Economia

  • Panda elettrica: il paradosso energetico europeo

    La Commissione Europea ha preteso nel 2022, come forma di ritorsione in seguito all’inizio della guerra russo ucraina, di azzerare le importazioni di gas dalla Russia.

    Gli stessi vertici istituzionali europei avevano previsto il sicuro default dell’aggressore russo nel giro di pochi mesi (le previsioni per il 2024 indicano il Pil russo tre volte quello europeo dopo un 2023 già doppio).

    Contemporaneamente la UE ha imposto una transizione energetica che prevedeva un azzeramento dell’utilizzo di combustibili fossili anche attraverso una mobilità sempre più elettrica, arrivando al delirante divieto di produzione di automobili a combustione interna dal 2035.

    In relazione alle importazioni di gas russo alcuni Stati membri della stessa Unione, come Germania e Spagna, lo hanno sfacciatamente aggirato attraverso semplici triangolazioni.

    Viceversa questo obbligo europeo è stato osservato diligentemente dal governo Draghi, il che ha comportato una aggravio di costi notevole sia per le imprese che per le famiglie italiane le quali si vedono costrette a consumare gas proveniente da altri paesi con prezzi decisamente superiori.

    In questo contesto generale si inserisce la volontà ideologica, appunto, di una transizione verso la modalità elettrica la quale richiede investimenti ancora oggi insostenibili sia per le aziende che per i consumatori. In più questo scenario ha accelerato le delocalizzazioni attraverso le quali le aziende stesse cercano di avviare la produzione di veicoli elettrici laddove i costi risultino inferiori a quelli italiani e non solo per un minore costo della manodopera. In questo modo si ottengono due obiettivi in quanto si accresce la redditività degli investimenti (1) e magari si ottiene un prodotto a prezzi più accessibili ampliando un minimo la domanda interna (2).

    La scelta di Stellantis di trasferire la produzione della nuova Panda elettrica da Pomigliano d’Arco (NA) in Serbia esprime quindi la volontà di perseguire i due traguardi ed è sostenuta da una volontà politica espressa dalla Commissione Europea intrisa di ideologia ambientalista.

    L’effetto finale diventa veramente surreale in quando queste aziende, con l’obiettivo di produrre questo tipo di nuovi veicoli a costi minori, delocalizzano le produzioni verso quegli stati che possono offrire un costo inferiore di produzione anche grazie alla forniture di gas dalla Russia di Putin avendo rinnovato la fornitura con l’azienda russa nel 2022 (*).

    In altre parole, la transizione energetica nella sua applicazione della mobilità spinge le produzioni di questi veicoli verso quei paesi che hanno mantenuto la fornitura di gas russo perché assicura minori costi energeticiì.

    Gli effetti nefasti della politica energetica europea e nazionale si traducono in precisi fattori antieconomici, sconosciuti agli stessi organi istituzionali che dovrebbero operare per il bene del paese e del continente europeo.

    La cancellazione di decine di migliaia di posti di lavoro è solo all’inizio di un cataclisma occupazionale senza precedenti e di entità ancora oggi difficile da ipotizzare.

    La vicenda della Panda elettrica e della sua delocalizzazione dimostra il fallimento strategico espresso con l’embargo alle forniture di gas russo delle quali la UE intendeva liberarsi e che ora invece rappresentano un fattore determinante nella scelta dei siti produttivi.

    L’unico obiettivo così raggiunto dalla Commissione Europea rimane quello del progressivo impoverimento dell’economia industriale europea.

    (*) https://it.euronews.com/2022/05/29/serbia-accordo-raggiunto-con-mosca-sul-gas

  • Le moto accelerano, gli scooter frenano: nel 2023 le vendite di due ruote continuano a tirare

    Con un +15,2%, le moto sostengono il mercato delle due ruote a motore di novembre che, malgrado una flessione importante dei ciclomotori, chiude ancora in positivo. Il 2023 continua così a confermarsi come l’anno migliore dal 2011 per l’andamento delle immatricolazioni di moto, scooter e ciclomotori in Italia. È questo il quadro che emerge dal comunicato stampa sull’andamento del mercato mensile diffuso da Confindustria Ancma (Associazione Nazionale Ciclo Motociclo Accessori).

    Con 16.784 unità vendute, novembre è risultato il mese meno performante per un mercato 2023, che comunque rimane in positivo (+1,78% rispetto al 2022). Accanto alla crescita delle moto, con un incremento del 15,26% e 7.363 unità immatricolate, per la prima volta nel corso del 2023 si è assistito invece a una flessione del mercato degli scooter (complice anche l’andamento negativo del settore elettrico e il confronto col +43% del novembre 2022), che ha perso il 3,88% e registrato 8.382 vendite; particolarmente critica la situazione dei ciclomotori, che hanno chiuso novembre con 1.039 veicoli registrati e un calo del 24,82%.

    Nonostante il rallentamento del mese, il mercato cumulato del 2023 continua a crescere a doppia cifra: +16,07% e 327.866 unità vendute. La migliore performance rimane quella degli scooter con 168.942 veicoli, pari a un incremento del 21,22%; ottimo anche l’andamento delle moto, che sono cresciute del 14,84% e hanno immatricolato 141.031 mezzi; i ciclomotori rimangono fanalino di coda con 17.893 unità vendute pari a una flessione dell’11,87%.

    L’esaurimento degli incentivi statali ha paralizzato il mercato elettrico, che ha chiuso novembre con una flessione del 63,68% – il peggior risultato dell’anno – e soli 544 veicoli messi in strada. Particolarmente difficile la situazione degli scooter, che hanno lasciato sul terreno 70,98 punti percentuali, targando 285 unità. “Alla luce di questi dati – si legge nella nota di Ancma – appare necessaria l’immediata riattivazione degli incentivi recuperando i 5,6 milioni di euro avanzati dalla campagna 2022 e rimasti ad oggi inutilizzati. In vista della prevedibile affermazione del mercato dei quadricicli elettrici nel corso del 2024 appare inoltre improrogabile l’incremento del fondo Ecobouns dedicato alla categoria L”.

    Alla luce della discussione parlamentare in atto sulla revisione del Codice della strada, Ancma ha infine auspicato “l’accoglimento del pacchetto di richieste per promuovere ulteriormente l’utilizzo delle due ruote che l’associazione ha sottoposto al Governo, anche in considerazione del trend positivo delle vendite”.

  • PNRR ed il “nonsense” delle riforme

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo del Prof. Francesco Pontelli

    Una riforma viene indicata come un “qualsiasi provvedimento che sostenga o realizzi il rinnovamento più o meno profondo di una condizione o situazione esistente per adeguarle a nuove e diverse esigenze”.

    In questa breve definizione emerge evidente come la funzione di una riforma dovrebbe essere quella di rispondere a “nuove e diverse esigenze” le quali ovviamente dovrebbero, per una semplice consecutio logica, nascere dalla comprensione di un sentiment dei cittadini amministrati.

    Gli stessi tentativi di riforma verso una maggiore autonomia delle regioni partono da un logico presupposto, individuabile nella possibilità di rendere possibile, proprio attraverso la riforma, offrire un miglior servizio ai cittadini in virtù di una maggiore autonomia amministrativa.

    Viceversa, una delle condizioni fondamentali introdotta come clausola finalizzata all’ottenimento delle diverse tranche del PNRR era rappresentata dal l’imposizione ed introduzioni di nuove “riforme” da applicare in diversi campi di interesse istituzionale ed amministrativo.

    Il governo Draghi infatti, ha varato la cosiddetta riforma della Giustizia Cartabia la quale di fatto ha tolto la procedibilità d’ufficio per i reati fino a 5 anni la cui istruzione può avvenire solo con presentazione di querela di parte. In questo modo si è annullato un principio fondamentale il cui obiettivo fondamentale era quello di tutelare le vittime di reati cosiddetti minori.

    Contemporaneamente lo stesso governo Draghi ha accettato la sospensione del mercato tutelato dell’energia il quale esercita una importante funzione fornendo una minima tutela a famiglie e piccole imprese, specialmente in un periodo di forte fluttuazione dei costi energetici dopo l’impennata post pandemica.

    Emerge evidente come nello storytelling istituzionale legato alla disponibilità dei fondi PNR il termine “riforme” sia stato impropriamente utilizzato, in quanto, come dice la stessa definizione, non sono state pensate ed introdotte per rispondere alle diverse e nuove esigenze dei cittadini.

    Piuttosto, invece, di riforme siamo di fronte a delle vere e proprie clausole vessatorie, le quali evidenziano  la volontà europea di ridurre progressivamente il potere e la forza del nostro paese anche attraverso una continua azione di impoverimento complessivo.

    Solo così è possibile spiegare l’alleanza tra Unione Europea e governi italiani, facendo ricadere i nuovi costi strutturali sulla cittadinanza alla quale vengono tolti progressivamente tutele sia in campo giuridico che energetico.

  • Zhongzhi Enterprise Group: China investigates major shadow bank for ‘crimes’

    Chinese officials have launched an investigation into one of the country’s biggest shadow banks, which has lent billions to real estate firms.

    Zhongzhi Enterprise Group (ZEG) has an asset management arm that at its peak reportedly handled more than a trillion yuan ($139bn; £110bn).

    Authorities said they are investigating “suspected illegal crimes” against the firm, in a statement on the weekend.

    This comes days after reports that ZEG had declared it was insolvent.

    The struggling firm reportedly told investors in a letter last week that its liabilities – up to $64bn – had outstripped its assets, now estimated at about $38bn.

    While authorities said they had taken “criminal coercive measures” against “many suspects” it’s still unclear who they are, and what role they play in the firm. The company’s founder, Xie Zhikun, died of a heart attack in 2021.

    ZEG is a major player in China’s shadow banking industry, a term for a system of lenders, brokers and other credit intermediaries who fall outside the realm of traditional regulated banking. Shadow banking, which is unregulated, is not subject to the same kinds of risk, liquidity and capital restrictions as traditional banks.

    China’s shadow banking industry is valued at around $3tn. It often provides a financial lifeline to the country’s property sector. The once-booming industry has been hit by a severe credit crunch, with some of the biggest firms now on the brink of financial collapse.

    “For several decades China been chasing this property bubble – and in order to create this bubble, or to fuel growth in China, they needed capital. So they started getting a lot of money from individual investors offering very, very high returns. And it worked for quite a while because the property prices were going up and it’s a win-win for everybody,” says Andrew Collier, a shadow banking expert at Orient Capital Research.

    Informal lending has always existed in China’s economy, but shadow banking really took off in the aftermath of the global financial crisis in 2008, when credit was scarce.

    Given China’s slowing economy and the crisis in the real estate sector, Mr Collier says the troubles at ZEG may just be the start of a bigger problem: “This is going to spread further into other forms of shadow banks and potentially into the actual real brick-and-mortar banks.”

    Embattled property developers currently owe Chinese banks money worth as much as 30% of the banks’ assets.

    “That is going to take a long time to unwind,” Mr Collier says.

    The latest developments at ZEG has raised concerns of further turmoil in the world’s second-largest economy, after the collapse of property developer Evergrande and more recently the financial woes at Country Garden.

    China’s property sector makes up a third of its economic output. That includes houses, rental and brokering services, as well as construction materials and industries producing goods that go into apartments.

    The latest figures show that China’s economy expanded by 4.9% in the three months between July and September. That is slower than the previous quarter, when the economy grew by 6.3%.

  • I Brics diventano più importanti

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi apparso su ‘ItaliaOggi’ il 23 novembre 2023

    Con l’ingresso nei Brics di altri sei paesi, (Argentina, Egitto, Etiopia, Iran, Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita), il gruppo rappresenterà oltre il 45 per cento della popolazione mondiale pari a 3,7 miliardi di abitanti. In confronto il G7 (Usa, Germania, Canada, Francia, Italia, Giappone e Regno Unito), ne esprime appena il 10 per cento con 775 milioni di abitanti.

    Nel 2022 il nuovo aggregato a 11 paesi ha registrato un pil pari a 29.374 miliardi di dollari. Un valore inferiore ai 43.700 miliardi dei paesi del G7, i quali però sono già perdenti sulle esportazioni in alta tecnologia. Secondo i dati della Banca Mondiale, i Brics+ sono in netto vantaggio con oltre 990 mila miliardi di dollari di esportazioni contro 755 mila miliardi dei paesi G7.

    Cambiano i dati se il pil è calcolato in termini di parità di potere d’acquisto (ppp). Allora i cinque paesi originali Brics hanno già un pil maggiore di quello del G7. Nonostante ciò, hanno solo il 15% del potere di voto nel Fondo monetario internazionale. Il che è visto come una grande ingiustizia da parte di tutto il cosiddetto “Global South”.

    Negli Stati Uniti, e anche in Europa, si è sempre cercato di ignorare queste nuove dinamiche geoeconomiche, sperando, di fatto, in un loro fallimento o in un loro significativo ridimensionamento.

    Solo recentemente, alcuni centri di analisi geopolitica americana hanno iniziato a parlarne apertamente. L’ha fatto, ad esempio, Foreign Policy (FP), la rivista, fondata più di cinquant’anni fa dal professore neocon Samuel Huntington, il noto fautore dello “scontro di civiltà”, e oggi di proprietà del The Washington Post.

    La citata rivista affronta i problemi cruciali del processo di de-dollarizzazione in corso e dell’influenza geopolitica nei commerci. Si afferma che «con l’Egitto, l’Etiopia e l’Arabia Saudita, i Brics+ possono interrompere il commercio mondiale non solo del petrolio ma di qualunque altra merce. Questi tre paesi circondano il Canale di Suez e lo trasformano, di fatto, in un lago Brics+. Il canale è un’arteria chiave dell’economia mondiale. Circa il 12% di tutto il commercio globale passa attraverso il canale, che collega il Mediterraneo al Mar Rosso. E’ il Mar Rosso che i Brics+ ora circondano».

    L’ammissione dell’Arabia Saudita amplia anche la leva finanziaria a loro disposizione. Essa detiene più di 100 miliardi di dollari in titoli di stato statunitensi. Insieme ora possiedono più di mille miliardi di dollari in obbligazioni Usa. Le nuove adesioni ai Brics+ ampliano anche una gamma di prodotti che offre uno spettro di potere sia ora sia in futuro. Anche Iran, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti sono esportatori di combustibili fossili. Paesi come Brasile, Cina e Russia sono importanti produttori di metalli e terre rare da cui dipenderà la transizione energetica.

    Per quanto riguarda il processo di de-dollarizzazione, FP esprime un certo scetticismo poiché ritiene che il dominio cinese potrebbe comportare qualche dubbio per gli altri membri. Infatti, il pil cinese è 3,2 volte quello del resto dei Brics originali e 1,7 volte quella dei Brics+.

    Sul fronte monetario, però, oltre a riconoscere che il grande uso delle valute locali nei commerci e nelle transazioni finanziarie interne al gruppo indebolisce il ruolo internazionale del dollaro, FP prende in seria considerazione quello che chiama «una valuta di riferimento», cioè una valuta commerciale comune dei Brics+. Secondo FP «una valuta di riferimento potrebbe essere un paniere composto di monete nazionali, come i Diritti Speciali di Prelievo del Fmi».

    Il dollaro è ancora la maggiore valuta di riserva delle banche centrali, con percentuali superiori rispetto alla sterlina in declino già all’inizio del Ventesimo secolo come riserva globale. La sterlina, in ogni caso, non aveva mai superato il 50% delle riserve ufficiali di valuta estera.

    In conclusione, la citata rivista afferma che «se il dollaro arrivasse a mantenere una pluralità ma non la maggioranza delle riserve, alcuni direbbero che conserverebbe ancora il suo status di riserva. Sarebbe, però, un cambiamento. Anche se King Dollar restasse tecnicamente sul trono, s’intravede una nuova era di crescente anarchia monetaria». Il che sarebbe preoccupante mentre l’eventuale «valuta di riferimento» sarebbe, invece, un notevole passo in avanti nella costruzione di un nuovo ordine monetario e finanziario internazionale, ovviamente multilaterale.

    *già sottosegretario all’Economia **economista

  • 2017/2023: Made in Italy tra Italian Taste e Italy X

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo del Prof. Francesco Pontelli

    Nel lontano 2017 fu presentato dal vice ministro Calenda (governo Renzi) assieme all’ex segretario del PD Martina l’ennesima sovrastruttura normativa ed “innovativa a certificazione” del Made in Italy.

    Una iniziativa concettualmente ridicola e sul piano operativo disastrosa e che ha avuto il torto di creare l’ennesimo fattore di confusione all’interno della stessa tutela delle filiere industriali ed artigianali, espressioni della stessa natura del Made in Italy (maggio 2018 https://www.ilpattosociale.it/attualita/made-in-italy-lennesima-sconfitta/).

    Ora lo stesso errore, figlio della medesima presunzione intellettuale di una classe politica e dirigente scollata dalla realtà imprenditoriale italiana che opera nel mercato globale, viene commesso attraverso la presentazione di un’altra “certificazione” delle eccellenze del Made in Italy con un nuovo logo Italy X nata dalla collaborazione tra Il Sole 24 ore e Confindustria.

    E’ evidente come entrambe le iniziative, anche se partorite a distanza di sei anni l’una dall’altra, esprimano la medesima e totale mancanza di conoscenza delle dinamiche dei mercati.

    Nell’ultima poi sono coinvolti due strutture in più che in questo senso tradiscono pure il proprio mandato istituzionale, cioè la salvaguardia e tutela del Made in Italy.

    Non va dimenticato, infatti, come, soprattutto in relazione alle aspettative dei buyer internazionali, quest’ultimi richiedano essenzialmente una  pulizia e quindi una immediatezza assicurata solo dal brand Made in Italy.

    In altre parole, il consumatore internazionale, del quale I buyer si fanno interpreti, intende identificare la qualità e lo stile italiano semplicemente con la certificazione garantita dal logo Made in Italy, privo, quindi, di alcuna sovrapposizione  la quale creerebbe confusione sul mercato e presso gli stessi consumatori.

    Questo ennesimo progetto intellettuale e comunicativo, Italy X, delinea senza ombra di dubbio come le risorse intellettuali, che dovrebbero essere al servizio delle imprese, rappresentino, invece, sempre più un fattore destabilizzante per l’intero sistema industriale ed economico.

    Un effetto garantito dalle stesse organizzazioni che hanno la presunzione di rappresentarle e che invece lavorano con il solo autoreferenziale desiderio di giustificare la propria esistenza in vita unita ad una inesistente capacità di analisi intellettuale.

    I primi nemici del Made in Italy, che esprime la felice sintesi di eccellenze industriali e professionali italiane, si rivelano proprio coloro che in loro nome ed a loro tutela operano con risultati assolutamente negativi per l’intero sistema industriale ed economico italiano.

    N.B. : marzo 2020 https://www.ilpattosociale.it/attualita/made-in-italy-valore-economico-etico-e-politico/

  • L’auto elettrica è un affare per la Cina e molto meno per l’ambiente

    L’auto elettrica è un gigantesco affare per la Cina, come emerge da un reportage dell’inchiesta che il giornalista del Financial Times ha condotto per dare alle stampa il volume «Il prezzo della sostenibilità».

    La Cina è oggi il principale esportare di auto elettriche del pianeta e produce il 75% delle batterie di litio che fanno funzionare tali vetture, ma questo primato è stato conseguito con scarsa attenzione verso l’ambiente, che è il vero propulsore delle vendite di auto elettriche, e non di rado anche verso i lavoratori.

    Zeng Yuqun, ha fondato Catl nel 2011 a Ningde, e 8 anni dopo ha creato la prima gigafactory di batterie in Germania, a Arnstadt, per garantire le forniture a Mercedes Benz e Bmw. Nel 2020 la Catl forniva le batterie a quasi tutti i produttori di auto elettriche compresa la Tesla, controllando con le sue partecipazioni i giacimenti di litio in Argentina e Australia, di nichel in Indonesia e di cobalto nella Repubblica Democratica del Congo. In questo modo la Cina puntava a diventare il primo fabbricante di auto elettriche nel mondo.

    Parallelamente, la Ganfeng di Xinyu nella Cina centrale è diventata il più grande produttore di idrossido di litio estratto in Australia (e poi in Argentina) e trattato in Cina (con poco scrupolo per l’ambiente). In Congo le ditta cinesi operano nell’estrazione del cobalto e alle scarse cautele ecologiche si affiancano condizioni di lavoro nelle miniere decisamente cattive.

  • Italiani in Africa, terrorismo, Cina, catena alimentare nella presentazione a Milano di ‘Safari’ di Cristiana Muscardini

    Si è svolta a Milano, alla Fabbrica del Vapore, la presentazione di Safari, l’ultimo libro di Cristiana Muscardini intervistata dal giornalista Andrea Vento.

    Molte le domande fatte dal numeroso pubblico interessato anche ad approfondire i ruoli che Onu ed Unione Europea hanno giocato o non giocato rispetto ai problemi dell’immigrazione ed alle situazioni drammatiche che vivono gli abitanti di alcuni paesi africani per le carestie, la mancanza di acqua e per le guerre ed il terrorismo. Proprio sul problema terrorismo sia l’autrice che Vento hanno parlato del Corno d’Africa e della sempre difficile situazione in Somalia per gli al Shabaab che hanno portato il terrorismo in Kenya con numerosi e sanguinosi attentati.

    Nel libro sono rappresentati alcuni italiani che, nel dopoguerra, si erano trasferiti in Africa, trovando qui le più diverse esperienze ed avventure, partendo dai Mao Mao e dalla guerra di indipendenza in Kenya, l’autrice affronta anche i temi della catena alimentare, del bracconaggio, dello sterminio di rinoceronti ed elefanti, della necessità di convivenza tra animali selvatici e agricoltura essendo, entrambi, fonte di lavoro e miglioramento di vita.

    La Muscardini, sollecitata dalle puntuali e incalzanti domande di Andrea Vento, ha ricordato che così come gli europei, con tante esperienze comuni, sono diversi, per molti aspetti, da uno Stato all’altro così non si può parlare del continente africano senza conoscere le differenze che esistono tra i suoi paesi dal punto religioso, delle esperienze coloniali, della diversità delle ricchezze naturali e per la presenza, sempre più forte e a volte fonte di problemi complessi, della Cina e della Russia, che in Africa ha schierato anche i miliziani della Wagner, differenze che dovrebbero portare valutazioni geopolitiche più ampie rispetto a quelle fatte fino ad ora dall’Europa.

    Tra gli intervenuti lo scultore Stefano Soddu, Claudio Benedetti direttore generale di Federchimica, gli On. Dario Rivolta e Gabriele Pagliuzzi e l’On. Paolo Pillitteri, già sindaco di Milano.

  • Gli Usa piegati dagli interessi

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi apparso su ‘ItaliaOggi’ il 18 novembre 2023

    Le guerre e gli scontri geopolitici in corso hanno oscurato certe preoccupanti tendenze economiche negli Usa e anche nel resto del mondo. Non hanno cancellato le realtà. Basti osservare attentamente gli andamenti finanziari di oltre oceano. L’agenzia di stampa Bloomberg stima che a fine ottobre 2023, il pagamento degli interessi sul debito pubblico federale, calcolato su 12 mesi, ha raggiunto circa 1.000 miliardi di dollari. Il livello annualizzato degli interessi pagati è raddoppiato rispetto alla fine di marzo 2022.

    È l’effetto combinato del Quantitative Easing e dell’immissione di liquidità, con i quali la Federal Reserve ha sostenuto il sistema durante la crisi pandemica, e poi con i successivi aumenti del tasso di sconto per contenere l’inflazione, prodotta in parte proprio dal QE. Il governo americano pagherà più interessi sul debito anche rispetto alle già stratosferiche spese militari!

    Nell’anno fiscale 2023, che è terminato il 30 settembre, il deficit di bilancio è stato di 1.700 miliardi di dollari, un aumento di 320 miliardi, cioè il 23% in più rispetto a quello dell’anno fiscale precedente. La gran parte di quest’aumento si deve alla crescita di ben 184 miliardi per interessi sul debito. Sarebbe stato di 2.000 miliardi se la Corte Suprema non avesse bloccato il programma di cancellazione del cosiddetto “debito degli studenti”. Il debito pubblico ha superato 26.200 miliardi, con un aumento di circa 2.000 miliardi rispetto al 2022. A ciò ha contribuito molto la diminuzione delle entrate di ben 457 miliardi, dei quali 456 sono meno tasse sui redditi dei cittadini. Altro che ripresa, è una realtà amara per la maggioranza della popolazione americana.

    Gli alti tassi d’interesse hanno reso i prestiti più costosi, aumentando così la pressione anche sul debito americano. Oggi i Treasury bond a 10 anni hanno un tasso di interesse di quasi 5 %, tre volte il livello di due anni fa! Nei mesi scorsi l’aumento dei tassi ha mandato a gambe all’aria parecchie banche regionali che erano piene di titoli pubblici a basso rendimento. La crescita dei tassi è andata di pari passo con l’inflazione. Adesso si afferma che quest’ultima sarebbe scesa al 3%. Molti si affidano alla smorfia napoletana per “indovinare” quali saranno i tassi futuri dei T-bond.

    Questa situazione rischia di generare un permanente stato d’instabilità del bilancio federale. Il rischio di un shutdown al primo di ottobre era stato evitato all’ultimo minuto con un accordo bipartisan alla Camera dei deputati. Per legge, le agenzie federali devono far approvare dal Congresso i programmi di spesa per spendere i soldi. Il shutdown implica la sospensione di numerose operazioni del governo federale per mancanza di soldi, con effetti negativi sui lavoratori pubblici, sull’economia e sull’intera cittadinanza.

    Senza nuovi accordi, il prossimo 17 novembre ci potrebbe essere un nuovo shutdown. Probabilmente sarà ancora una volta evitato, ma queste montagne russe per il bilancio federale non sono un bel biglietto da visita per il resto del mondo.

    A giugno scorso fu evitato il default con un accordo bipartisan, il “Fiscal Responsibility Act of 2023”, che sospende il fatidico tetto del debito federale fino al primo gennaio 2025. L’accordo prevede un limite di spesa discrezionale di 1.590 miliardi di dollari per due anni. In altre parole, il governo può prendere prestiti e spendere di più di quanto fissato nel bilancio federale. La ragione della crisi era dovuta al fatto che già in gennaio si era raggiunto il tetto del debito previsto per il 2023 di 31.400 miliardi. L’agonia fu protratta fino a giugno con “misure straordinarie” di carattere amministrativo-finanziario.

    Persino due agenzie di rating americane, Standard &Poor’s e Fitch, da sempre molto generose nei confronti dei titoli americani, hanno dovuto ritoccare al ribasso il loro rating circa la capacità di ripagare il debito. Gli Usa hanno perso la tripla A, il massimo dei rating, e ciò potrebbe avere un effetto sia sul costo del debito sia sulla propensione degli investitori a fare prestiti al governo federale. Moody’s ha invece confermato la tripla A ma con un outlook da stabile a negativo.

    Gli Usa guardano avanti e si aspettano che in dieci anni il debito federale sarà di 52.000 miliardi di dollari. Per il momento sembrano voler ignorare le cause profonde delle crisi, della finanza speculativa, delle banche too big to fail, dello shadow banking per concentrasi, invece, sul taglio delle spese sociali di bilancio e sull’aumento delle tasse. Non offrono nessuna idea nuova per affrontare i problemi succitati e i loro riverberi negativi in tutto il mondo, a partire dall’Europa.

    *già sottosegretario all’Economia **economista

  • La Germania e le politiche energetiche

    Il governo della Germania ha deciso di adottare un taglio delle tasse sull’energia per oltre 12 miliardi di euro all’anno. Questa strategia nasce dalla volontà governativa di garantire alle imprese tedesche di poter contare su un costo di 70 euro a MWh (contro i 129 euro in Italia).

    In Italia le due ultime manovre sul presunto taglio del cuneo fiscale (governo Draghi 8.7 miliardi e governo Meloni 11 miliardi circa) hanno ottenuto un vantaggio netto in busta paga di circa 27 euro il primo e poco meno di 30 il secondo, in più a crescere in rapporto alle fasce di reddito (600 lordi), quasi 19 miliardi che otterranno per un vantaggio reale irrisorio, basti pensare come lo sconto sulle accise del governo Draghi costasse circa quattro (4) miliardi.

    La decisione tedesca avvia il processo di azzeramento della stessa Unione Europea azzerando l’applicazione del principio della “concorrenza come fattore di sviluppo economico” applicato a garanzia dell’utenza e contemporaneamente evapora lo stesso concetto istitutivo della stessa Unione Europea, sia economica che politica. Inoltre il concetto di aiuti di Stato diventa una leva politica valida solo se pensata in italiano.

    Nel frattempo in Italia Eni presenta la migliore trimestrale della propria storia grazie alla propria attività speculativa nella erogazione del proprio servizio e soprattutto come espressione di una volontà di garantire gli investimenti del proprio azionariato composto in maggioranza da fondi privati.

    La risultante di questo disastro strategico determinerà per il sistema manifatturiero italiano una ulteriore riduzione della propria competitività rispetto a quello tedesco ma anche rispetto a tutti gli altri europei in quanto l’Italia è l’unico Paese che già nella finanziaria in corso di approvazione eliminerà ogni sostegno agli esorbitanti costi energetici per imprese e famiglie: basti pensare all’azzeramento delle clausole del mercato energetico tutelato.

    La decisione tedesca dovrebbe determinare delle precise reazioni del mondo politico europeo anche in relazione al contraddittorio mantenimento in vita di una Istituzione Europea priva ormai degli stessi principi fondativi o quantomeno della semplice applicazione di principi liberali (gli aiuti di Stato) validi solo e sempre a scapito dall’Italia. Ma soprattutto dovrebbe suscitare ed avviare un dibattito nel nostro Paese nel quale il ceto politico italiano, che dovrebbe tutelare innanzitutto interessi nazionali, risulta ancora oggi troppo distratto dalle varie transizioni ecologiche ed ideologiche.

    Contemporaneamente la classe politica nazionale si preoccupa, ancora oggi, di bonus di ogni foggia come della sempre più difficile quadratura del sistema pensionistico invece di occuparsi del futuro del sistema economico ed Industriale attraverso l’adozione di una seria politica energetica.

    Un atteggiamento confermato dalla indifferenza con la quale Stellantis chiude e mette in vendita lo stabilimento Maserati voluto da Marchionne, mandando già i macchinari in Marocco, non suscitando alcuna reazione del ministro “delle imprese e del Made in Italy” e del governo.

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