogni essere umano e di ogni popolo…E così, mentre la società europea chiede al macchinista (la politica) di azionare il freno, la sinistra lo invita ad accelerare la corsa verso ..il nichilismo assoluto. Esagerazione? Non è forse vero che l’ultima versione della sinistra liberal auspica la cancellazione della storia?  Quindi via le statue di Colombo e l’effige di Lincoln (proprietario di piantagioni di cotone e quindi schiavista), basta con le definizioni di caucasico, africano, asiatico perché razziste, abolizione della distinzione di genere perché sessista…. e tante altre assurdità “politicamente corrette”.

    È anche in ragione di ciò che, come ha scritto Luca Ricolfi nel suo bel libro La Mutazione, “0ggi la destra culturalmente può contare di una sorta di valore aggiunto…la difesa dei deboli e la libertà d’espressione sono migrate a destra…”

  • Harris e Trump

    La maggior parte dei cittadini europei si è accorta che gli attuali governi dell’Unione sono composti in gran parte da personaggi di bassissima statura culturale e politica e non reggono il confronto con chi guidava gli stessi Paesi 30 o 40 anni fa. Se poi guardiamo alla Commissione Europea, a partire dalla Presidente Ursula Von der Leyen e dagli pseudo ministri degli esteri precedenti o di recente nomina, il quadro sembra perfino peggiore. Purtroppo, a dare poche speranze per il futuro c’è anche il fatto che, se mai fosse possibile, negli Stati Uniti la situazione non è certo incoraggiante. Tra meno di un mese, i cittadini americani che hanno optato di partecipare alle elezioni voteranno per il futuro presidente dovendo scegliere tra Kamala Harris e Donald Trump. La prima fu sempre stata giudicata dalla stampa occidentale come del tutto inadeguata perfino per il ruolo di Vice Presidente, salvo diventare, secondo gli stessi media, una summa di bravura, di fascino e di intelligenza nel momento in cui si è trovata quasi incidentalmente a diventare la candidata Presidente per conto del Partito Democratico. Come in pochi giorni abbia subito questa trasformazione è e resterà sconosciuto.

    Di Donald Trump, al contrario, si parlava male già durante la sua Presidenza e ora che è nuovamente candidato i giudizi negativi sono ulteriormente aumentati. Le descrizioni che lo accompagnano non lasciano spazio ad alcunché di positivo e, oltre a dipingerlo come il futuro distruttore del sistema democratico, lo si presenta come un corpo estraneo a tutta la storia americana. In altre parole sarebbe un alieno ignorante che vive di populismo gradito soltanto a fanatici e a ignoranti come lui. Oggettivamente, risulta difficile immaginarlo quale un virtuoso della cultura ma presentarlo come un incidente storico nella società americana è una faziosa e falsa interpretazione.

    A differenza di ciò che si vuol far credere, quello che viene chiamato il suo progetto “isolazionista” è una costante che ha abbracciato la politica degli Stati Uniti dal 1789 almeno fino alla prima metà del ‘900. Lo stesso Presidente Washington nel 1796 aveva chiesto che il Paese sviluppasse “il minore legame politico possibile” con le potenze straniere aggiungendo: “è nostra politica l’evitare alleanze permanenti con qualsiasi parte del mondo”. Come si sa, tale approccio non ha impedito ai vari governi di sviluppare ben presto una propria politica imperiale. A nord verso il Canada, a sud con la guerra che portò all’occupazione del Texas e perfino nell’Oceano Pacifico con l’occupazione di varie isole (tra cui le Hawaii) fino alle Filippine, sottratte alla Spagna. *

    Differentemente da ciò che Washington disse, e pur non avendo sottoscritto alcun accordo specifico, gli Stati Uniti parteciparono invece alla Prima Guerra Mondiale al fianco della Triplice Alleanza. Il motivo, va sottolineato, rappresenta da sempre la costante della politica estera americana: impedire che in qualunque parte del mondo potessero crearsi le condizioni per cui una singola potenza potesse diventarvi egemone. Sia nella prima che nella seconda guerra mondiale il pericolo fu identificato nel crescere della potenza tedesca. In quei casi, la filosofia “isolazionista” fu abbandonata ma si trattava pur sempre di un altro concetto ancora oggi caro a Trump: “America first”, seppur con sue particolari e moderne modalità. Sempre “America first” ha guidato le politiche americane in Medio Oriente, in Asia e in Sud America e anche lì con l’obiettivo di impedire il crescere di una qualunque potenza che da sola egemonizzasse l’area. Il problema, e cioè la vera differenza di allora con le politiche trumpiane, è che gli scopi attuali di Washington all’estero non sono più in equilibrio con i suoi mezzi interni disponibili. La deindustrializzazione, l’indebolimento numerico della classe media, la iper-globalizzazione delle economie, le pressioni migratorie al confine sud e l’enorme deficit pubblico spingono milioni di statunitensi a seguire quel Trump che propone di liberarsi dai fardelli esteri per concentrare le risorse sul fronte interno.

    Molti di coloro che votano democratico sono ancora convinti che il loro Paese debba continuare ad essere un faro di luce nel mondo in quanto esempio virtuoso del sistema democratico e liberale. Tuttavia, una lettura realistica della realtà mondiale lascerebbe capire anche a costoro due cose: la prima che altre culture non condividono necessariamente la filosofia politica nata e cresciuta nell’Occidente geografico, la seconda che, di là dalla retorica propagandistica, troppo spesso gli interventi militari americani nel mondo sono avvenuti a favore di regimi illiberali che rappresentavano il contrario dei valori proclamati a gran voce. Meno ipocrita (o più ingenuo) Trump dichiara in termini molto netti di essere “scettico nei confronti di unioni internazionali che……fanno crollare l’America…“ e: ”non sottoscriveremo mai alcun accordo che riduca la nostra capacità di controllare i nostri affari”.

    Anche in economia Trump non presenta progetti particolarmente nuovi, così come non è nuova l’idea di ridare slancio al protezionismo attraverso più alte tariffe doganali. Prima di lui, sebben con minore enfasi declamatoria, anche i presidenti Democratici hanno varato barriere tariffarie riguardanti vari settori industriali e il settore siderurgico europeo ne sa qualcosa. Comunque, già nel 1930 quando la crisi economica del ’29 stava esplodendo, fu fatta una legge fortemente protezionista la Smooth Hawley Tariff Act che colpì la maggior parte dei beni di importazione. Durante la sua presidenza, pur se oggettivamente i risultati attesi sono stati infinitamente minori del previsto, Trump ha rinegoziato l’Accordo di Libero Scambio Nord Americano, ha bocciato il progetto di Partenariato Transpacifico e il Partenariato Transatlantico e ha introdotto tariffe doganali elevatissime per tutti i prodotti in arrivo dalla Cina. Anche su quest’ultimo aspetto va notato che, nonostante i Democratici continuino a proclamare come un valore il liberismo economico, Biden Presidente ha confermato i dazi introdotti da Trump contro la Cina e ne ha persino aggiunti altri. Ciò con cui qualunque futuro Presidente dovrà far i conti è una maggiore diffusione della povertà dei ceti medi e bassi con il relativo aumento della disparità del benessere a favore delle classi alte. Per entrambi, il problema riguarderà il disavanzo commerciale crescente e un fortissimo incremento del debito pubblico giunto a livelli enormi.

    Un altro dei punti di forza della narrativa trumpiana è la lotta contro gli immigrati illegali ma anche questa volta ci sono precedenti storici cui ci si può rifare. Nonostante sia evidente a tutti che gli Stati Uniti attuali siano il frutto di importanti e costanti flussi migratori il sentimento anti immigrati da parte della popolazione WASP (white anglo-saxon protestant) è da sempre presente. Quando gli Stati Uniti annessero più della metà del Messico nella guerra del 1846-48 espulsero dai terreni conquistati la maggior parte dei messicani. Nel 1924 il Congresso approvò una legge che riduceva del 90% il numero di ebrei e cattolici ammessi ufficialmente del Paese e vietò totalmente l’immigrazione asiatica. Quanto all’idea di Trump di deportare i clandestini attualmente presenti nel Paese, si tratta semplicemente della copia di un provvedimento adottato già negli anni ’30 che rimandò verso il Messico un milione di immigrati clandestini. Che il livore anti-immigrati sia molto diffuso nella popolazione americana è dimostrato dal fatto che anche il Democratico Biden ha cercato di assecondare tale sentimento varando un ordine esecutivo che prevede la chiusura temporanea del confine meridionale e ha cercato di far passare una legge che bloccasse la maggior parte dei nuovi arrivi attraverso il Messico. Tale legge non è passata perché i parlamentari repubblicani non hanno voluto concedergli un guadagno di immagine presso l’elettorato.

    Come conclusione, continuare a credere ciò che i media mainstream vogliono propinarci e cioè che il fenomeno Trump sia totalmente estraneo alla tradizione politica americana è chiaramente un falso storico. Detto ciò, l’avere Harris o Trump come Presidente a Washington per noi europei qualcosa cambierebbe ma, di là dalla forma che il loro agire assumerà, una loro comune costanza sarà (comprensibilmente) di tutelare gli interessi del loro Paese e di considerarci una loro naturale “zona di influenza”.

    * Incidentalmente, non è male ricordare a chi, giustamente, accusa l’Italia di aver tradito la Triplice Intesa nella prima guerra mondiale nonostante gli accordi sottoscritti, che nulla è mai inventato. Quando, nel 1793, la Francia rivoluzionaria (che aveva aiutato i ribelli americani contro l’Inghilterra) chiese l’aiuto degli Stati Uniti in base a un accordo sottoscritto nel 1778, il governo di George Washington disdisse unilateralmente l’impegno assunto dichiarandolo contrario all’interesse nazionale del momento.

  • Il fil rouge tra Draghi, Blackrock e Leonardo

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo del Prof. Francesco Pontelli

    Nel suo ultimo manifesto programmatico l’ex presidente della Bce e del Consiglio Mario Draghi ha indicato nello stop alla fornitura di gas dalla Russia il motivo per il quale si paga un costo dell’energia più alto. In verità, il nostro Paese soffre del “caro bollette” che incidono pesantemente sul bilancio familiare e minano alle basi la competitività delle imprese italiane in particolare modo quelle industriali, a causa di una strategia politica scellerata nell’approvvigionamento energetico che ha visto proprio in Draghi uno dei principali artefici e sostenitori.

    Fino dagli anni novanta, infatti, nel nostro Paese si è avviato un processo di privatizzazione di tutti gli asset pubblici (monopoli indivisibili) che si occupavano della produzione e distribuzione dell’energia e per di più non con l’obiettivo di diminuire il debito pubblico, ma semplicemente per una molto più modesta riduzione del deficit.

    In più, a conferma del proprio indirizzo strategico, durante il suo governo Draghi, mentre la Spagna introduceva il Price Cap per il gas a 42 euro, la Francia nazionalizzava EDF (società francese di produzione e distribuzione della energia elettrica) e la Germania raggiungeva un accordo con la Norvegia per la fornitura di 50 miliardi di gas per i prossimi quarant’anni, Draghi ha atteso l’introduzione tardiva di un ridicolo Price Cap dall’Unione Europea.

    Il combinato disposto della strategia di vendita di asset pubblici unita ad una sostanziale passività istituzionale durante il proprio governo, e comunque comune a tutti i governi degli ultimi trent’anni compreso quello in carica, ha determinato che le bollette spagnole risultino inferiori rispetto a quelle italiane di oltre il -50%, quelle francesi di oltre il -70% e quelle tedesche quasi del-40%.

    Uno dei principali fondi esteri che ha investito nelle società energetiche italiane è rappresentato da Blackrock, assieme a Vanguarde, il quale ha, più che legittimamente, trasferito sui prezzi finali alle utenze familiari ed industriali delle bollette la ricerca dei maggiori margini possibili con l’obiettivo di assicurare un alto e remunerativo Roi.

    Ora il medesimo fondo, in predicato di rilevare anche una quota di Sace, entra con oltre il 3% nell’azionariato di Leonardo, ex società a partecipazione pubblica, il cui core business è rappresentato dalla difesa e dalla sicurezza e il cui A.D. è, sarà un caso, un ex ministro del governo Draghi.

    Partendo dalla consapevolezza della strategia adottata dal fondo statunitense nel settore energetico, il quale ha ricercato il massimo profitto anche grazie ad una classe politica italiana assolutamente assente fino alla compiacente complicità, a differenza delle affermazioni di Mario Draghi si può arrivare alla conclusione che gli effetti devastanti in termini di costi aggiuntivi siano interamente attribuibili ed espressione dell’opera del fondo Blackrock.

    Parallelamente non è quindi da escludere che la medesima strategia possa avvenire adottata anche nel settore della Difesa e della sicurezza, dopo avere reso operativa l’acquisizione di una parte considerevole della quota azionaria (oltre il 3% appunto). Magari, ed anche in questo caso, potendo contare su di un implicito accordo con la politica italiana ed europea, la quale nei due ambiti istituzionali fino ad oggi non ha dimostrato alcuna intenzione né interesse per la ricerca di una strategia diplomatica di intermediazione nei conflitti, specialmente in quello russo ucraino, che potesse creare le condizioni minime al raggiungimento, prima di una tregua e successivamente di pace duratura.

    Viceversa, mentre la crisi industriale europea sta manifestando i propri effetti mettendo in serie crisi la stessa tenuta dello Stato Sociale, le massime cariche istituzionali europee non lesinano risorse per finanziare gli armamenti destinati all’Ucraina. Forse, ma ovviamente è una malevola congettura, proprio per non disturbare gli interessi di Blackrock. Ai posteri verrà attribuito il compito di fornire l’ardua sentenza in relazione alle priorità dimostrate dalle massime autorità istituzionali europee. Nel frattempo, si può tranquillamente constatare come un’altra quota di sovranità nazionale, l’ennesima, risulti ceduta ad un soggetto finanziario i cui obiettivi sono molto lontani da quelli che dovrebbero essere perseguiti dall’autorità politica e istituzionale.

    Un processo che troverebbe, per di più, una maggiore forza e facilità di esecuzione in termini di minori oneri finanziari necessari, se i nostri asset fossero espressi in una valuta debole (per sostenere l’export?) quale potrebbe essere la lira, con buona pace dei rappresentanti del “sovranismo monetario”.

    Mai come ora le stesse istituzioni nazionali ed europee si trovano sotto attacco non tanto da parte di una superpotenza straniera, quanto della vile alleanza tra finanza e quel che resta di una politica di basso profilo.

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