Ambiente

  • L’atomo in Italia? A Caorso ci sarà fino al 2036

    Doveva essere la centrale atomica più potente d’Italia, ma a tutt’oggi la centrale di Caorso resta una cattedrale nel deserto, un rottame di cui ci si deve ancora disfare. Inservibile per produrre energia dal momento in cui l’atomo è stato bandito in Italia, deve essere ancora dismessa, con tutti gli accorgimenti necessari vista la tipologia di impianto e il problema delle radiazioni.

    La struttura contiene tremila tonnellate di ferro e settemila di macchinari, valvole, tubature, bulloni, motori ampiamente made in Italy (a realizzare l’impianto hanno collaborato Ansaldo, Breda, Fochi, Enel e Cnen) e tenerla ferma e è costato quasi 300 milioni al giorno. C’è gente che ci ha lavorato, o meglio è stata stipendiata fino alla pensione, senza mai vedere la centrale in funzione. Oggi Viviana Cruciani guida la squadra di Sogin (azienda specializzata nello smantellamento di impianti simili) che deve smontare pezzo per pezzo l’impianto e poi tagliare, svitare, decontaminare, riciclare, mettere in sicurezza tutto quanto.

    La dismissione degli impianti atomici italiani per i quai era stata creata appositamente la Sogin doveva doveva essere in realtà completata per il 2019, ma scadenze e costi sono stati ridefiniti più volte e la chiusura del ciclo è stata posticipata prima al 2025, poi al 2032; ora si parla già di 2036. L’impegno finanziario per smantellare l’intero parco nazionale, da Caorso a Latina, da Garigliano a Trino Vercellese, è passato da 5,7 miliardi a 7,5 miliardi. Per quanto riguarda specificamente Caorso ci sono voluti sette anni per costruirla, quattro per aggiustarla e renderla più sicura, cinque per vederla funzionare. E venti per tenerla ferma. I cost preventivati all’epoca ammontavano a 140 miliardi di vecchie lire e salirono a 740. Ora  ci vogliono 460 milioni di euro per smantellarla.

    Lo smantellamento produrrà 322 mila tonnellate di materiali, tra metallo e calcestruzzo. Come 3 portaerei, 40 torri Eiffel o l’intero l’Empire State Building. «Di queste tonnellate almeno 300 mila composte da metalli e calcestruzzo saranno inviate a recupero», dice Cruciani.

    Il futuro, una volta compiuta la dismissione, è una sorta di via Gluck a contrario: lì dove c’era il cemento ci dovrebbe essere il verde. Sogin, la societa pubblica responsabile della dismissione degli impianti nucleari in Italia e della gestione dei rifiuti radioattivi, si è impegnata nella riqualificazione e nel riequilibrio ambientale dell’area. Gian Luca Artizzu, amministratore delegato di Sogin, dice che «la nuova vita dei siti nucleari va resa disponibile in ottica di economia circolare». Primo obiettivo è la minimizzazione dei rifiuti radioattivi. Impresa che deve fare i conti con un’incognita che pesa sulla politica: dove mettere le scorie. In Italia non c’è il sito per lo stoccaggio. Non c’è mai stato. Quelle di Caorso riprocessate e ridotte sono in attesa del deposito nazionale. La carta delle aree idonee di Sogin ha indicato 51 località. Il ministero dell’Ambiente deve valutarne l’impatto sul territorio. Per anni si era parlato di Scanzano Ionico. Oggi è fuorigioco. Si palleggiano altre aree in provincia di Torino, Alessandria e Viterbo.

  • Taiwan fissa il prezzo per le industrie per le emissioni di carbonio

    Il ministero dell’Ambiente di Taiwan ha fissato un costo di 300 nuovi dollari taiwanesi per ogni tonnellate di carbonio emessa da industrie ad alto impatto ambientale. La tassa è destinata ad aumentare fino a 1.200-1.800 nuovi dollari taiwanesi entro il 2030 ma contempla anche numerosi sconti, sia per le aziende che adottano programmi per ridurre il proprio impatto ambientale, sia – per evitare la delocalizzazione verso Paesi più tolleranti in materia – per quelle che potrebbero trasferirsi altrove.

    Le misure varate dal governo sono apparse troppo morbide agli ambientalisti, ma la tassazione tiene conto delle specificità di ciascun settore industriale. L’incentivo alla riduzione delle emissioni di carbonio rappresentato dal prezzo che ciascuna industria è tenuta a pagare per quanto emette è infatti diverso a seconda di quanto difficile sia, in virtù dello specifico ciclo produttivo, ridurre tali emissioni. Il provvedimento del ministero prevede costi crescenti per quelle aziende che nel tempo non si impegnino a ridurre progressivamente le proprie emissioni di carbonio, ma tutto il sistema di prezzi è calibrato sulla difficoltà per ciascun comparto a divenire più green di quanto sia oggi.

    La misura è stata introdotta nell’ambito del programma governativo che ha fissato per il 2030 una riduzione del 23-25% delle emissioni di carbonio rispetto al 2005 ed il ministero stima che contribuirà a una riduzione di tali emissioni del 14%. Nell’insieme, la misura cerca di contemperare l’obiettivo governativo di rendere Taiwan un’economia sempre meno impattante sull’ambiente con l’ovvia necessità di non sacrificare tout court le attività produttive del Paese sull’altare della tutela dell’ecosistema.

  • Attenti al lupo

    Anche in questi giorni sono comparsi articoli che sembrano vere e proprie sentenze contro i lupi, fortunatamente altri hanno riportato la questione alla realtà ma intanto continuano le azioni di bracconaggio che colpiscono soprattutto i lupi dispersi o i più giovani, ancora sprovveduti rispetto ai pericoli rappresentati dal mammifero a due gambe.
    Molti altri lupi sono uccisi dalle macchine, anch’io questa mattina ne ho trovato uno sul ciglio della strada e ho chiamato l’ambulanza veterinaria del centro per la cura degli animali selvatici perché venisse a prenderlo.
    Si trattava di una femmina ancora molto giovane, probabilmente non arrivava all’anno
    di età.
    In un dossier del comandante dei Carabinieri  forestali del gruppo di Parma si legge molto chiaramente che ”il lupo è un importante fattore nella riduzione del numero di cinghiali e di conseguenza della diffusione della peste suina, di caprioli e di altre specie che negli anni sono proliferate”.
    Nel dossier si evidenzia anche che le morti di alcuni cani possono essere attribuite “più che al lupo ai cinghiali”.
    La nota della Prefettura di Piacenza ha messo in rilievo come “i danni eventualmente provocati dai lupi sono integralmente risarciti e sono anche compensati dagli effetti positivi per l’agricoltura con il contenimento della fauna selvatica”.
    Qualche agricoltore ed allevatore ha anche ammesso che i lupi sono  stati e sono essenziali  per l’abbattimento delle nutrie che scavando le tane negli argini di fiumi e dei canali creano rilevanti problemi.
    Perciò, cari lettori, attenti al lupo, attenti a non investirlo e se ne trovate uno in difficoltà chiamate i carabinieri o il centro per gli animali selvatici più vicino a voi, attenti al lupo cioè siate anche voi portatori del messaggio per quella pacifica convivenza che salva l’ecosistema e perciò la nostra vita.

  • Prevenire è meglio che curare

    Tutti sappiamo, o dovremmo sapere, che prevenire è meglio di curare, di inseguire i problemi dopo che sono esplosi.

    La prevenzione è diventata di casa nei paesi del nord Europa dove, per l’accortezza di  governi, che non hanno dimenticato le tragedie del passato, che immaginano i pericoli del presente e che non vogliono farsi cogliere impreparati dai possibili scenari futuri, hanno ritenuto, con encomiabile accortezza, di cominciare a dare ai propri cittadini istruzioni chiare per affrontare eventuali situazioni di pericolo.

    In Finlandia un elevatissimo numero di tunnel, normalmente usati per quotidiane  attività, può dare rifugio a parte della popolazione la quale può contare  anche sui molti bunker costruiti, dagli  anni cinquanta in avanti,in ogni isolato o palazzo pubblico e in 3/4 giorni il comitato per la sicurezza del paese assicura di poter risolvere gran parte degli eventuali problemi. Per ogni evenienza è stato inviato via mail un vademecum con le informazioni necessarie in caso di calamità naturali o conflitti.

    In Danimarca l’agenzia per le emergenze ha fatto pervenire, a tutti gli adulti residenti nel paese, una mail con le istruzioni di quanto si debba tenere in casa per essere pronti ad eventuali, improvvise, emergenze: cibo, coperte, acqua, farmaci di prima necessità. Il governo ritiene che i cittadini  debbano avere  le scorte ed i presidi  minimi per resistere almeno tre giorni per consentire alle autorità di provvedere ad organizzare quanto necessario. Anche se i cittadini hanno avuto l’assicurazione di non dover temere un attacco immediato il governo ha istituito un ministero ad hoc per i rischi, compresi quelli cibernetici che preoccupano sempre di più

    In Svezia è stato, poche settimane fa, inviato agli abitanti un memorandum dal titolo “In situazioni di crisi o di guerra”. Già  in precedenza, il governo svedese si era messo in contatto con i capifamiglia per dare istruzioni e consigli nei casi particolari. Nel memorandum si invitano gli abitanti a fare scorte di alimenti che possano durare alcuni giorni e a non dare credito ad eventuali notizie che riguardassero la sicurezza interna od un eventuale cedimento  della resistenza in caso di invasione

    La Norvegia ha inviato ai suoi abitanti un libretto con le istruzioni per sopravvivere alcuni giorni in caso di eventi climatici particolari, guerra od altro, anche in questo caso si parla di scorte di cibo ed acqua.

    Giorni fa abbiamo appreso la decisione della Germania di dare alle proprie imprese un dettagliato promemoria su caso fare in caso di conflitto.

    Noi italiani siamo per natura abbastanza ottimisti, sempre convinti che i problemi tocchino ad altri e che noi riusciremo a cavarcela ma, tornando al vecchio detto “meglio prevenire che…” non sarebbe il caso che anche noi avessimo, dal nostro governo, suggerimenti su come comportarci in caso di sciagure?

    Senza per forza pensare a guerre più o meno imminenti negli ultimi anni abbiamo assistito, e molti vissuto, vari tipi di sciagure, spesso dovute ai cambiamenti climatici e tanti sono stati, anche a livello istituzionale, gli hacheraggi, frutto della guerra ibrida,mper non parlare del covid, che ci ha tenuto segregati, e del pericolo sempre presente di nuove pandemie.

    L’esempio del Paesi del nord Europa non potrebbe, dovrebbe, suggerire al governo un nuovo tipo di rapporto con il cittadino? Ciascuna famiglia non dovrebbe sapere come comportarsi, almeno nei primi giorni, In caso di eventi fuori dalla norma?

    Più o meno sommessamente lo chiediamo ai ministri competenti della Difesa, dell’Interno, della Sanità, dell’Ambiente e dell’Industria.

  • Il Kenya chiede di valutare anche l’impatto sugli animali dei mutamenti climatici

    Il Kenya ha lanciato un appello per portare sul tavolo di discussione sulla crisi climatica anche la fauna selvatica, minacciata dalla mancanza d’acqua o dalla riduzione dell’habitat. Specie iconiche come elefanti, rinoceronti bianchi e neri, leoni, iene, ghepardi e molti altri rischiano letteralmente di scomparire, vittime degli impatti del cambiamento climatico. il quotidiano The Star cita il segretario per la fauna selvatica del ministero del Turismo del Kenya, Shadrack Ngene, secondo il quale “le discussioni sulla fauna selvatica dovrebbero essere parte dell’agenda poiché anche loro subiscono gli impatti del cambiamento climatico come noi”.

    Il censimento del 2021 ha mostrato che il Kenya ha 36.280 elefanti, rinoceronti neri (897), rinoceronti bianchi (842), rinoceronti settentrionali (2), leoni (2.589), iene (5.189), ghepardi (1.160), licaoni (865) e bufali (41.659). Altri animali sono la giraffa Masai (13.530), la giraffa reticolata (19.725), la giraffa della Nubia (938), la zebra comune (121.911), la zebra di Grevy (2.649), l’eland (13.581), l’alcelafo (7.332), lo gnu (57.813) e la gazzella di Grant (66.709). Tuttavia, gli impatti del cambiamento climatico minacciano di spazzare via queste specie iconiche: il 5 novembre 2022, il Wildlife research and training institute (Wrti, l’ente keniano che si occupa dei parchi e della fauna selvatica) ha pubblicato un rapporto che mostrava che la maggior parte di queste specie erano morte a causa della mancanza di acqua e pascoli.

    “Come Dipartimento di Stato, stiamo facendo ciò per identificare tutte le misure di mitigazione, adattamento e resilienza necessarie, e poi stanziare un budget per esse in modo da poter anche mobilitare le risorse necessarie per garantire che il settore della fauna selvatica possa affrontare i problemi legati al cambiamento climatico” ha detto Ngene, annunciando che il piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici nel settore della fauna selvatica per il Paese sarà lanciato l’anno prossimo.

    Il Wrti, in uno studio, mostra che nelle precedenti due stagioni (da ottobre 2021 a maggio 2022) il Paese ha ricevuto precipitazioni inferiori alla media e sono stati registrati più di 1.000 decessi: le specie più colpite sono gli gnu, le zebre comuni, gli elefanti, le zebre di Grevy e i bufali, con gli ecosistemi di Amboseli, Tsavo e Laikipia-Samburu che sono stati i più colpiti. Secondo le statistiche, in quel periodo sono morti 512 gnu, 381 zebre comuni, 205 elefanti, 49 zebre di Grevy e 51 bufali. È già in corso una seconda fase del censimento nazionale della fauna selvatica.

    Un articolo della rivista online The Conversation Africa riferisce che dal 1960 a oggi la temperatura media delle pianure keniane del Masai Mar è aumentata di 5,3 gradi, che è calata la disponibilità di acqua e dunque anche la vegetazione e che gli animali sono sempre più in lotta, sia tra loro che con l’uomo, per la disponibilità di risorse idriche.

    Attualmente il governo del Kenya protegge il 19% del suo territorio, di cui l’8% è costituito da parchi e riserve e l’11% da riserve comunitarie o private: Ngene ha detto che lo Stato ha dovuto fornire un’alimentazione mirata per alcune specie di animali selvatici come la zebra di Grevy durante la siccità e ha detto anche che il Paese sta cercando di espandere le riserve comunitarie dall’11% al 20% entro il 2030, potenziando le aree per la cattura della Co2 e promuovendo un turismo sostenibile attraverso la governance e i piani di utilizzo del territorio. “Il settore della fauna selvatica nel paese contribuisce molto al raggiungimento di ciò che vogliamo ottenere in termini di mitigazione del clima, adattamento e resilienza” ha detto Ngene: il Kenya ospita 25.000 specie animali, tra cui molti grandi mammiferi, 7.000 specie di piante e 2.000 specie di funghi e batteri.

  • Cresce la produzione di energia fotovoltaica in Sardegna

    E’ sempre più “green” l’energia prodotta in Sardegna con il fotovoltaico. Nell’Isola, infatti, si contano ben 11.573 impianti connessi alla rete che producono 196 megawatt. Consistente anche il numero delle imprese che operano, direttamente o indirettamente, nel settore delle rinnovabili; sono 2.510 quelle che realizzano, montano e manutengono motori, generatori, impianti elettrici, turbine, e pannelli fotovoltaici, che producono energia, e trasformano le biomasse. Gli addetti sono circa 7mila. E’ questa la sintesi dell’analisi sul fotovoltaico realizzata dall’Ufficio Studi di Confartigianato Imprese Sardegna, che ha rielaborato i dati fonte Gaudì e Terna per il 2023. Nella classifica degli impianti attivi in Italia, aperta dalla Lombardia con 64.833, seguita dal Veneto con 48.839, l’Isola si pone all’undicesimo posto per impianti presenti. Nel 2022, in Sardegna, gli sistemi di produzione fotovoltaica erano 5.899. Per ciò che riguarda la potenza generata dagli impianti sardi, come detto, è stata di 196 megawatt nel 2023 mentre era di 137 mw nel 2022; la crescita registrata tra il 2022 e 2023 è stata del +431 per cento mentre nel periodo 2021 e 2022 è cresciuta del +44 per cento. In totale le FER, fonti da energia rinnovabile nell’Isola hanno prodotto 2.915 megawatt nel 2023 mentre erano 2.179 mw nel 2022. “Per ridurre i costi dell’energia, abbattere le emissioni, favorire la creazione di imprese e occupazione – commenta Giacomo Meloni, Presidente di Confartigianato Imprese Sardegna – va potenziato l’utilizzo di produzioni come quella fotovoltaica, anche favorendo gli investimenti in piccoli impianti per l’autoproduzione, privilegiandone l’installazione su capannoni e aree occupate di immobili produttivi per evitare il consumo di suolo, e promuovendo la realizzazione di comunità energetiche”.

    Confartigianato Sardegna, ricorda come la Regione, credendo fortemente nell’autoproduzione e nell’autoconsumo per edifici pubblici, imprese, case private e Comunità Energetiche, attraverso un bando che sarà pubblicato a breve, abbia messo a disposizione 678milioni, fino al 2030, per creare un circolo virtuoso nell’utilizzo dei fondi da parte delle aziende. “Le nostre imprese sono pronte a fare la propria parte e a sfruttare questa occasione – aggiunge Meloni – che consentirebbe una autonoma produzione di energia pulita, con il relativo consumo, riducendo i costi della bolletta e contribuendo a salvaguardare l’ambiente”. Per Confartigianato Sardegna, costruire un futuro sostenibile per le imprese e per l’Italia è una responsabilità collettiva. Gli sforzi degli imprenditori devono però essere accompagnati da politiche e interventi orientati ad affrontare la transizione energetica e ambientale. “Nonostante le incertezze legate alla rimodulazione degli incentivi per le rinnovabili – continua il Presidente di Confartigianato Sardegna – nella nostra Isola cresce questo tipo di fonte rinnovabile e reggono bene anche le aziende legate ai servizi, alla manutenzione degli impianti e alla generazione dell’energia stessa. Ciò fa bene all’ambiente e all’economia”. “I numeri – prosegue Meloni – sottolineano la vivacità di un comparto che punta sull’eco-efficienza e che offre grandi potenzialità di sviluppo alle piccole imprese, sia in termini di innovazione, sia del mantenimento dei posti di lavoro”.

    “Non dimentichiamoci che queste buone performance – rimarca – sono anche il frutto delle misure messe in campo dai Governi Nazionali. Pertanto è auspicabile che venga confermata l’attenzione verso questo settore, che punta sull’innovazione, con un know how ormai consolidato che ha dimostrato di portare ossigeno a numerosi settori, in particolare all’edilizia”. “Ed è proprio questo comparto che – conclude il Presidente di Confartigianato Sardegna – grazie alla crescita delle rinnovabili, unita agli interventi sul risparmio energetico potrebbe vedere ulteriormente crescere gli interventi dei privati sulla riqualificazione energetica degli stabili”. Sempre più imprenditori sardi fanno della sostenibilità e dell’efficientamento delle proprie aziende un impegno forte e costante. In Sardegna il 25 per cento delle realtà (circa 45mila, erano 14.520 solo nel 2018) ha investito in “prodotti e tecnologie a maggior risparmio energetico e/o a minor impatto ambientale”, classificandosi al 5° posto in Italia per attività produttive in “ambito green”, mentre è del 30,5 per cento (circa 57mila) la percentuale delle attività regionali che ha effettuato una “formazione adatta transizione green e sostenibilità ambientale” per i propri dipendenti; 9° posto nazionale. Alla transizione green sono interessati ben 80.222 addetti, il 25,8 per cento di tutte le imprese sarde attive nella filiera della casa (costruzioni, impiantistica, produzione materiali edili, legno, sughero, taglio e finitura pietra, studi di ingegneria e architettura), dell’autoriparazione, del trasporto merci e persone e di altre tipologie di produzioni. Nonostante queste performance, nell’Isola rimane difficile reperire il 45,5 per cento dei lavoratori con “competenze verdi e sostenibili”: all’artigianato sardo ne mancano più di 8mila.

  • Quel sottile desiderio eversivo

    “È allora forse arrivato il momento di pensare a qualcosa di più radicale, come per esempio l’istituzione di un organismo europeo che possa agire con una certa autonomia dalla politica pur essendo soggetto a valutazione e controllo dal Parlamento, un po’ sul modello di una banca centrale” – Lucrezia Reichlin, Corriere della Sera 1/12/ 2024

    L’indipendenza della attuale BCE dal mondo della politica e, di conseguenza, anche dal Parlamento Europeo rappresenta uno dei capisaldi istitutivi della stessa istituzione europea, per assicurarsi di mantenere l’indipendenza e la libertà dall’influenza delle singole nazioni e un potenziale condizionamento dalle singole compagini governative, come dalle maggioranze parlamentari.

    Quindi l’affermazione relativa ad un nuovo istituto ma “soggetto a valutazione e controllo del Parlamento…sul modello di una Banca centrale…” quando anche per la Banca d’Italia l’elemento di indipendenza risulta presente fino dal suo atto istitutivo del 1893.

    Questo modelli di riferimento, Bce e Banca Centrale nazionale, assolutamente lontani dalla realtà invece nascondono, oltre ad una discutibile competenza, la motivazione per giustificare e confermare la necessità di una imposizione del Green Deal proprio attraverso un nuovo organo europeo, svincolato dalle volontà degli elettori in quanto nominato e non eletto.

    In altre parole, si avanza la necessità di affermare, in un contesto di estrema difficoltà economica per ogni singolo paese dell’Unione europea, la necessità della creazione di un nuovo ordine, all’interno del quale viene considerata come elemento fondativo e qualificante la stessa transizione energetica, la quale diventa la ragione del delirio politico e quindi il collante di spiriti e visioni eversive.

    In considerazione, poi, proprio della assolutamente ininfluente ricaduta a tutela del territorio continentale di tali eurocentriche politiche ambientaliste, se si considera come in Cina siano stati autorizzati 218 GW il cui raggiungimento richiede l’apertura di sei centrali a carbone al mese con emissioni assicurate per i prossimi 75 anni, rimane allora l’implicito obiettivo della creazione di un nuovo ordine.

    Ecco quindi, anche se anche privo di ogni supporto scientifico e frutto semplicemente delle applicazioni ideologiche ad infantili competenze, che il perseguimento forzato della transizione ambientale rappresenta la motivazione per l’istituzione di un organo considerato superiore ad ogni istituzione europea, anche se privo di un consenso elettorale e svincolato dall’esercizio del diritto del voto.

    In questo rinnovato contesto allora paradossalmente si intravedono maggiori similitudini con un modello dittatoriale simile più alla Cina che non a qualsiasi altra democrazia occidentale.

    Il perseguimento della creazione di questo nuovo ordine risulta ormai chiara, e mentre una volta poteva essere semplicemente auspicata, ora si esplicita con i propri connotati mediatici del Corriere della Sera e del suo editore.

    Emerge ora un nuovo esempio di quel suprematismo ideologico espresso all’interno del movimento ambientalista, i cui esponenti di spicco hanno completamente perso il senso della democrazia e dei propri principi.

    Questo nuovo ordine, implicitamente eversivo rispetto ai principi democratici nazionali ed internazionali, non parte più, come in passato, dai ceti popolari che intendevano ribellarsi ad una “condizione di sfruttamento delle masse operaie” e da coloro che se ne facevano interpreti. Viceversa il nuovo desiderio eversivo nasce dal delirio espressione di una presunta superiorità intellettuale unita ad un suprematismo ideologico di chi, a torto, si considera “élite” culturale e conscio degli effetti devastanti per quelle “masse operaie” le quali sono destinate a pagare i costi di questa eversione ambientalista.

    Mai come ora il pensiero di Albert Camus risulta di una contemporaneità agghiacciante: “Il benessere dell’umanità è sempre l’alibi dei tiranni”.

  • Il lupo non un pericolo ma è in pericolo

    Spesso in questi ultimi tempi sono aumentate le richieste di aprire la caccia al lupo, di togliere il lupo dalle specie protette perché il loro numero è in aumento.

    Sommessamente ma a ragion veduta e con caparbia costanza continuiamo a sostenere che l’aumento del numero dei lupi è gran parte dovuto alla fantasia, alla voglia dei cacciatori di sparare a qualcosa di più impegnativo della lepre e di meno pericoloso del cinghiale, e che se si vede qualche lupo sceso più a valle questo è dovuto a ben note ragioni.

    Sappiamo infatti che i lupi inseguono caprioli e cinghiali e che questi animali sono ormai arrivati ai bordi dei paesi e delle città a cause delle molte immondizie abbandonate o dei cassonetti non chiusi ermeticamente, così come sappiamo che molti allevatori invece di smaltire correttamente le carcasse di animali morti e le placente attraverso i canali che la legge prevede per evitare anche un piccolo esborso di denaro le buttano sui letamai attirando così i lupi vicino agli allevamenti.

    Qualunque, anche superficiale, studioso della nature sa bene che delle nuove cucciolate della coppia alfa, l’unica che può riprodursi, pochi arrivano all’anno di età perché molti soccombono per tutti i pericoli e le malattie che esistono in natura, non ultima la rogna che corrodendo il pelo dei cuccioli li condanna a morte per ipotermia.

    Se a tutto questo aggiungiamo i lupi uccisi sulle strade, quelli vittima del bracconaggio, delle trappole e delle sevizie di alcuni sciagurati è facile capire che il problema lupi è un problema minimale anche per gli allevatori, se hanno l’intelligenza e la volontà di dotarsi di quei presidi di sicurezza che per altro sono loro offerti gratuitamente come i cani da guardiania.

  • Mercosur: dalla concorrenza alla solita speculazione

    Il declino culturale di un continente e della istituzione che lo rappresenta emerge in modo cristallino dalla incapacità di imparare dai fallimenti passati delle medesime strategie economiche e commerciali e, di conseguenza, riproporli in ogni differente contesto economico e strategico.

    La fine dell’accordo Interfibre all’inizio del 2000 ha favorito l’invasione del mercato europeo di prodotti privi di ogni tracciabilità provenienti da paesi a basso costo in manodopera e realizzati all’interno di laboratori privi di un minimo livello di sicurezza igienico sanitario così come di tutela dei lavoratori e con livelli salariali espressione di un’ulteriore speculazione, quindi assolutamente incompatibili con gli standard normativi europei.

    Proprio per la mancanza di una minima piattaforma normativa condivisa alla base di questo mercato globale, il costo di questa strategia lo hanno pagato i professionisti della filiera industriale e artigianale del tessile abbigliamento con la perdita di milioni di posti di lavoro in Europa.

    Tuttavia, in quegli anni si parlava di un accesso democratico al settore abbigliamento (proprio per i prezzi fuori mercato) non capendo come, senza una base di normativa condivisa, il principio della concorrenza si trasforma semplicemente in quello della speculazione.

    Quest’ultimo, poi, crea le condizioni di un arricchimento per i pochi gestori dei flussi commerciali, mentre tende ad impoverire gli stessi lavoratori che già operano nei settori interessati.

    In questo contesto contemporaneo, mentre l’amministrazione Biden ha già  introdotto la politica dei dazi nei confronti della concorrenza cinese, la quale verrà  confermata  ed amplificata dalla nuova amministrazione Trump, viceversa l’Unione Europea, dimostrando ancora una volta una volontà speculativa preferita a quella della crescita economica, intende ratificare l’accordo di libero scambio nel settore agricolo “Mercosur” ed aprire le porte del mercato europeo a prodotti del Sud America privi delle più elementari garanzie di tracciabilità.

    Basti ricordare come nelle colture europee negli ultimi trent’anni l’utilizzo di azoto risulti diminuito del -15% a fronte di un aumento nel Sudamerica del +45 %, mentre l’utilizzo del fosforo in Europa segni -65% ed in Sudamerica invece un +32% ed infine dei pesticidi aumentati del +24% in Europa ma contemporaneamente in Sudamerica del +413 %.

    In questo modo, un settore già in difficoltà come quello agricolo europeo non si apre alla concorrenza di prodotti equivalenti ma solo espressioni di un complesso normativo assolutamente incompatibile con le stesse europee.

    In relazione agli esiti delle aperture dei mercati europei ai competitor a basso costo di manodopera e senza nessuna base normativa condivisa, operata precedentemente per il tessile abbigliamento e calzaturiero, come ora nell’automotive e nell’immediato futuro anche in agricoltura, non sembrava lontano dal vero considerare come l’obiettivo della Ue risultasse finalizzato più alla creazione di nuove opportunità di speculazione che questi accordi sicuramente favoriranno. Quando, invece, una politica economica applicata ai diversi settori economici industriali e dell’agricoltura, proprio perché espressione di competenze adeguate, dovrebbe avere come unico obiettivo la crescita dell’intera economia europea in un contesto competitivo.

    Continuare a confondere il sano principio della concorrenza con una opportunità di speculazione rappresenta per la classe politica europea nella sua articolata complessità, e sostenuta dall’intero il mondo accademico, la principale ragione dello scenario problematico riservato al Vecchio Continente.

  • L’UE impegnata a concludere un accordo globale sulla plastica all’avvio dei negoziati finali

    Fino al 1° dicembre la Commissione partecipa ai negoziati sul trattato globale sulla plastica (INC-5) a Busan, Repubblica di Corea, con l’obiettivo di raggiungere un accordo su uno strumento globale per affrontare l’inquinamento da plastica. Insieme ai partner del G20, l’UE mantiene l’impegno a concludere i negoziati entro la fine dell’anno.

    Le priorità dell’UE per un accordo efficace comprendono la necessità di affrontare i livelli elevati e insostenibili della produzione primaria di polimeri di plastica, vietare le microplastiche aggiunte intenzionalmente nei prodotti e convergere attorno a una struttura nel nuovo strumento che affronti in modo completo la produzione di plastica. L’UE chiederà inoltre che i grandi produttori assumano una parte della responsabilità finanziaria per l’inquinamento da plastica, sulla base del principio “chi inquina paga”.

    Nel corso dei negoziati l’UE sottolineerà inoltre che, sebbene siano necessarie misure giuridicamente vincolanti a livello mondiale, dovrebbero essere tenute in considerazione anche le circostanze nazionali e dovrebbe essere garantita una transizione giusta.

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