Economia

  • Gli scenari di guerra

    La Cina, in risposta al divieto statunitense di esportatore tecnologia verso centoquaranta aziende operanti in Cina ed in particolare con azionariato cinese in vigore dal 31.12.2024, ha deciso di fermare le esportazioni di terre rare (gallio germanio ed antimonio) le quali soni fondamentali per la realizzazione di semiconduttori.

    Questo ennesimo episodio di “rappresaglia commerciale” rappresenta l’ultimo atto di un conflitto politico e strategico che sta definendo lo scenario bellico che vedrà sempre più contrapposte le due vere superpotenze mondiali: Stati Uniti e Cina.

    Proprio questo conflitto dalle dimensioni e ripercussioni simili ad un conflitto nucleare riduce ogni altro scenario di guerra in corso a semplici fattori strutturali e specifici ma soprattutto funzionali alla strategia bellica complessiva.

    In particolare lo scenario del conflitto russo ucraino acquisisce all’interno della nuova strategia statunitense un valore strategico fondamentale. Le prime bozze del piano di pace che sembra l’amministrazione Trump proporrà ai due contendenti si potrebbero sintetizzare in un congelamento delle posizioni attuali, la nascita di una zona cuscinetto ed il divieto per l’Ucraina di aderire alla Nato valevole per i prossimi vent’anni. L’obiettivo dell’amministrazione americana, quindi, risulta quello di concedere a Putin, in considerazione anche dell’impossibilità dell’Ucraina di resistere a lungo, un parziale riconoscimento delle proprie ambizioni territoriali.  Una concessione che ovviamente non terrebbe in alcuna considerazione le responsabilità dello stesso conflitto, ma avrebbe l’importante funzione di allontanare la Russa dall’alleanza dell’ultimo periodo imbastita con la Cina.

    Sul fronte opposto, ma non meno importante, la scelta di rinominare il medesimo mediatore che riuscì a creare le condizioni per un incontro tra i leader della Corea del Nord ed il presidente Trump va intesa nella medesima ottica in quanto la sua nomina risulta funzionale ad una volontà di creare un progressivo, anche se solo parziale, isolamento della Cina sul versante coreano.

    Nel sentiment statunitense, infatti, viene considerata molto probabile l’apertura di un nuovo scenario bellico, e non solo commerciale, che dovrebbe coinvolgere la Cina e Taiwan. Quest’ultima rappresenta una realtà fondamentale nell’economia mondiale per la propria produzione di microchip, molto spesso con capitali statunitensi.

    Tornando al divieto di export delle terre rare, deciso appunto in risposta dalle autorità cinesi alla politica statunitense, sarebbe allora interessante capire se esista una minima percezione e consapevolezza da parte delle autorità istituzionali, politiche, strategiche ed economiche dell’Unione Europea in relazione alle conseguenze che si potrebbero determinare con il mantenimento delle posizioni europee in uno scenario strategico e politico nuovamente polarizzato da Stati Uniti e Cina. In altre parole, se sia “possibile e sostenibile” il mantenimento delle strategie ideologiche ambientaliste completamente svincolate dal contesto internazionale verso una elettrificazione della mobilità, e quindi una diretta dipendenza dall’export cinese, che sicuramente determinerà una riduzione dell’indipendenza politica ed economica, quindi democratica, dell’Unione europea.

    I termini del nuovo confronto, o meglio del nuovo conflitto mondiale, non saranno più determinati, come in passato, da una divisione tra due blocchi, occidentale ed orientale, ma tra due complesse articolazioni economiche ed istituzionali: quella statunitense e la rivale cinese.

    L’idea, quindi, di agevolare attraverso l’adozione di facilitazioni politiche e normative una “transumanza elettrica” made in China non solo rappresenta la condizione per il suicidio politico, economico ed occupazionale della stessa Unione Europea, in più potrebbe essere interpretata come una scellerata scelta di campo da parte di entrambi i contendenti.

  • Tavares e non solo

    La dottrina economica cattolica giudica legittima che ogni impresa cerchi il proprio profitto ma ricorda anche che si tratta pur sempre di un’attività sociale. In altre parole, ogni imprenditore, sia esso un individuo o una entità con più soci, oltre a perseguire un utile non deve mai dimenticare la valenza sociale e quindi il valore e la funzione che rappresenta per tutta la società. Avendo io lavorato sia in imprese pubbliche che private (prima di essere attivo politicamente) mi sento di aggiungere che mentre le scelte strategiche restano di spettanza dei titolari o dei massimi dirigenti i risultati, buoni o cattivi che siano, sono il frutto del lavoro di tutti: dirigenti, impiegati e semplici operai. Se la maggioranza dei dipendenti lavora con coscienza e capacità e si ottiene un risultato positivo per l’azienda, il merito non è soltanto di chi ha effettuato le giuste scelte di mercato ma anche di chi ha contribuito a realizzarle. Naturalmente vale anche il contrario nel caso gli esiti dell’attività fossero negativi.

    Se si condivide quanto sopra non può che fare specie sentire notizie come quelle che hanno accompagnato le dimissioni del Chief Executive Officer di Stellantis, il signor Carlos Tavares. A detta delle notizie di stampa, tale personaggio che ha guidato il gruppo industriale verso l’insuccesso lascerebbe con una liquidazione di circa 100 milioni di dollari (o euro, ma la differenza è irrisoria) dopo aver percepito tutto il tempo un compenso annuale di circa 40 milioni.

    Sappiamo tutti che questo non è l’unico caso di liquidazioni e di compensi stellari e che tanti altri CEO (in Italia li chiamiamo Amministratore Delegato) di grandi società hanno ricevuto e ricevono compensi simili, magari pur portando le aziende che guidano verso il fallimento, ma il numero di costoro non rende il metodo più accettabile. Che nella stessa azienda ci sia chi, al vertice, possa essere retribuito duemila volte più dell’ultimo dipendente dimostra che qualcosa di storto si è innescato nel nostro sistema economico. Ovviamente, chi ha maggiori responsabilità e, probabilmente, competenze più ampie e valide è giusto che abbia un riconoscimento anche economico maggiore, ma nessuno può affermare con un minimo di realismo e di sincerità che un pur bravo Amministratore Delegato valga umanamente e professionalmente duemila volte di più di un qualunque fattorino od operaio che lavori nella stessa azienda. La cosa ancora più scioccante è che, mentre quel vertice incassa cifre da capogiro, la stessa azienda licenza centinaia o migliaia di altri lavoratori. Già riducendo della sola metà le cifre erogate quanti posti di lavoro si sarebbero salvati?

    Comunque sia non si tratta soltanto di una questione morale o di giustizia sociale: tali circostanze coinvolgono la tenuta in equilibrio di intere società. In tutta la storia conosciuta dell’umanità quando le differenze tra i diversi livelli economici e sociali all’interno delle stesse popolazioni hanno cominciato a essere percepiti come esagerati sono nati disordini sempre più violenti. È vero che a ribellarsi a ciò che viene ritenuto ingiusto sono sempre delle minoranze, poiché le maggioranze sono disponibili a sopportare di tutto, ma il numero degli insofferenti seppur lentamente è destinato a crescere. E con loro l’instabilità sociale.

    Nell’immediato dopoguerra, in tutto il mondo occidentale si realizzò un grande sviluppo economico e, quasi ovunque, le differenze tra i più ricchi e i più poveri diminuirono consentendo anche un notevole incremento delle classi medie. Il fenomeno portò, almeno in quei Paesi, alla contemporanea diminuzione della povertà assoluta e alla speranza per tutti i giovani di allora che il futuro non potesse che essere perfino migliore di quello dei loro genitori. Era la famosa “mobilità sociale”. O almeno la speranza che potesse realizzarsi. Purtroppo, dagli anni ottanta tutte le società economicamente sviluppate hanno invertito quella tendenza e il gap tra i più benestanti e gli svantaggiati è andato invece aumentando, così come i numeri di chi vive in povertà assoluta. Pochi sono i giovani di oggi che vivono con quella passata speranza fatti salvi, naturalmente, i figli della classe dirigente che grazie ai redditi elevatissimi dei loro genitori sono cooptati facilmente nelle classi dirigenti del futuro.

    È vergognoso che negli Stati Uniti ove il reddito “medio” pro-capite è il più alto del mondo esistano, secondo le statistiche ufficiali, almeno 30 milioni di “poveri assoluti”. Il fenomeno non è però solo il loro: anche in Europa, seppur con percentuali per ora inferiori, sta succedendo la stessa cosa.

    Siamo davvero convinti che comunità con gli evidenti divari di cui sopra siano nel naturale ordine delle cose e, soprattutto, si potrà continuare così per lungo tempo? Non sarebbe più opportuno e più sicuro per tutti (anche per i privilegiati) ripensare perché si è arrivati a quel punto e cercare di correggersi?

    Ciò che più spaventa è che la classe politica europea, di qualunque parte stia a parole, sembra non capire che si sta preparando una bomba che prima o poi esploderà trascinando sia ricchi sia poveri nella stessa polvere e in una nuova miseria collettiva.

  • Quel sottile desiderio eversivo

    “È allora forse arrivato il momento di pensare a qualcosa di più radicale, come per esempio l’istituzione di un organismo europeo che possa agire con una certa autonomia dalla politica pur essendo soggetto a valutazione e controllo dal Parlamento, un po’ sul modello di una banca centrale” – Lucrezia Reichlin, Corriere della Sera 1/12/ 2024

    L’indipendenza della attuale BCE dal mondo della politica e, di conseguenza, anche dal Parlamento Europeo rappresenta uno dei capisaldi istitutivi della stessa istituzione europea, per assicurarsi di mantenere l’indipendenza e la libertà dall’influenza delle singole nazioni e un potenziale condizionamento dalle singole compagini governative, come dalle maggioranze parlamentari.

    Quindi l’affermazione relativa ad un nuovo istituto ma “soggetto a valutazione e controllo del Parlamento…sul modello di una Banca centrale…” quando anche per la Banca d’Italia l’elemento di indipendenza risulta presente fino dal suo atto istitutivo del 1893.

    Questo modelli di riferimento, Bce e Banca Centrale nazionale, assolutamente lontani dalla realtà invece nascondono, oltre ad una discutibile competenza, la motivazione per giustificare e confermare la necessità di una imposizione del Green Deal proprio attraverso un nuovo organo europeo, svincolato dalle volontà degli elettori in quanto nominato e non eletto.

    In altre parole, si avanza la necessità di affermare, in un contesto di estrema difficoltà economica per ogni singolo paese dell’Unione europea, la necessità della creazione di un nuovo ordine, all’interno del quale viene considerata come elemento fondativo e qualificante la stessa transizione energetica, la quale diventa la ragione del delirio politico e quindi il collante di spiriti e visioni eversive.

    In considerazione, poi, proprio della assolutamente ininfluente ricaduta a tutela del territorio continentale di tali eurocentriche politiche ambientaliste, se si considera come in Cina siano stati autorizzati 218 GW il cui raggiungimento richiede l’apertura di sei centrali a carbone al mese con emissioni assicurate per i prossimi 75 anni, rimane allora l’implicito obiettivo della creazione di un nuovo ordine.

    Ecco quindi, anche se anche privo di ogni supporto scientifico e frutto semplicemente delle applicazioni ideologiche ad infantili competenze, che il perseguimento forzato della transizione ambientale rappresenta la motivazione per l’istituzione di un organo considerato superiore ad ogni istituzione europea, anche se privo di un consenso elettorale e svincolato dall’esercizio del diritto del voto.

    In questo rinnovato contesto allora paradossalmente si intravedono maggiori similitudini con un modello dittatoriale simile più alla Cina che non a qualsiasi altra democrazia occidentale.

    Il perseguimento della creazione di questo nuovo ordine risulta ormai chiara, e mentre una volta poteva essere semplicemente auspicata, ora si esplicita con i propri connotati mediatici del Corriere della Sera e del suo editore.

    Emerge ora un nuovo esempio di quel suprematismo ideologico espresso all’interno del movimento ambientalista, i cui esponenti di spicco hanno completamente perso il senso della democrazia e dei propri principi.

    Questo nuovo ordine, implicitamente eversivo rispetto ai principi democratici nazionali ed internazionali, non parte più, come in passato, dai ceti popolari che intendevano ribellarsi ad una “condizione di sfruttamento delle masse operaie” e da coloro che se ne facevano interpreti. Viceversa il nuovo desiderio eversivo nasce dal delirio espressione di una presunta superiorità intellettuale unita ad un suprematismo ideologico di chi, a torto, si considera “élite” culturale e conscio degli effetti devastanti per quelle “masse operaie” le quali sono destinate a pagare i costi di questa eversione ambientalista.

    Mai come ora il pensiero di Albert Camus risulta di una contemporaneità agghiacciante: “Il benessere dell’umanità è sempre l’alibi dei tiranni”.

  • Il Ciad revoca gli accordi militari con la Francia, Parigi guarda alla Nigeria per restare nel Sahel

    Evocando “una svolta storica”, il governo del Ciad ha annunciato la revoca degli accordi di difesa e sicurezza in vigore con la Francia, Paese di cui ospita sul suo territorio circa mille militari. “È ora per il Ciad di affermare la sua piena sovranità e di ridefinire i suoi partenariati strategici, sulla base delle sue priorità nazionali”, ha dichiarato in un comunicato il ministro degli Esteri, Abderaman Koulamallah, precisando che la decisione non rimette in questione “le relazioni storiche e il legame di amicizia fra i due Paesi”. Il capo della diplomazia di N’Djamena sottolinea che la scelta è frutto di “un’analisi approfondita” e che il Ciad si impegna a collaborare con le autorità francesi ad assicurare “una transizione armoniosa”, senza tuttavia precisare una data per il ritiro delle forze straniere. Il governo del Ciad – prosegue il testo – “rimane determinato a mantenere relazioni costruttive con la Francia in altri ambiti di interesse comune”, esprime “la sua gratitudine alla Repubblica francese per la cooperazione condotta nel quadro dell’accordo” e “rimane aperto ad un dialogo costruttivo per esplorare nuove forme di partenariato”.

    Non è forse un caso se le autorità di N’Djamena hanno deciso di “smarcarsi” dall’ex potenza coloniale nell’anniversario dell’indipendenza, avvenuta nel 1958, con un annuncio che segue di poche ore la partenza dal Paese del ministro degli Esteri francese Jean-Noel Barrot, ricevuto ieri dal presidente Mahamat Idriss Deby. Una missione ufficialmente destinata – secondo Parigi – a rafforzare la richiesta regionale di un cessate il fuoco nel vicino Sudan, ma che in ogni caso non è servita a dissuadere i militari al potere in Ciad dal rompere i rapporti bilaterali di difesa. Lunedì scorso, inoltre, l’inviato speciale per l’Africa del presidente Emmanuel Macron, Jean-Marie Bockel, ha consegnato al capo dell’Eliseo il suo rapporto sulla presenza militare francese in Africa, con all’interno proposte dettagliate su come ridurre gli effettivi in Ciad, Gabon e Costa d’Avorio. In quest’ottica la decisione ciadiana non sembra essere un evento del tutto inatteso per Parigi. L’annuncio di N’Djamena, peraltro, segue quello con cui il governo ciadiano ha minacciato di ritirare il suo fondamentale sostegno dalla Forza multinazionale congiunta (Mmf), missione regionale cui contribuiscono dal 1994 anche Nigeria, Benin, Camerun e Niger allo scopo di fronteggiare il terrorismo jihadista. Dopo la Nigeria, con i suoi 3 mila uomini, il Ciad ne è il principale contributore. Il presidente Mahamat Deby Itno – al potere dall’aprile 2021, quando subentrò a suo padre Idriss Deby Itno, ucciso in battaglia rai ribelli – ha lamentato uno sforzo eccessivo da parte del suo esercito per la stabilità regionale, in un momento in cui lo stesso Ciad deve far fronte a continue offensive sul suo territorio: l’ultima, lo scorso 28 ottobre, ha visto cadere 40 militari ciadiani in un violento attacco contro la base militare di Barkaram, nella regione frontaliera del lago Ciad.

    Con la rottura annunciata da N’Djamena, cade dunque l’ultimo baluardo francese nel Sahel, e per Parigi all’orizzonte si prospettano altre difficoltà. Il presidente del Senegal, Bassirou Faye Diomaye, è infatti tornato a chiedere la chiusura nel Paese di tutte le basi francesi, nel nome della sovranità nazionale. “Il Senegal è un Paese indipendente, è un Paese sovrano e la sovranità non accetta la presenza di basi militari”, ha dichiarato in un’intervista a “France 2”. Faye ha precisato che non è nelle sue intenzioni tagliare le relazioni con Parigi come fatto da altri nella regione, e che l’argomento vale per tutti, nessuno escluso: “Oggi la Cina è il nostro più grande partner commerciale in termini di investimenti e scambi. La Cina ha una presenza militare in Senegal? No. Ciò significa che le nostre relazioni sono interrotte? No”, ha specificato. Poche ore prima dell’intervista Macron ammetteva in una lettera a Faye le responsabilità coloniali francesi in quello che ha definito il “massacro” di fucilieri senegalesi nel 1944 nel campo militare di Thiaroye (Dakar), quando i militari africani chiesero di essere pagati per il servizio prestato al fianco di Parigi durante la Seconda guerra mondiale. Il gesto di Macron è stato riconosciuto come “un passo coerente” dal capo di Stato senegalese, che tuttavia rimane fermo sulla posizione militare già espressa durante la campagna elettorale.

    Nel tentativo di mantenere una presa sul Sahel, da dove la Francia è stata negli ultimi quattro anni progressivamente estromessa (prima del Ciad, era stata la volta delle giunte golpiste di Mali, Burkina Faso e Niger), Macron tenta ora di rafforzare le relazioni con la Nigeria, il cui presidente Bola Tinubu è in visita ufficiale a Parigi proprio in questi giorni. Accolto personalmente dal presidente francese e ospitato prima al Consiglio d’affari franco-nigeriano poi alla riunione dell’influente Medef (la Confindustria locale), Tinubu è il primo capo dello Stato nigeriano a visitare la Francia da 20 anni a questa parte. Per Parigi, che per necessità si trova a dover guardare con maggior interesse all’area anglofona saheliana, la Nigeria può giocare un ruolo – se non militare, certamente economico – strategico. Principale partner commerciale di Parigi nell’Africa sub-sahariana davanti a Sudafrica, Costa d’Avorio e Angola, Abuja rappresenta oltre il 20 per cento del commercio francese nella regione, concentrato per l’export in settori come la farmaceutica, le attrezzature meccaniche, i veicoli e i prodotti chimici, per l’import sugli idrocarburi. Rafforzare le relazioni con la Nigeria, primo motore dell’Africa occidentale e seconda del continente, è per Parigi un’occasione vitale per non perdere del tutto presa su una regione che guarda ormai alla Francia in modo diffidente e spesso ostile.

  • Cibo, bollette e benzina: le famiglie italiane spendono ogni mese 1.200 euro

    Le spese “obbligate” sostenute mensilmente nel 2023 dalle famiglie italiane – vale a dire quelle che riguardano indicativamente l’acquisto di cibo, carburante e bollette – hanno raggiunto i 1.191 euro, pari al 56 per cento della spesa totale che, invece, in valore assoluto si è attestata a 2.128 euro. Un’incidenza in calo rispetto al dato del 2022 (57,1%), ma decisamente superiore alle quote che registravamo prima dell’avvento della pandemia. Lo afferma l’Ufficio studi della Cgia.

    Dopo il periodo del Covid e la crisi energetica che hanno caratterizzato il triennio 2020/2022, spiegano gli artigiani di Mestre, le spese “obbligate” si sono stabilizzate su soglie più elevate. Dei 1.191 euro di spesa mensile, 526 euro sono riconducibili all’acquisto di beni alimentari e bevande analcoliche, 374 per la manutenzione della casa, bollette e spese condominiali e 291 per i trasporti, ovvero per il pieno dell’auto e per gli abbonamenti su bus/tram/metro/treni. A questi 1.191 euro vanno sommati 937 euro che, invece, sono ascrivibili alla cosiddetta spesa complementare che fa salire la spesa complessiva media nazionale a 2.128 euro. Nel Sud l’incidenza delle spese fisse sfiora il 60%.

    Analizzando la situazione per aree geografiche, emergono forti differenze di spesa tra il Nord e il Sud del Paese. Se a Nordovest la spesa complessiva mensile nel 2023 è stata pari a 2.337 euro, nel Mezzogiorno ha toccato i 1.758 euro (-24,7%). Per quanto riguarda le spese “obbligate”, invece, è il Mezzogiorno a registrare un’incidenza di queste ultime sulla spesa totale più elevata d’Italia. Se nel Nordovest e nel Nordest la quota sul totale è del 55% circa, al Sud sale al 59,4%.

    Questo risultato è riconducibile al fatto che, in particolar modo, la spesa media per i beni alimentari del Mezzogiorno non ha eguali tra le altre ripartizioni geografiche. Se in termini monetari la spesa mensile media più importante nel 2023 per cibo, bollette e carburante è stata registrata dalle famiglie del Nord – in Trentino Alto Adige con 1.462 euro, in Lombardia con 1.334 euro e in Friuli Venezia Giulia con 1.312 euro – come detto precedentemente, l’incidenza delle spese obbligate sul totale è risultata più elevata nelle regioni meridionali – Calabria con il 63,4 %, Campania con il 60,8 % e Basilicata con il 60,2%.
    Un trend che preoccupa anche artigiani e commercianti, in quanto è evidente che anche i fatturati delle piccole realtà artigianali e commerciali ne risentono negativamente. “La crisi che ha interessato tantissime botteghe artigiane e altrettanti negozi di vicinato è sicuramente ascrivibile alle tasse, ai costi elevati degli affitti, alla concorrenza molto aggressiva praticata dalla grande distribuzione e alla forte espansione del commercio online, ma, soprattutto, dal calo dei consumi che, purtroppo, negli ultimi 10 anni ha riguardato le famiglie economicamente più fragili e quelle che costituiscono il cosiddetto ceto medio” spiega la Cgia.

    Per la Cgia di Mestre, non è da escludere che, con spese “obbligate” in grado ormai di “drenare” ben oltre la meta’ della spesa totale delle famiglie, i prossimi acquisti di Natale subiscano una frenata rispetto a quanto avvenuto nel 2023. L’anno scorso, infatti, le stime indicano che in Italia la spesa per i regali da mettere sotto l’albero è stata pari a poco più di 11 miliardi di euro. Quest’anno, invece, dovrebbe aggirarsi attorno ai 10 miliardi di euro (-9%). Le ragioni di questa contrazione vanno ricercate nella minore disponibilità di spesa delle famiglie, a fronte delle difficoltà economiche avvertite negli ultimi mesi, e dal fatto che sempre più persone anticipano l’acquisto dei regali di Natale a fine novembre, approfittando degli sconti offerti dal Black Friday.

  • Gli Usa aggiungono 29 aziende cinesi all’elenco della legge sul lavoro forzato

    II dipartimento per la Sicurezza interna degli Stati Uniti, per conto della Task Force per il contrasto del lavoro forzato (Fletf), ha aggiunto 29 aziende cinesi all’elenco delle entità oggetto della Legge sulla prevenzione del lavoro forzato uiguro (Uflpa). È quanto annunciato in una nota dal dipartimento per la Sicurezza interna. Ciò porta il numero totale di entità incluse nell’elenco a 107, come parte degli sforzi del governo degli Stati Uniti per combattere il lavoro forzato nelle catene di fornitura globali, in particolare nella regione autonoma uigura dello Xinjiang.

    L’Uflpa, entrato in vigore nel 2022, mira a impedire l’importazione di beni prodotti utilizzando il lavoro forzato, in particolare da regioni legate ad abusi dei diritti umani, come lo Xinjiang. Il segretario per la Sicurezza interna, Alejandro Mayorkas, ha sottolineato che gli Stati Uniti continueranno a far rispettare la legge in modo aggressivo, perseguendo le aziende che si impegnano in pratiche di lavoro forzato e salvaguardando i mercati statunitensi dallo sfruttamento delle popolazioni vulnerabili, in particolare gli uiguri e altre minoranze etniche.

    La lotta alla droga è stato invece l’argomento che Donald Trump ha sfoderato per ribadire l’intenzione di applicare dazi alle importazioni dal Paese del Dragone. Donald Trump ha dichiarato che, una volta tornato presidente degli Stati Uniti, firmerà un ordine esecutivo che impone dazi del 25% su tutti i prodotti provenienti da Messico e Canada che arrivano negli Stati Uniti, e dazi aggiuntivi sulla Cina. “Il 20 gennaio, come uno dei miei primi ordini esecutivi, firmerò tutti i documenti necessari per imporre a Messico e Canada una tariffa del 25% su TUTTI i prodotti in arrivo negli Stati Uniti, e le sue ridicole frontiere aperte”, ha detto Trump in un post su Truth Social, affermando che i dazi rimarranno in vigore finché i due Paesi non porranno un freno alla droga, in particolare al fentanyl, e ai migranti che attraversano illegalmente il confine. Trump ha annunciato che gli Stati Uniti “addebiteranno alla Cina un dazio aggiuntivo del 10%, oltre a qualsiasi dazio aggiuntivo, su tutti i loro numerosi prodotti in arrivo negli Stati Uniti d’America”. E ha affermato che il motivo della tariffa aggiuntiva era l’incapacità della Cina di frenare il numero di farmaci che entravano negli Stati Uniti. La Cina è un importante produttore di precursori chimici che vengono acquisiti dai cartelli della droga, incluso il Messico, per produrre il fentanyl, un oppioide sintetico altamente potente. “Ho avuto molti colloqui con la Cina sulle enormi quantità di farmaci, in particolare Fentanyl, che vengono inviati negli Stati Uniti, ma senza alcun risultato… Finché non smetteranno, addebiteremo alla Cina un dazio aggiuntivo del 10%, oltre a qualsiasi dazio aggiuntivo, su tutti i loro numerosi prodotti che entrano negli Stati Uniti d’America”.

    In risposta, la Cina ha avvertito che “nessuno vincerà una guerra commerciale”. Liu Pengyu, portavoce dell’ambasciata cinese, ha affermato che la Cina ha adottato misure per combattere il traffico di droga dopo l’accordo raggiunto lo scorso anno tra Joe Biden e Xi Jinping. “La parte cinese ha notificato alla parte statunitense i progressi compiuti nelle operazioni di polizia contro gli stupefacenti legate agli Stati Uniti”, ha affermato in una dichiarazione. “Tutto ciò dimostra che l’idea che la Cina consenta consapevolmente ai precursori del fentanyl di fluire negli Stati Uniti è completamente contraria ai fatti e alla realtà”.

  • Il comune sardo di Ollolai offre case a un euro agli elettori delusi dalla vittoria di Trump

    L’amministrazione di Ollolai, comune sardo in provincia di Nuoro, sta offrendo case a un euro agli elettori statunitensi delusi dalla vittoria del repubblicano Donald Trump alle presidenziali del 5 novembre. “Sei stanco della politica globale? Cerchi di abbracciare uno stile di vita più equilibrato mentre ti assicuri nuove opportunità? È ora di iniziare a costruire la tua fuga europea nello stupefacente paradiso della Sardegna”, afferma il sito web promozionale dell’iniziativa, che punta ad affrontare il problema dello spopolamento mettendo in vendita case a prezzi irrisori. L’offerta si rivolge soprattutto a futuri e potenziali espatriati dagli Stati Uniti, che beneficeranno di una “procedura accelerata”. A spiegarlo all’emittente “Cnn” è il sindaco di Ollolai, Francesco Columbu, il quale ha chiarito che il sito web è stato appositamente creato “per soddisfare le esigenze di ricollocazione post-elettorale degli Stati Uniti”.

    “Ci concentreremo soprattutto sugli americani. Naturalmente, non possiamo vietare alle persone di altri Paesi di presentare domanda, ma loro beneficeranno di una procedura accelerata”, ha detto il sindaco, spiegando che il possesso di un passaporto statunitense non è un prerequisito per il trasferimento. Tuttavia, “stiamo scommettendo su di loro per aiutarci a far rivivere il villaggio, sono la nostra carta vincente. Certo, non possiamo menzionare specificamente il nome di un presidente appena eletto, ma sappiamo tutti che è lui la persona da cui molti americani vogliono allontanarsi e lasciare il Paese”, ha aggiunto, spiegando che l’offerta è valida per pensionati, lavoratori a distanza, imprenditori e persone di tutte le età.

    Le tipologie di alloggi offerte, le cui foto e planimetrie verranno caricate presto sul sito web, sono tre: case temporanee a titolo gratuito per alcuni nomadi digitali, case da un euro che necessitano di ristrutturazione e case pronte da abitare con prezzi fino a 100.000 euro. Negli ultimi cento anni, la popolazione di Ollolai è passata da 2.250 a 1.300 abitanti, con solo una manciata di nascite all’anno. Molte famiglie hanno lasciato il paesino in cerca di fortuna, di lavoro e vite migliori, facendo scendere ulteriormente il numero dei residenti ad appena 1.150 negli ultimi anni.

  • Mercosur: dalla concorrenza alla solita speculazione

    Il declino culturale di un continente e della istituzione che lo rappresenta emerge in modo cristallino dalla incapacità di imparare dai fallimenti passati delle medesime strategie economiche e commerciali e, di conseguenza, riproporli in ogni differente contesto economico e strategico.

    La fine dell’accordo Interfibre all’inizio del 2000 ha favorito l’invasione del mercato europeo di prodotti privi di ogni tracciabilità provenienti da paesi a basso costo in manodopera e realizzati all’interno di laboratori privi di un minimo livello di sicurezza igienico sanitario così come di tutela dei lavoratori e con livelli salariali espressione di un’ulteriore speculazione, quindi assolutamente incompatibili con gli standard normativi europei.

    Proprio per la mancanza di una minima piattaforma normativa condivisa alla base di questo mercato globale, il costo di questa strategia lo hanno pagato i professionisti della filiera industriale e artigianale del tessile abbigliamento con la perdita di milioni di posti di lavoro in Europa.

    Tuttavia, in quegli anni si parlava di un accesso democratico al settore abbigliamento (proprio per i prezzi fuori mercato) non capendo come, senza una base di normativa condivisa, il principio della concorrenza si trasforma semplicemente in quello della speculazione.

    Quest’ultimo, poi, crea le condizioni di un arricchimento per i pochi gestori dei flussi commerciali, mentre tende ad impoverire gli stessi lavoratori che già operano nei settori interessati.

    In questo contesto contemporaneo, mentre l’amministrazione Biden ha già  introdotto la politica dei dazi nei confronti della concorrenza cinese, la quale verrà  confermata  ed amplificata dalla nuova amministrazione Trump, viceversa l’Unione Europea, dimostrando ancora una volta una volontà speculativa preferita a quella della crescita economica, intende ratificare l’accordo di libero scambio nel settore agricolo “Mercosur” ed aprire le porte del mercato europeo a prodotti del Sud America privi delle più elementari garanzie di tracciabilità.

    Basti ricordare come nelle colture europee negli ultimi trent’anni l’utilizzo di azoto risulti diminuito del -15% a fronte di un aumento nel Sudamerica del +45 %, mentre l’utilizzo del fosforo in Europa segni -65% ed in Sudamerica invece un +32% ed infine dei pesticidi aumentati del +24% in Europa ma contemporaneamente in Sudamerica del +413 %.

    In questo modo, un settore già in difficoltà come quello agricolo europeo non si apre alla concorrenza di prodotti equivalenti ma solo espressioni di un complesso normativo assolutamente incompatibile con le stesse europee.

    In relazione agli esiti delle aperture dei mercati europei ai competitor a basso costo di manodopera e senza nessuna base normativa condivisa, operata precedentemente per il tessile abbigliamento e calzaturiero, come ora nell’automotive e nell’immediato futuro anche in agricoltura, non sembrava lontano dal vero considerare come l’obiettivo della Ue risultasse finalizzato più alla creazione di nuove opportunità di speculazione che questi accordi sicuramente favoriranno. Quando, invece, una politica economica applicata ai diversi settori economici industriali e dell’agricoltura, proprio perché espressione di competenze adeguate, dovrebbe avere come unico obiettivo la crescita dell’intera economia europea in un contesto competitivo.

    Continuare a confondere il sano principio della concorrenza con una opportunità di speculazione rappresenta per la classe politica europea nella sua articolata complessità, e sostenuta dall’intero il mondo accademico, la principale ragione dello scenario problematico riservato al Vecchio Continente.

  • Dalla Ue altri 5,5 miliardi di euro per l’ambiente del Mediterraneo

    La Commissione Europea ha finanziato con 5,5 milioni di euro la terza fase del progetto meetMed, sviluppato da Medener per accelerare la transizione verso economie più sostenibili e climaticamente neutre nella sponda sud del Mediterraneo. Medener è l’Associazione delle Agenzie nazionali per l’efficienza energetica e le fonti rinnovabili del Mediterraneo, che vede come presidente il direttore generale Enea Giorgio Graditi e come segretario generale Roberta Boniotti, sempre dell’Enea; dal 2018 a oggi ha coordinato le prime due fasi del progetto meetMed, coinvolgendo otto paesi del Mediterraneo (Marocco, Algeria, Tunisia, Libia, Egitto, Giordania, Palestina e Libano). MeetMed III si propone due obiettivi principali: promuovere città più sostenibili e rafforzare le azioni di mitigazione climatica nel settore energetico, supportando le autorità locali nello sviluppo dei Paesc (Piani di azione per l’Energia sostenibile e il Clima) e dei Sump (Piani di mobilità urbana sostenibile), anche per favorire l’affiliazione alla sezione mediterranea del GCoM (Patto Globale dei Sindaci). Le attività prevedono: capacity building; strumenti per l’accesso ai finanziamenti; organizzazione di forum Sei (Investimenti in Energia Sostenibile); monitoraggio delle politiche energetiche; assistenza tecnica per l’attuazione di strategie locali di adattamento e mitigazione; misure di efficienza energetica, con particolare attenzione al settore edilizio, tramite supporto alle politiche, sviluppo e monitoraggio di strumenti per l’efficienza, e collaborazione con il progetto Peeb Med (Programma per Edifici Efficienti nel Bacino del Mediterraneo); facilitare l’accesso ai finanziamenti per progetti di efficienza energetica attraverso i forum Sei; promuovere lo scambio di best practice tra i membri della rete meetMed Ren (Rete di Esperti Regionali).

    “Questo importante risultato testimonia non solo l’impegno della Commissione Europea a favore della transizione energetica nella regione del Mediterraneo, ma anche la qualità del lavoro svolto da Medener”, dichiara Giorgio Graditi, presidente di Medener e direttore generale Enea. “Il riconoscimento – aggiunge – rafforza inoltre ruolo e posizionamento dell’Italia nel contesto europeo e mediterraneo, rappresentando una rilevante opportunità per ampliare la missione del progetto, a favore di un approccio multilaterale e integrato, dal livello nazionale a quello locale, indispensabile per il percorso di transizione energetica in una regione particolarmente esposta ai cambiamenti climatici come quella mediterranea”. “Questa nuova fase del progetto meetMed evidenzia la crescente rilevanza delle Agenzie energetiche nazionali di Medener nel dare vita a contesti socioeconomici più stabili ed efficienti, in grado di garantire una maggiore resilienza ai cambiamenti climatici”, spiega segretario generale di Medener Roberta Boniotti. “Le Agenzie – conclude – rappresentano i punti focali per supportare l’implementazione delle politiche energetiche nazionali a livello locale, garantendo allo stesso tempo il confronto e lo scambio di best practice tra i Paesi della regione”.

  • Tra la natura distrutta del Volga fioriscono gli affari leciti e non della Russia in guerra

    Il Corriere della Sera ha provato a scoprire come è la Russia, il Paese reale, quello che non gravità intorno al Cremlino a Mosca, dopo che Vladimir Putin con l’invasione dell’Ucraina l’ha tagliata fuori dalle relazioni con l’Occidente. Per farlo, è andato a scoprire l’area attraversata dal Volga, il fiume più lungo d’Europa, che rappresenta “l’autobiografia di un popolo”, per mutuare le parole del direttore dell’Ermitage, Michail Piotrovskij, perché è proprio in quelle terre, al centro del Paese e dove sorge tra l’altro l’ex Stalingrado (oggi Volgograd), che la Russia affonda le sue radici. Ecco cosa è emerso.

    Il paesaggio è contraddistinto da taiga e steppa, come da foreste e pianure immense, ma la fauna è molto scarsa: anitre e oche vi passano in volo durante le loro migrazioni, in loco vi sono molti corvi, di ogni dimensione, nulla, nemmeno uno scoiattolo. Pesticidi, scarichi industriali e metropolitani hanno avvelenato il fiume, tanto che il luccio perca servito nei ristoranti arriva congelato da lontano mentre tra i 200mila abitanti di Ribinsk (nome che significa la città del pesce, perché la città riforniva la mensa degli zar col miglior storione) non si pesca più neanche di frodo. A peggiorare la situazione vi è l’operazione militare speciale in Ucraina: la navigazione privata è vietata sull’asse medio e basso del Volga, perché il fiume è diventato strategico per l’economia di guerra, per bypassare le sanzioni: oltre a traghetti e navi da crociera (riscoperta del turismo interno), circolano centinaia di chiatte per il rifornimento militare al Donbass e il traffico illegale con l’Iran attraverso il Caspio.

    Astrakan, sul delta, già antico “centro commerciale” della via della Seta, è diventata cruciale per l’asse economico antioccidentale. I porti turistici sono chiusi e quelli mercantili presidiati dalle forze di sicurezza. È l’hub dell’import-export clandestino di beni agricoli e di petrolio, ma anche di turbine, ricambi meccanici, medicinali, componentistica nucleare e droni.

    Di contro, a Jaroslav, a Nizhni Novgorod, a Kazan i centri storici sono intasati di lavori pubblici, restauro di palazzi, ripristino di marciapiedi e tubature: squadre di giardinieri municipali sono all’opera nei parchi pubblici insieme a decine di liceali obbligati a contribuire al decoro urbano per due settimane durante le vacanze e nelle periferie non si sono interrotte le costruzioni di nuovi quartieri popolari. Nelle fertili pianure del medio Volga è evidente come l’industria agroalimentare sia diventata parte dell’economia di guerra, al pari di quella pesante: distese sterminate di girasoli, orzo, frumento, granoturco. Le fattorie collettive abbandonate negli anni Novanta vengono acquisite dai grandi gruppi fedeli al regime e dei 56 milioni di ettari rimasti incolti negli anni 90 ne sono rimasti una trentina. Secondo la Fao la Russia da sola può sfamare due miliardi di persone. E il cambiamento climatico (per ora) gioca a favore di Putin, perché aumentano le terre coltivabili ovunque, non solo nelle pianure del Volga centrale, dove le stagioni di crescita sono più lunghe e i raccolti migliori, ma anche nella regione degli Urali e addirittura in Siberia.

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