Economia

  • Variabili innumerevoli e imprevedibili

    Chi pensa di poter spiegare il comportamento di Trump definendolo un “pazzo”, criticandolo per la sua apparente impreparazione alla politica internazionale o accusandolo di essere “ondivago” nelle sue decisioni annunciate e poi modificate in poco tempo è del tutto fuori strada. Dimentica, chi lo fa, che Trump non ragiona come siamo abituati a veder fare dai politici ma è, e resta, un uomo d’affari (seppur con i fallimenti alle spalle) e ogni suo comportamento lo denota. Già nel suo primo mandato usò spesso i dazi come uno strumento per le negoziazioni e li modificò o li annullò a seconda delle convenienze. Per ottenere ciò che vuole alza continuamente la posta, finge di dimostrarsi disponibile a negoziare e poi rilancia. Il suo obiettivo è “spiazzare” gli interlocutori, disorientarli e poi, poiché parte dal presupposto di avere in mano le carte più forti vuole ottenere il massimo risultato possibile. I suoi modi sono quelli di un bullo ignorante e prepotente, ma anche mostrarsi così gli fa gioco. Col sembrare irragionevole e imprevedibile lui crede (e forse ha ragione) di obbligare gli altri sulla difensiva e di renderli più disponibili ad evitare il peggio per loro.

    Se con la sua tattica sembra fare passi in avanti e altri indietro, la sua strategia è abbastanza chiara e lui sa bene ciò a cui mira. Il suo (e il nostro) problema è che nella vita degli uomini e delle società umane le variabili sono sempre infinite e nemmeno il piano più elaborato e, sperabilmente, lungimirante offre tutte le garanzie di successo. Bastano, spesso, fatti imprevisti e non voluti a modificare ogni risultato auspicato. Negli scacchi le variabili sono tutte calcolabili e l’avversario è uno. In politica, e soprattutto nella politica internazionale, gli amici possono diventare nemici (e viceversa) e ogni piccolo sassolino può trasformarsi in valanga. Uno degli eventi che probabilmente non aveva previsto e che lo ha costretto a parzialmente correggersi strada facendo è stato il crollo di valore dei titoli del tesoro americani. È facile immaginare che rientrasse nei suoi piani il “periodo di grazia” riguardante i dazi doganali ma, forse, è stato costretto ad anticipare i tempi.

    Trump ha abbandonato le giustificazioni ideologiche dei suoi predecessori ma l’obiettivo, e cioè uno sguardo americano-centrico sul mondo, è rimasto lo stesso. Gli USA hanno sempre usato il classico liberismo e l’idea della democrazia come fondamenti ideologici utili ad espandere la loro influenza. È cambiato, tuttavia, il contorno: con l’emergere di nuove potenze economiche e politiche è definitivamente finito il progetto di un mondo unipolare con a capo gli Stati Uniti. Attualmente, l’America di Trump non è più interessata a propagandare la globalizzazione, l’autorità morale o risolvere i problemi del mondo. L’”America First” si focalizza sull’interesse nazionale aperto a trattative pragmatiche basate sull’interesse reciproco. Con realismo, ora cerca soltanto di ottenere il massimo beneficio da ogni interazione nell’economia, nella sicurezza, nella politica. Se trova ostacoli nel negoziare questi benefici è pronto a usare la forza, sia essa economica o politica, ben conscio di essere tuttora il Paese del mondo più ricco economicamente e più possente militarmente. Nei limiti del possibile Trump cercherà di evitare una qualunque guerra poiché la trova controproduttiva e distruttiva, ma ciò non significa che escluderà del tutto e per sempre anche questa opzione, almeno come minaccia.

    I suoi obiettivi economici sono di ridurre il debito pubblico e di rilanciare le capacità manifatturiere degli Stati Uniti andate diluendosi nel mondo globalizzato, quello da loro stessi costruito nel passato. Per ottenere questi risultati deve riuscire a modificare la bilancia commerciale oggi fortemente sfavorevole e i dazi sono un importante strumento di pressione. Chi attualmente vanta un saldo positivo verso gli Stati Uniti dovrà accettare di riequilibrare l’interscambio o ne pagherà le conseguenze. Naturalmente il livello delle tariffe doganali sarà tale da garantire l’equilibrio che Trump considera ottimale. Parallelamente, punterà a indebolire il dollaro, seppur con cautela, per rendere più costose le importazioni e più convenienti le esportazioni.

    Per quanto riguarda la sicurezza Trump è ben conscio che, paradossalmente, il bipolarismo precedente alla caduta dell’Unione Sovietica garantiva la pace molto di più dell’attuale semi-anarchia mondiale. Il punto d’arrivo cui mira ora potrebbe essere una nuova “Yalta” ma, per arrivarci da una posizione di forza, pensa di dover aver più carte in mano, in modo da poter dettare una buona parte delle future condizioni agli altri soggetti che si siederanno al tavolo. Rientra in questo calcolo la volontà di riprendere il controllo sulle principali vie di comunicazione (vedi Panama) e, conscio del ruolo futuro che giocherà l’Artico, poter mettere le mani sulla Groenlandia. Contemporaneamente, vuole garantirsi i confini a nord (Canada) e a sud (Messico) anche per controllare sia i commerci che le immigrazioni abusive. Non si creda che questa sua politica sia del tutto nuova: già nel 1867 Andrew Johnson comperò l’Alaska e avanzò l’ipotesi di farlo anche con la Groenlandia, così come nel 1803 la Louisiana fu comprata dalla Francia. Nel 1895 Grover Cleveland intervenne nella disputa di confini tra il Venezuela e la Guaiana sulla base della dottrina Monroe che dal 1890 aveva stabilito che tutto l’emisfero Occidentale fosse una “riserva” degli USA. Il segretario di Stato Richard Olney lo espresse in modo molto chiaro “Gli Stati Uniti sono praticamente sovrani su questo continente e il loro fiat è legge verso i soggetti cui si indirizzano”. Nel 1903 Theodor Roosevelt intervenne per garantire la secessione di Panama dalla Colombia in modo da garantirsi l’esclusività per la costruzione dell’istmo. Perfino Woodrow Wilson non rinunciò a intromettersi sulla sovranità altrui e nel 1915 mandò i marines a Haiti “per ristabilire l’ordine”, mentre nel 1916 inviò le truppe in Messico per catturare il “ribelle” Pancho Villa.  Si conoscono poi i numerosi interventi “intromissivi” americani in Guatemala, nella Repubblica Domenicana, in Cile, in El Salvador, in Nicaragua e a Grenada. La prima proposta alla Danimarca per la Groenlandia appartiene a Harry Truman che offrì ben 100 milioni in oro nel 1946. L’atteggiamento assertivo e prepotente di Trump è quindi una conferma della norma piuttosto che una rottura della tradizione.

    Oggi, a differenza dei recenti Presidenti che lo avevano preceduto, Trump ha capito essere soltanto la Cina, e non la Russia, il vero competitor del potere mondiale degli USA e quindi sta puntando ad un accordo diretto con Mosca non perché, come pensano alcuni superficiali, pensi di poter staccare la Russia dalla Cina, bensì perché attraverso l’accordo di Mosca si creino le premesse per la Yalta definitiva a cui punta.

    Evidentemente, in questa partita l’Europa non è che soltanto un piccolo pedone sia dal punto di vista politico sia militare e ci sarebbe da stupirsi del contrario, visto la incapacità di noi europei, dal dopoguerra ad oggi, di saper diventare un vero soggetto politico. Viene da sorridere sentire chi parla di una “difesa europea” che sarebbe sensata e possibile soltanto se l’Europa fosse capace (ma come potrebbe farlo con i politici che ci troviamo attualmente?) di trasformarsi in una Federazione di Stati. Chi farnetica di una “difesa” costruita esattamente come è la Nato dimentica che quest’ultima ha funzionato sempre e soltanto avendo un “capo in testa” che imponeva l’unanimità. Dovremmo noi oggi riconoscere questo ruolo ai francesi e/o ai britannici come auspicano Macron e Starmer? Dio ce ne scampi! Decisioni con il voto di maggioranza? Si potrebbe fare, come già avviene, per gli aspetti marginali ma non quando si tratta di politica estera o di difesa. Non è possibile nemmeno immaginare una Federazione europea composta da 27 Stati, magari addirittura con l’aggiunta della disastrata e disgraziata Ucraina! A parte che alcuni, vedi Polonia e i Baltici ad esempio, stanno già più con gli USA che con Bruxelles (salvo da quest’ultima incassare i generosi benefici economici), una futura, possibile e democratica Federazione dovrà partire dai Paesi che più pesano: Francia, Italia, Germania, Spagna, cui potranno eventualmente aggiungersi altri volenterosi con politici lungimiranti. È scontato che dell’Europa attuale Trump non se curi, salvo chiederle (imporle?) di pareggiare la bilancia commerciale e comprare più armi e prodotti agricoli geneticamente modificati (ogm).

    Nel suo intento di arrivare ad un primo accordo con la Russia è ben chiaro al tycoon che Mosca non arretrerà di un millimetro dai motivi che l’hanno spinta ad entrare in guerra. Tuttavia, visto che quelle in Ucraina è sempre stata una guerra per procura, accettare pari pari le condizioni russe significherebbe riconoscere la sconfitta degli Stati Uniti sul campo di battaglia ed è per evitare l’immagine negativa che ne scaturirebbe che Trump ha preso platealmente le distanze da Zelensky e chiede a Kiev di rimborsare, in qualche modo, gli aiuti ricevuti da Washington. In altre parole, deve disconoscere la paternità americana della situazione e porsi solo come terza parte. In più, in una ipotetica pace imporrà all’Ucraina di consentire a società americane di giocare la parte del leone nella futura ricostruzione. Con buona pace degli illusi europei. Un accordo con Putin, se le condizioni di Mosca saranno accettate, è possibilissimo e questo aprirà nel futuro non molto lontano (e proprio con l’intermediazione di Mosca) l’apertura di un tavolo economico-politico con Pechino. A quel tavolo dovranno poter sedere tutti e tre, Usa, Russia e Cina e saranno loro, insieme, a decidere come spartirsi le zone di influenza nel resto del mondo. Se si arriverà a questa fase, anche per vantare un maggiore potere negoziale Trump potrebbe coinvolgere anche l’India, storico nemico della Cina. Così il quadro sarà completo. Davanti ad un accordo tra tutti questi Grandi, il resto del mondo, compreso noi europei, non potrà che accettare e subire. Il vero rischio per Trump è che il suo atteggiamento così violento verso gli alleati tradizionali potrebbe creare le condizioni per costoro di cominciare a valutare le possibili alternative, magari guardando proprio alla Cina. Anche se una nuova Yalta farebbe comodo a tutti i Grandi, arrivarvi con una zona di influenza più ampia già acquisita farebbe comodo nel momento delle negoziazioni.

    Chi può affermare con assoluta certezza come andranno le cose nella realtà? All’inizio di questo articolo scrivevamo che le variabili sono così innumerevoli e imprevedibili che tutto potrebbe cambiare. Chissà se in meglio o in peggio per l’Europa.

  • Panem et circenses

    Evidentemente la percezione della realtà economica e politica si dimostra spesso espressione di sensibilità contrapposte in particolare modo sulle posizioni sociali.

    A livello governativo le venticinque flessioni consecutive della produzione industriale non suscitano ancora oggi alcuna reazione politica, tantomeno strategica o fiscale, come se venisse considerata fisiologica di un periodo di difficoltà più generale. Prova ne sia che il governo già alle prime indicazioni negative relative all’andamento industriale ha comunque aumentato di 17 punti l’Iva, riportandola da 5% a 22%, oltre ad avere annullato gli sconti sulle accise dei carburanti introdotte dal governo Draghi.

    Successivamente, di fronte all’esplosione dei costi energetici che nel 2024 hanno costretto 1,2 milioni di famiglie a vedersi aumentata del +80% la bolletta energetica, il governo ha stanziato 3 miliardi come bonus energetico ma destinato a dei precisi profili sociali (reddito/composizione familiare), di fatto una implicita ammissione di mancanza di determinazione nell’adozione di una politica anticiclica.

    Viceversa si sono mantenuti tutti quei bonus “ad omnibus” (elettrodomestici, psicologo etc) i quali hanno solo il vantaggio di favorire un singolo settore a discapito di tutti gli altri, non presi in alcuna considerazione.

    Le aziende, intanto, hanno visto esplodere i costi energetici nel 2024 del +40% e di un ulteriore +15% per il primo trimestre 2025.

    In questo contesto Arera (Autorità di regolazione energia e reti) ha già anticipato come per il 2026 ci sarà un ulteriore aumento del costo energetico per famiglie ed imprese (+1,2%) oltre l’andamento delle quotazioni alla borsa di Amsterdam. Un fattore che determinerà una ulteriore perdita di competitività per le imprese italiane ed una caduta ulteriore della qualità di vita delle famiglie.

    Quindi, in oltre due anni, la insostenibilità dei costi energetici ha determinato ed amplificato il crollo della produzione industriale nel settore autoveicoli tornata a livello del 1956 (456.000 auto in ulteriore diminuzione nel primo trimestre 2025). Contemporaneamente in Spagna risulta raddoppiato fino ad un milione il numero di auto prodotte proprio grazie ad un corso energetico inferiore del -53% rispetto a quello italiano.

    In altre parole, la politica energetica si dimostra un fattore moltiplicatore aggiuntivo delle continue flessioni di produzione industriale, determinate anche dalla situazione internazionale problematica.

    In un simile contesto andrebbero completamente riviste le priorità della spesa pubblica il cui primo obiettivo dovrebbe essere quello di assicurare le migliori condizioni di competitività alle imprese e di serenità alle famiglie attraverso una riduzione sostanziale dei costi energetici. Una considerazione che non sembra interessare il governo in carica, tanto è vero che in piena crisi energetica destina cinque miliardi per la realizzazione di nuovi stadi. Miliardi i quali, uniti ai tre miliardi già stanziati per i bonus energetici, raggiungerebbero la cifra di 8 miliardi che vennero utilizzati dal governo Draghi per ridurre l’Iva di 17 punti applicata ai costi energetici, delineando in questo modo un orizzonte di speranza per le imprese e le famiglie.

    Quindi, se, come diceva Einstein, “non è possibile risolvere un problema con lo stesso livello di pensiero che sta creando il problema”, mai come ora sarebbe necessario, per non dire vitale, cambiare appunto gli obiettivi dell’azione governativa. Tralasciando, se non altro nell’immediato, faraonici progetti (ponte sullo Stretto) le cui ricadute economiche ed occupazionali risultano poco chiare allo stesso ministro, e viceversa privilegiare la destinazione di risorse economiche al perseguimento di una politica energetica che assicuri un futuro di competitività alle imprese e di serenità alle famiglie.

  • Coldiretti invoca lo Stato per fare fronte a Trump

    Enzo Gesmundo segretario generale della Coldiretti, prevede che i dazi americani impatteranno pesantemente sul sistema agroalimentare italiano: «A pagarne le conseguenze potrebbero essere tutti i cittadini italiani, non solo le imprese che sul mercato statunitense rischiano di perdere 1,6 miliardi. L`Italia non è solo un grande esportatore ma è anche un forte importatore di prodotti agricoli: nel 2024 ha raggiunto la cifra record di 22,5 miliardi con un aumento dell`8%. Dazi, contro-dazi e altre misure nocive rischiano di comprimere rapidamente mercati di prodotti come mais, soia e grano per i quali siamo autosufficienti rispettivamente per il 46%, 32% e 44% Si tratta di elementi determinanti per la dieta degli italiani, in maniera diretta come il grano per la pasta o indiretta come il mais e la soia destinati all`alimentazione degli animali da allevamento che poi producono il latte, la carne e i formaggi che finiscono sulle nostre tavole».

    Di fronte a questo scenario, Gismundo invoca «un nuovo piano agricolo nazionale che consente di colmare il gap produttivo, ma anche di generare effetti positivi su ambiente e paesaggio» argomentando che «la scomparsa dì terreni fertili ha bruciato 21 miliardi in valore di prodotti agricoli in poco meno di un ventennio, Confrontando i risultati dei censimenti agricoli dal 2000 al 2020, la superficie agricola totale è passata da 18,8 milioni di ettari a 16,1, con un calo netto di 2,7 milioni di ettari. Se si guarda più lontano, a causa della cementificazione e dell`abbandono l`Italia ha perso quasi 1/3 dei terreni agricola nell`ultimo mezzo secolo. Un fenomeno che ha avuto gravi ripercussioni sui raccolti ma anche sulla gestione del territorio e sulla stabilità idrogeologica del Paese, aggravando gli effetti dei cambiamenti climatici e delle condizioni meteo estreme».

    «Garantire un giusto reddito alle imprese agricole, che resta il nostro principale obiettivo» afferma Gismundo, e dichiara: «Partiamo ad esempio dall`emergenza siccità, ormai strutturale e che inevitabilmente limita le capacità agricole di vasti territori, in particolare al Sud. Pensiamo che un piano di invasi su larga scala, capace di garantire acqua ed energia e di prevenire gli effetti dei cambiamenti climatici, debba essere una risposta non più rimandabile. Oggi l`acqua piovana va a finire nei 230mila chilometri di canali lungo il Paese e sprecata nel mare. Insieme all`Anbi, l`Associazione nazionale delle bonifiche, abbiamo elaborato un progetto per la realizzazione di un sistema di bacini di accumulo con un metodo di pompaggio che garantirebbe riserve idriche nei periodi di siccità ma anche di limitare l`impatto sul terreno di piogge e acquazzoni sempre più violenti che accentuano la tendenza allo scorrimento dell`acqua nei canali asciutti. Fondamentale quindi il recupero degli invasi già presenti sul territorio».

  • Ambientalismo spaziale: i satelliti inquinano

    Una pioggia di satelliti Starlink attraversa l’atmosfera terrestre: nel solo mese di gennaio ne sono rientrati 120 giunti ormai alla fine della loro vita operativa, con un ritmo di circa 4 al giorno. Si tratta di un processo necessario che rischia, però, di minacciare l’atmosfera, ed è solo all’inizio: a partire dal 2018 la SpaceX di Elon Musk ha posizionato in orbita terrestre più di 7mila satelliti per l’Internet globale, che man mano rientrano bruciando nell’atmosfera per essere rimpiazzati da quelli di nuova generazione. A questi vanno aggiunte tutte le altre mega-costellazioni in fase di dispiegamento.

    Il rischio deriva dal fatto che, rientrando nell’atmosfera, i satelliti bruciano e si disintegrano prima di toccare il suolo per ridurre al minimo il rischio di detriti spaziali, ma così facendo rilasciano polveri di metalli inquinanti, come l’ossido di alluminio che corrode lo strato di ozono.
    “Gli Starlink sono fatti principalmente di alluminio, che quando il satellite evapora rimane in quota nell’atmosfera”, ha detto all’agenzia di stampa Ansa Alberto Buzzoni, astronomo dell’Istituto Nazionale di Astrofisica. “E la stessa cosa si verifica al momento del lancio, poiché i propellenti usati dai razzi, soprattutto quelli solidi, sono a base di ossido di alluminio. Tuttavia – prosegue – quando si parla di clima e di atmosfera si ha sempre a che fare con un sistema caotico ed estremamente complesso, dunque è difficile fare previsioni sulle conseguenze di questi eventi. Ad esempio, sappiamo che le particelle di alluminio rendono l’atmosfera più brillante, come tanti piccoli specchietti”, afferma il ricercatore dell’Inaf: “Riflettono quindi una maggiore quantità di luce solare raffreddando l’atmosfera, con un’azione opposta a quella dell’effetto serra”.
    Già uno studio pubblicato a ottobre 2023 sulla rivista dell’Accademia delle Scienze americana, Pnas, ha trovato prove del fatto che la disintegrazione dei satelliti lascia tracce persistenti nell’atmosfera: nei campioni raccolti da un aereo, i ricercatori hanno scoperto che il 10% delle particelle contiene alluminio e altri metalli provenienti proprio da satelliti e razzi. Un altro studio pubblicato a giugno 2024 su Geophysical Research Letters ha rilevato che la concentrazione degli ossidi di alluminio nell’atmosfera è aumentata di 8 volte tra il 2016 e il 2022. Un dato comprensibile, dal momento che la scomparsa di un solo satellite Starlink di prima generazione produce circa 30 chilogrammi di ossido di alluminio, che possono persistere poi per decenni.
    “Oggi i rientri sono dominati dai satelliti Starlink per una chiara faccenda di numeri, sono la popolazione dominante nel contesto complessivo dei satelliti in orbita”, ha detto sempre all’Ansa anche Gianluca Masi, astrofisico e responsabile scientifico del Virtual Telescope Project. “Questa è una criticità che può rappresentare un intralcio significativo alle osservazioni astronomiche – prosegue – soprattutto in certi momenti della notte e dell’alba”.

    Il rientro di satelliti sempre più numerosi è però dovuto anche agli effetti del ciclo solare, ora al suo massimo. “L’attività solare, infatti, rende più gonfia l’atmosfera – commenta Buzzoni – che arriva alla quota alla quale si trovano i satelliti in orbita bassa intorno alla Terra, frenandoli. È una buona cosa, perché in questo modo l’atmosfera agisce da spazzino dei detriti spaziali”. In ogni caso, i 120 Starlink rientrati il mese scorso non costituiscono più un caso particolarmente eclatante: “Questa è ormai la situazione normale – conclude l’astronomo – e il tasso di rientro rimarrà probabilmente simile per tutto l’anno”.

  • Astronaute miliardarie e caminetti spenti

    Bene! Un equipaggio di sei donne ha viaggiato nello spazio, undici minuti in orbita per il team della futura moglie di Bezos.

    Dopo che tanti hanno festeggiato poniamoci qualche domande, se è ancora lecito porsi delle domande: quanto è costato questo viaggio in termini di denaro e in termini di inquinamento e cosa ha prodotto in termini di conquista dello spazio?

    Astronaute, compresa la nostra Cristoforetti, ce ne sono già state e una addirittura, per un errore del sistema spaziale, è rimasta in orbita nove mesi. Perciò, che cosa significa un viaggio di undici minuti di sei turiste dello spazio? Forse che d’ora in poi, in effetti era già successo, i miliardari potranno decidere di farsi un giretto per guardare la terra dall’alto vomitando sulla stessa terra tutto quell’inquinamento che dovremmo cercare di eliminare perché l’universo intero sta soffocando.

    In sintesi: chi ha un caminetto non lo può accendere, periodicamente si parla anche di eliminare i forni a legna per la pizza, la macchina diesel è sul punto di essere definitivamente bandita, salvo poi spedirla nei Paesi poveri come se l’inquinamento dell’aria avesse delle barriere continentali, ma se sei multimiliardario e collegato ai pochi giri che ormai contano, da Musk a Bezos, puoi fare quello che ti pare perché con i soldi ormai, alla faccia della democrazia e della giustizia, puoi tutto.

    In questa società nella quale ogni giorno le violenze aumentano, come pure aumentano le disparità e le ingiustizie, prima o poi qualcuno dirà basta.

    Forse è il momento che ciascuno di noi cominci a dire basta.

  • Volontà distruttiva europea?

    Solo due giorni addietro o da un documento della Commissione Ambiente della Ue emergeva come la fibra di carbonio fosse stata inserita tra i materiali inquinanti, di conseguenza veniva proposto di metterla al bando dal 2029 nel settore Automotive.

    Le motivazioni risiedevano principalmente nei rischi legati al ciclo di vita del prodotto: i filamenti di carbonio, infatti, possono disperdersi nell’ambiente, causare irritazioni cutanee e complicare i processi di riciclaggio nel settore automobilistico (AutoBlog.it) *

    Successivamente, anche in considerazione delle reazioni incredule dell’intero settore automobilistico e delle società che si occupano di economia circolare e che rappresentano l’eccellenza tecnologica italiana, la Commissione, con la stessa leggerezza con la quale l’ha inserita, ora ha deciso di escludere la fibra di carbonio dalla lista dei materiali pericolosi.

    Tuttavia, nonostante questa frettolosa retromarcia, emerge chiaramente comunque come la volontà degli organi della Ue sia quella di azzerare l’intero settore automobilistico europeo spacciandolo come inevitabile conseguenza di una politica ambientale. Andrebbe ricordato, invece come le pale eoliche indicate dalla nuovelle vague ambientalista quale strumento principe per la generazione di energia pulita all’interno del Green Deal, vengano realizzate normalmente in fibra di vetro e legno di balsa unite da resina e rinforzate (esattamente come nel settore Automotive) con fibra di carbonio.

    Ora, se veramente l’intenzione della Commissione Ambiente fosse stata quella di abolire dal 2029 l’utilizzo della fibra di carbonio in ragione di una pericolosità nello smaltimento (non tenendo in alcuna considerazione i progressi italiani nel suo recupero [*]) risulta come naturale consecutio logica che il divieto imposto al solo settore automobilistico e non a quello energetico rappresenti l’ulteriore conferma di una strategia europea finalizzata all’azzeramento del settore Automotive, cominciata con l’imposizione del divieto di produzione e vendita di motori termici dal 2035. Andrebbe ricordato, infatti, ai componenti della Commissione Ambiente come la presunta nocività di un materiale non possa dipendere in nessun caso dal settore nel quale questo venga utilizzato e rappresenta una forzatura semplicemente ideologica che si possano determinare esiti diversi se impiegato nel settore automobilistico o in quello delle pale eoliche.

    Si conferma quindi la volontà da parte dell’Unione Europea di penalizzare ulteriormente il settore automobilistico, vincolandone lo stesso sviluppo tecnologico che l’utilizzo della fibra di carbonio esprime. Questo progetto strategico e politico conferma ancora una volta, nonostante il repentino dietrofront della Commissione, come nella Ue non emerga alcuna intenzione di tutelare la produzione e i posti di lavoro che il settore Automotive garantiscono.

    In questo senso va interpretata la volontà europea di azzerare i dazi sulle auto cinesi la cui energia per la loro fabbricazione deriva dalle 1162 centrali elettriche a carbone.

    Non è assolutamente condivisibile l’idea di privilegiare una alleanza anche solo commerciale con un regime totalitario il quale utilizza l’auto come elemento di destabilizzazione di uno dei principali settori industriali europei.

    (*) Ignorati tutti i risultati ottenuti in Italia nel recupero della fibra di carbonio negli ultimi anni (https://www.industriaitaliana.it/gruppo-hera-leonardo-recupero-fibra-carbonio/ –  https://www.renewablematter.eu/fibre-carbonio-hera-imola-impianto-riciclo)
  • Accordo con gli Stati Uniti ma no ai loro prodotti Ogm o alla carne

    Tutti speriamo che l’incontro tra Giorgia Meloni e Donald Trump dia buoni risultati e aiuti le trattative del Commissario europeo, occorre infatti essere capaci di dare vita ad una mediazione, un compromesso, utile all’economia ed ai cittadini dell’Unione Europea e degli Stati Uniti.

    Tra i problemi che ostacolano l’accordo è l’eventuale insistenza del Presidente americano a voler esportare in Europa prodotti alimentari che non sono in sintonia con le regole europee.

    Carni di animali allevati in modo difforme ai nostri protocolli di allevamento e tutti i prodotti Ogm non possono essere merce di scambio per ottenere il via libera ad altre nostre esportazioni perché la nostra salute resta un bene primario.

    Su questi problemi è da anni che si discute e che gli Stati Uniti insistono, siamo però ragionevolmente convinti che sia la Presidente del Consiglio che il Commissario europeo terranno fede all’impegno preso con i cittadini e col mondo dell’agricoltura.

    Sarà una trattativa difficile ma il Presidente americano ha tutto l’interesse ad evitare che si stringano, per colpa sua, maggiori rapporti tra l’Europa e la Cina che ci sta sempre più inondando di prodotti di largo consumo a basso prezzo, per non parlare di quanto è contraffatto e venduto sulla rete nonostante i molti controlli della Guardia di Finanza e dei nuclei anti contraffazione.

    Pur continuando ad avere seri dubbi sulla ragionevolezza di Trump sappiamo anche che ha già una volta fatto parziale marcia indietro e che vi sono, anche nei repubblicani, molti che non condividono la linea oltranzista e vogliono un accordo.

  • Il braccio di ferro Usa-Cina potrebbe bruciare valore per 2.500 miliardi di dollari

    Uno scenario estremo di disaccoppiamento tra i due principali mercati finanziari globali, quello statunitense e quello cinese, potrebbe comportare perdite fino a 2.500 miliardi di dollari a causa di vendite forzate di titoli azionari e obbligazionari da parte di investitori di entrambi i Paesi. È quanto emerge da un’analisi pubblicata il 14 aprile da Goldman Sachs. Secondo il rapporto, elaborato da un team di analisti guidato da Kinger Lau e Timothy Moe, gli investitori statunitensi potrebbero essere costretti a cedere fino a 800 miliardi di dollari in azioni cinesi quotate negli Stati Uniti, qualora nuove normative vietassero tali investimenti.

    Al contempo, la Cina potrebbe liquidare titoli di Stato e partecipazioni azionarie statunitensi per un valore complessivo stimato in circa 1.670 miliardi di dollari. L’ipotesi di un disaccoppiamento finanziario sta guadagnando terreno sulla scia dell’aggravarsi delle tensioni commerciali tra i due Paesi. Il segretario al Tesoro degli Stati Uniti, Scott Bessent, ha recentemente dichiarato che l’eventualità di un “delisting” delle aziende cinesi dai listini americani “resta sul tavolo”, nel contesto della nuova ondata di dazi imposti da Washington, pari al 145%, cui Pechino ha risposto con tariffe del 125 per cento su tutte le importazioni statunitensi e del 25% su una serie di beni selezionati.

    Nel rapporto, gli analisti di Goldman evidenziano l’accresciuto rischio di “delisting” per le aziende cinesi che operano negli Stati Uniti attraverso un certificato American depositary receipt (Adr). Una misura del genere colpirebbe circa 300 imprese, inclusi alcuni dei maggiori gruppi tecnologici cinesi. Alla data del 7 marzo, risultavano quotate a New York, sull’American Stock Exchange e sul Nasdaq, 286 aziende della Cina continentale con una capitalizzazione complessiva di circa 1.100 miliardi di dollari, secondo la Us-China economic and security review commission. Secondo James Wang, responsabile della strategia per la Cina di Ubs Investment Bank Research, il “delisting” avrebbe gravi conseguenze strutturali, tra cui l’accesso limitato alla liquidità dei mercati Usa, un possibile calo delle valutazioni e un’erosione della base di investitori. Tuttavia, ha osservato Wang, la raccolta di capitale attraverso Adr si è ridotta negli ultimi anni, a vantaggio del mercato di Hong Kong. Tra le principali società cinesi quotate a New York figurano il gruppo Alibaba (257 miliardi di dollari di capitalizzazione), Pdd Holdings (125,7 miliardi) e NetEase (64 miliardi). L’indice Nasdaq Golden Dragon China, che segue 68 società cinesi quotate negli Stati Uniti, ha perso il 15 per cento dall’inizio del mese, a fronte di un calo del 4,4 per cento dello S&P 500 e del 9,5 per cento dell’Hang Seng Index di Hong Kong.

    Nel 2022, cinque grandi aziende cinesi a controllo statale – tra cui PetroChina e Sinopec – si sono ritirate dai listini statunitensi in seguito a una controversia sugli standard di revisione contabile, poi risolta con un accordo tra le autorità di vigilanza dei due Paesi. Molte società cinesi hanno da allora avviato una doppia quotazione a Hong Kong per mitigare il rischio di “delisting”. Secondo Goldman Sachs, 27 aziende attualmente quotate solo negli Stati Uniti – per un valore complessivo di 184 miliardi di dollari – avrebbero già i requisiti per una seconda quotazione nella città asiatica. Tra queste figurano Pdd, Full Truck Alliance e Futu. Secondo gli analisti della banca statunitense, un’eventuale quotazione a Hong Kong “potrebbe favorire una rivalutazione” dei titoli, grazie alla possibilità per gli investitori statunitensi di convertire gli ADR in azioni ordinarie in caso di improvvisi shock di liquidità.

  • Dietro lo scontro tra Congo e Rwanda la competizione tra superpotenze per le risorse minerarie

    L’escalation dei combattimenti tra le Forze armate congolesi (Fardc) e i ribelli del Movimento 23 marzo (M23) nell’est della Repubblica democratica del Congo (Rdc), e in particolare nella provincia del Nord Kivu, ha riacceso il mai sopito conflitto regionale che affonda le sue radici nel genocidio del Ruanda del 1994, ma che trae origine dalla lotta per il controllo e lo sfruttamento delle risorse minerarie di cui la regione è ricca, a cominciare dal cobalto. I ribelli M23, sostenuti dal Ruanda, hanno infatti rivendicato il controllo della città strategica di Goma, capoluogo del Nord Kivu, fulcro di una regione che contiene migliaia di miliardi di dollari di ricchezze minerarie ancora in gran parte inutilizzate. Il gruppo – che è una delle oltre 100 fazioni armate che lottano per un punto d’appoggio nel Congo orientale – è composto principalmente da combattenti di etnia tutsi che non sono riusciti a integrarsi nell’esercito congolese, e che già nel 2012 guidarono un’insurrezione fallita contro il governo di Kinshasa, per poi restare dormienti per un decennio, fino alla ripresa delle attività ostili a Kinshasa nel 2022.

    Tra il 1996 e il 2003 la regione è stata al centro di un conflitto prolungato soprannominato “la guerra mondiale dell’Africa”, che causò la morte di circa 6 milioni di persone, mentre gruppi armati combattevano per l’accesso a metalli e minerali di terre rare come rame, cobalto, litio e oro. In un mondo che fa sempre più affidamento sui metalli e sui minerali rari, per via della crescente importanza che questi rivestono nella rivoluzione tecnologica e nella transizione “verde”, la posta in gioco è ora aumentata, così come gli interessi dei vicini Ruanda e Uganda, ma anche delle grandi potenze come Stati Uniti e Cina.

    Secondo il dipartimento del Commercio Usa, la Rdc è il principale produttore mondiale di cobalto (si stima che fornisca circa il 70% della produzione mondiale), un elemento essenziale per la produzione di batterie dei veicoli elettrici. Ciò nonostante, la maggior parte delle risorse minerarie del Paese – il cui valore è stimato in 24mila miliardi di dollari – resta inutilizzata. Inoltre, soltanto una minima parte della ricchezza prodotta dallo sfruttamento dei minerali è finora stata convogliata alla popolazione congolese, di cui il 60% vive al di sotto della soglia di povertà.

    La Rdc è il più grande produttore di cobalto al mondo con una produzione che si è attestata a 130mila tonnellate nel 2022, ovvero quasi il 70 per cento del cobalto prodotto a livello mondiale. Il Paese è anche il quarto produttore di diamanti industriali, con una produzione di 4,3 milioni di carati, mentre non dispone attualmente di miniere di litio attive, anche se sono in fase di sviluppo diversi progetti, tra cui quello relativo allo sfruttamento della miniera di Manono-Kitolo, che in passato produceva stagno e coltan fino alla sua chiusura, avvenuta alla fine del 1982. Il Congo vanta alcune delle riserve di rame di qualità più elevata al mondo, con alcune miniere che si stima contengano gradi superiori al 3 per cento, significativamente più alti della media globale, pari allo 0,6-0,8 per cento. Anche il settore dell’oro della Rdc sta assistendo a un rinnovato interesse da parte delle società minerarie, e nel 2021 la produzione di risorse minerarie è aumentata da 10 mila a quasi un milione di tonnellate.

    È in questo contesto che va inquadrato il conflitto in atto nel Nord Kivu, che ha conosciuto una significativa recrudescenza nelle ultime settimane con l’arrivo a Goma dei ribelli M23, sostenuti militarmente e finanziariamente dal Ruanda. L’offensiva dell’M23 sembra seguire una logica chiara, vale a dire il controllo sulle risorse naturali della regione: oro, cassiterite, coltan, cobalto e diamanti. Dopo aver inizialmente conquistato vaste aree delle regioni di Rutshuru e Masisi, i ribelli si stanno ora spostando verso l’area di Walikale, nota per la sua significativa produzione di coltan, un minerale strategicamente importante per la transizione energetica. Per queste ragioni, la crisi interessa da vicino le due grandi superpotenze globali, gli Stati Uniti e la Cina, e s’intreccia con il grande progetto infrastrutturale noto come Corridoio di Lobito, il maxi progetto ferroviario lungo 1.300 chilometri – finanziato dagli Stati Uniti e dall’Unione europea – che mira a collegare i bacini minerari della Rdc allo Zambia e al porto angolano di Lobito, sull’Oceano Atlantico. Un progetto che, nelle intenzioni di Washington, punta ad essere la risposta alla Nuova via della seta cinese (Belt and road initiative, Bri).

    In questo contesto, appare significativo il fatto che di recente Molly Phee, ex assistente del segretario di Stato per gli Affari africani sotto l’amministrazione Biden, abbia affermato che gli Usa avrebbero proposto – senza successo – di coinvolgere anche il Ruanda nello sviluppo della maxi infrastruttura ferroviaria, in cambio del ritiro del proprio sostegno ai ribelli M23. “Avevamo proposto a entrambe le parti (Ruanda e Congo) che, se fossimo riusciti a stabilizzare la Rdc orientale, avremmo potuto lavorare allo sviluppo di una diramazione dal Corridoio di Lobito attraverso la Rdc orientale. (I ruandesi) non hanno permesso quell’azione”, ha detto Phee in un’intervista rilasciata ai media internazionali prima della fine del suo mandato. “Abbiamo cercato di offrire incentivi positivi. Esiste un quadro autentico, fondamentalmente negoziato dalle parti, e al momento il Ruanda sembra essersi tirato indietro”, ha aggiunto. Secondo la diplomatica statunitense, l’offerta includeva anche una stretta sulle Forze democratiche per la liberazione del Ruanda (Fdlr), il gruppo ribelle hutu ruandese attivo nel Congo orientale dal genocidio del 1994, ritenuto fuorilegge dal governo di Kigali. Al contrario, nel settembre scorso il governo ruandese ha preferito siglare un importante accordo che prevede la costruzione di una ferrovia a scartamento standard che collegherà il porto di Isaka, in Tanzania, alla capitale ruandese, Kigali.

    Le abbondanti risorse naturali presenti nel sottosuolo congolese hanno finito per globalizzare il conflitto nella Rdc orientale. Mentre un tempo le aziende statunitensi possedevano vaste miniere di cobalto in Congo, negli ultimi anni la maggior parte di esse è stata venduta a società cinesi, tanto che il “South China Morning Post” descrive il Paese come “l’epicentro degli investimenti cinesi in Africa”. L’ascesa della Cina nell’industria estrattiva del cobalto della Rdc è stata causata dalla significativa diminuzione degli investimenti statunitensi. Nel 2016, ad esempio, la società mineraria dell’Arizona Freeport-McMoRan ha venduto Tenke Fungurume – un sito di estrazione di rame e cobalto – alla China Molybdenum Company. Nel 2020, inoltre, la Freeport-McMoRanha effettuato un’altra vendita di un sito di rame e cobalto non sviluppato alla China Molybdenum Company. In entrambi i casi, le uniche aziende con offerte competitive erano aziende cinesi. Le principali imprese di Pechino che operano nel Paese includono Chengtun Mining, China Molybdenum, China Nonferrous e Huayou Cobalt. Secondo l’Istituto di studi strategici (Ssi) dello Us Army War College, le imprese statali e le banche cinesi controllano l’80 per cento della produzione totale di cobalto congolese, e delle dieci miniere più grandi al mondo, nove si trovano nella regione del Katanga, nel sud della Rdc: di queste, la metà è di proprietà di aziende cinesi. Anche nella raffinazione del cobalto la posizione delle imprese statali cinesi è dominante: le loro raffinerie rappresentano tra il 60% e il 90% della fornitura globale. Inoltre, il 67,5% del cobalto raffinato della Cina proviene dalla Rdc.

    Secondo il Council on Foreign Relations (Cfr), think tank statunitense specializzato in politica estera e affari internazionali, le società collegate alla Cina controllano tuttora la maggior parte delle miniere di cobalto, uranio e rame di proprietà straniera nella Rdc e l’esercito congolese è stato ripetutamente schierato nei siti minerari nell’est del Paese per proteggere le aziende cinesi. La Cina è inoltre pienamente coinvolta nel conflitto interno nell’est della Rdc e nella sua economia: il governo congolese sta infatti combattendo i ribelli M23 con l’aiuto di droni e armi cinesi, e la vicina Uganda – schierata al fianco del governo di Kinshasa – ha acquistato armi cinesi per svolgere operazioni militari all’interno dei confini congolesi. Gli accordi che Pechino ha negoziato con la leadership congolese, in particolare durante la presidenza di Joseph Kabila, hanno aiutato le aziende cinesi a garantire un accesso senza precedenti ai metalli che consentono loro di produrre in serie elettronica e tecnologie per l’energia pulita.

    Il predominio della Cina nella filiera del cobalto è il risultato degli investimenti di Pechino nelle miniere della Rdc e di quelli a lungo termine nelle infrastrutture di trasporto nei Paesi circostanti, come Tanzania e Zambia. È il caso dell’accordo siglato nel settembre scorso con i governi di Dodoma e Lusaka per ristrutturare e ammodernare la vecchia ferrovia Tanzania-Zambia (Tazara), lunga 1.860 chilometri e che collega la città zambiana di Kapiri Mposhi al porto tanzaniano di Dar es Salaam. Un’intesa che rientra pienamente nell’ambito dell’Iniziativa Nuova Via della seta cinese. La linea ferroviaria fu costruita tra il 1970 e il 1975 grazie a un prestito non oneroso della Cina, offrendo una rotta per il trasporto merci dalle miniere di rame e cobalto dello Zambia alla costa tanzaniana, aggirando così il Sudafrica e l’ex Rhodesia (l’attuale Zimbabwe). La ferrovia attualmente esporta cobalto e altri minerali dallo Zambia e, in futuro, potrebbe essere un modo importante per le aziende cinesi di estrarre cobalto dalla regione del Katanga meridionale, nella Rdc, e di trasportarlo fino a Dar es Salaam. Nel febbraio 2024 Pechino ha peraltro annunciato l’intenzione di spendere fino a un miliardo di dollari per modernizzare la ferrovia Tan-Zam, in cambio del suo controllo operativo, il che potrebbe aumentare esponenzialmente le esportazioni di minerali essenziali verso la Cina.

    Qualcosa, tuttavia, sembra essere cambiato con l’ascesa al potere a Kinshasa del presidente Felix Tshisekedi, subentrato a Kabila nel 2019. In quello stesso anno la Rdc ha stretto un accordo di cooperazione militare con gli Stati Uniti, che prevedeva tra le altre cose l’addestramento di ufficiali congolesi negli Usa. Nel 2023 il governo di Kinshasa ha inoltre chiesto e ottenuto la rinegoziazione di un accordo da 6 miliardi di dollari siglato nel 2008 con Pechino, ritenuto troppo svantaggioso per il Paese africano. L’anno dopo, nel 2024, gli Stati Uniti hanno sanzionato i ribelli dell’Alleanza del fiume Congo (Afc), della quale fa parte l’M23, accusati di voler rovesciare il governo di Kinshasa e di alimentare il conflitto nell’est del Paese africano. Un mese dopo, Tshisekedi ha apertamente accusato il suo predecessore, Kabila, di appoggiare i ribelli con l’obiettivo di “preparare un’insurrezione”.

    L’idea che proprio di un’insurrezione si tratti sembra essere confermata in questi giorni dal leader dell’Afc, Corneille Nangaa, che ha chiarito che l’offensiva non si fermerà a Goma e che l’obiettivo finale è Kinshasa. L’avanzata ribelle, insomma, sembra voler impedire a Tshisekedi un possibile riavvicinamento a Washington, con tutto ciò che ne consegue in termini di sfruttamento dell’immenso potenziale minerario del Paese. Il Ruanda, che di questo tentativo appare il manifesto regista, potrebbe invece aver trovato una importante sponda internazionale in Pechino. I due Paesi hanno di recente elevato le relazioni al rango di partenariato strategico lo scorso settembre e a dicembre, durante una visita a Doha, Kagame ha elogiato pubblicamente il ruolo della Cina in Africa. “È una relazione senza le tante condizioni poste da altri Paesi del mondo, da cui riceviamo tanto in termini di lezioni e poco in termini di valore”, ha detto

  • Qualche risparmio con la riduzione dei parlamentari, ma la democrazia non è mera contabilità

    Produrre di più, o almeno lo stesso, con meno risorse è la ricetta dell’efficienza. Nel caso della macchina pubblica l’efficientamento è difficoltoso e secondo alcuni anche controproducente in termini di democrazia, ma la riduzione dei parlamentari ha dato qualche frutto, almeno in termini di costo. A fronte di una dotazione di 943 milioni sia nel 2021 (quando non era ancora scattata la riduzione dei parlamentari) che nel 2023 (a riduzione scattata), la Camera dei Deputati ha registrato spese in lieve calo, da 1,241 a 1,234 miliardi, entrare in aumento, da 1,240 a 1,284 miliardi, e un saldo di esercizio passato da 8,4 milioni a 59 milioni.

    Ne è valsa la pena? In termini di democrazia, che non è mera contabilità, il dubbio resta aperto. L’attività del Parlamento nel suo complesso, tra sedute d’aula e lavori di commissione, è rimasto sostanzialmente lo stesso, ma sempre più, come attestano le analisi della Fondazione Openpolis sui lavori parlamentari, le Camere si stanno riducendo a un ruolo notarile, di passacarte del governo più che di proposizione e propulsione dell’attività di governo. Anzitutto sotto il governo Conte, il Parlamento ha dedicato la sua attività alla conversione in legge di decreti legge emananti dall’esecutivo (è bene sottolineare che si tratta di decreti legge, non dei regolamenti amministrativi coi quali quel governo governò durante il Covid, facendo ampio ricorso ad atti che, pur determinando quanto i cittadini potevano o non potevano fare, non richiedevano di essere valutati dal Parlamento vista l’opportunità di ridurre anche le sedute parlamentari all’epoca della pandemia).

    La subalternità del Parlamento al governo invero trova le sue cause in radici più profonde della riduzione del numero di rappresentanti nelle due Camere, anche se certamente meno eletti significa meno voci, e anzitutto alla sempre maggior necessità di celerità delle decisioni in ambito internazionale, nel quale sono i governi ad accordarsi tra loro perché i rispettivi Stati assumano una posizione o misure comuni di fronte alla varie problematiche globali, ma il loro accordo vale e produce effetti solo se i rispettivi Parlamenti lo approvano.

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