Economia

  • Il contesto ignorato dal pensiero liberale

    Il colpevole ed imbarazzante ritardo del pensiero liberale si dimostra senza alcun dubbio non tenendo in alcuna considerazione il contesto nel quale i diversi sistemi industriali nazionali operano, tanto più se all’interno di un mercato globale e competitivo.

    Mentre in Francia, proprio a partire dal mese di maggio 2023, si avvia la nazionalizzazione di Edf, la società elettrica francese, con il dichiarato e condivisibile obiettivo di assicurare nel prossimo futuro le più basse tariffe elettriche, in Italia si varano le strategiche operazioni bonus occhiali e zanzariere.

    La Francia, quindi, effettua delle scelte finalizzate ad offrire un supporto competitivo alle imprese che operano nel mercato e contemporaneamente a fornire un forte sostegno economico e sociale alle famiglie (https://www.ilsole24ore.com/radiocor/nRC_02.05.2023_16.51_53610536).

    In Italia, invece, si conferma il clamoroso ritardo del pensiero liberale sui monopoli indivisibili mentre gli altri Stati concorrono alla crescita del paese. Quasi che la vergognosa vicenda Autostrade, confermata dall’ex Ad di Edizione Holding, non avesse insegnato nulla (https://www.ilpattosociale.it/attualita/il-finto-e-colpevole-pensiero-liberale/).

    Mai come ora il senso di inadeguatezza delle élite “liberali” trova la propria ennesima conferma mentre i governi che si susseguono alla giuda del Paese continuano senza soluzione di continuità eludendo le implicazioni del contesto (le scelte operate dalle altre nazioni concorrenti) ed ora pure togliendo a nove milioni di utenti le bollette, espressione del mercato tutelato, a partire dal 10 gennaio 2024.

    Già prima della iniziativa francese, e precisamente in Gran Bretagna nel 2021, il governo conservatore di Boris Johnson aveva rinazionalizzato le ferrovie britanniche. Una scelta politica ma soprattutto strategica successiva ad una approfondita ricerca che aveva dimostrato come la privatizzazione delle Railways britanniche avesse determinato uno scadimento del servizio a fronte di un ingiustificato aumento del costo del biglietto.

    In molti ancora oggi sono convinti che il declino culturale e strategico del nostro Paese riguardi solo il mondo politico italiano nelle diverse declinazioni istituzionali. Mai come ora, invece, sono proprio le élite culturali a rappresentarlo perfettamente, con la propria metastasi intellettuale che li rende incapaci di considerare il contesto in evoluzione.

    Proprio a partire da quella liberale la quale nasconde, dietro a scolastici richiami ai principi del mercato, la propria incapacità di elaborare un pensiero più articolato ed adeguato alla complessità del mercato globale.

  • La cantieristica nautica italiana supera i 4 miliardi

    Il mercato della cantieristica nautica continua a crescere in Italia e nel mondo. La produzione dei cantieri italiani potrebbe superare il valore di 4 miliardi di euro nel 2022 (4,1-4,3 miliardi) con una crescita tra il 15% e il 20%. E’ la stima di Deloitte che arriva dal report sul settore realizzato per Confindustria Nautica, secondo cui, il valore del mercato mondiale della cantieristica nautica ha raggiunto i 52 miliardi di euro nel 2021.

    In Italia la produzione di nuove imbarcazioni ha raggiunto nel 2021 un valore di 3,6 miliardi di euro (+34% rispetto al 2020), con un contributo al Pil nazionale pari al 2,9%, e il Paese è il secondo produttore al mondo, con una quota di mercato del 12%, dopo gli Stati Uniti. I cantieri italiani confermano la leadership mondiale nel segmento superyacht con una quota del 49% sul totale degli ordini globali. Il Paese continuerà a crescere anche quest’anno: «Il futuro è buono e per il 2023 abbiamo buone notizie», spiega il presidente di Confindustria Nautica, Saverio Cecchi, aggiungendo che «i cantieri di grandi imbarcazioni hanno un portafoglio ordini importantissimo».

    Fra le economie del mare, osserva Cecchi, «l’industria nautica è il comparto che nel 2021 è cresciuto più di tutti gli altri, con il migliore incremento di fatturato di sempre, registrando il record storico di export e un aumento del 10% degli addetti diretti». Il mercato della nautica “è più solido e forte rispetto al 2008, supportato da una domanda più consistente con aspettative positive per i prossimi anni», aggiunge Tommaso Nastasi, senior partner Deloitte. Le sfide dei prossimi anni riguardano “il prodotto, la filiera e il mercato», aggiunge Nastasi, che si aspetta «un maggior focus sulle operazioni di M&A (fusione e acquisizione)». Altro aspetto centrale riguarda gli obiettivi Esg sui quali «c’è una maggiore consapevolezza da parte del settore».

  • Il suprematismo europeo

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo del Prof. Francesco Pontelli

    Le istituzioni politiche sono caratterizzate dalla ricerca di un difficile equilibrio basato su pesi e contrappesi con l’obiettivo di assicurare un equilibrio democratico che garantisca innanzitutto i propri cittadini oltre le stesse istituzioni. È compito della politica, quindi, e della ideologia alla quale questa si ispira, favorire questo percorso verso un traguardo democratico, anche se difficilmente raggiungibile, nella sua articolata e complessa declinazione.

    In questo contesto in evoluzione l’esplosione della spesa pubblica, finanziata da una sempre maggiore pressione fiscale, ha fornito la leva finanziaria alle istituzioni europee e nazionali, utilizzabile tanto per il conseguimento di obiettivi sociali ma soprattutto politici.

    Le innumerevoli crisi che hanno caratterizzato gli ultimi decenni (dalla crisi di liquidità nel 1992 a quella attuale) e contemporaneamente il moltiplicarsi delle istituzioni politiche, tanto in ambito nazionale (maggiore autonomia delle regioni) quanto in ambito europeo (UE, parlamento europeo, Mes, Bce) hanno rivestito anche un ruolo attivo all’interno delle politiche economiche proprio utilizzando la leva finanziaria della spesa pubblica, tanto da arrivare quest’ultima in Italia a rappresentare il 56% del Pil.

    Gli esiti complessivi di questo attivismo sono risultati spesso mediocri se non disastrosi, basti ricordare come l’Italia abbia raggiunto il nuovo record di debito pubblico a 2790 miliardi, senza dimenticare i ritardi nelle opere infrastrutturali delle prossime Olimpiadi 2026 e come dimostra la seconda alluvione in Emilia Romagna in una settimana. Un bilancio che esprime chiaramente come siano le competenze e non le attribuzioni istituzionali a determinare l’esito degli investimenti pubblici.

    Contemporaneamente, a livello europeo, le politiche economiche si sono espresse sul teorema di una crescita perenne basata sostanzialmente sull’abbattimento delle barriere alla libera circolazione delle merci e dei know how industriali, per di più senza alcuna tutela normativa.

    Ora, mentre ancora una volta l’intero continente europeo si trova all’interno di un ennesimo periodo di crisi, espressa dalla ulteriore flessione della produzione industriale del -3,4% in Germania e del -3,2% in Italia, i limiti determinati dalle competenze istituzionali si rivelano sempre più evidenti.

    L’elaborazione, infatti, delle strategie economiche evidenziano molto spesso una sostanziale incapacità analitica relativa agli asset esistenti, ma soprattutto in relazione alle aspettative di crescita e sviluppo.

    Emerge, infatti, drammaticamente come l’ideologia rappresenti ancora la prima ed unica fonte d’ispirazione in sostituzione delle componenti necessarie a fronteggiare la complessità contemporanea.

    Già due anni fa si era evidenziata la posizione ideologica dell’UE (*) che ha portato l’Unione Europea ad essere l’unica macroarea economica nel mondo ad adottare il divieto di vendita delle auto a combustione interna a partire dal 2035. Una visione economica che espone l’intero sistema industriale europeo, quanto i propri cittadini, ad un sicuro rischio economico, industriale e sociale senza precedenti. Un rischio che può diventare addirittura di stabilità democratica, in quanto vincola tutta l’industria europea del settore Automotive, ma non solo, alle importazioni provenienti da una potenza economica, industriale e politica come la Cina.

    Questa, andrebbe ricordato, di certo non rappresenta un partner affidabile e tanto meno democratico. Basti ricordare, a conferma della tesi esposta, come il 95% del manganese venga raffinato in Cina, assieme al 73% del cobalto, 70% della grafite, 67% del litio, 63% del nickel e il 66% dell’assemblaggio delle batterie al mondo.

    Viceversa, l’industria europea del settore dell’automotive detiene attualmente, anche nei confronti degli Stati Uniti, il primato tecnologico in rapporto alle emissioni di tutti i motori a benzina, e gasolio, a combustione interna: un traguardo frutto di investimenti decennali finanziari, industriali e professionali senza precedenti.

    La Commissione europea, invece, assieme al Parlamento europeo intendono azzerare secoli di storia industriale che hanno portato l’Europa al primato nel settore automobilistico del mondo.

    La presunzione, in più, di governare con le medesime strategie paesi che possiedono la più grande centrale nucleare (Finlandia) congiuntamente ad altre che le chiudono virando verso il carbone (Germania) ed altri con scarse risorse energetiche (Italia) fornisce il quadro del suprematismo europeo inadeguato alla complessità delle sfide future.

    (*) luglio 2021  https://www.ilpattosociale.it/attualita/linquinamento-ideologico/

  • La rupia indiana sta assumendo un ruolo alternativo

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi apparso su ItaliaOggi il 17 maggio 2023

    L’India sta accelerando il processo verso l’utilizzo delle monete locali, ovviamente anche della sua valuta, la rupia, nei commerci internazionali. Poiché l’India non è vista come un nemico, come la Russia, né un pericoloso concorrente, come la Cina, ciò potrebbe, e dovrebbe, essere da stimolo per l’Unione europea e per i singoli Paesi europei, Italia in primis, a immaginare e proporre una possibile riforma del sistema monetario globale, basato appunto su un paniere di monete importanti. Ci sarebbero dei forti alleati.

    Secondo esperti politici indiani «le sanzioni hanno creato un nuovo mondo di paesi che cercano di commerciare utilizzando le proprie valute invece del dollaro Usa». Essi affermano anche che le sanzioni hanno danneggiato paesi terzi, come l’India, responsabili soltanto di avere dei rapporti commerciali con chi, per svariati motivi, è stato oggetto di sanzioni.

    Ad esempio, il Venezuela e l’Iran sono ricchi di petrolio e in passato sono stati i principali fornitori dell’India. Il commercio fu di fatto fermato a causa delle sanzioni statunitensi. Anche il Myanmar ha subito diverse sanzioni, inasprite dopo il recente colpo di stato. A pagarne le spese è stato anche il commercio indiano.

    L’India fa sapere di essere stata anch’essa colpita dalle sanzioni occidentali dopo i test nucleari del 1974 e del 1998. Com’è noto, le sanzioni vietano a persone fisiche e società (comprese le banche) di fare determinate transazioni con controparti nei paesi target. Poiché gran parte del commercio globale è in dollari, le società e i paesi sanzionati non possono più accedere al sistema bancario statunitense e sono, quindi, esclusi dal commercio globale. Ciò rende le aziende diffidenti nel fare affari con paesi sanzionati e rende efficaci le sanzioni statunitensi, anche se molti governi non le riconoscono.

    Una valuta legale si basa sulla fiducia nel governo che la emette. Molti indiani affermano che il governo Usa ha abusato di questa fiducia. Non solo per le sanzioni ma anche per la creazione di denaro eccessivo attraverso l’aumento del proprio debito pubblico.

    L’India riconosce che Pechino desiderava da tempo che la sua moneta sostituisse il dollaro come mezzo di scambio internazionale. Nel 2016 lo yuan è stato aggiunto al paniere di valute utilizzate dal Fmi per calcolare i Diritti Speciali di Prelievo. Nello stesso anno ha creato l’Asian Infrastructure Investment Bank (Aiib), la versione cinese delle istituzioni guidate dall’Occidente come la Banca mondiale e l’Asian Development Bank. L Aiib ha il supporto di oltre 90 paesi e l’India ne è il secondo maggiore azionista.

    Sebbene la sua economia sia più piccola di quella cinese, l’India ha maggiori possibilità di internazionalizzare la sua valuta rispetto alla Cina in quanto è ritenuta più orientata al mercato e più trasparente. L’India sostiene che le sanzioni occidentali contro Russia, Iran e Myanmar rimarranno a lungo e che in futuro altri paesi potrebbero essere presi di mira. Questo timore la sta spingendo a preparare sistemi di pagamento alternativi. L’obiettivo è creare sistemi paralleli che possano consentire il commercio, piuttosto che “sostituire” il dollaro.

    La rupia indiana può fornire uno di questi meccanismi. Lo ha già fatto in passato anche se in modo limitato. Infatti, fino al 1971 essa è stata utilizzata come valuta da molti stati del Golfo Persico, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Bahrain, ecc. Poi, ripetute svalutazioni hanno spinto questi paesi a creare le proprie monete.

    Si presume erroneamente che l’imperialismo britannico abbia introdotto la rupia nel commercio internazionale, ma essa era una valuta commerciale già liberamente circolante molto prima dell’arrivo delle compagnie europee sulle coste indiane. Gli storici indiani hanno dimostrato che la rupia è stata utilizzata per 500 anni nel commercio con il subcontinente indiano, anche grazie alla presenza di un’influente diaspora commerciale indiana. La storia della rupia dal XVII all’inizio del XX secolo non ha esempi paragonabili nella Cina imperiale di quel periodo.

    Oggi, la United Payment Interface dell’India, un sistema di pagamento in tempo reale sviluppato dalla National Payments Corporation per facilitare le transazioni interbancarie e regolato dalla Reserve Bank of India, consente ai titolari di conti di effettuare pagamenti in rupie in diversi paesi: Singapore, Emirati Arabi Uniti, Mauritius, Nepal e Bhutan. L’India incoraggia attivamente il commercio bilaterale con il Bangladesh e lo Sri Lanka utilizzando la rupia. La banca statale, UCI Bank, che in passato ha facilitato il commercio con l’Iran, programma di espandere le sue attività nell’intera regione asiatica.

    Una nota conclusiva che riguarda l’Europa. Secondo una recente analisi pubblicata da Bloomberg, dall’inizio della guerra in Ucraina e dell’inasprimento delle sanzioni che hanno drasticamente ridotto le importazioni europee di gas e di petrolio dalla Russia, l’India è diventata in primo fornitore di prodotti petroliferi dell’Europa. Non dovrebbe sorprendere che Nuova Delhi importa petrolio principalmente dalla Russia. Resta ancora una domanda: come sono pagate le fatture, in euro, in rupie o ancora in dollari?

    *già sottosegretario all’Economia **economista

  • L’UE attrae oltre 13,4 miliardi di m3 di gas nella prima gara d’appalto congiunta

    Il Vicepresidente Maroš Šefčovič ha annunciato l’esito positivo della prima gara internazionale dell’UE per l’acquisto congiunto di gas. Sfruttando il suo peso economico collettivo, l’UE è riuscita ad attrarre offerte da 25 imprese fornitrici, per oltre 13,4 miliardi di mdi gas, superando gli 11,6 miliardi di mdi domanda congiunta che le imprese dell’UE hanno presentato attraverso il nuovo meccanismo AggregateEU.

    Il prestatore di servizi PRISMA ha già abbinato i fornitori internazionali ai clienti europei presenti in AggregateEU, per un volume complessivo di 10,9 miliardi di m3 (8,7 miliardi di m3 di gas via gasdotto e 2,2 miliardi di m³ di GNL).

    Le imprese dell’UE potranno ora negoziare le condizioni dei contratti di fornitura direttamente con le imprese fornitrici, senza il coinvolgimento della Commissione.

    Questa iniziativa sosterrà gli sforzi degli Stati membri dell’UE volti a rispettare gli obblighi di stoccaggio del gas per il prossimo inverno, e nel contempo rafforzerà la nostra sicurezza energetica collettiva a prezzi competitivi. Seguiranno altre gare ogni due mesi fino alla fine dell’anno. La prossima gara d’appalto dovrebbe essere indetta nella seconda metà di giugno.

    L’aggregazione della domanda e l’acquisto congiunto sono un’iniziativa faro nell’ambito della piattaforma dell’UE per l’energia, nata per diversificare le forniture di gas dell’UE dopo che la Russia ha invaso l’Ucraina e l’Europa ha deciso collettivamente di porre fine alla sua dipendenza dalle importazioni di combustibili fossili russi.

  • Mercato dell’auto in ripresa, boom delle immatricolazioni

    Il mercato italiano dell’auto è in ripresa: nel mese di marzo le immatricolazioni sono state 168.294, il 40,8% in più dello stesso mese del 2022. Nei primi tre mesi dell’anno – secondo i dati del ministero dei Trasporti – sono state vendute in tutto 427.019 auto, con una crescita del 26,2%. Resta comunque una notevole distanza rispetto alla fase pre-Covid: la flessione è infatti del 20,6% rispetto al 2019.

    La crescita di marzo si spiega, secondo il Centro Studi Promotor diretto da Gian Primo Quagliano, alla luce di due fattori: il primo è il confronto con un mese, marzo del 2022, particolarmente difficile, che aveva registrato il 29,7% di immatricolazioni in meno su marzo 2021; il secondo fattore è legato al miglioramento della capacità produttiva delle case automobilistiche e dai tempi di consegna delle auto che si stanno normalizzando, dopo una lunga fase caratterizzata dalla crisi di semiconduttori e microchip. Secondo il Centro Studi Promotor, nell’intero anno le immatricolazioni potrebbero raggiungere il milione e 400mila unità. Tra i problemi del mercato italiano, il prezzo in salita delle vetture e l’elettrificazione “a rilento”.

    “La quota delle auto elettriche resta decisamente modesta – spiega Quagliano – mentre negli altri principali paesi europei è ormai a due cifre. E questo nonostante siano disponibili dal 10 gennaio 190 milioni per incentivi all’acquisto di auto elettriche che sono stati utilizzati solo per il 10,3%”.

    L’Unrae, che rappresenta in Italia le case automobilistiche estere, chiede che per la transizione energetica “ci sia chiarezza e che ritardi, indecisioni” e sostiene che “messaggi allarmistici non aiutino gli investimenti delle imprese e i consumatori a fare le loro scelte nel percorso avviato”. Per l’Anfia “una veloce rimodulazione delle misure di incentivazione vigenti può aiutare a mantenere costante questo trend positivo”.

    Il gruppo Stellantis ha immatricolato a marzo in Italia 58.986 auto, il 35,4% in più rispetto allo stesso mese del 2022. La quota scende dal 36,5% al 35,2%. Nei primi 3 mesi dell’anno le immatricolazioni del gruppo sono state 144.017 con una quota del 33,8%. Fiat resta il marchio più venduto in Italia con oltre 17.000 vetture immatricolate, in crescita di oltre il 6% da inizio anno, seguita da Volkswagen, con un aumento del 40%.

  • C’è più lavoro che prima del Covid: in due anni un milione di posti

    Il lavoro cresce più del pre-Covid ed è stabile. La ripresa dell’occupazione, nonostante il rallentamento alla fine dell’anno scorso, riesce così a “riassorbire completamente” la caduta causata dalla pandemia: tanto che in due anni, tra il 2021 e il 2022, conta quasi un milione di nuovi posti. A certificare il bilancio positivo è il rapporto sul mercato del lavoro realizzato da ministero del Lavoro, Banca d’Italia e Anpal.

    I dati dicono che nel solo 2022 sono stati creati più di 380mila posti, un valore superiore a quello registrato nel 2019, prima dell’emergenza sanitaria, quando si erano toccati i 308mila. E questa crescita occupazionale è legata quasi esclusivamente alle assunzioni a tempo indeterminato: oltre 400mila i posti di lavoro stabili in più, a fronte di una sostanziale stazionarietà dei contratti a termine e di un calo di oltre 50mila dei contratti di apprendistato. Aggiungendo i risultati del 2021, con oltre 600mila posizioni lavorative in più, ecco che nell’ultimo biennio il settore privato ha creato quasi un milione di nuovi posti.

    Tuttavia si conferma il rallentamento del mercato del lavoro a fine dell’anno scorso. La domanda, sottolinea il rapporto, “è rimasta sostenuta fino all’inizio dell’estate, riportando l’occupazione sul sentiero di crescita pre-pandemico. Nei mesi successivi la dinamica è rimasta positiva ma si è indebolita”.

    E comunque non va allo stesso modo per tutti. Tra i settori, la ripresa occupazionale dell’ultimo biennio è stata infatti eterogenea. Il comparto del turismo, che maggiormente ha risentito della crisi sanitaria, malgrado il buon andamento della stagione estiva, rimane ancora sotto i livelli pre-Covid. Meglio, invece, per le costruzioni che, anche sulla spinta del Superbonus, hanno registrato tassi di crescita molto elevati a partire dall’estate del 2020; nonostante il più recente rallentamento, la domanda di lavoro in questo settore dovrebbe rimanere sostenuta, viene evidenziato, anche grazie ai piani di investimento previsti dal Pnrr. Un rallentamento che ha pesato nella seconda metà dell’anno scorso particolarmente sul Sud, dove di più il comparto edile aveva spinto l’occupazione. In generale comunque la crescita si è concentrata nel Centro Nord. A dicembre il numero dei contratti a termine ha ripreso a salire.

    A novembre, intanto, è risalito il fatturato dell’industria: dopo due mesi di flessioni, come indicato dall’Istat, è tornato a crescere su base mensile mettendo a segno un +0,9% con una dinamica positiva sul mercato interno (+0,6%) e su quello estero (+1,3%). Su base annua, la crescita è dell’11,5% (+10,1% sul mercato interno e +14,3% su quello estero). Tra i raggruppamenti principali di industrie, l’aumento tendenziale più alto si registra per l’energia (+19,5%) che, però, su base mensile scende dell’1,8%.

    Sul fronte delle imprese, restano in territorio positivo ma rallentano le nascite di nuove attività. Dopo il brusco stop del 2020 (quando il saldo si fermò a solo +19mila) e il rimbalzo del 2021 (+87mila), con il 2022 il bilancio tra aperture e chiusure si attesta a 48mila attività in più (+0,8%) rispetto all’anno precedente, come emerge dai dati Movimprese, elaborati da Unioncamere e InfoCamere sulla base del Registro delle imprese delle Camere di commercio. Anche in questo caso, il contributo più rilevante al risultato annuale arriva dal settore delle costruzioni (+21mila). Nel confronto con il 2021 si vede però che le nuove aperture diminuiscono del 6% e invece aumentano le chiusure (+7,5%): in valori assoluti sono rispettivamente 313mila e 265mila.

  • Il finto e colpevole pensiero liberale

    Il risultato finale di uno scolastico pensiero liberale emerge limpido dalla semplice verifica dei dati economici. Il consuntivo delle “italiche” liberalizzazioni che hanno semplicemente trasferito monopoli statali a complessi interessi privati nell’ultimo decennio sono presto elencati. Costi a carico dell’utenza nell’ultimo decennio: energia elettrica +240%, gas +65%, acqua +54%, rifiuti +23% (*). Contemporaneamente le retribuzioni registrano un tasso di crescita del +11,5%.

    Un modo semplice ed elementare per comprendere per quale motivo negli ultimi trent’anni il reddito disponibile in Italia sia complessivamente diminuito del -3% mentre in Germania risulti cresciuto del +34,7% ed in Francia di oltre il 27% https://www.ilpattosociale.it/attualita/lappropriazione-indebita-del-termine-liberali/.

    Il mondo reale sconosciuto agli stessi scolastici promotori del liberalismo senza regole che hanno infestato le istituzioni nazionali dimostra quanto sia il danno economico e patrimoniale che questa risibile “scuola di pensiero” ha arrecato al nostro Paese, riducendo, in più, l’Italia a recitare, nella tragedia teatrale europea, il ruolo dell’Argentina. Il nostro sistema economico è tenuto in piedi paradossalmente dalla moneta unica (euro), perché se così non fosse avremmo gli stessi tassi di interesse (90%) dell’Argentina che opera con la propria valuta.

    Il Paese è stato depredato delle più importanti infrastrutture indivisibili (**) (autostrade, energia etc) in nome di un finto pensiero liberale assolutamente diverso da quello applicato in Svizzera e in Germania dove, solo per offrire un esempio, le autostrade sono di gestione pubblica. In questi paesi le infrastrutture e il loro efficientamento rappresenta un fattore fondamentale finalizzato alla crescita della competitività dell’intero paese.

    Nel nostro, invece, sono diventate, con un’evidente complicità del sistema politico, occasione di speculazioni a danno dell’utenza e del Paese.

    In questo contesto, basti ricordare come lo stesso ex primo ministro del governo conservatore Boris Johnson in Gran Bretagna abbia rinazionalizzato le ferrovie britanniche.

    Dopo una approfondita ricerca era emerso, non senza imbarazzi, come la liberalizzazione delle ferrovie britanniche avesse determinato un aumento del costo dei biglietti unito ad un peggiorato servizio reso ai viaggiatori https://www.luciferonline.it/2021/06/21/il-ritorno-di-british-railway-ed-il-silenzio-liberale/

    Emege molto difficile trovare strategie che assicurino uno sviluppo, specialmente a livello industriale, senza adottare un vero pensiero politico liberale che abbia come prospettiva l’efficentamento in termini qualitativi e di costi per l’utenza delle infrastrutture.

    Molto lontano, quindi, dalla smobilitazione di monopoli statali a favore di interessi privati invece di favorirne un accesso sulla base del principio della concorrenza.

    (*) Fonte Il Sole 24 Ore

    (**) I servizi di accesso dovrebbero invece essere oggetto di liberalizzazioni (p.e. Telepass)

  • USA. Il caso della First Republic Bank

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi apparso su www.notiziegeopolitiche.net il 6 maggio 2023 

    La First Republic Bank di San Francisco (Frb), la quattordicesima banca americana, ha chiuso i battenti. E’ il secondo fallimento più grande della storia dopo quello della Washington Mutual nel 2008. Per evitare che potesse provocare una slavina finanziaria e per tranquillizzare, almeno momentaneamente, i mercati è stata organizzata una “special operation” pubblica – privata.
    La Federal Deposit Insurance Corporation (Fdic), l’agenzia di regolamentazione bancaria, in qualità di curatore fallimentare ha preso possesso della banca e contemporaneamente l’ha venduta alla JPMorgan Chase di New York, la più grande banca americana e indiscussa regina dei derivati finanziari speculativi. Quest’ultima prenderà il controllo dei 103,9 miliardi di dollari di depositi e dei 229,1 miliardi di attività della First Republic, 173 dei quali in prestiti e 30 in titoli.
    Per l’acquisto la JPMorgan ha pagato 10,6 miliardi. Il fondo di garanzia della Fdic dovrebbe intervenire con 13 miliardi per coprire le perdite subite dai correntisti della banca. La Fdic, infatti, garantisce i depositi fino a 250.000 dollari. Essa dovrebbe anche aggiungere 50 miliardi di finanziamenti, di crediti. In altre parole, il grosso del salvataggio è sulle spalle pubbliche.
    Si tenga presente che nei depositi citati vi sarebbero 92 miliardi di precedenti aiuti, 30 dei quali nella forma di crediti concessi dalle 11 maggiori banche statunitensi e il resto dalla Federal Reserve e da altre entità pubbliche. Sono serviti solo per guadagnare un po’ di tempo ed evitare il tracollo immediato.
    Il crollo della Frb è da manuale. All’inizio di marzo, quando si annunciava il percorso di fallimento della Silicon Valley Bank, le azioni della First Republic valevano ancora 115 miliardi. Oggi pressoché niente. Già nei primi tre mesi dell’anno, ben 102 miliardi di depositi erano “scappati” dalla banca. Infatti, come le altre due banche fallite, la Silicon Valley e la Signature, la Frb è crollata sotto il peso di prestiti e investimenti in obbligazioni che hanno perso miliardi di dollari di valore a seguito della politica della Fed di alzare i tassi d’interesse per combattere l’inflazione. Di conseguenza, molti clienti, soprattutto quelli facoltosi, hanno iniziato a ritirare i loro soldi e gli investitori hanno scaricato le sue azioni, innescando anche una crisi di liquidità.
    L’amministratore delegato della JPMorgan, Jamie Dillon, si augura che questa fase di alta instabilità finanziaria si possa calmare, anche se “potrebbe esserci un altro caso più piccolo”. Ma, aggiunge, gli investitori sono ancora esposti ai rischi creati dagli aumenti dei tassi d’interesse della Fed e dal loro impatto sugli asset, compresi gli immobili.
    Nonostante le tante assicurazioni, si teme che le crisi bancarie da “acute” possano diventare “croniche”. Gli effetti macroeconomici dello stress bancario potrebbero essere solo nella fase iniziale.
    Negli Usa vi è la convinzione che la Fed ha gestito male la politica sui tassi d’interesse, con rialzi prima tardivi e poi troppo concentrati. Infatti, in dodici messi il tasso è aumentato del 5%, uno choc secondo solo a quello degli anni ottanta. Inoltre, come ha ammesso anche il vice presidente della banca centrale Michael Barr davanti al Congresso, la Fed è mancata nella supervisione e nella regolamentazione bancaria.
    I fallimenti hanno dimostrato che circa un quarto del cosiddetto portfolio bancario è fatto di titoli in perdita rispetto agli attuali tassi di’interesse. Di fatto il rischio di una fuga generalizzata di depositi dalle banche regionali verso quelle più grandi e verso i fondi del cosiddetto sistema bancario ombra resta rilevante. Ciò comporterebbe anche una riduzione dei crediti verso l’economia. Si toccano con mano gli effetti indesiderati della liquidità creata a piene mani e a basso costo. Oggi la Fed rischia di fare lo stesso errore: sottovalutare le conseguenze sistemiche delle sue attuali politiche.
    Naturalmente le banche too big to fail stanno approfittando della politica della Fed. Lo dimostra un dato sorprendente: nel primo trimestre del 2023 la JPMorgan Chase ha fatto ben 21 miliardi di profitti sui tassi di interesse, più del 50% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Poiché i tassi sui depositi dei clienti erano e restano bassi, la banca si è subito adeguata al rialzo dei tassi nelle concessioni di prestiti e negli investimenti.
    I non pochi interventi di salvataggio evidenziano alcune criticità che si faranno presto sentire. Prima di tutto acuiscono la concentrazione bancaria, le grandi banche diventano più grandi e too big to manage. In secondo luogo si sta minando la fiducia nei confronti della Fdic e della sua capacità futura di essere garante di tutti i depositi. Il che è molto preoccupante.

    Mario Lettieri, già deputato e sottosegretario all’Economia; Paolo Raimondi, economista

  • Effetto Covid: in rosso col fisco il 39% delle imprese

    L’impatto del Covid sull’economia viene a galla nelle dichiarazioni fiscali delle imprese. Nell’anno d’imposta 2020, quello in cui più forte è stato l’effetto della pandemia sul Pil italiano, arretrato di ben il 9%, le dichiarazioni Ires delle società di capitali, quelle presentate cioè nel corso degli anni 2021 e 2022, sono state quasi 1,3 milioni, in crescita dell’1,4% rispetto all’anno precedente. Ma se il 54% delle aziende ha dichiarato un reddito d’impresa rilevante ai fini fiscali (in netto calo rispetto al 64% all’anno precedente) e il 7% ha chiuso l’esercizio in pareggio, ben il 39% ha dichiarato una perdita, mostrando in questo caso un deciso aumento rispetto al 29% registrato nel 2019.

    I dati appaiono dalle statistiche del Dipartimento delle Finanze del Mef secondo cui il reddito fiscale dichiarato, pari a 162,8 miliardi di euro, ha subito una riduzione dell’11,6%. Tra i settori che hanno registrano una contrazione maggiore del reddito compaiono innanzitutto quelle più colpite dalle restrizioni Covid: quindi le attività dei servizi di alloggio e ristorazione (-75%), il trasporto e magazzinaggio (-43%) e poi le “attività finanziarie” (-20%).

    La perdita fiscale complessiva è salita a 86,3 miliardi di euro, con un incremento del 49%. L’aumento delle perdite ha colpito anche in questo caso in particolare il settore alloggio e ristorazione, il cui valore è triplicato rispetto al 2019, e il trasporto e magazzinaggio, con un valore raddoppiato rispetto al 2019. Nel 2020, precisa ancora il ministero dell’Economia, le società di capitali hanno dichiarato un imponibile di 129,2 miliardi di euro (-13,1% rispetto al 2019). Quelle che hanno dichiarato imposta sono pari al 50,3% del totale, in forte diminuzione rispetto l’anno precedente; il rimanente 49,7% non ha dichiarato imposta o ha un credito.

    Andamento al ribasso infine anche per l’Irap: il numero dei soggetti che hanno presentato la dichiarazione è stato di 3,3 milioni (-2,1% rispetto al 2019). La contrazione ha interessato in misura prevalente le persone fisiche (-4,5% rispetto al 2019) e le società di persone (-3,7% rispetto al 2019), a causa soprattutto della forza attrattiva del regime forfettario.

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