Chi pensa di poter spiegare il comportamento di Trump definendolo un “pazzo”, criticandolo per la sua apparente impreparazione alla politica internazionale o accusandolo di essere “ondivago” nelle sue decisioni annunciate e poi modificate in poco tempo è del tutto fuori strada. Dimentica, chi lo fa, che Trump non ragiona come siamo abituati a veder fare dai politici ma è, e resta, un uomo d’affari (seppur con i fallimenti alle spalle) e ogni suo comportamento lo denota. Già nel suo primo mandato usò spesso i dazi come uno strumento per le negoziazioni e li modificò o li annullò a seconda delle convenienze. Per ottenere ciò che vuole alza continuamente la posta, finge di dimostrarsi disponibile a negoziare e poi rilancia. Il suo obiettivo è “spiazzare” gli interlocutori, disorientarli e poi, poiché parte dal presupposto di avere in mano le carte più forti vuole ottenere il massimo risultato possibile. I suoi modi sono quelli di un bullo ignorante e prepotente, ma anche mostrarsi così gli fa gioco. Col sembrare irragionevole e imprevedibile lui crede (e forse ha ragione) di obbligare gli altri sulla difensiva e di renderli più disponibili ad evitare il peggio per loro.
Se con la sua tattica sembra fare passi in avanti e altri indietro, la sua strategia è abbastanza chiara e lui sa bene ciò a cui mira. Il suo (e il nostro) problema è che nella vita degli uomini e delle società umane le variabili sono sempre infinite e nemmeno il piano più elaborato e, sperabilmente, lungimirante offre tutte le garanzie di successo. Bastano, spesso, fatti imprevisti e non voluti a modificare ogni risultato auspicato. Negli scacchi le variabili sono tutte calcolabili e l’avversario è uno. In politica, e soprattutto nella politica internazionale, gli amici possono diventare nemici (e viceversa) e ogni piccolo sassolino può trasformarsi in valanga. Uno degli eventi che probabilmente non aveva previsto e che lo ha costretto a parzialmente correggersi strada facendo è stato il crollo di valore dei titoli del tesoro americani. È facile immaginare che rientrasse nei suoi piani il “periodo di grazia” riguardante i dazi doganali ma, forse, è stato costretto ad anticipare i tempi.
Trump ha abbandonato le giustificazioni ideologiche dei suoi predecessori ma l’obiettivo, e cioè uno sguardo americano-centrico sul mondo, è rimasto lo stesso. Gli USA hanno sempre usato il classico liberismo e l’idea della democrazia come fondamenti ideologici utili ad espandere la loro influenza. È cambiato, tuttavia, il contorno: con l’emergere di nuove potenze economiche e politiche è definitivamente finito il progetto di un mondo unipolare con a capo gli Stati Uniti. Attualmente, l’America di Trump non è più interessata a propagandare la globalizzazione, l’autorità morale o risolvere i problemi del mondo. L’”America First” si focalizza sull’interesse nazionale aperto a trattative pragmatiche basate sull’interesse reciproco. Con realismo, ora cerca soltanto di ottenere il massimo beneficio da ogni interazione nell’economia, nella sicurezza, nella politica. Se trova ostacoli nel negoziare questi benefici è pronto a usare la forza, sia essa economica o politica, ben conscio di essere tuttora il Paese del mondo più ricco economicamente e più possente militarmente. Nei limiti del possibile Trump cercherà di evitare una qualunque guerra poiché la trova controproduttiva e distruttiva, ma ciò non significa che escluderà del tutto e per sempre anche questa opzione, almeno come minaccia.
I suoi obiettivi economici sono di ridurre il debito pubblico e di rilanciare le capacità manifatturiere degli Stati Uniti andate diluendosi nel mondo globalizzato, quello da loro stessi costruito nel passato. Per ottenere questi risultati deve riuscire a modificare la bilancia commerciale oggi fortemente sfavorevole e i dazi sono un importante strumento di pressione. Chi attualmente vanta un saldo positivo verso gli Stati Uniti dovrà accettare di riequilibrare l’interscambio o ne pagherà le conseguenze. Naturalmente il livello delle tariffe doganali sarà tale da garantire l’equilibrio che Trump considera ottimale. Parallelamente, punterà a indebolire il dollaro, seppur con cautela, per rendere più costose le importazioni e più convenienti le esportazioni.
Per quanto riguarda la sicurezza Trump è ben conscio che, paradossalmente, il bipolarismo precedente alla caduta dell’Unione Sovietica garantiva la pace molto di più dell’attuale semi-anarchia mondiale. Il punto d’arrivo cui mira ora potrebbe essere una nuova “Yalta” ma, per arrivarci da una posizione di forza, pensa di dover aver più carte in mano, in modo da poter dettare una buona parte delle future condizioni agli altri soggetti che si siederanno al tavolo. Rientra in questo calcolo la volontà di riprendere il controllo sulle principali vie di comunicazione (vedi Panama) e, conscio del ruolo futuro che giocherà l’Artico, poter mettere le mani sulla Groenlandia. Contemporaneamente, vuole garantirsi i confini a nord (Canada) e a sud (Messico) anche per controllare sia i commerci che le immigrazioni abusive. Non si creda che questa sua politica sia del tutto nuova: già nel 1867 Andrew Johnson comperò l’Alaska e avanzò l’ipotesi di farlo anche con la Groenlandia, così come nel 1803 la Louisiana fu comprata dalla Francia. Nel 1895 Grover Cleveland intervenne nella disputa di confini tra il Venezuela e la Guaiana sulla base della dottrina Monroe che dal 1890 aveva stabilito che tutto l’emisfero Occidentale fosse una “riserva” degli USA. Il segretario di Stato Richard Olney lo espresse in modo molto chiaro “Gli Stati Uniti sono praticamente sovrani su questo continente e il loro fiat è legge verso i soggetti cui si indirizzano”. Nel 1903 Theodor Roosevelt intervenne per garantire la secessione di Panama dalla Colombia in modo da garantirsi l’esclusività per la costruzione dell’istmo. Perfino Woodrow Wilson non rinunciò a intromettersi sulla sovranità altrui e nel 1915 mandò i marines a Haiti “per ristabilire l’ordine”, mentre nel 1916 inviò le truppe in Messico per catturare il “ribelle” Pancho Villa. Si conoscono poi i numerosi interventi “intromissivi” americani in Guatemala, nella Repubblica Domenicana, in Cile, in El Salvador, in Nicaragua e a Grenada. La prima proposta alla Danimarca per la Groenlandia appartiene a Harry Truman che offrì ben 100 milioni in oro nel 1946. L’atteggiamento assertivo e prepotente di Trump è quindi una conferma della norma piuttosto che una rottura della tradizione.
Oggi, a differenza dei recenti Presidenti che lo avevano preceduto, Trump ha capito essere soltanto la Cina, e non la Russia, il vero competitor del potere mondiale degli USA e quindi sta puntando ad un accordo diretto con Mosca non perché, come pensano alcuni superficiali, pensi di poter staccare la Russia dalla Cina, bensì perché attraverso l’accordo di Mosca si creino le premesse per la Yalta definitiva a cui punta.
Evidentemente, in questa partita l’Europa non è che soltanto un piccolo pedone sia dal punto di vista politico sia militare e ci sarebbe da stupirsi del contrario, visto la incapacità di noi europei, dal dopoguerra ad oggi, di saper diventare un vero soggetto politico. Viene da sorridere sentire chi parla di una “difesa europea” che sarebbe sensata e possibile soltanto se l’Europa fosse capace (ma come potrebbe farlo con i politici che ci troviamo attualmente?) di trasformarsi in una Federazione di Stati. Chi farnetica di una “difesa” costruita esattamente come è la Nato dimentica che quest’ultima ha funzionato sempre e soltanto avendo un “capo in testa” che imponeva l’unanimità. Dovremmo noi oggi riconoscere questo ruolo ai francesi e/o ai britannici come auspicano Macron e Starmer? Dio ce ne scampi! Decisioni con il voto di maggioranza? Si potrebbe fare, come già avviene, per gli aspetti marginali ma non quando si tratta di politica estera o di difesa. Non è possibile nemmeno immaginare una Federazione europea composta da 27 Stati, magari addirittura con l’aggiunta della disastrata e disgraziata Ucraina! A parte che alcuni, vedi Polonia e i Baltici ad esempio, stanno già più con gli USA che con Bruxelles (salvo da quest’ultima incassare i generosi benefici economici), una futura, possibile e democratica Federazione dovrà partire dai Paesi che più pesano: Francia, Italia, Germania, Spagna, cui potranno eventualmente aggiungersi altri volenterosi con politici lungimiranti. È scontato che dell’Europa attuale Trump non se curi, salvo chiederle (imporle?) di pareggiare la bilancia commerciale e comprare più armi e prodotti agricoli geneticamente modificati (ogm).
Nel suo intento di arrivare ad un primo accordo con la Russia è ben chiaro al tycoon che Mosca non arretrerà di un millimetro dai motivi che l’hanno spinta ad entrare in guerra. Tuttavia, visto che quelle in Ucraina è sempre stata una guerra per procura, accettare pari pari le condizioni russe significherebbe riconoscere la sconfitta degli Stati Uniti sul campo di battaglia ed è per evitare l’immagine negativa che ne scaturirebbe che Trump ha preso platealmente le distanze da Zelensky e chiede a Kiev di rimborsare, in qualche modo, gli aiuti ricevuti da Washington. In altre parole, deve disconoscere la paternità americana della situazione e porsi solo come terza parte. In più, in una ipotetica pace imporrà all’Ucraina di consentire a società americane di giocare la parte del leone nella futura ricostruzione. Con buona pace degli illusi europei. Un accordo con Putin, se le condizioni di Mosca saranno accettate, è possibilissimo e questo aprirà nel futuro non molto lontano (e proprio con l’intermediazione di Mosca) l’apertura di un tavolo economico-politico con Pechino. A quel tavolo dovranno poter sedere tutti e tre, Usa, Russia e Cina e saranno loro, insieme, a decidere come spartirsi le zone di influenza nel resto del mondo. Se si arriverà a questa fase, anche per vantare un maggiore potere negoziale Trump potrebbe coinvolgere anche l’India, storico nemico della Cina. Così il quadro sarà completo. Davanti ad un accordo tra tutti questi Grandi, il resto del mondo, compreso noi europei, non potrà che accettare e subire. Il vero rischio per Trump è che il suo atteggiamento così violento verso gli alleati tradizionali potrebbe creare le condizioni per costoro di cominciare a valutare le possibili alternative, magari guardando proprio alla Cina. Anche se una nuova Yalta farebbe comodo a tutti i Grandi, arrivarvi con una zona di influenza più ampia già acquisita farebbe comodo nel momento delle negoziazioni.
Chi può affermare con assoluta certezza come andranno le cose nella realtà? All’inizio di questo articolo scrivevamo che le variabili sono così innumerevoli e imprevedibili che tutto potrebbe cambiare. Chissà se in meglio o in peggio per l’Europa.