Economia

  • 2040, il baratro europeo

    La Ue ha raggiunto un accordo per stabilire un obiettivo vincolante di riduzione del 90% delle emissioni nette di gas serra entro il 2040 rispetto ai livelli del 1990. Questo obiettivo intermedio fa parte della Legge europea sul clima e si inserisce nel percorso verso la neutralità climatica totale (zero emissioni nette) entro il 2050. In più si afferma come la stessa Unione Europea abbia concesso agli Stati membri e alle aziende di utilizzare, ad esempio, crediti di carbonio ottenuti da iniziative antinquinamento globali per raggiungere i loro specifici traguardi.

    Questo quadro ideologico, già di per sé insostenibile rispetto ad una situazione geopolitica internazionale normale, diventa catastrofico nei momenti in cui andrebbe valutato anche il contesto fortemente influenzato dalle crisi internazionali tanto economiche quanto belliche ed in ultimo legate anche alla gestione monopolistica cinesi delle terre rare.

    La positiva flessione progressiva e continuata delle emissioni in Europa andrebbe favorita con incentivi fiscali in quanto espressione di investimenti finanziari e professionali, invece di imporre dei divieti assoluti come il perseguimento della riduzione del 90% delle emissione del 2040 e il divieto della vendita di motori endotermici a 2035. Andrebbe per lo meno considerata la assoluta ininfluenza sull’andamento globale del quadro climatico in ragione di una riduzione delle emissioni europee, in quanto già ora minimali. Come naturale conseguenza, questo quadro di incertezza relativa ad una inesistente politica energetica europea ed italiana in particolare favorisce la fuga ormai conclamata delle attività industriali. Questa determinerà un deserto economico ed occupazionale senza precedenti dal dopoguerra ad oggi al quale la Ue assiste e partecipa attivamente per non invertire il drammatico trend.

    Valutando il quadro internazionale andrebbero considerate le politiche energetiche della Cina la quale per realizzare i propri prodotti utilizza 527 milioni tonnellate di carbone diventando la prima fonte di emissione ed inquinamento al mondo marginalizzando come detto in precedenza la responsabilità europea. In più, ma non per questo ultimo per importanza, lo scenario internazionale vede in atto due scenari bellici che hanno consigliato ed imposto a tutti gli attori internazionali di modificare quantomeno nella tempistica gli obiettivi strategici già definiti tanto in ambito economico quanto politico.

    Viceversa, l’Unione Europea, unica al mondo, ancora oggi si illude di raggiungere la decarbonizzazione della propria economia, un obiettivo ridicolizzato dai dati relativi al 2024 che hanno visto invece un’esplosione delle emissioni, nonostante i sacrifici, in termini di costi aggiuntivi, per le imprese europee in quanto imposti dalla stessa Unione.

    Questa continua a confermarsi come l’unica istituzione al mondo la quale imperterrita mantiene come centrale il perseguimento del proprio obiettivi ideologici, ambientali e politici indipendentemente dal degrado geopolitico internazionale che dovrebbe indurre ad una maggiore cautela specialmente in ragione degli effetti economici che tali scenari creano.

    Non paga, quindi, l’istituzione europea risulta ancora una volta assolutamente scollegata dal contesto internazionale, quindi non vede (non conosce), non sente (non comprende), non sa (non programma) e di fronte ad uno scenario in continua evoluzione conferma la propria inamovibile ed assolutamente granitica ideologia ambientalista antieconomica confermandosi molto peggiore delle scimmiette che rappresentano questi comportamenti.

    La flessibilità politica e strategica in rapporto al contesto internazionale di certo rappresenta un valore aggiunto per una qualsiasi classe politica e dirigente, ancora oggi sconosciuto nel continente europeo.

  • Calano gli acquisti delle macchine automatiche

    Nei primi sette mesi dell’anno, il settore della distribuzione automatica ha registrato un sensibile calo delle consumazioni (-4,6%). Questo trend negativo arriva dopo la lieve ripresa iniziata nel 2021 (+10,48%), proseguita nel 2022 (+5,07%) e stabilizzatasi nel 2023 (+0,74%). È la fotografia scattata da Confida, Associazione Italiana Distribuzione Automatica, durante gli Stati Generali del Vending tenutisi a Roma nella sede di Confcommercio-Imprese per l’Italia alla presenza di 200 imprenditori del settore e numerosi rappresentanti delle istituzioni.

    Il comparto paga il calo della produzione industriale con il conseguente aumento della cassa integrazione (la distribuzione automatica, infatti, sviluppa il 37% delle consumazioni nel manifatturiero), l’effetto dell’inflazione che ha causato una contrazione dei consumi alimentari fuori casa (oltre un terzo degli italiani nell’ultimo anno ha peggiorato la propria situazione economica), e l’utilizzo dello smart working, oggi utilizzato regolarmente dal 31% degli italiani. Parallelamente, sono cambiate le abitudini di consumo che ora virano verso scelte sempre più personalizzate, causando una frammentazione crescente delle identità alimentari. Per il 79% degli italiani, tuttavia, le vending machine rappresentano un’alternativa comoda e veloce per il consumo di bevande e alimenti, offrono un’esperienza di uso semplice e immediata (79%); rappresentano un momento di evasione dalla routine (74%) e il 64% dei consumatori lo considera anche un settore innovativo; è quanto emerge da una ricerca Ipsos per Confida.

    “Il calo delle consumazioni della distribuzione automatica ha portato, come conseguenza, anche ad una riduzione del 28% nei primi sei mesi del 2025 della vendita di vending machine nuove: una produzione di eccellenza del Made in Italy, che vive anche una crescente concorrenza di produttori asiatici le cui vending machine, talvolta, non rispettano le normative europee oppure provengono da Paesi in cui la manodopera è sottopagata e poco tutelata. Per questo. – commenta Massimo Trapletti, Presidente di CONFIDA il Piano Transizione 5.0 era un provvedimento molto atteso dalle aziende del settore, che tuttavia non si è potuto utilizzare per le difficoltà applicative. Auspichiamo pertanto che la revisione contenuta nella Legge di Bilancio renda più agevole l’accesso al beneficio per le nostre imprese.”

    In aggiunta, il settore richiede un protocollo integrativo al contratto collettivo del commercio a cui fanno riferimento i lavoratori del comparto, al fine di inquadrare al meglio le peculiarità delle professionalità della distribuzione automatica.

    “Il settore della distribuzione automatica include circa 30.000 addetti, per un totale di 3.000 imprese – commenta Carlo Sangalli, Presidente di Confcommercio – Un numero decisamente sufficiente per prendere in considerazione di elaborare un protocollo dedicato al mondo del vending che integri il nostro principale contratto collettivo nazionale al prossimo rinnovo, dando al settore le specifiche necessarie a valorizzare le proprie qualità.”

    Infine, la distribuzione automatica dovrà affrontare anche le criticità che emergono dal regolamento europeo sugli imballaggi e i rifiuti da imballaggio (Ppwr), che entrerà in vigore il prossimo anno. In particolare, gli obbiettivi di riutilizzo e l’introduzione dei sistemi di deposito e cauzione vanificherebbero gli investimenti fatti negli anni sul riciclo degli imballaggi con il progetto economia circolare “RiVending” ormai diffuso in tutta Italia con oltre 16 mila cestini per il riciclo della plastica posizionati in 2.500 aziende. Il comparto, quindi, chiede alle istituzioni italiane nell’applicazione della PPWR di esentarlo da quelle previsioni inapplicabili per le caratteristiche intrinseche della distribuzione automatica.

  • Gli accordi commerciali dell’UE accelerano la crescita delle esportazioni e sostengono la diversificazione

    Secondo la quinta relazione annuale sull’attuazione e l’applicazione della politica commerciale dell’UE l’ampia rete di accordi commerciali dell’UE aiuta le imprese a trovare mercati alternativi per le loro esportazioni, riducendo allo stesso tempo le dipendenze in un contesto geopolitico difficile.

    La relazione, relativa al 2024 e al primo semestre del 2025, conclude che gli accordi commerciali dell’UE incentivano la resilienza e la competitività degli operatori economici dell’UE. Inoltre, gli accordi commerciali dell’UE sostengono la diversificazione e la stabilità della catena di approvvigionamento.

    L’UE sta attivamente ampliando la propria rete di accordi commerciali. Infatti, l’anno scorso sono entrati in vigore due nuovi accordi preferenziali dell’UE (un accordo di libero scambio con la Nuova Zelanda e un accordo di partenariato economico con il Kenya), portando a ben 44 il numero totale di accordi commerciali dell’UE attualmente in vigore, conclusi con 76 partner commerciali preferenziali.

  • La Cina chiude il cerchio

    L’ultima decisione del colosso cinese in relazione al settore Automotive è rappresentata dalla sospensione degli incentivi all’acquisto delle auto elettriche. Questa decisione si rivela decisamente anticiclica sia sotto il profilo economico che ideologico e chiude il cerchio di una strategia di politica estera ed economica cinese con il conseguimento degli obiettivi. E dimostra, innanzitutto, ancora una volta, come le autovetture elettriche non rappresentassero l’opzione strategica all’interno di una ideologia ambientalista e tantomeno un fattore economicamente sostenibile.

    In altre parole, la transizione elettrica si è rivelata semplicemente come uno strumento politico e soprattutto economico finalizzato alla crescita della dipendenza europea dalle forniture cinesi e, di conseguenza, un fattore di crescita dell’ingerenza politica della Cina.

    Lo stesso monopolio delle terre rare che rende ora il colosso cinese centrale in qualsiasi politica di sviluppo tanto europea quanto statunitense è stato realizzato negli ultimi decenni con la totale miope sottovalutazione strategica dei vertici politici europei e statunitensi. I primi impegnati in una ridicola transizione ambientalista ma non preoccupandosi delle materie prime con le quali realizzarla, i secondi incapaci di apprezzare l’indipendenza energetica che lo Sheil Oil e Sheil Gas hanno garantito liberandoli dal ricatto mediorientale, ma ora si trovano nuovamente ostaggio del colosso cinese, cioè da una istituzione politica a loro avversa.

    E mentre il successo elettorale di una finta ideologia progressista spingeva i vertici politici europei ad occuparsi dei tappi per le bottiglie ed i secondi della tutela della economia finanziaria, la Cina, giocando proprio sulla pochezza espressa dai vertici delle istituzioni occidentali, ha raggiunto e realizzato una vera e propria dipendenza nel mondo occidentale dalle proprie forniture di terre rare.

    In altre parole, la assoluta miopia europea che ha impostato ed abbracciato questo delirio ambientalista del GreenDeal, il quale ha determinato anche il divieto alle auto endotermiche al 2035 anticipato al 2030 per quanto riguarda le flotte aziendali ed autonoleggio, nei fatti si è dimostrata la piattaforma ideologica perfetta per realizzare il quadro del gigante cinese e così portare a compimento il proprio progetto di allargamento della propria ingerenza politica.

    La Cina è stata, e rimane, il principale alleato del delirio europeo relativo alla transizione elettrica nella mobilità come della digitalizzazione (imperdonabile scegliere una strategia senza valutare le problematiche che la rendano possibile). Un errore clamoroso che ha visto coinvolte anche le case automobilistiche europee le quali, ignorando, o peggio, sottovalutando ogni valutazione sulle potenzialità del mercato, hanno abbracciato ed investito nel delirio di una transizione elettrica che ora pagano con delle trimestrali da brividi. Volkswagen e Porsche presentano, infatti, trimestrali disastrose non tanto legate al calo delle vendite quanto agli assurdi investimenti in impianti per la produzione di automobili elettriche che il mercato non vuole ora e probabilmente neppure domani.

    La miopia occidentale ha portato la Cina di fatto a diventare la prima potenza strategica nel mondo non tanto per una potenzialità economica e culturale, quanto grazie agli effetti delle proprie strategie di approvvigionamento tali da renderla monopolista. In più la Cina è riuscita addirittura ad esportare un modello di sviluppo che ora con la fine degli incentivi abbandona senza alcun rimorso, mentre i governi europei e in particolare quello italiano hanno ancora una volta dimostrato di avere sottoscritto sic et nunc.

    Basti ricordare che contemporaneamente alla sospensione degli incentivi alle auto elettriche in Cina, con una coincidenza persino comica, il governo italiano ha varato un piano di incentivi per il passaggio proprio alla mobilità elettrica. Con un tempismo che dimostra sostanzialmente l’assoluta disconnessione, incompetenza ed inadeguatezza del governo e soprattutto dei ministri competenti per materia.

    Il buio strategico che l’Europa e gli Stati Uniti hanno dimostrato negli ultimi decenni durante la corsa all’approvvigionamento cinese si rivela sicuramente come il più tragico a livello strategico dal dopoguerra ad oggi e conferma la sostanziale incapacità delle esponenti istituzionali occidentali ad affrontare la complessità di un mercato globale.

    Ancora una volta, la presunzione occidentale basata su di una superiorità intoccabile ha fatto sì che al vertice istituzionale degli Stati Uniti e delle istituzioni europee potessero accedere persone prive di ogni qualifica ma forti della sola legittimazione elettorale, mentre la Cina è riuscita a chiudere il quadro della propria strategia riuscendo ad esportare in Europa l’ideologia ambientalista che pone le proprie auto al centro di tale sviluppo mentre gli Stati Uniti hanno spinto per un modello di sviluppo economico senza preoccuparsi degli elementi base per sostenerlo.

    Non va trascurato come la forza della Cina sia stata sostenuta soprattutto dalla debolezza delle istituzioni occidentale le quali invece di pensare al futuro nel medio e lungo termine hanno abbracciato, coadiuvati dalla miope complicità del mondo accademico, ideologie e soprattutto modelli politici con un respiro strategico fino alla settimana successiva o al massimo al prossimo appuntamento elettorale.

    Il declino culturale di un continente non è espresso dalla mancanza di tutela dei vari generi come richiede la cultura Woke e tantomeno da rigurgiti “fascisti” nostalgici considerati pericolosi per la democrazia. Il vero declino culturale è rappresentato dalla incapacità di leggere ed immaginare il futuro economico e di sviluppo del proprio continente, proprio mentre la Cina chiude il proprio cerchio relativamente allo sviluppo dell’economia occidentali.

    L’ultima decisione del colosso cinese in relazione al settore Automotive è rappresentata dalla sospensione degli incentivi all’acquisto delle auto elettriche. Questa decisione si rivela decisamente anticiclica sia sotto il profilo economico che ideologico e chiude il cerchio di una strategia di politica estera ed economica cinese con il conseguimento degli obiettivi. E dimostra, innanzitutto, ancora una volta, come le autovetture elettriche non rappresentassero l’opzione strategica all’interno di una ideologia ambientalista e tantomeno un fattore economicamente sostenibile.

    In altre parole, la transizione elettrica si è rivelata semplicemente come uno strumento politico e soprattutto economico finalizzato alla crescita della dipendenza europea dalle forniture cinesi e, di conseguenza, un fattore di crescita dell’ingerenza politica della Cina.

    Lo stesso monopolio delle terre rare che rende ora il colosso cinese centrale in qualsiasi politica di sviluppo tanto europea quanto statunitense è stato realizzato negli ultimi decenni con la totale miope sottovalutazione strategica dei vertici politici europei e statunitensi. I primi impegnati in una ridicola transizione ambientalista ma non preoccupandosi delle materie prime con le quali realizzarla, i secondi incapaci di apprezzare l’indipendenza energetica che lo Sheil Oil e Sheil Gas hanno garantito liberandoli dal ricatto mediorientale, ma ora si trovano nuovamente ostaggio del colosso cinese, cioè da una istituzione politica a loro avversa.

    E mentre il successo elettorale di una finta ideologia progressista spingeva i vertici politici europei ad occuparsi dei tappi per le bottiglie ed i secondi della tutela della economia finanziaria, la Cina, giocando proprio sulla pochezza espressa dai vertici delle istituzioni occidentali, ha raggiunto e realizzato una vera e propria dipendenza nel mondo occidentale dalle proprie forniture di terre rare.

    In altre parole, la assoluta miopia europea che ha impostato ed abbracciato questo delirio ambientalista del GreenDeal, il quale ha determinato anche il divieto alle auto endotermiche al 2035 anticipato al 2030 per quanto riguarda le flotte aziendali ed autonoleggio, nei fatti si è dimostrata la piattaforma ideologica perfetta per realizzare il quadro del gigante cinese e così portare a compimento il proprio progetto di allargamento della propria ingerenza politica.

    La Cina è stata, e rimane, il principale alleato del delirio europeo relativo alla transizione elettrica nella mobilità come della digitalizzazione (imperdonabile scegliere una strategia senza valutare le problematiche che la rendano possibile). Un errore clamoroso che ha visto coinvolte anche le case automobilistiche europee le quali, ignorando, o peggio, sottovalutando ogni valutazione sulle potenzialità del mercato, hanno abbracciato ed investito nel delirio di una transizione elettrica che ora pagano con delle trimestrali da brividi. Volkswagen e Porsche presentano, infatti, trimestrali disastrose non tanto legate al calo delle vendite quanto agli assurdi investimenti in impianti per la produzione di automobili elettriche che il mercato non vuole ora e probabilmente neppure domani.

    La miopia occidentale ha portato la Cina di fatto a diventare la prima potenza strategica nel mondo non tanto per una potenzialità economica e culturale, quanto grazie agli effetti delle proprie strategie di approvvigionamento tali da renderla monopolista. In più la Cina è riuscita addirittura ad esportare un modello di sviluppo che ora con la fine degli incentivi abbandona senza alcun rimorso, mentre i governi europei e in particolare quello italiano hanno ancora una volta dimostrato di avere sottoscritto sic et nunc.

    Basti ricordare che contemporaneamente alla sospensione degli incentivi alle auto elettriche in Cina, con una coincidenza persino comica, il governo italiano ha varato un piano di incentivi per il passaggio proprio alla mobilità elettrica. Con un tempismo che dimostra sostanzialmente l’assoluta disconnessione, incompetenza ed inadeguatezza del governo e soprattutto dei ministri competenti per materia.

    Il buio strategico che l’Europa e gli Stati Uniti hanno dimostrato negli ultimi decenni durante la corsa all’approvvigionamento cinese si rivela sicuramente come il più tragico a livello strategico dal dopoguerra ad oggi e conferma la sostanziale incapacità delle esponenti istituzionali occidentali ad affrontare la complessità di un mercato globale.

    Ancora una volta, la presunzione occidentale basata su di una superiorità intoccabile ha fatto sì che al vertice istituzionale degli Stati Uniti e delle istituzioni europee potessero accedere persone prive di ogni qualifica ma forti della sola legittimazione elettorale, mentre la Cina è riuscita a chiudere il quadro della propria strategia riuscendo ad esportare in Europa l’ideologia ambientalista che pone le proprie auto al centro di tale sviluppo mentre gli Stati Uniti hanno spinto per un modello di sviluppo economico senza preoccuparsi degli elementi base per sostenerlo.

    Non va trascurato come la forza della Cina sia stata sostenuta soprattutto dalla debolezza delle istituzioni occidentale le quali invece di pensare al futuro nel medio e lungo termine hanno abbracciato, coadiuvati dalla miope complicità del mondo accademico, ideologie e soprattutto modelli politici con un respiro strategico fino alla settimana successiva o al massimo al prossimo appuntamento elettorale.

    Il declino culturale di un continente non è espresso dalla mancanza di tutela dei vari generi come richiede la cultura Woke e tantomeno da rigurgiti “fascisti” nostalgici considerati pericolosi per la democrazia. Il vero declino culturale è rappresentato dalla incapacità di leggere ed immaginare il futuro economico e di sviluppo del proprio continente, proprio mentre la Cina chiude il proprio cerchio relativamente allo sviluppo dell’economia occidentali.

  • Crisi economica europea, delocalizzazioni ed AI Mode

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo del Prof. francesco Pontelli che avvalendosi dell’Intelligenza Artificiale ha effettuato un raffronto tra quanto da lui scritto negli anni sulla crisi finanziaria e il risultato della ricerca.

    Per comprendere i drammatici risultati economici dell’ultimo trentennio potrebbe essere interessante rivolgersi ad un “soggetto terzo” come AI Mode, l’intelligenza artificiale di Google, per individuare la complessità delle ragioni che abbiano determinato questo terribile risultato. All’inserimento del mio “cognome/delocalizzazioni produttive/una delle testata con la quale collaboro “AI Mode propone questo risultato: “L’economista F. Pontelli, attraverso i suoi articoli per la rivista Il Patto Sociale, Nuovo Giornale Nazionale, Ticinolive e in altre pubblicazioni, analizza criticamente il fenomeno della delocalizzazione produttiva, inquadrandolo come un processo che ha avuto profonde conseguenze economiche e sociali, in particolare per l’Italia.

    Punti chiave dell’analisi di Pontelli: critica al mondo accademico degli anni ’90. Pontelli sostiene che, a partire dagli anni ’90, la classe accademica (in particolare quella della Bocconi) ha promosso la delocalizzazione come soluzione ideale per le imprese, prevedendo che i paesi occidentali avrebbero mantenuto le professioni ad alto valore aggiunto, mentre la produzione a basso costo si sarebbe spostata altrove.

    Questa teoria viene definita da Pontelli come “delocalizzazione intellettuale”.

    Trasferimento di conoscenze e tecnologia: secondo l’economista, la delocalizzazione produttiva ha comportato un vero e proprio trasferimento del “vantaggio culturale e tecnologico” dei paesi occidentali a quelli con manodopera a basso costo, azzerando in parte il divario di know-how che era considerato un punto di forza.

    Impatti sociali ed economici: la delocalizzazione viene identificata come una delle cause della “desertificazione industriale, economica e sociale” dell’Italia. Questo processo ha portato a una riduzione dei livelli produttivi e occupazionali, danneggiando il tessuto economico locale e sociale.

    Costi di produzione come motivazione: Pontelli sottolinea che la motivazione principale della delocalizzazione è stata un’analisi comparata dei costi di produzione, in particolare quelli legati al lavoro, che hanno reso più attrattivi altri paesi.

    Tradimento e miopia europea: Pontelli esprime una visione molto critica sulla classe dirigente europea, accusandola di aver “tradito” gli interessi del Paese con una gestione economica priva di ragionevolezza e dominata da un’ideologia ambientalista estremista. Questa miopia avrebbe creato le condizioni per l’attuale declino industriale.

    Effetti sulla filiera e sul sistema industriale: altri articoli pubblicati in linea con le tesi di Pontelli, evidenziano come la delocalizzazione non sia solo un trasferimento di attività produttive, ma anche di aspetti fiscali e legali, con effetti significativi sull’intera filiera”.

    A conferma di quanto proposto la medesima AI, ora, in relazione alle delocalizzazioni produttive: ” Le delocalizzazioni produttive, il trasferimento delle attività economiche in paesi con costi di produzione inferiori, generano diversi effetti negativi, sia nei paesi di origine che in quelli di destinazione. Gli effetti per il paese di origine:

    Perdita di posti di lavoro: Le delocalizzazioni comportano la chiusura di stabilimenti o la riduzione della produzione in loco, con conseguente perdita di posti di lavoro, specialmente nel settore manifatturiero. La disoccupazione può generare problemi sociali e un peggioramento delle condizioni economiche locali.

    Riduzione dei salari: La concorrenza con manodopera a basso costo può portare a una pressione al ribasso sui salari anche per i lavoratori che rimangono nel paese di origine, aumentando le disparità salariali (*).

    Impatto negativo sull’economia locale: Il trasferimento delle aziende riduce il gettito fiscale locale e nazionale (**), con una diminuzione degli investimenti pubblici e del sostegno all’economia del territorio. A ciò si aggiunge la perdita di un indotto fondamentale per l’economia di molte aree.

    Perdita di competenze e conoscenze: la chiusura di stabilimenti produttivi provoca una dispersione del capitale umano e delle competenze tecniche accumulate nel tempo, che possono essere difficilmente recuperabili.

    Indebolimento della catena del valore: La perdita di fornitori e di altre aziende collegate al processo produttivo indebolisce l’intera catena del valore interna, rendendo l’economia locale più fragile.

    Maggiore fragilità economica: in più affidarsi a catene di approvvigionamento globali rende le economie dei paesi sviluppati più vulnerabili agli shock esterni, come pandemie o crisi internazionali, che possono interrompere i flussi di produzione.

    Effetti sul paese di destinazione:

    1.Sfruttamento della manodopera: la delocalizzazione spesso sfrutta manodopera a basso costo in paesi con scarse tutele per i lavoratori

    2.Impatti ambientali negativi: in molti casi, le aziende si trasferiscono in paesi con normative ambientali meno restrittive, portando a un aumento dell’inquinamento atmosferico, idrico e del suolo.

    3.Crescita non sostenibile: sebbene possano creare posti di lavoro iniziali, le delocalizzazioni possono promuovere modelli di sviluppo insostenibili, basati sul basso costo della manodopera piuttosto che sull’innovazione e sulle competenze a lungo termine.

    1. Perdita del controllo sulla qualità: la frammentazione della catena di approvvigionamento e la distanza fisica possono rendere più difficile per l’azienda d’origine monitorare la qualità dei prodotti, con il rischio di un calo degli standard.

    Effetti a livello globale (forse più deleterie in assoluto)

    1. Pressione verso il basso su standard sociali e ambientali: la competizione globale per attrarre investimenti spinge spesso i paesi a ridurre gli standard sociali e ambientali, in una “corsa al ribasso” che danneggia i lavoratori e l’ambiente a livello globale.
    2. Perdita di sovranità economica: la globalizzazione spinta dalle delocalizzazioni può limitare l’autonomia e la sovranità nazionale nelle decisioni economiche.

    Quindi i risultati non fanno che certificare la correttezza della mia contrarietà alle delocalizzazioni produttive spinte semplicemente da una ricerca speculativa finalizzata al conseguimento del massimo ROI (Return on Investment) adottando la modalità i finanziaria.

    Questi dati ci dimostrano, purtroppo solo ora, come l’Unione Europea sia di fronte al più completo disastro economico continentale.

    Va poi ricordato come la Ue abbia favorito la più nefasta sintesi tra una economia di rimessa (***) ed una ideologia ambientalista (GreenDeal), non comprendendo il danno economico e strategico del trasferimento di tutti i know-how industriali, frutto di decenni di investimenti economici finanziari ed umani.

    In altre parole l’Istituzione Europea ha offerto la propria sponda istituzionale al mondo finanziario speculativo, favorendo il trasferimento della attività manifatturiere (old economy veniva definita con disprezzo) e conseguentemente l’annullamento della nostra cultura economica.

    (*) Quando tutto il mondo occidentale afferma ancora oggi che il problema dei salari bassi sia legato ad una bassa produttività del lavoro dimostrando quanto anche il mondo liberale sostenitore di questa tesi sia inquinato da un mediocre approccio ideologico.

    (**) Quando invece si afferma come l’aumento della pressione fiscale in corso sia la conseguenza di un ipotetico aumento dei posti di lavoro, dimostrando così un alfabetismo economico senza precedenti.

    (***) Intesa come un’economia che trae la propria forza non da una domanda interna, ma dai trend economici globali perdendo conseguentemente ulteriore capacità di indirizzo.

  • Cortigiani d’America

    Sembra che finalmente sia finita la querelle mediatica sul termine “cortigiana” usato da Landini nei confronti della nostra Presidente del Consiglio e possiamo quindi ragionare più serenamente su ciò che Landini intendesse realmente dire. Dal contesto mi sembra evidente che la sua critica riguardasse un presunto atteggiamento di nostro “vassallaggio” verso le decisioni prese da Trump in politica internazionale. Soffermandoci, quindi, su questo concetto possiamo affermare senza tema di smentite che Landini ha avuto, contemporaneamente, ragione e torto.

    Ha avuto ragione perché è sotto gli occhi di tutti che Roma ha appoggiato e anche plaudito ogni scelta politica di Trump senza mai schierarsi apertamente contro e limitandosi ad invitare alla prudenza sulla minaccia (poi realizzatasi parzialmente) di dazi economici punitivi. Nello stesso tempo, il sindacalista ha anche torto lasciando intendere che il comportamento di Meloni fosse un qualcosa di nuovo, nonché disdicevole. La nostra Presidente del Consiglio non ha cambiato la nostra politica rispetto al passato poiché è da quando abbiamo perso la seconda guerra mondiale che ogni nuovo governo, e di qualunque maggioranza, ha costantemente accettato, accodandosi, le scelte fatte dagli americani in politica estera. Va aggiunto che anche tutti gli altri governi europei nelle scelte importanti hanno fatto esattamente la stessa cosa, salvo la Francia per il breve periodo di De Gaulle.

    La realtà è che, nonostante ci piaccia continuare a pensare di essere volontariamente alleati nella Nato e cioè degli Stati Uniti, non abbiamo mai avuto nemmeno la minima possibilità di fare scelte contrastanti a quelle decise dalla più grande potenza mondiale. Per dirla tutta, ogni politico di oggi e dei passati ottant’anni lo sapeva, ma ha capito che la cosa poteva anche farci comodo. Se anche volessimo limitarci a considerare soltanto l’aspetto puramente militare è evidente che i vari eserciti europei (anche qui con una leggerissima differenza di Francia e Gran Bretagna) non sono mai stati in grado di garantire da soli la difesa del proprio territorio e l’appartenere alla Nato, grazie al famoso articolo 5, ci ha permesso una tutela che non avremmo potuto permetterci altrimenti. È stato proprio grazie a questa condizione subordinata di tipo militare che ci siamo potuti permettere di dirottare gran parte delle nostre risorse dalle spese per la difesa verso la creazione di quello “stato sociale” che garantiva la nostra quotidianità e il nostro relativo benessere. Se, comunque, volessimo accantonare l’aspetto militare la nostra sudditanza politica verso gli Stati Uniti è stata ripagata, almeno fino all’arrivo di Trump, da un vantaggio economico fornitoci dalle nostre esportazioni che il sistema americano ha consentito. È pur vero che il maggior mercato di sbocco delle nostre merci è l’Europa ma il più grande cliente singolo dei nostri esportatori sono gli Stati Uniti. Basta ricordare che la nostra bilancia commerciale con quel Paese è arrivata nel 2024 a circa 95 miliardi di Euro con addirittura un surplus a nostro favore di più di 37 miliardi. Per la Germania è andata ancora meglio poiché su un interscambio di poco più di 271 miliardi il suo surplus è di ben 70 miliardi. Per dare un’idea, il nostro interscambio con la UE è di circa 476 miliardi di euro ma il nostro saldo è negativo per 7 miliardi. La Francia ha invece un attivo di soli 2 miliardi con gli USA e ciò spiega il loro atteggiamento più pretenzioso. Giusto per avere un quadro più completo, il nostro saldo con la Germania è negativo per circa 17 miliardi, con la Francia di -5 miliardi e con la Cina di meno 30miliardi. Quale governo potrebbe non tenerne conto? Per concludere, gli USA comandano e noi, in cambio, ci arricchiamo. L’interesse, fino ad ora è quindi stato reciproco.

    Ciò che è cambiato con Trump è stato solo il modo in cui il loro predominio si manifesta. Il suo modo presuntuoso e ricattatorio di comportarsi ha spinto molti leader europei a porsi in modo adulatorio verso di lui, nella speranza di poter continuare a mantenere qualche beneficio economico a favore. En passant, non va dimenticato che, pur rimanendo noi formalmente proprietari, il 47% dell’oro della Banca d’Italia usato come riserva è custodito (guarda caso dalla fine della guerra che abbiamo perso) a New York. Avendo visto ciò che è successo ai beni russi custoditi all’estero quando i rapporti di quel Paese con l’Occidente si sono deteriorati, non si può fare finta che il fatto non conti. Nel passato tutti i Presidenti americani avevano fatto sì che l’apparenza di una nostra indipendenza fosse il più possibile credibile e che ogni decisione venisse presa fingendo di essere alleati quasi alla pari. Un certo spazio di manovra autonoma era comunque consentito, purché non si esagerasse e le linee strategiche decise oltreoceano fossero rispettate. Nonostante la Guerra Fredda, perfino il Partito Comunista Italiano aveva accettato questa logica, magari fingendo, ma solo in apparenza, di opporvisi. Con l’euro-comunismo, poi, anche il PCI ha sposato la NATO come garanzia per la nostra difesa.

    Le poche volte in cui scelte importanti italiane si sono trovate ad essere divergenti da quelle dei potentati economici e politici anglosassoni successe sempre qualcosa che riportava gli equilibri nell’alveo di quanto era considerato opportuno da parte di Washington (e per certi affari anche di Londra). Gli Stati Uniti consentirono, e addirittura favorirono, la nascita di una qualche forma di unità europea perché la cosa risultava più utile come contrapposizione verso l’Unione Sovietica. Tuttavia, ogni volta che qualche visionario sembrò immaginare l’ipotesi che quella unione potesse assumere un vero carattere politico unitario, ci si fece capire che non era il caso e che era meglio soprassedere. Cosa che regolarmente successe. Il primo atto politico ed economico veramente autonomo e contrapposto agli interessi anglosassoni furono le operazioni intraprese da Mattei nel settore petrolifero e, purtroppo, si è visto cosa gli capitò. Negli anni successivi ci fu permesso fare po’ di fronda in merito al rapporto con il mondo arabo e, in particolare, perfino con i palestinesi. Il “lodo Moro”, costruito dal politico italiano con l’aiuto in Libano del colonnello Giovannone ci garantì una quasi totale impunità dagli attentati di terroristi palestinesi, con grande dispiacere di Israele e delle lobby ebraiche negli Stati Uniti. Fu tuttavia sopportato, ma quando Moro forse esagerò pensando di guardare lontano e di disinnescare il pericolo comunista attraverso il “compromesso storico” senza avere le dovute autorizzazioni, sappiamo cosa successe. In tanti, sia a Mosca che a Washington, non piansero per il fallimento di quell’operazione (per motivi ben diversi anche il sottoscritto, laico convinto, era contrario a quel progetto). In tempi più recenti un altro pericoloso “amico” dei palestinesi fu Craxi il quale, oltre al coraggioso (e imprudente) atto di Sigonella, raccoglieva da anni fondi per l’OLP di Arafat e per i socialisti cileni. Anche lui, tuttavia, terminò in malo modo la sua attività politica. Parlare del caso Andreotti sarebbe ora troppo lungo e ci è sufficiente accennare a Berlusconi. Questo eccellente imprenditore diventato Presidente del Consiglio aveva intelligentemente capito che in Europa tra francesi e tedeschi si lasciava poco spazio all’Italia e seppe quindi scavalcarli creando ottimi rapporti, contemporaneamente, con russi, americani e perfino inglesi. Avrebbe voluto avere dalla sua anche gli spagnoli ma Aznar era troppo pavido per partecipare all’operazione. In quel periodo, il presidente degli Stati Uniti era Bush Junior e le cose funzionarono positivamente per noi fino a che altri centri di potere non riuscirono a condizionare diversamente il Presidente americano che gli succedette. I nuovi potenti statunitensi non gradivano affatto il legame economico tra il nostro Paese e la Russia e, soprattutto, giudicavano molto negativamente l’idea, sponsorizzata da Berlusconi e dall’Eni, dell’apertura del South Stream. Quel gasdotto avrebbe consentito all’Italia di diventare un nuovo hub europeo per il gas russo ma avrebbe legato ancora di più gli interessi russi all’Europa. Non a caso, pur a lavori già iniziati, il progetto fu cancellato e non certo per volontà italiana. Lo stesso Berlusconi, soprattutto dopo aver dimostrato la capacità di stringere rapporti economicamente molto produttivi per il nostro sistema economico con la Libia di Gheddafi, fu giudicato non più affidabile. Come finì la sua avventura politica lo sappiamo.

    È impossibile poter affermare con sicurezza chi e come sia in grado di condizionare le scelte di un governo europeo e in particolare del nostro.  Sicuramente i centri e i soggetti coinvolti sono più di uno e di varia provenienza ma, forse, un qualche aiuto per capire di più le vere cause di alcuni fatti, lo si potrebbe ricavare dalla lettura del libro di un giornalista tedesco morto per infarto a soli 57 anni e subito cremato senza autopsia: Udo Ulfkotte. Il libro, scritto in tedesco fu pubblicato nel 2014 da un piccolo editore locale che riuscì a farlo tradurre e pubblicare anche in inglese. Purtroppo, appena apparsa, la versione inglese fu ritirata dalla circolazione in tutto il mondo anglosassone ed è ora irreperibile anche nel catalogo dell’editore britannico che lo aveva pubblicato. Il titolo è: “GIORNALISTI COMPRATI” e il sottotitolo recita: “Come i politici, i servizi segreti e l’alta finanza dirigono i mass media tedeschi” (la versione italiana, dell’editore Zambon, è disponibile solo via internet, spero a lungo). L’autore non era un giornalista qualunque: fu inviato all’estero per più di 15 anni per l’importante Frankfurter Allgemeine e aveva persino ricevuto la cittadinanza onoraria dell’Oklahoma, dimostrando così di non essere per principio un antiamericano. Purtroppo, la sua morte avvenne proprio poco dopo aver annunciato di voler scrivere un secondo volume con nuovi nomi e altri dettagli. Anche se il testo è focalizzato su quanto succede in Germania, ci stupiremmo se la situazione italiana dovesse dimostrarsi molto diversa.

    In conclusione, l’accusa per l’Onorevole Meloni di essere subordinata al volere della più grande potenza mondiale non è del tutto peregrina, ma ci sarebbe da domandarsi perché, e come, un qualunque altro governo a Roma che avesse a cuore gli interessi del nostro Paese dovrebbe comportarsi diversamente. Senza contare che, considerato che Francia e Germania continuano a non essere i nostri migliori sponsor, ci si potrebbe domandare quanto potrebbe durare un governo italiano qualora decidesse di schierarsi apertamente contro le volontà americane.

  • La Commissione autorizza l’acquisizione di CPK da parte di Ferrero

    La Commissione europea ha approvato, a norma del regolamento UE sulle concentrazioni, l’acquisizione del controllo esclusivo di CPK SAS Francia da parte del gruppo Ferrero Lussemburgo.

    L’operazione riguarda principalmente la produzione e la vendita di prodotti di confetteria al cioccolato, prodotti a base di zuccheri e creme dolci spalmabili.

    La Commissione ha concluso che l’operazione notificata non avrebbe generato problemi di concorrenza, dato il suo impatto limitato sui mercati in cui operano le imprese. Sulla base di un’indagine di mercato, la Commissione ha constatato che le società non sono percepite come concorrenti strette e sono condizionate da diversi concorrenti credibili, tra cui prodotti recanti il proprio marchio commerciale, in tutti i mercati rilevanti. La Commissione ha inoltre valutato i legami di conglomerato derivanti dall’operazione e ha constatato che l’operazione notificata non avrebbe ridotto in modo significativo la concorrenza né aumentato il potere contrattuale di Ferrero nei confronti dei dettaglianti. L’operazione notificata è stata esaminata nell’ambito della normale procedura di esame della concentrazione.

  • L’Etiopia punta su Mosca e Pechino per svilupparsi

    In un momento di forte instabilità finanziaria interna e di crescente isolamento dai tradizionali partner occidentali, l’Etiopia sembra aver scelto una traiettoria sempre più orientata verso Est. Il Paese del Corno d’Africa, specie dall’avvento al potere del primo ministro Abiy Ahmed, ha infatti rafforzato in modo deciso i suoi legami con due potenze globali: la Cina, da una parte, e la Russia, dall’altra. Se Pechino è diventata il primo interlocutore di Addis Abeba per quanto riguarda le questioni economiche e commerciali, Mosca si propone come partner strategico nel trasferimento tecnologico, sostenendo l’ingresso dell’Etiopia nell’Organizzazione mondiale del commercio (Omc) e investendo nel settore energetico ad alto valore aggiunto. Una strategia, quella etiope, che risponde all’esigenza di superare l’attuale crisi economica interna, ma che costituisce anche una precisa scelta geopolitica che potrebbe ridefinire il ruolo dell’Etiopia nel contesto africano e internazionale. È in questo contesto che il governo di Addis Abeba ha avviato negoziati con la Cina per convertire una parte del suo debito di oltre 5,3 miliardi di dollari in prestiti denominati in yuan. Ad annunciarlo è stato il governatore della Banca centrale etiope (Nbe), Eyob Tekalign, che in un’intervista rilasciata a “Bloomberg” ha definito Pechino “un partner molto importante” per il Paese dell’Africa orientale. “Il volume degli scambi e degli investimenti è in crescita”, ha detto Eyob, “quindi ha davvero senso organizzare uno swap (scambio) valutario, anche in termini di conversione”.

    Il governatore ha ammesso che si tratta di una strategia ancora “in fase di elaborazione”, ma ha confermato l’invio di una richiesta ufficiale di colloqui a Pechino su cui le due parti “stanno lavorando”. Il governatore ha inoltre dichiarato che sono in corso trattative con l’Export-Import Bank of China e la People’s Bank of China (Pbc) in tal senso. Dopo la sua nomina a governatore della Nbe, del resto, Eyob Tekalign ha fatto della Cina la sua prima destinazione ufficiale, effettuando una missione a capo di una delegazione di alto livello volta a far avanzare i colloqui sulla ristrutturazione del debito e rafforzare la cooperazione economica. Durante le recenti riunioni annuali della Banca Mondiale e del Fondo monetario internazionale (Fmi), Eyob ha avuto anche dei colloqui bilaterali con il governatore della Banca popolare cinese (Pbc), Pan Gongsheng, incentrati sul rafforzamento della cooperazione finanziaria tra Etiopia e Cina. Gli incontri hanno fatto seguito all’accordo di ristrutturazione del debito recentemente concluso con il Comitato ufficiale dei creditori, copresieduto da Cina e Francia, con l’obiettivo di accelerare il processo di ristrutturazione del debito etiope. Se i negoziati dovessero andare in porto, l’Etiopia sarebbe il secondo Paese africano dopo il Kenya a rivolgersi a Pechino per convertire parte del suo debito in prestiti denominati in yuan. Accordi simili sono già stati stipulati da Sri Lanka e Ungheria.

    Nonostante le continue problematiche legate al debito, i titoli di Stato dell’Etiopia hanno recentemente raggiunto il livello più alto dal 2021. La scorsa settimana l’agenzia Fitch ha confermato il rating di default a lungo termine dell’Etiopia a “Restricted Default”, citando il persistente default del suo Eurobond e di altri debiti esteri commerciali. Fitch ha osservato che il governo sta cercando di ristrutturare circa 15 miliardi di dollari di debito estero e ha compiuto “notevoli progressi” nelle riforme macroeconomiche, tra cui la liberalizzazione del tasso di cambio e il controllo dell’inflazione. In questo quadro, nel luglio scorso l’Etiopia ha siglato un memorandum d’intesa con i creditori ufficiali per un alleggerimento del debito di 2,5 miliardi di dollari fino al 2028, con accordi bilaterali – compresi quelli con la Cina – attualmente in fase di finalizzazione. I colloqui sul debito in Etiopia si svolgono tuttavia in un contesto di prolungata incertezza finanziaria per il Paese africano. Il governo etiope ha infatti annunciato la scorsa settimana che i negoziati con gli obbligazionisti si sono arenati a causa di disaccordi su questioni chiave. Nonostante la situazione di stallo, le autorità di Addis Abeba hanno affermato che sono stati compiuti “progressi sostanziali” e si sono espresse ottimiste sulla ripresa dei colloqui “nel prossimo futuro”.

    L’Etiopia è stata dichiarata formalmente in default nel dicembre 2023, diventando nel giro di tre anni il terzo Paese del continente, dopo Zambia e Ghana, a essere insolvente sul suo debito estero. Le autorità di Addis Abeba non hanno allora saldato una cedola da 33 milioni di dollari richiesta per il suo unico titolo di Stato internazionale, un Eurobond da un miliardo di dollari. Già in precedenza le autorità etiopi avevano annunciato l’intenzione di dichiarare il default come conseguenza della crisi generata dalla pandemia di Covid-19 e dalla dispendiosa guerra di due anni condotta nel Tigrè, conclusa nel novembre 2022. La dichiarazione di insolvenza aveva determinato un declassamento da parte delle agenzie di rating del credito, a partire da Fitch, che ha rivisto al ribasso il suo giudizio da “CC” a “C”. A seguire, anche S&P Global Ratings ha declassato il Paese, inserendolo nella categoria “default” in quanto inadempiente sui suoi obblighi di pagamento, provocando il crollo in borsa dell’Eurobond etiope.

    La situazione estremamente delicata in cui versa l’economia etiope, del resto, spinge il governo del primo ministro Abiy Ahmed a cercare nuovi partner economici e commerciali. Così, parallelamente ai colloqui in corso con Pechino, Addis Abeba guarda in maniera crescente all’altra potenza orientale: la Russia. È in questo contesto che rientra la recente visita ufficiale di due giorni effettuata a Mosca dal ministro degli Esteri etiope Gedion Timothewos, che nel suo primo giorno di visita Gedion ha incontrato il ministro dello Sviluppo economico della Federazione Russa, nonché co-presidente della Commissione intergovernativa etiope-russa per la cooperazione economica, scientifica e tecnica e il commercio, Maksim Reshetnikov Gennadievich, con il quale ha discusso dell’importanza di rafforzare ulteriormente le relazioni di lunga data e multiformi tra Etiopia e Russia. Un incontro durante il quale, secondo quanto riferito in una nota del ministero degli Esteri di Addis Abeba, il ministro Reshetnikov ha ribadito il pieno sostegno della Russia all’adesione dell’Etiopia all’Omc. Il capo della diplomazia etiope ha inoltre tenuto colloqui con alti funzionari di Rosatom, la Società statale russa per l’energia atomica, e di altre agenzie competenti per esplorare modalità per migliorare la cooperazione bilaterale nei settori energetico e tecnologico.

    L’Etiopia e la Russia hanno recentemente formalizzato un piano d’azione per promuovere lo sviluppo di un progetto di energia nucleare in Etiopia, nell’ambito di una più ampia tabella di marcia per la cooperazione discussa durante la visita del primo ministro Abiy Ahmed a Mosca, il mese scorso. L’accordo è stato stipulato il 25 settembre scorso tra Alekseij Likhachev, direttore generale di Rosatom, e il ministro Gedion Timothewos, e delinea le misure concrete per la cooperazione tra Rosatom e l’Ethiopian Electric Power Corporation (Eepc) per la realizzazione di una centrale nucleare in Etiopia. In quel frangente, entrambe le parti hanno anche sottolineato la volontà di promuovere la cooperazione in materia di energia e infrastrutture, come già affermato nell’accordo intergovernativo del 2017 sulla cooperazione nell’uso pacifico dell’energia nucleare. È in questo contesto che, lo scorso 14 ottobre, il governo etiope ha approvato l’istituzione di una commissione parlamentare per l’energia nucleare, che sarà guidata dal capo di gabinetto del primo ministro Abiy Ahmed, Sandokan Debbebe.

    La commissione, nelle intenzioni del governo, avrà il compito di “guidare e coordinare l’uso pacifico della tecnologia nucleare” da parte dell’Etiopia, secondo gli standard internazionali. Il mandato prevede la supervisione dell’applicazione della scienza nucleare in settori chiave come la produzione di energia elettrica, lo sviluppo industriale, la sicurezza alimentare, l’assistenza sanitaria, la ricerca scientifica e l’innovazione. L’istituzione della commissione rappresenta un ulteriore segno della volontà del primo ministro Abiy Ahmed di investire sull’energia nucleare. In occasione dell’inaugurazione della Grande diga della rinascita etiope (Gerd), lo scorso 9 settembre, il premier etiope aveva annunciato investimenti per 30 miliardi di dollari in un progetto che prevede la costruzione di due centrali nucleari, da realizzare fra il 2032 e il 2034, entrambe con una capacità di circa 1.200 megawatt (Mw). Oltre al progetto nucleare, l’Etiopia mira a costruire una raffineria di petrolio, un impianto di gas e un nuovo grande aeroporto.

  • L’Italia è una stalla che vale 55 miliardi di euro

    La Stalla Italia ha raggiunto un giro di affari di 55 miliardi di euro, con il solo valore delle produzioni zootecniche che nel giro degli ultimi cinque anni è aumentato del 41% e il nuovo obiettivo di rilanciare la presenza delle stalle su tutto il territorio, dal Nord fino al Mezzogiorno, dando nuove opportunità di crescita e lavoro. E’ uno degli spunti emersi all’incontro organizzato da Coldiretti alla 97esima Fiera Agricola Zootecnica Italiana di Montichiari (Brescia), con la presenza del presidente nazionale Ettore Prandini, del Ministro dell’agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste, Francesco Lollobrigida, e di Attilio Fontana, Presidente Regione Lombardia, assieme a Luigi Scordamaglia, Amministratore Delegato di Filiera Italia, Nicola Di Noia, Direttore Generale dell’Associazione Italiana Allevatori; Maria Chiara Zaganelli, Direttore Generale del Crea; Sergio Marchi, Direttore Generale di Ismea, Simona Tironi, assessore all’istruzione, formazione e lavoro della Regione Lombardia, Alessandro Beduschi, Assessore all’Agricoltura della Regione Lombardia e Marco Togni, sindaco di Montichiari.

    L’allevamento italiano, dal campo alla tavola, dà lavoro a circa 800mila addetti ed è una componente fondamentale del Made in Italy agroalimentare, poiché è dalla Stalla Italia che nascono le eccellenze più note all’estero, dai formaggi ai salumi a denominazione di origine. Le aziende agricole con allevamento sono oltre 200mila, secondo l’analisi Coldiretti su dati Istat. Un settore che sta calamitando anche l’interesse dei giovani, con oltre 20mila allevatori under 40.

    Un patrimonio del Paese che va difeso rispetto ai segnali negativi che negli ultimi tempi arrivano da alcune filiere, dal calo del prezzo del latte bovino a livello europeo alla crisi di quello di bufala, passando per la diminuzione delle quotazioni del Pecorino Romano, senza dimenticare le criticità legate alle epidemie, da quella della peste suina africana legata alla presenza eccessiva dei cinghiali ai nuovi focolai di aviaria.

    “Ma un rilancio autentico del settore zootecnico non può prescindere anche da un netto stop alle campagne ideologiche e distorte che demonizzano la carne, un alimento centrale nella Dieta Mediterranea e nei nostri allevamenti, magari per promuovere alimenti ultra formulati anticamera di quelli sintetici dietro i quali si celano pericoli per la salute dei cittadini oltre ai molteplici interessi economici – sottolinea il presidente della Coldiretti Ettore Prandini – Queste campagne rischiano infatti di vanificare gli sforzi sostenuti negli anni dalle aziende italiane, che hanno reso il settore zootecnico nazionale tra i più sostenibili del mondo”.

    Un’opportunità importante per la filiera viene dal decreto ColtivaItalia che ha stanziato 300 milioni di euro per la mangimistica e la zootecnia, con l’obiettivo di creare le condizioni per aumentare il livello di autosufficienza. Nonostante la crescita economica del settore, gli ultimi anni hanno visto un calo della produzione di bovini da carne, con il livello di autoapprovvigionamento che è sceso dal 53% al 40%. In tale ottica il rilancio della zootecnia, proposto da Coldiretti, avrebbe valenze non solo economiche, ma anche sociali e ambientali, puntando sulla linea vacca-vitello. Un obiettivo che guarda soprattutto al Sud riportando le stalle nelle aree interne e disagiate, con l’effetto di ripopolare molti territori altrimenti a rischio abbandono, dando opportunità di lavoro e sviluppo, a partire dalle giovani generazioni.

  • La crescita della povertà

    Ho sempre sostenuto che la crisi del nostro Paese abbia origini decennali a partire dalla fine degli anni novanta, quando si decise di privatizzare interi settori dell’Industria e dei servizi (autostrade ed energia con esiti disastrosi in termini di vita umane ed esplosione dei costi energetici), non per ridurre il debito come sarebbe stato auspicabile, ma il deficit e così mantenere in questo modo la libertà di aumentare la spesa pubblica ai governi che si sono succeduti fino all’ingresso nell’euro.

    Volgendo lo sguardo agli ultimi 10 anni nessun governo ha dimostrato un minimo di capacità e volontà di invertire questo terribile trend come del resto la finanziaria del governo Meloni conferma.

    In questo contesto, quindi, può giovare, per individuare e non dimenticare i responsabili di questo aumento vertiginoso in soli 10 anni dell’indice di povertà, l’elenco dei governi:

    Governo Renzi – Periodo: dal 22 febbraio 2014 al 12 dicembre 2016, Presidente del Consiglio Matteo Renzi, Coalizione di centro-sinistra.

    Governo Gentiloni – Periodo: dal 12 dicembre 2016 al 1° giugno 2018, Presidente del Consiglio Paolo Gentiloni, Coalizione di centro-sinistra.

    Governo Conte I – Periodo: dal 1° giugno 2018 al 5 settembre 2019 – Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, Partiti di maggioranza Movimento 5 Stelle e Lega.

    Governo Conte II – Periodo: dal 5 settembre 2019 al 13 febbraio 2021 – Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, Partiti di maggioranza Movimento 5 Stelle, Partito Democratico, Liberi e Uguali.

    Governo Draghi – Periodo: dal 13 febbraio 2021 al 22 ottobre 2022 – Presidente del Consiglio: Mario Draghi, Partiti di maggioranza Governo di unità nazionale con un’ampia maggioranza parlamentare.

    Governo Meloni – Periodo: dal 22 ottobre 2022 a oggi, Presidente del Consiglio Giorgia Meloni (Fratelli d’Italia), Coalizione di centro-destra (Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia).

    Quelli che ora sono al governo e negli ultimi dieci anni si trovavano all’opposizione, all’interno del teatrino della politica criticavano giustamente le strategie dei governi precedenti, esattamente come quelli che erano in maggioranza e che ora si trovano all’opposizione, avversano anche giustamente le politiche del governo in carica.

    Purtroppo le uniche conseguenze generate dal gioco dei ruoli ricoperti alternativamente da tutti i partiti negli ultimi 10 anni si confermano certificate dal costante aumento della Spesa Pubblica e contemporaneamente del debito e della stessa pressione fiscale. Tre fattori determinanti nella politica economica di governo che tuttavia non sono stati utilizzati per attenuare gli effetti delle crisi, che dal 2008 si susseguono senza soluzione di continuità in Italia, e quindi con l’obiettivo di migliorare la competitività delle imprese o la qualità della vita delle famiglie.

    Viceversa, la crescita vertiginosa della povertà certifica una volta di più l’unico obiettivo che è stato utilizzato da tutti i governi dell’ultimo decennio, in altre parole finanziare i propri orti elettorali, dimostrando ancora una volta come la gestione delle Finanze pubbliche (Spesa, debito e pressione fiscale) rappresentino la vera forma di potere in Italia (*).

    Tutti colpevoli, quindi, nessun colpevole!

    (*) 2018 https://www.ilpattosociale.it/attualita/la-vera-diarchia/

Pulsante per tornare all'inizio