Politica

  • Extra profitti anche fiscali e la credibilità del Paese

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo del Prof. Francesco Pontelli

    Anche questo governo, esattamente come il precedente, segue il rituale della solita spasmodica ricerca, nonostante gli “extraprofitti fiscali” assicurati dal Fiscal Drag, di nuove risorse finanziarie che dimostra ancora una volta come gli anni passino senza lasciare nessuna traccia e fornisce un’ulteriore dimostrazione di come gli ultimi due governi non siamo poi tanto diversi.

    Il governo Draghi cercò inutilmente di tassare gli extra profitti delle aziende energetiche in un periodo di esplosione appunto dei costi dell’energia. Ora il governo Melon, in una medesima situazione, cioè nel pieno di una crisi industriale e sistemica dell’economia reale, di fronte agli imbarazzanti profitti del sistema bancario, adotta la medesima strategia fiscale la quale ovviamente sortirà gli stessi risultati ottenuti dal governo precedente.

    Si dimostra francamente avvilente come la questione decisamente complessa relativa ad una rimodulazione della pressione fiscale, sia diventata una semplice guerra ideologica di posizione tra schieramenti favorevoli al mantenimento dell’attuale asset fiscale ed altri che chiedono l’introduzione di una tassazione aggiuntiva. Una contrapposizione che si manifesta non solo nel classico conflitto tra maggioranza e opposizione, ma che si insinua persino tra gli alleati nella maggioranza di governo.

    Nessuno, tuttavia, in questo supportati dal supino silenzio del mondo accademico incapace di definire una posizione terza rispetto alle strategie economiche governative e delle opposizioni, si dimostra in grado di elaborare un’analisi che tenga nella dovuta considerazione il conseguente danno reputazionale alla credibilità del Paese con la introduzione di una normativa fiscale retroattiva.

    Questa politica fiscale si dimostra Infatti deleteria ed in grado di rivelarsi un fattore disincentivante nella determinazione dei flussi di investimenti, specialmente internazionali, verso il Paese.

    Non è difficile, infatti, adottando una semplice analisi economica, comprendere come una fiscalità retroattiva, ma anche solo l’ipotesi di una sua possibile applicazione, renda problematica, se non addirittura azzardata, qualsiasi possibilità di elaborare un piano strategico di investimenti.

    Un sistema fiscale dovrebbe assicurare un prelievo certo ed equo, e la propria stabilità dovrebbe dimostrarsi come un volano di sviluppo per il paese attirando operatori economici e quindi preziosi investimenti finalizzati alla crescita economica. Quando invece la fiscalità diventa l’Extrema Ratio per trovare quattro spiccioli che permettano un equilibrio di bilancio, diventa un fattore destabilizzante e assolutamente antieconomico per il Paese.

    Sembra incredibile come questo governo e il precedente non abbiano tenuto in alcuna considerazione gli effetti reputazionali devastanti di questa retroattività fiscale nei confronti degli extra profitti delle banche o delle aziende nel settore energetico. Questa infantile politica fiscale paradossalmente si rivela come un fattore determinante al pari dei costi energetici nel favorire concorrenti, in quanto l’incertezza fiscale risulta avere un costo incalcolabile che rende impossibile una qualsiasi progettualità economica.

    Non si intende certamente difendere le banche ora e tantomeno le aziende energetiche allora, ma la fiscalità richiede competenze articolate e non esponenti politici dalla dubbia competenza, incapaci persino di valutare gli effetti reputazioni di una singola norma fiscale.

  • Landini cortigiano sarà lei

    Ci possiamo stupire se i giovani diventano aggressivi e violenti quando gli adulti istigano all’odio ed usano, come strumento politico e di comunicazione, l’insulto?

    Non ci sono scusanti per Landini per quanto ha detto pubblicamente riferendosi al Presidente del Consiglio ed alla donna, non gli è di scusa la presunta ignoranza del vocabolo o quella di aver usato in vocabolo in termini politici, “cortigiana in quanto frequentatrice di corti!”….avrebbe detto il Landini cercando di dare un senso politico all’insulto ma, come diceva il poeta, “voce dal sen fuggita più trattener non vale”.

    Landini sapeva benissimo il peso dell’insulto che ha utilizzato per cercare di accreditarsi verso le frange più estreme di quel che resta della estrema sinistra italiana.

    Mentre il suo sindacato perde peso, perché non rappresenta molte fasce di lavoratori e non tutela a sufficienza gli altri, Landini cerca uno sbocco partitico, un futuro elettorale e cerca di chiamare a sé tutti coloro che non credono nella politica del dialogo, che dello scontro hanno fatto un mestiere o il modo per sfuggire a personali insoddisfazioni.

    Lo sciopero nazionale, e le sue derive anche dopo, hanno trovato la disapprovazione di tutti coloro che non erano in piazza e cioè praticamente di tutta l’Italia che si è vista negare i suoi diritti di muoversi, lavorare, vivere liberamente, in nome di un pretesto per il motivo politico di guerra al governo mentre decine di migliaia di lavoratori, con contratti di pochi giorni, poi reiterati sempre di pochi giorni o addirittura di un giorno, non hanno nessuna tutela o speranza di seppur minima pensione. Questi stessi lavoratori spesso non sono pagati e per poche decine di euro non possono certo adire alle vie legali.

    Landini non rappresenta più, da molto tempo, i lavoratori così come la sinistra italiana, dal Pd ai Cinque Stelle e ai Verdi, è ormai incapace di fare proposte e si limita, con una pervicacia degna di miglior causa, a subissare il Governo, e la Premier, di contumelie e critiche avulse dalla realtà, intanto molti problemi delle persone testano irrisolti.

    Un‘opposizione seria dovrebbe essere anche costruttiva, solo così si rispetterebbe la democrazia, la si consoliderebbe e si creerebbe la strada per un’eventuale alternanza, non certo con gli insulti, l’odio e la violenza.

  • Milano, capitale della sostenibilità a piedi…ammollo

    Nelle notti degli inquilini di Palazzo Marino si agita un sogno bellissimo: slide color pastello, grafici che puntano al cielo, cittadini sorridenti che pedalano in un’arcadia urbana a zero emissioni. È il sogno di una Milano più verde di un mojito, più sostenibile di un sandalo in sughero, più europea delle capitali del Nord Europa messe insieme. Un sogno, diciamolo, nobilissimo.
    Peccato che ogni mattina noi Milanesi ci svegliamo, e il sogno fuori dalla finestra somiglia più a un incubo con l’asfalto dissestato.
    L’Amministrazione, con la foga del neofita che ha appena scoperto il verbo “green”, ha dichiarato guerra. Non alla criminalità, non al caro affitti, non alla burocrazia che impantana ogni iniziativa. La guerra santa è contro l’automobile del cittadino medio, quel rottame fumante (secondo loro) che osa ancora trasportare la spesa del supermercato o il figlio all’asilo.
    Via dunque di Area B, Area C, divieti, ultimatum, incentivi che sembrano più un invito a indebitarsi per i prossimi dieci anni. Il messaggio è chiaro, quasi un imperativo categorico in salsa meneghina: “Giargiana, scendi dall’auto! Cammina! Usa i mezzi!”.
    E il Milanese, che in fondo è un essere ligio e persino un po’ masochista, obbedisce. Parcheggia il suo Euro 4 (ormai cimelio da museo) e si mette in marcia, novello pellegrino sulla via della redenzione ecologica.
    Ed è qui che il volo pindarico dell’ideologia si schianta contro la più banale, e umida, delle realtà: i marciapiedi.
    Proprio quei rettangoli di cemento e sanpietrini su cui dovremmo esercitare la nostra ritrovata virtù pedonale. Peccato che la manutenzione di queste infrastrutture primordiali sia evidentemente finita in fondo alla lista delle priorità, subito dopo “organizzare un campionato mondiale di aquiloni in Piazza Duomo”.
    I nostri marciapiedi sono ormai carte geografiche in rilievo di un territorio martoriato: crepe che diventano canyon, buche che paiono crateri lunari, dislivelli degni di un sentiero di montagna.
    E poi, piove.
    Ah, la pioggia. Non più la dolce, malinconica pioggerellina che ispirava i poeti. Grazie al cambiamento climatico – quello stesso demone che si vuole combattere a colpi di ZTL – ora su Milano si abbattono monsoni tropicali. Le “piogge di Ranchipur” sono la nostra nuova normalità. In dieci minuti, la città si trasforma in una piccola, incasinata Venezia senza gondole.
    E il povero pedone? L’eroe della mobilità dolce? Si ritrova a fronteggiare l’imponderabile. Non semplici pozzanghere, ma laghi effimeri. Specchi d’acqua limacciosa profondi anche venti centimetri che compaiono dal nulla, trasformando l’attraversamento di un incrocio in una prova da “Giochi senza Frontiere”.
    Non solo sulla strada, sia chiaro. I laghi si formano sui marciapiedi, intrappolando il cittadino tra il muro di un palazzo e un “naviglio” estemporaneo color fango.
    E poi, quando, dopo aver calcolato la traiettoria come un campione di biliardo per evitare l’immersione totale, ti senti quasi in salvo, ecco la beffa. Il gran finale. Un SUV (ovviamente elettrico e costosissimo, perché l’ecologia è per chi se la può permettere) che, con la grazia di un ippopotamo in un negozio di cristalli, centra in pieno la mega-pozzanghera ai bordi della strada.
    L’onda anomala che ne consegue non è una semplice doccia: è un battesimo laico, un’umiliazione totale che ti innaffia di acqua sporca dalla testa ai piedi.
    Lì, fradicio e sconsolato, mentre strizzi i pantaloni e maledici l’universo, capisci la sublime ironia di questa città. Un’amministrazione che ti obbliga a camminare, ma non ti dà un posto asciutto e sicuro dove mettere i piedi. Che ti spinge verso un futuro radioso e sostenibile, ma inciampa nella manutenzione del presente più basilare.
    Viene quasi da chiedersi se, prima di progettare avveniristiche funivie urbane e piste ciclabili intergalattiche, non sarebbe il caso di mandare una squadra di operai con un sacco di bitume a tappare due buche e sistemare pendenze. Giusto per permettere ai nuovi, forzati eroi della fede ecologista di arrivare al lavoro senza dover portare con sé un paio di stivali da pescatore.
    Prima la toppa, poi il cosmo. Sembrava una regola di buon senso. Evidentemente, era una regola di un’altra epoca.

  • Un ex eurodeputato inglese ammette di essersi venduto a Putin

    Nathan Gill, ex europarlamentare e capo del partito di destra populista Reform UK (il partito dell’euroscettico Nigel Farage) in Galles, ha ammesso di avere accettato tangenti durante il suo mandato da parlamentare europeo, tra il 2014 e il 2020, per fare alcune dichiarazioni filorusse. Lo ha fatto durante un processo a suo carico in corso a Londra, nel Regno Secondo quanto emerso in tribunale, Gill ha preso soldi da Oleg Voloshyn, ex parlamentare ucraino definito dagli Stati Uniti “pedina” dei servizi segreti russi, in cambio di interventi a Strasburgo, dichiarazioni televisive e l’organizzazione di eventi con politici filorussi. Le autorità britanniche hanno sequestrato messaggi WhatsApp che documentano la collaborazione tra i due, trovati sul telefono di Gill dopo il suo fermo all’aeroporto di Manchester il 13 settembre 2021 in base alle leggi antiterrorismo. Tra le attività contestate, Gill difese in Parlamento i canali televisivi ucraini 112 Ukraine e NewsOne, sostenendo che fossero trattati ingiustamente dallo Stato ucraino. I canali erano legati a Viktor Medvedchuk, politico filorusso con stretti legami con il presidente Vladimir Putin, arrestato all’inizio dell’invasione dell’Ucraina e successivamente scambiato con prigionieri russi. Gill apparve anche sui canali stessi per sostenere Medvedchuk e organizzò incontri tra eurodeputati e rappresentanti filorussi, tutto in cambio di compensi economici.

    L’accusa ha sottolineato come l’ex eurodeputato fosse incaricato di presentare interrogazioni, contattare funzionari della Commissione europea e tenere eventi in favore di interessi russi, come confermano i messaggi WhatsApp intercettati. Dominic Murphy, capo dell’unità antiterrorismo della Metropolitan Police, ha dichiarato che Gill riceveva pagamenti per diffondere narrazioni favorevoli a Mosca. Padre di cinque figli, Gill sarà giudicato a novembre. Il suo avvocato ha anticipato che la condanna comporterà molto probabilmente il carcere. Durante il processo, la giudice Cheema-Grubb ha confermato che Gill ha ammesso di aver presentato interrogazioni, rilasciato dichiarazioni e svolto altre attività in Parlamento a favore di partiti filorussi in Ucraina. Il Labour gallese ha reagito criticando la vicinanza passata di Gill a Farage, sottolineando il rischio che interessi russi venissero anteposti a quelli del Galles. “Pensavamo che Nigel Farage avrebbe anteposto i propri interessi a quelli del Galles, ma ora sembra che anteporrà anche gli interessi della Russia a quelli del Galles”, sono le dichiarazioni riportate dalla BBC. Reform UK ha respinto le accuse: “Un gesto meschino dettato dalla pura disperazione da parte del Partito Laburista gallese, che viene respinto dall’opinione pubblica e sta perdendo terreno nei sondaggi”. Ora Gill non è più membro di Reform UK, ma la sua carriera politica in Galles lo aveva visto protagonista come leader di UKIP tra il 2014 e il 2016 e successivamente di Reform UK nel 2021, guidando la campagna elettorale per il Senedd, il Parlamento gallese.

    La sentenza è prevista a novembre: l’avvocato di Gill, Peter Wright, ha detto che probabilmente Gill passerà almeno un periodo in carcere.

  • La sola visione futura assicura il futuro al Paese

    La sola libertà della visione futura è in grado di assicurare un futuro al Paese.  A differenza di quanto afferma il  mainstream, la vera priorità del nostro Paese non è rappresentata, come molti affermano, dalla formazione di tecnici in grado di realizzare i prodotti, quanto invece dall’espressione della Libertà di pensiero, intesa da Marchionne come la capacità di avere una Visione Futura ed in grado di identificare le opportunità di una  nazione e di un’azienda per affrontare le sfide attuali e del futuro (https://www.instagram.com/reel/DPwrQ44jsrj/?igsh=MWthaWljeHAwaGg1Yg==).

    Non è quindi la competenza tecnica la priorità da perseguire (e nel periodo dell’intervento del manager ancora non esisteva l’AI che tende a rendere alla portata di tutti le competenze tecniche anche se non quelle pratiche), ma la libertà di pensiero. In altre parole, appunto, la Visione.

    Quando si sentono i politici e il mondo accademico nel loro complesso parlare di “competenze” per rilanciare l’industria come più in generale l’economia nazionale, andrebbe ricordato loro come solo una visione futura, espressione di libertà e cultura, possano assicurare un futuro al nostro Paese.

    Un passaggio fondamentale che, ed ecco quindi che si parla di adeguamento e rinnovamento culturale, dovrebbe ridisegnare anche lo stesso perimetro di formazione della scuola e del mondo accademico. Questi, infatti, invece di proporre un modello politico ed economico da seguire dovrebbero fornire gli strumenti culturali per crearne di nuovi. Ridurre tutto, invece, alle sole competenze tecniche non fa che aprire le porte del know how esistente alle multinazionali straniere che già stanno facendo incetta delle PMI italiane, le quali operano in un Paese nel quale molto spesso la classe dirigente e politica non ne conosce le reali difficoltà.

    Viceversa, la visione futura risulta necessaria per la sopravvivenza del sistema industriale quanto di quello economico nel suo complesso e va ricercata e valorizzata, non come oggi che viene addirittura allontanata in quanto richiede investimenti economici e culturali che il mondo politico non è in grado di realizzare ed anche solo di ipotizzare.

    Mai come ora la mancanza di una visione del nostro Paese negli ultimi trent’anni rappresenta la prima causa della disastrosa politica energetica che ci vede ora con i prezzi più alti d’Europa. Nessuno negli ultimi 30 anni ha dimostrato la capacità di fornire una visione del Paese in ambito di approvvigionamento energetico dimostrando così di possedere una visione in grado di spaziare nel tempo ben oltre l’ultimo appuntamento elettorale, che rappresenta l’orizzonte operativo del mondo politico.

    Nel contesto di un mercato fortemente competitivo, per superare anche il dumping retributivo, energetico e sociale dei paesi in via di sviluppo, risultano assolutamente vitali le visioni globali in grado di valutare le potenzialità dei sistemi italiani ed europei in rapporto con i molteplici concorrenti.

    Questa visione come espressione culturale, se veramente espressione della libertà di pensiero, si rivelerà assolutamente distante da ogni ideologia la quale rende le menti schiave dei principi politici che lo schema ideologico esprime. Basti pensare nella contemporaneità all’ideologia ambientalista che ha già distrutto e sta azzerando il sistema Automotive europeo con la cieca applicazione del GreenDeal.

    La libertà, quindi, si esprime attraverso la capacità di superare i propri schemi ideologici avanzando verso il futuro. Viceversa ancora oggi questo atteggiamento ideologico, e per questo anti culturale, accomuna socialisti, conservatori e liberali chiusi tra le loro piccole ed obsolete certezze ideologiche che nascondono, tuttavia, una totale incapacità nell’elaborazione di una visione del futuro che risulti anche in minima parte lontana dalle proprie certezze ideologiche.

    Solo la libertà nella elaborazione di una visione futura, e quindi espressione della cultura, potrebbe fornire un orientamento e, di conseguenza, offrire una possibilità di salvezza al Paese.

  • Il PIA primo partito in Italia

    Ormai è chiaro a tutti: il primo partito italiano, che non usufruisce di nessun beneficio pubblico né di interviste nelle tante trasmissioni televisive è il Partito italiano Astenuti, il PIA.
    Ad ogni elezione aumenta i suoi sostenitori, senza bisogno di farsi propaganda con urla e minacce agli avversari nei comizi o con insulse battute e promesse sui social.
    E più il PIA aumenta più la democrazia si allontana perché comanda chi ha vinto con la maggioranza della minoranza, cioè con un numero di voti che non rappresentano effettivamente né il Paese o la regione od il comune, ormai le elezioni servono solo a rinsaldare il potere di una oligarchia avulsa dalla realtà.
    Commentiamo pure quello che è sotto gli occhi di tutti: in Toscana la Lega ed i Cinque Stelle fra un po’ non avranno neppure il quorum ma entrambi dettano spesso legge nelle loro coalizioni impedendo alle stesse di raggiungere credibilità rispetto all’elettorato.
    Come pensano i partiti di ritrovare allora la credibilità? Alcuni, ingenuamente, sperano, convinti che la democrazia si basi sulle elezioni, sul voto della maggior parte degli aventi diritto, e su un’alternanza possibile, che sproni ogni governo a lavorare meglio, che le forze politiche cambieranno registro e si adopereranno per far tornare alle urne i cittadini.

    Ma non è così, purtroppo ai partiti non interessa che voti la maggioranza, interessa solo che ci siano per loro i voti sufficienti a battere l’avversario, perciò continuano a tenere in vita una legge elettorale che espropria i cittadini dalla scelta dei parlamentari e continuano ad accusarsi a vicenda, ad insultarsi con toni violenti, ad occuparsi di molte cose che non hanno nulla a che vedere con le necessità reali del mondo reale.
    Così, parlando di gay pride e di ponti sullo Stretto di Messina e fomentando le piazze, l’astensionismo sarà sempre di più, la democrazia vera sempre più debole ed i problemi resteranno. Il PIA ringrazia ma noi siamo molto preoccupati.

  • Non nel nome di Dio

    Da un lato una gran parte della società, in tutto il mondo, dipende dai social, è interessata, influenzata da tutto ciò che appare e che vuole imitare, o almeno crede di poter imitare, perciò per tanti è meglio digiunare per potersi comperare un oggetto firmato o per andare, una volta almeno, in un ristorante stellato per far vedere che si fa parte del mondo che conta.

    In questa società odiatori da tastiera e giovani rimbambiti, dall’uso smodato ed ossessivo della rete, sono quanto di più lontano possiamo immaginare da quanti possono avere ed hanno attenzione od interesse per qual si voglia religione.

    Dall’altro lato, invece, sono riprese proprio le guerre di religione, specie a danno dei cristiani e dei cattolici, come dimostrano le centinaia di attentati e di uccisioni avvenuti in questi anni, ovunque nel mondo. Dal quel famigerato, tragico 7 ottobre del 2023 sono ripresi gli atti e le intimidazioni contro gli ebrei mentre l’islamismo, unica religione che, secondo l’interpretazione di molti religiosi islamisti, predica così fortemente il martirio, se compiuto per combattere gli infedeli, trova proseliti anche nei paesi occidentali.

    Negli Stati Uniti, dove con buona pace di Trump, che continua a negarlo, vi sono più armi che cittadini, infatti in molti hanno più di un arma in casa, si sta dando vita ad una vera crociata che vede da un lato colpite chiese o sette cristiane e dall’altro cristiani, o presunti tali, che si ritengono gli unici detentori della verità.

    Le guerre di religione in effetti sono solo, come sempre, guerre di potere, economico, elettorale, politico, che si ammantano di pretesti religiosi e che usano le persone invocando Dio, come bandiera ed arma.

    Lo vediamo anche in Russia dove la chiesa ortodossa è non solo schierata ma attiva alleata della miserabile guerra che Putin ha scatenato contro l’Ucraina. Il dissidio tra gli ortodossi, proprio per le azioni del patriarca Kirill, alleato di Putin anche per i trascorsi da Kgb, ha portato ad una totale frattura tra la chiesa di Mosca e quella degli altri Stati come l’Ucraina e la Romania.

    Più la tecnologia avanza impedendo lo sviluppo del pensiero e, sostituendosi al nostro cervello, ci toglie la capacità di ragionamento e moderazione più nascono movimenti integralisti e l’odio tra singoli, gruppi, popoli è fomentato da leader tesi solo all’affermazione di sé stessi.

    Che le persone si uccidano reciprocamente, che nei secoli proprio le religioni siano state il pretesto per scatenare veti stermini non è una novità ma che nel terzo millennio si debba ancora usare il nome di Dio per commettere atti infami dovrebbe farci riflettere molto sul grado di imbarbarimento morale della società nella quale viviamo.

  • Errori americani

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo dell’On. Dario Rivolta

    Il lituano Andrius Kubilius, il commissario europeo alla difesa, afferma che Vladimir Putin è il «nemico pubblico numero uno dell’Ue». E che la Russia sta preparando un attacco all’Europa «nei prossimi 3-4 anni». Chiunque pensi con la propria testa e non sia vittima della propaganda che ci arriva ogni giorno dalla stampa principale e dalle TV sa che è inverosimile che la Russia abbia una qualche intenzione di attaccare un qualunque Paese europeo. Sono tre anni che non riesce a chiudere la partita con l’Ucraina e solo dei pazzi o chi ha altri inconfessabili obiettivi possono credere che Mosca voglia lanciarsi in una guerra diretta contro tutta la NATO. Eppure, in Europa da mesi a questa parte esiste davvero una situazione pericolosa che non va sottovalutata. Basterebbe infatti un piccolo incidente, magari non voluto espressamente da alcuno, per far scoccare quella scintilla che porti veramente a una guerra. Starmer, Merz e Macron sembrano proprio invocarla e non da poco Zelensky fa di tutto per spingere la NATO a intervenire direttamente in suo aiuto. Come sempre accade, è ovvio che ci sia chi guadagna sui conflitti ma, nonostante la propaganda, le opinioni pubbliche non ne vogliono sapere. Fino a che i noti guerrafondai si limitano a mandare milioni di euro e armi a un Paese già fallito, la maggior parte dei cittadini europei preferisce non vedere il rischio, sperando che scompaia.

    Purtroppo il pericolo di una vera guerra in Europa non è cominciato con l’invasione russa dell’Ucraina, né con il colpo di Stato a Kiev del 2014: è stata innescata già dal momento in cui l’Unione Sovietica è crollata. Le ragioni vanno cercate nei comportamenti dell’unico vero potere che da quel momento era rimasto nel mondo: gli Stati Uniti. Dalla fine della seconda guerra mondiale noi europei occidentali siamo stati totalmente dipendenti dagli USA e, anche se abbiamo dovuto rinunciare alla nostra totale autonomia politica ed economica, ne abbiamo anche tratto grandi vantaggi. Non solo una certa libertà individuale che è mancata a quelli che sono rimasti sotto il tallone sovietico ma anche un vero benessere economico abbastanza diffuso. In cambio, abbiamo accettato di condurre la nostra politica estera semplicemente come vassalli. Caduta l’URSS e rimasti l’unica grande potenza, l’obiettivo dichiarato dei nostri amici americani (messo per iscritto in un documento sulla “Sicurezza Nazionale”) è stato quello di impedire che potesse nascere nell’intero mondo un qualunque antagonista alla loro supremazia. È da quel momento che, ahimé, hanno commesso una serie di sbagli strategici che hanno aumentato i rischi di una nuova guerra mondiale.

    Anche se qualcuno vuole oggi attribuire al solo Trump e ai suoi modi tutt’altro che diplomatici i problemi, interni ed esterni, che il mondo Occidentale si trova ad affrontare essi datano da molto prima.

    Se guardiamo alla storia recente degli ultimi trent’anni possiamo vedere quali sbagli Washington ha commesso per farci temere di una catastrofe mondiale. Non che prima del 1989 tutto fosse stato fatto con lungimiranza e per accertarlo basta vedere che nessuna Agenzia americana capì fino all’ultimo la debolezza politica dello Scià iraniano. Fu anche per quella cecità che a Teheran, dopo la rivoluzione, nacque un regime totalmente ostile. Come non fosse bastato il non aver prevenuto gli eventi, gli USA detterò ospitalità allo Scià stesso nonostante la dichiarata diffida formulata dal regime degli Ayatollah. La conseguenza fu l’occupazione dell’Ambasciata di Teheran cui seguì il disgraziato tentativo della liberazione militare degli ostaggi. Non solo il blitz non riuscì a causa di varie inefficienze militari ma morirono 8 soldati americani. Da allora i rapporti con un Paese che era ricchissimo di materie prime e vantava una cultura millenaria furono solo ostili. Nei confronti dell’Iran fu poi commesso in seguito un altro grave errore e questa volta da Trump nel suo primo mandato: la decisione unilaterale di disdire lo JCPOA. Oggi, anziché essere isolato, l’IRAN fa parte dei BRICS e esporta petrolio quanto non faceva più dal 1978.

    Un altro grave errore compiuto quando ancora esistevano due blocchi fu commesso quando per l’Europa si presentò per la prima volta l’occasione di costruire un esercito comune (a parte la fallita CED del 1954). Attualmente sembra che anche da oltre-oceano lo si auspichi ma allora ci fu proibito. Chi espressamente si oppose a quell’ipotesi fu, nel 1998, il Segretario di Stato Madeleine Albright che avvertì gli europei che Washington avrebbe giudicato negativamente ogni decisione europea in quel senso: nessuna duplicazione della NATO sarebbe stata ammessa e quando si fosse trattato di appalti per la difesa dovevano essere gli USA a decidere chi avrebbe, o non avrebbe, potuto parteciparvi tra i Paesi al di fuori dell’Alleanza. Poco dopo toccò a un altro fanatico corto-vedente impedire il rafforzamento militare dell’Europa: Paul Wolfowitz un neo-conservatore. Gli europei si erano riuniti a Berlino nel 2003 con l’obiettivo di creare una forza di reazione rapida europea capace di intervenire in crisi internazionali senza dipendere completamente dagli Stati Uniti. Si parlò anche di istituire una cellula civile-militare all’interno dello Stato Maggiore UE per pianificare e coordinare operazioni militari in modo autonomo. Con l’intenzione di impedirlo, all’incontro arrivò Paul Wolfowitz, Sottosegretario di Stato USA, e assieme alla famigerata Victoria Nuland (quella che per impedire una soluzione negoziata e pacifica delle dimostrazioni di Maidan a Kiev nel 2014 disse che bisognava eccitare gli scontri. Al suo ambasciatore che manifestava le perplessità degli europei disse “Fuck the EU”) esercitarono pressioni affinché non si sviluppasse alcuna struttura militare autonoma.  Furono così riconfermati il controllo e l’unilateralismo americano in contrasto con le aspirazioni europee di un ruolo più equilibrato e militarmente multipolare. Il risultato: gli accordi detti di Berlin Plus permisero sì all’UE di usare proprie risorse ma solo in missioni dove la NATO non fosse direttamente coinvolta. Come usarle? Attraverso un esercito di soli 5000 uomini (sic!) con comando a rotazione. Cioè: nulla. Anche oggi, quando sono gli stessi Stati Uniti a chiederci di rafforzare le nostre difese, la condizione è che tutto deve comunque essere coordinato con la NATO. L’errore? Impedirci di diventare dei veri partner per confermarci come “colonie” dell’Impero USA.

    Un altro grave errore strategico fu la seconda guerra del Golfo (2003) contro Saddam Hussein. Che costui fosse un delinquente politico è indiscutibile, ma la sua eliminazione costituì la fine dell’unica potenza militare confinante con l’Iran che poteva impedire il dilagare iraniano verso ovest. Dopo la caduta del regime di Saddam, a causa della tradizionale incapacità di capire culture diverse dalla loro, gli americani mandarono dapprima un incapace (Bremer) a gestire lo Stato in fieri e poi fecero nominare Presidente del Consiglio di Governo iracheno un tal Chalabi, sponsorizzato dalla CIA e dai neo-conservatori. Costui era soltanto uno scaltro sciita che ben presto si asservì agli interessi iraniani. Attualmente, l’Iraq è un Paese estremamente corrotto e fallimentare (salvo il Kurdistan che è quasi un’oasi felice) ed è egemonizzato principalmente da Teheran. La forma democratica resta solo un’apparenza.

    Lo sbaglio più grave in assoluto degli anni di inizio 2000 (tralasciamo qui per pietà i fallimenti in Afganistan, in Siria, in Libia ecc.) fu però l’atteggiamento verso la Russia, cui subito si allinearono servilmente e masochisticamente gli europei. Spiegare dettagliatamente gli errori che cominciarono a partire dalla fine dell’URSS diventerebbe molto lungo ma, per capire perché e come furono commessi occorre rifarsi alle visioni politiche di Zbigniew Brzezinski. Costui, collega e avversario di Kissinger, pur se molto meno intelligente, fu un politico e politologo polacco naturalizzato statunitense nel 1958. Consigliere per la sicurezza nazionale durante la presidenza di Jimmy Carter dal 1977 al 1981, divenne anche collaboratore di altri Presidenti e docente universitario ascoltatissimo come esperto di politica internazionale, con particolare riferimento ai rapporti con l’Unione Sovietica. Gli stessi suoi estimatori temevano la sua ideologia intransigente, lo stile abrasivo e l’incapacità di lavorare con una squadra. Di lui si ricordano molti suggerimenti che si dimostrarono poi gravi abbagli. Ad esempio il finanziamento dei mujahiddin in Pakistan e Afghanistan durante la guerra fredda e, nel 1999, il bombardamento della Jugoslavia. In merito al sostegno ad Al Qaida in Afganistan Brzezinski (e i suoi sodali) non capirono che quei fanatici islamisti odiavano i sovietici come odiavano gli occidentali e il risultato si vide soltanto in seguito, con l’11 settembre 2001. Nel 2011 appoggiò apertamente l’intervento della NATO in Libia contro Gheddafi e nel 2014, dopo il referendum che sancì l’annessione della Crimea alla Russia, affermò che l’azione russa “meritava una risposta” e paragonò Putin a Hitler e Mussolini. Il suo pensiero politico (che ha influenzato tutti i Governi americano dal 1989 in poi) è riassunto nel suo libro “La grande scacchiera” del 1997. In quelle pagine Brzezinski riprende il concetto ottocentesco di “Grande Gioco” (quello tra Russia e Gran Bretagna in Asia centrale nel diciannovesimo secolo) e lo proietta in chiave globale. La metafora della scacchiera indica che gli Stati Uniti devono muovere i pezzi (alleanze, istituzioni, basi militari, diplomazia) per mantenere il vantaggio su tutti i possibili concorrenti mondiali. Per farlo, la priorità è impedire che emerga una potenza egemone in Eurasia capace di sfidare la leadership americana. Secondo lui, poiché per dimensioni e armamenti ereditati dall’URSS Mosca potrebbe diventare egemone su qualche parte dell’Eurasia, occorre “contenerla”. Come? Allargando al massimo la NATO. In particolare: «Senza l’Ucraina, la Russia cessa di essere un impero eurasiatico», ed ecco così spiegato l’interesse americano verso Kiev, altro che esportazione della democrazia! Brzezinski aveva suggerito di incorporare l’intero ex patto di Varsavia all’interno di Unione Europea e Alleanza Atlantica e, infatti, uno dopo l’altro furono inglobati nella NATO e nell’Unione Europea. Ciò nonostante le celebri rassicurazioni che ciò non sarebbe mai avvenuto fatte a Mikhail Gorbaciov da Manfred Woerner, segretario generale dell’Alleanza atlantica, e da altri dal 1988 al 1994. Nel 2008 al vertice NATO di Bucarest Washington inserì nell’ordine del giorno l’ingresso nella NATO di Georgia e Ucraina. Al momento si opposero però Germania e Francia perché, sostennero, “ciò avrebbe significato uno schiaffo alla Russia che sarebbe stata obbligata a reagire”. Di questo avviso, contrario a una estensione dell’Alleanza senza limiti, si dichiararono in varie circostanze anche Kissinger e l’ex Ambasciatore a Mosca George Kennan (costui che fu il padre della teoria del “contenimento” dell’URSS riteneva un grave errore applicare quel concetto alla nuova Russia). Già nel convegno sulla sicurezza di Monaco del 2007 Putin denunciò l’espansione della NATO verso est, definendola una minaccia alla sicurezza della Russia. Come risposta, la Clinton, allora Segretario di Stato, nel 2009 si presentò a Mosca con un pulsante che diceva: “reset”, alludendo ad una presunta volontà americana di ristabilire buoni rapporti con la Federazione Russa. Putin accettò ma l’aspettativa positiva fu presto smentita da nuovi tentativi di “rivoluzioni colorate” spalleggiate dall’Occidente in Paesi ex sovietici i cui Governi avevano relazioni strette con Mosca. La fiducia reciproca venne allora meno e non fu più recuperata. I russi avevano sperato loro fosse riconosciuta la possibilità di mantenere una certa influenza su Paesi che consideravano strategici per la loro sicurezza ma i fatti smentirono le promesse. Il colpo di Stato a Kiev del 2014 segnò il punto di non ritorno. Ebbene, l’attuale guerra in Ucraina è la naturale conseguenza dell’assedio cui la Russia è stata sottoposta dal momento della sua nascita come Stato. Prima di Putin lo fecero molte società americane che tentarono di acquisirne le ricchezze strategiche in modi più o meno legali con la complicità degli oligarchi di allora (vedi Khodorkovsky). Dopo l’arrivo al potere del nuovo Zar, fu il Governo americano e i Brzezinski vari, direttamente o tramite ONG etero-comandate, a condurre con una lotta politica senza scampo seppur mai dichiarata apertamente. Risultato: l’Europa ha dovuto rinunciare a commerciare con il Paese al mondo più ricco di tutte le materie prime e bisognoso del nostro know-how e dei nostri investimenti. In cambio, lo abbiamo buttato, seppure storicamente reticente, nelle braccia della Cina con la quale oggi guida i BRICS, lo SCO e la ribellione mondiale al potere dell’Occidente.

    Un secondo errore strategico altrettanto deleterio compiuto dagli americani fu l’atteggiamento verso la Cina dopo l’arrivo al potere di Deng Xiaoping. Furono diversi gli analisti indipendenti che intuirono subito che la nuova Repubblica Popolare Cinese avrebbe potuto, in un tempo non troppo breve, diventare un pericoloso concorrente per la supremazia Occidentale nel mondo, ma a Washington erano di altro avviso. Abbacinati dal grande sviluppo economico, gli stolidi americani si convinsero che il crescere della ricchezza avrebbe comportato una evoluzione politica verso forme di democrazia liberale (quindi controllabile anche dall’esterno) e, senza comprensione (come sempre) delle realtà storiche e sociali di altri Paesi, pensavano che la Cina sarebbe potuta diventare un nuovo “cliens” (nel senso latino) del potere americano. Protagonista di questo progetto fu Bill Clinton che pensava di utilizzare il libero scambio e gli investimenti USA come mezzi per integrare la Cina nell’ordine globale guidato dagli Stati Uniti. Fu a questi scopi che nel 1999 firmò con Pechino un accordo bilaterale e nel 2000, il Congresso degli Stati Uniti approvò la concessione dello status di “Permanent Normal Trade Relations” (PNTR) alla Cina, passo fondamentale per la sua adesione all’OMC che divenne effettiva nel 2001. Naturalmente gli europei, obbedienti come d’abitudine, non seppero opporsi. Nonostante la Cina non fu mai (e non lo è ancora) totalmente rispettosa delle regole dell’OMC, il suo ingresso nell’organizzazione le consentì di diventare la “fabbrica del mondo”. Con le conseguenze economiche e politiche sull’Occidente che oggi conosciamo.

  • Leader a Pechino

    La parata militare tenutasi recentemente a Pechino sulla grande piazza Tien An Men è stata certamente impressionante ma non sono i mezzi militari dispiegati né l’eccellente coreografia che dovrebbero preoccupare l’Occidente e gli Stati Uniti in primis. Ciò che dovrebbe costituire un avvertimento per chi ancora pensa che il mondo unipolare non sia ancora morto è il numero e il livello dei capi di Stato e dei vari leader di tanti paesi stranieri che hanno assistito alla riunione della SCO (Shanghai Cooperation Organization) e alla parata militare per l’80° anniversario della fine della Seconda Guerra Mondiale. La SCO non è formalmente un’alleanza militare, ma un forum di cooperazione politica, economica e di sicurezza. Tuttavia, tra i suoi obiettivi dichiarati c’è la “promozione” di un mondo “multipolare”, come “alternativa al predominio occidentale”. È bene guardare chi fa parte di questa organizzazione e a che livello vi erano rappresentati.

    I 10 Stati membri presenti:

    1. Repubblica Popolare Cinese – Presidente Xi Jinping
    2. Federazione Russa – Presidente Vladimir Vladimirovic Putin
    3. Repubblica dell’India – Narendra Modi, Primo Ministro
    4. Repubblica Islamica dell’Iran – Masoud Pezeshkian, Presidente
    5. Repubblica del Kazakistan – Kassym-Jomart Tokaiev, Presidente
    6. Repubblica del Kirghizistan – Sadyr Japarov, Presidente
    7. Repubblica Islamica del Pakistan – Shehbaz Sharif, Primo Ministro
    8. Repubblica del Tagikistan – Emomali Rahmon, Presidente
    9. Repubblica dell’Uzbekistan – Shavkat Mirziyoyev, Presidente
    10. Repubblica di Belarus – Aleksandr Grigoryevich Lukashenko, Presidente
    11. Mongolia come osservatore permanente (per ora) senza diritti di voto ma partecipante agli scambi diplomatici e ai vari temi in agenda: Presidente Ukhnaagiin Khürelsükh
    12. Erano inoltre presenti su invito:

    Presenti su invito:

    • Armenia – Primo Ministro Nikol Pashinyan
    • Azerbaigian – Presidente Ilham Aliyev
    • Cambogia – Primo Ministro Hun Manet
    • Egitto – Primo Ministro Mostafa Madbouly
    • Maldive – Presidente Mohamed Muizzu
    • Myanmar – Presidente ad interim Min Aung Hlaing
    • Vietnam – Primo Ministro Phạm Minh Chính
    • Laos – Segretario Generale e Presidente Thongloun Sisoulith
    • Nepal – Primo Ministro KP Sharma Oli
    • Turchia – Presidente Recep Tayyip Erdoğan
    • Turkmenistan – Presidente Serdar Berdimuhamedov
    • Malesia – Primo Ministro Anwar Ibrahim

    C’erano poi anche alcuni rappresentanti di organizzazioni internazionali:

    • Nurlan Yermekbayev – Segretario Generale dello SCO
    • Ularbek Sharsheev – Direttore dell’Esecutivo della Struttura Antiterroristica Regionale (RATS)
    • Kao Kim Hourn – Segretario Generale dell’ASEAN
    • Sergey Lebedev – Segretario Generale della CIS
    • Imangali Tasmagambetov – Segretario Generale dell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (CSTO)
    • Bakhytjan Sagintayev – Presidente del Consiglio dell’Unione Economica Eurasiatica (EEC)
    • Asad Majeed Khan – Segretario Generale dell’Organizzazione per la Cooperazione Economica (ECO)
    • Kairat Sarybay – Segretario Generale della Conferenza sulla Interazione e Misure di Fiducia in Asia (CICA)
    • Jin Liqun – Presidente della Banca Asiatica d’Investimento per le Infrastrutture (AIIB)
    • António Guterres – Segretario Generale delle Nazioni Unite

    Come non bastasse, alla parata militare i presenti al fianco di Xi erano ancora più numerosi e 26 tra loro erano Capi di Stato.

    Tra i nomi più importanti:

    1. Vladimir Vladimirovic Putin – Presidente della Federazione Russa
    2. Kim Jong-un – Presidente degli Affari di Stato della Repubblica Popolare Democratica di Corea
    3. Aleksandar Vučić – Presidente della Repubblica di Serbia
    4. Robert Fico – Primo Ministro della Repubblica Slovacca
    5. Miguel Mario Díaz-Canel Bermudez – Presidente della Repubblica di Cuba
    6. Masoud Pezeshkian – Presidente della Repubblica Islamica dell’Iran
    7. Denis Sassou Nguesso – Presidente della Repubblica del Congo
    8. Emmerson Dambudzo Mnangagwa – Presidente della Repubblica dello Zimbabwe
    9. Min Aung Hlaing – Presidente del Consiglio Amministrativo di Stato del Myanmar (capo della giunta militare)
    1. Woo Won-shik – Presidente dell’Assemblea Nazionale della Repubblica di Corea (Corea del Sud)
    2. Miguel Díaz-Canel – Presidente di Cuba
    3. Li Junhua – Sottosegretario Generale delle Nazioni Unite per gli Affari Economici e Sociali
    1. Dilma Vana Rousseff – Presidente della Nuova Banca di Sviluppo (NDB, BRICS), ex Presidente del Brasile
    2. Kao Kim Hourn – Segretario Generale dell’Associazione delle Nazioni del Sud-est Asiatico (ASEAN)
    3. Sergei Nikolaevic Lebedev – Segretario Generale della Comunità degli Stati Indipendenti (CSI)
    1. Ex Primi Ministri ed ex leader da: Nuova Zelanda, Giappone, Belgio, Svizzera, Romania
    2. Bob Carr – già Ministro degli Esteri dell’Australia
    1. Massimo D’Alema – già Presidente del Consiglio dei Ministri della Repubblica Italiana
    2. Daniel Andrews – già Premier dello Stato di Victoria (Australia)

    Tutto questo elenco (parziale) può sembrare noioso per chi legge ma è indispensabile conoscerlo ricordando che fotografa quasi la metà della popolazione mondiale. Se a questi numeri aggiungiamo i membri dei BRICS che non erano presenti a Pechino (Sud Africa, Brasile, Egitto, Etiopia, Emirati Arabi Uniti, Indonesia e Paesi partner) il totale degli esseri umani rappresentati da queste due organizzazioni (la SCO e i BRICS) supera il 60% della popolazione mondiale. Per avere un’idea del loro valore economico, tuttora in crescita, basta sapere che i BRICS hanno un PIL nominale di circa 28 trilioni di dollari USA, l’Unione Europea arriva solo a 20 trilioni e gli USA hanno un PIL di poco superiore a 30 trilioni. Oltre a ciò, è molto rilevante notare che ai due eventi organizzati da Pechino (anche come operazione di pubbliche relazioni) non erano presenti solo personalità rappresentanti Paesi notoriamente ostili all’Occidente ma pure alcuni membri della NATO e dell’Unione Europea.

    A questo punto occorre domandarsi come e perché così tanta parte del mondo sembra prendere le distanze (è un eufemismo) dal mondo Occidentale. Non siamo forse noi gli alfieri del “bene” che lottano contro il “male”? Non siamo i disinteressati difensori del sistema politico migliore in assoluto e cioè quella “democrazia” che, come nuovi Apostoli, stiamo cercando di diffondere in tutto il mondo (a volte con le armi)? Non siamo quelli che si sacrificano finanziando con armamenti e milioni di dollari i giovani ucraini che mandiamo a morire per “difendere la loro libertà e quella dell’Europa tutta”?

    Come è possibile che perfino qualche nostro stretto alleato, ad esempio la Turchia o la Slovacchia o altri, partecipando, si sia prestato a dare smalto a celebrazioni organizzate da uno Stato non democratico che aveva proprio l’intento di dimostrarsi forte di fronte a noi? Abbiamo sbagliato qualcosa?

  • Flussi migratori e soluzioni politiche

    La migrazione è una costante della storia dell’uomo. Le prove archeologiche e genetiche mostrano che il genere Homo è nato in Africa e da lì ha iniziato a diffondersi fino a popolare tutti i continenti. In quella fase questi spostamenti avvenivano verso terre prive di altri esseri umani, ma a un certo punto gruppi diversi iniziarono a incontrarsi. Non sappiamo quanto tali incontri avvenissero in modo conflittuale o pacifico, ma ciò che sappiamo con certezza è che le specie Homo erano originariamente più di una ma solo noi Sapiens siamo sopravvissuti. Un caso emblematico è quello europeo: i Sapiens incontrarono i Neanderthal altrettanto evoluti con i quali probabilmente entrarono in competizione, ma ebbero anche scambi e incroci biologici. Ancora oggi nel nostro DNA restano tracce di un periodo di convivenza. Più tardi, con l’espansione di Roma, popoli diversi furono conquistati e assimilati, generando nuove culture ibride dopo aver causato la fine delle altre. Questi esempi dimostrano che la migrazione, a lungo termine, produce trasformazioni e nuovi equilibri. Ma il percorso è raramente pacifico: l’arrivo dei popoli germanici contribuì non solo al crollo dell’Impero romano d’Occidente ma anche al disfacimento della società romana. Un caso ancora più emblematico di incontri non sereni tra culture molto diverse è stato l’arrivo degli europei nelle Americhe che portò al declino drammatico delle società indigene e alla sparizione delle loro culture.

    L’arrivo di gruppi numerosi, portatori di tradizioni differenti, può essere percepito come una minaccia alla coesione sociale, generando fenomeni di disorientamento, insofferenza e conflittualità. In questo senso, il compito delle istituzioni è quello di salvaguardare l’armonia interna e prevenire dinamiche di instabilità.

    La lezione storica è chiara: nel lungo periodo, le mescolanze culturali arricchiscono. Ma nel breve termine la convivenza non è mai semplice. L’analisi politologica sottolinea che il compito dei governi non è quello di riflettere sui processi di lungo periodo, quanto di gestire le implicazioni immediate delle migrazioni. Una società, infatti, possiede una propria identità collettiva fondata su valori, norme e pratiche condivise e l’arrivo improvviso di numerose persone portatrici di tradizioni differenti costituisce una minaccia alla coesione sociale. È in questi momenti che nascono tensioni, conflitti e comunque precarietà.

    Per questo il compito della politica non è quello di ricordare che “l’uomo è sempre migrato”, ma di affrontare le conseguenze concrete dei movimenti attuali. Regolare gli ingressi non significa negare la realtà storica della migrazione, ma garantire che essa non diventi fonte di instabilità.

    Le soluzioni politiche: esempi dal mondo

    Negli ultimi decenni, diversi Paesi hanno sperimentato strumenti di controllo più o meno severi. Eccone alcuni.

    • Stati Uniti: Chi oggi critica le misure decise da Trump nei confronti dei migranti irregolari, dimentica che le prime leggi per cercare di controllare le immigrazioni illegali furono emanate negli Stati Uniti negli anni 30. Così come non ricordano che già all’inizio degli anni ’90 la guardia costiera degli Stati Uniti iniziò ad intercettare in mare i possibili richiedenti asilo per portarli alla base navale statunitense di Guantanamo, a Cuba, dove avrebbero potuto godere di meno diritti di quelli disponibili sulla terraferma degli Stati Uniti, incluso l’accesso a informazioni sul loro possibile diritto di chiedere asilo, di essere rappresentati da un avvocato o di presentare un eventuale ricorso. Nel 1994 la base ospitava già più di 30.000 richiedenti asilo e, poiché già al completo, l’amministrazione del Democratico Clinton inviò 8.000 richiedenti asilo alla Howard Air Force Base nella zona del Canale di Panama e sulle navi ancorate nel porto di Kingston in Giamaica. Alcuni di loro, in seguito, furono reinsediati come rifugiati in altri paesi tra cui Australia, Nicaragua, Panama, Spagna e Venezuela in cambio di favori diplomatici verso i governi che li accettavano.
    • Australia: Imitando il modello di Guantanamo, con la Pacific Solution (dal 2001) ha trasferito i migranti intercettati in mare nei centri di detenzione offshore di Paesi terzi quali Nauru e Manus Island. Una misura costosa, ma ritenuta necessaria per disincentivare i viaggi irregolari.
    • Israele: Nel 2013 ha offerto a migliaia di eritrei e sudanesi un’alternativa: 3.500 dollari e trasferimento in Ruanda (grazie a un accordo segreto con quel Governo), il ritorno in patria o la detenzione a tempo indeterminato. Il Ministro degli esteri ruandese, nel maggio 2025, ha comunque affermato essere in corso una negoziazione anche con l’amministrazione Trump per accogliere i migranti espulsi dagli Stati Uniti.
    • Danimarca e Regno Unito: hanno tentato accordi simili con il Ruanda; Londra ha dovuto sospendere il progetto a seguito della bocciatura della Corte Suprema, che temeva per la sicurezza dei richiedenti asilo. La Danimarca ha dovuto sospenderlo due volte dietro insistenze dell’allora Commissione Europea (2011 e 2022).
    • Unione Europea: Su pressione tedesca, nel 2016 ha firmato con la Turchia un’intesa che prevedeva 6 miliardi di euro e l’esenzione dei visti per i cittadini turchi in cambio dell’ospitalità forzata per i siriani e altri medio orientali che cercavano di raggiungere i confini europei. Più recentemente, l’Italia ha siglato un accordo con l’Albania per localizzare in quel Paese potenziali richiedenti asilo provenienti da Paesi considerati non a rischio. Ciò fino a che non si fosse deciso o per la concessione dell’asilo o per il loro definitivo respingimento. Purtroppo, l’approccio italiano è stato contestato da alcuni magistrati che hanno dimenticato, probabilmente, come funziona la divisione dei poteri. Tuttavia, la soluzione è stata accolta positivamente sia dalla Commissione Europea sia da molti Stati membri che la vedono come un modello da applicare per la funzione deterrente che può esercitare sulle nuove possibili partenze.

    La storia ci mostra, dunque, che le migrazioni sono inevitabili e che, sul lungo periodo, contribuiscono a plasmare nuove culture. Ma ci insegna anche che i momenti di transizione sono delicati, segnati da conflitti e squilibri. Per questo, regolare i flussi non è un atto di chiusura ma di responsabilità. Significa garantire che l’accoglienza avvenga in modo sostenibile, senza compromettere la stabilità sociale e l’identità collettiva di chi accoglie.

    La politica, a differenza di chi si limita a studiare il fenomeno migratorio, ha il dovere proteggere l’armonia interna delle comunità. È un compito spesso criticato, ma necessario. Perché solo regole chiare e rispettate possono trasformare un fenomeno inevitabile in un’opportunità di crescita, evitando che diventi una fonte di divisione.

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