Usa

  • Negli Usa c’è uno Stato che pensa di bandire le auto elettriche

    Mentre l’Europa corre a spron battuto verso l’auto elettrica, lo Stato americano del Wyoming fa il contrario e pensa di vietare proprio quelle vetture, facendo sì che nel 2035 (quando in larga parte del mondo dovrebbero cessare le vendite di endotermiche) non possano più essere acquistabili.

    Il divieto è contenuto nella proposta di legge presentata dal senatore Jim Anderson e da molti altri senatori repubblicani dello Stato americano con la quale si chiede di ridurre gradualmente la vendita di nuovi veicoli elettrici fino a vietarla completamente dal 2035. Il senatore Anderson in un’intervista rilasciata al quotidiano locale Cowboy State Daily ha spiegato l’iniziativa con un motivo anzitutto squisitamente economico: l’economia di quello che è lo Stato degli Usa con la minore popolazione ruota intorno all’estrazione di petrolio e gas e andrebbe in crisi se scomparissero i veicoli a combustione.

    Ma all’origine della proposta vi sono anche dubbi sugli effettivi benefici ambientali dei veicoli elettrici e le oggettive difficoltà che si dovranno affrontare per arrivare ad avere la completa elettrificazione del traffico. Secondo quanto si legge nella risoluzione presentata dai senatori repubblicani del Wyoming infatti i veicoli elettrici non sarebbero pratici e le loro batterie consumerebbero risorse preziose: facendo leva su uno studio del 2021 dell’Agenzia Internazionale per l’Energia (un’organizzazione intergovernativa con sede a Parigi) si asserisce infatti che le auto elettriche richiedono sei volte in più i minerali utilizzati nella produzione di auto convenzionali, inclusi minerali critici come rame, litio, nichel, cobalto, grafite, zinco e terre rare. E che questo rappresenterebbe un problema sia per quanto concerne l’approvvigionamento delle materie prime sia per lo smaltimento delle vecchie batterie dei veicoli elettrici dato che i minerali critici sopracitati non sono facilmente riciclabili. Nella proposta di legge presentata in Wyoming si evidenzia ancora il fatto che il percorso verso l’elettrificazione di massa richiede una fitta rete di infrastrutture (le colonnine per la ricarica dei veicoli elettrici) che andrebbe costruita praticamente da zero con un grande dispendio di soldi pubblici (a tal proposito per il Wyoming sono già stati stanziati dal governo federale un totale di quasi 24 milioni di dollari nei prossimi cinque anni per migliorare le infrastrutture di ricarica lungo le tre principali strade che attraversano lo Stato) e di energia elettrica.

  • A New York si celebrano manifesti commerciali italiani

    La contaminazione tra arte d’avanguardia e manifesti commerciali in Italia, con particolare attenzione agli anni tra le due guerre e al primo dopoguerra, durante il boom economico del Paese, è al centro di una mostra al Cima (Center for Italian Modern Art) di New York.  Sono circa 30 i manifesti esposti nello spazio a Soho dal 16 febbraio al 10 giugno, provenienti dalle principali istituzioni italiane e collezioni aziendali, e firmati da artisti come Erberto Carboni, Fortunato Depero, Nikolai Diulgheroff, Lucio Fontana, Max Huber, Bruno Munari, Marcello Nizzoli, Bob Noorda, Giovanni Pintori, Mario Sironi, Albe Steiner. Le loro opere hanno illustrato i prodotti di aziende che hanno fatto la storia dell’economia tricolore come Barilla, Campari, Olivetti, Fiat, Pirelli.

    “L’idea di base è stata di esaminare il rapporto tra arte di avanguardia italiana e una certa committenza commerciale illuminata che è esistita a partire dagli anni Venti e fino agli anni 60”, ha spiegato all’Ansa il curatore della mostra, Nicola Lucchi. «E’ un momento in cui le compagnie italiane scoprono il consumismo e si appoggiano a uffici di pubblicità interni che chiamano gli artisti a collaborare, e gli artisti di avanguardia e Futuristi per primi si propongono come interpreti dei prodotti – ha continuato – Questo genera un rapporto artistico importante che abbiamo cercato di esplorare nelle sue varie sfaccettature».

    Lucchi ha sottolineato che «i manifesti sono stati spesso descritti come derivati, ma la mostra mette in luce come, dal Futurismo in poi, le locandine italiane abbiano acquisito una forza visiva e comunicativa che ha elevato il mezzo a una forma di espressione artistica a sé stante, spingendo il confini delle tecniche litografiche, del fotomontaggio e della tipografia». «L’ambizione peculiare dei manifesti commerciali di fornire forme e contenuti seducenti alle masse, piuttosto che a un circolo elitario, li rende anche oggetto di interesse socioeconomico e filosofico», ha proseguito.

    Con la data di inizio nel 1926, anno in cui Depero ha esposto alla Biennale di Venezia un “quadro pubblicitario”, Squisito al selz, e una ideale data di chiusura nel 1957, anno in cui va in onda per la prima volta sulla Rai il Carosello, l’esibizione illustra quindi come il design dei manifesti commerciali italiani si sia mosso di pari passo con le correnti artistiche dei suoi tempi. E come contrappunto visivo e concettuale al percorso narrativo tracciato dai manifesti commerciali, la mostra comprende anche alcune opere di Mimmo Rotella. «Rotella inizia con l’arte informale e negli anni 50 ha l’illuminazione che in realtà le figure sono tutte intorno a lui, e sono i manifesti commerciali – dice il curatore – Il gesto è strapparli dalle pareti e metterli sulla tela».

  • USA. Il caso della First Republic Bank

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi apparso su www.notiziegeopolitiche.net il 6 maggio 2023 

    La First Republic Bank di San Francisco (Frb), la quattordicesima banca americana, ha chiuso i battenti. E’ il secondo fallimento più grande della storia dopo quello della Washington Mutual nel 2008. Per evitare che potesse provocare una slavina finanziaria e per tranquillizzare, almeno momentaneamente, i mercati è stata organizzata una “special operation” pubblica – privata.
    La Federal Deposit Insurance Corporation (Fdic), l’agenzia di regolamentazione bancaria, in qualità di curatore fallimentare ha preso possesso della banca e contemporaneamente l’ha venduta alla JPMorgan Chase di New York, la più grande banca americana e indiscussa regina dei derivati finanziari speculativi. Quest’ultima prenderà il controllo dei 103,9 miliardi di dollari di depositi e dei 229,1 miliardi di attività della First Republic, 173 dei quali in prestiti e 30 in titoli.
    Per l’acquisto la JPMorgan ha pagato 10,6 miliardi. Il fondo di garanzia della Fdic dovrebbe intervenire con 13 miliardi per coprire le perdite subite dai correntisti della banca. La Fdic, infatti, garantisce i depositi fino a 250.000 dollari. Essa dovrebbe anche aggiungere 50 miliardi di finanziamenti, di crediti. In altre parole, il grosso del salvataggio è sulle spalle pubbliche.
    Si tenga presente che nei depositi citati vi sarebbero 92 miliardi di precedenti aiuti, 30 dei quali nella forma di crediti concessi dalle 11 maggiori banche statunitensi e il resto dalla Federal Reserve e da altre entità pubbliche. Sono serviti solo per guadagnare un po’ di tempo ed evitare il tracollo immediato.
    Il crollo della Frb è da manuale. All’inizio di marzo, quando si annunciava il percorso di fallimento della Silicon Valley Bank, le azioni della First Republic valevano ancora 115 miliardi. Oggi pressoché niente. Già nei primi tre mesi dell’anno, ben 102 miliardi di depositi erano “scappati” dalla banca. Infatti, come le altre due banche fallite, la Silicon Valley e la Signature, la Frb è crollata sotto il peso di prestiti e investimenti in obbligazioni che hanno perso miliardi di dollari di valore a seguito della politica della Fed di alzare i tassi d’interesse per combattere l’inflazione. Di conseguenza, molti clienti, soprattutto quelli facoltosi, hanno iniziato a ritirare i loro soldi e gli investitori hanno scaricato le sue azioni, innescando anche una crisi di liquidità.
    L’amministratore delegato della JPMorgan, Jamie Dillon, si augura che questa fase di alta instabilità finanziaria si possa calmare, anche se “potrebbe esserci un altro caso più piccolo”. Ma, aggiunge, gli investitori sono ancora esposti ai rischi creati dagli aumenti dei tassi d’interesse della Fed e dal loro impatto sugli asset, compresi gli immobili.
    Nonostante le tante assicurazioni, si teme che le crisi bancarie da “acute” possano diventare “croniche”. Gli effetti macroeconomici dello stress bancario potrebbero essere solo nella fase iniziale.
    Negli Usa vi è la convinzione che la Fed ha gestito male la politica sui tassi d’interesse, con rialzi prima tardivi e poi troppo concentrati. Infatti, in dodici messi il tasso è aumentato del 5%, uno choc secondo solo a quello degli anni ottanta. Inoltre, come ha ammesso anche il vice presidente della banca centrale Michael Barr davanti al Congresso, la Fed è mancata nella supervisione e nella regolamentazione bancaria.
    I fallimenti hanno dimostrato che circa un quarto del cosiddetto portfolio bancario è fatto di titoli in perdita rispetto agli attuali tassi di’interesse. Di fatto il rischio di una fuga generalizzata di depositi dalle banche regionali verso quelle più grandi e verso i fondi del cosiddetto sistema bancario ombra resta rilevante. Ciò comporterebbe anche una riduzione dei crediti verso l’economia. Si toccano con mano gli effetti indesiderati della liquidità creata a piene mani e a basso costo. Oggi la Fed rischia di fare lo stesso errore: sottovalutare le conseguenze sistemiche delle sue attuali politiche.
    Naturalmente le banche too big to fail stanno approfittando della politica della Fed. Lo dimostra un dato sorprendente: nel primo trimestre del 2023 la JPMorgan Chase ha fatto ben 21 miliardi di profitti sui tassi di interesse, più del 50% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Poiché i tassi sui depositi dei clienti erano e restano bassi, la banca si è subito adeguata al rialzo dei tassi nelle concessioni di prestiti e negli investimenti.
    I non pochi interventi di salvataggio evidenziano alcune criticità che si faranno presto sentire. Prima di tutto acuiscono la concentrazione bancaria, le grandi banche diventano più grandi e too big to manage. In secondo luogo si sta minando la fiducia nei confronti della Fdic e della sua capacità futura di essere garante di tutti i depositi. Il che è molto preoccupante.

    Mario Lettieri, già deputato e sottosegretario all’Economia; Paolo Raimondi, economista

  • California in declino, tramonta l’American Dream

    Si appanna sempre di più il mito della California. Lo stato più ricco e popoloso degli Stati Uniti, da sempre l’incarnazione dell”American dream’, è in crisi. Il suo motore luccicante ed efficiente si è inceppato, per un cocktail esplosivo di fattori: la tassazione pesante, affitti e prezzi delle case stellari, il crollo demografico, le sempre più numerose calamità naturali, la crescita dei senzatetto e della criminalità. E ora anche quattro sparatorie di massa a gennaio, un fenomeno poco frequente nello stato che ha una delle leggi più restrittive della federazione in materia di armi.

    La legge finanziaria approvata a Sacramento è un segnale chiaro: dopo anni di bilanci record tutti in attivo, il piano del 2023 prevede invece un deficit di 22,5 miliardi di dollari. Un bel problema per il governatore dem Gavin Newsom, che ufficialmente nega le sue ambizioni presidenziali, ma resta senza dubbio un nome forte per il post Biden. Il suo secondo mandato alla guida della ‘locomotiva del Paese’ è appena cominciato. Sarà un banco di prova fondamentale per avvicinarlo o allontanarlo dalla corsa alla Casa Bianca. Il vento è cambiato in fretta a Sacramento. Sei mesi fa, Newsom e i suoi pronosticavano un avanzo di bilancio di 100 miliardi. Ma l’inflazione galoppante e la frenata delle grandi firme del tech hanno complicato la contabilità dello stato, fortemente dipendente dai guadagni dei suoi cittadini più ricchi. Quasi il 35% delle entrate fiscali del Golden State proviene dai contribuenti che guadagnano almeno 1 milione di dollari all’anno (mentre due terzi arrivano da chi supera i 200 mila dollari). Se uno di loro si trasferisce, lo stato può perdere miliardi. È quello che è successo quando Elon Musk, che nel 2022 ha venduto circa 23 miliardi di dollari di azioni Tesla, ha spostato la sua residenza e il suo quartier generale in Texas. Chi è così ricco in California paga più del 13% sulle plusvalenze. L’erario riceverà quest’anno 29,5 miliardi di dollari in tasse, quasi il 10% in meno di quanto pronosticato nel 2022.

    Non è tutta colpa di Musk, ovviamente. Lo stato perde abitanti in modo inarrestabile. Anche in questo caso, si tratta di una tendenza che ha cambiato di segno negli ultimi tempi. Gli abitanti della California non hanno fatto che crescere dall’annessione del 1850. Ma dal 2000 in poi, hanno cominciato ad andarsene. Prima in modo impercettibile; poi in modo drammatico negli ultimi due anni: la popolazione è diminuita di oltre 500.000 persone dal luglio 2020 al luglio 2022: una grande fuga. La pandemia non ha certo aiutato. Molti dirigenti dell’industria dello spettacolo e dell’high tech si sono trasferiti: ora che possono lavorare da casa, preferiscono vivere dove le tasse e gli affitti sono più bassi. I meno danarosi se ne sono andati in modo anche più massiccio, decidendo che non vale la pena restare schiacciati dai costi esorbitanti della casa mentre tutt’attorno aumentano – fenomeni non certo slegati – criminalità e ‘homeless’ (115mila nel 2015, 173 mila nel 2022). Come se non bastasse, negli ultimi anni il paradiso californiano e’ diventano un inferno flagellato da estati torridi, incendi, alluvioni, terremoti. Iniziato con la corsa all’oro, il grande sogno americano, che in California è proseguito prima con l’agricoltura fiorente e il petrolio, poi con l’industria dello spettacolo e l’alta tecnologia, rischia ora di diventare un miraggio. Resta da vedere se l’uomo al comando in questo momento di crisi riuscirà a risalire la china. Per il futuro del suo stato e per il suo personale.

  • In attesa di Giustizia: elegant dinners

    La culla del diritto (che sarebbe, poi, l’Italia: si può dire perché il 1°aprile è trascorso da poco) ha esportato oltreoceano uno dei suoi più recenti – rispetto ad immarcescibili istituti del diritto romano, come l’usucapione – prodotti giuridici: la giustizia di scopo ovvero ad orologeria.

    Ecco, ci mancava questo in un Paese che ritiene conseguito un traguardo di civiltà perché ai condannati a morte, invece che friggerli sulla sedia elettrica, viene iniettato un farmaco miscelato con dei sedativi (quando ci sono e quando se ne ricordano) che arresta il cuore mentre si apre il sipario davanti al boia ed un selezionato pubblico di invitati può assistere al supplizio come se fossero al Telegatto.

    Il riferimento è, chiaramente, al processone a carico di Donald Trump, rispetto al quale si è detto molto e molto confusamente, lasciando intendere che riguardi torbide storie di corruzione ma, in realtà non è così.

    Pagare una porno star (o, forse, due) per tacere a proposito di una trascorsa intimità, foss’anche prezzolata, non è un reato, soprattutto se il silenzio non è stato opposto in veste di testimone ad un’Autorità ma rispetto ai tabloid.

    Si dirà che, se di cotanta infedeltà coniugale si fosse subito saputo, la corsa per la Presidenza degli Stati Uniti poteva andare diversamente ed a favore di Hilary Clinton (una, tra l’altro, che ha esperienza in materia): ma se questo è il punto critico, il vero problema è che la prova di un ipotetico e bizzarro crimine di turbativa elettorale, conseguenza di inconfessati peccati contra sextum, risulta diabolica.

    Il tutto a tacer del fatto che non risulta che prima di allora “The Donald” sia stato un esempio di virtù maritali e non solo quelle: siamo, allora, al cospetto di un eccesso di puritanesimo tipico di una cultura rigorosamente calvinista, peraltro non nuovo su quelle sponde dell’Atlantico, verosimilmente valso a “colorire” un po’ l’iniziativa della Procura.

    Infatti neppure l’adulterio, probabilmente, è da considerarsi illecito penale ma non siamo così esperti nel diritto nordamericano (diverso per ogni Stato, più una normativa Federale) per escluderlo completamente se si tiene conto che, solo dopo la sentenza della Corte Suprema Lawrence vs. Texas del 2003 sono stati decriminalizzati una serie di atti sessuali (i lettori comprenderanno il riserbo nel declinarne dettagliatamente le caratteristiche in questa pagina) che ancora costituivano reato in ben quattordici Stati dell’Unione, eredità di norme coloniali britanniche con radici nella religione cristiana più risalente nel tempo.

    Insomma, a guardare bene tra i capi d’imputazione, si scopre che il problema non sono cene eleganti ed, ancor più, dopocena brillanti bensì il fatto di aver registrato come spese legali una trentina di fatture ad un legale per sistemare le Olgettine di laggiù e piuttosto che la mercede corrisposta alle signorine per i loro servigi ed il riserbo mantenuto in proposito.

    E qui ci sarebbe da discutere se una minuziosa fatturazione per prestazioni effettivamente svolte da un consulente, pur atipico, e pagate con soldi propri sia un reato tributario: ma si sa, a quelle latitudini con il fisco non si scherza e la storia di Al Capone lo insegna.

    Da qui a dire che elevare una montagna di incriminazioni per le quali l’accusato rischia – come pare – oltre un secolo e mezzo di carcere appare, sotto qualsiasi profilo, francamente eccessivo.

    Il vero problema che il caso Trump pone è, però, un altro: se sia solida una democrazia che per difendere se stessa dalla minaccia di un candidato ritenuto indegno e pericoloso debba ricorrere alla “giustizia di scopo”.

    Qui ne sappiamo qualcosa e l’esempio non sembra il migliore da seguire…saranno effetti della globalizzazione. Se qualcuno fosse punto da vaghezza di conoscere nel dettaglio l’indictement, il New York Times lo ha pubblicato per intero, battendo sul tempo Chi l’ha visto, Report e Quarto Grado:  basta collegarsi al sito per scaricarlo.

    Tra le imputazioni c’è anche la conspiracy che corrisponde più o meno alla nostra associazione a delinquere e sarebbe interessante capire perché nessuno degli altri presunti cospiratori sia stato chiamato alla sbarra – magari trascinato in catene come Amatore Sciesa – insieme all’ex Presidente cui, invece, è stato evitato l’oltraggio delle manette sebbene formalmente in arresto per una manciata di minuti.

    In conclusione, all’ombra dell’Empire State Building con perfetto tempismo rispetto alla imminente campagna elettorale, non si sono fatti mancare nulla o quasi di una coreografia che dai tempi di Mani Pulite ci è ben nota e di quello che non pare essere un modello di Giustizia da emulare.

  • In Usa scatta l’allarme per le gru-spia cinesi

    Non solo satelliti, palloni aerostatici e TikTok: a preoccupare le autorità americane delle presunte o possibili attività di spionaggio cinesi ci sono adesso anche le gigantesche gru ‘Made in China’ presenti nei porti del Paese, inclusi quelli usati dal Pentagono, per movimentare i container. Secondo il Wall Street Journal, i funzionari statunitensi sono sempre più preoccupati del fatto che queste gru – prodotte dalla multinazionale statale cinese Zpmc – possano fornire a Pechino uno strumento di spionaggio.

    Alcuni funzionari della sicurezza nazionale e del Pentagono hanno paragonato le gru a un cavallo di Troia. Le strutture sono infatti equipaggiate con sofisticati sensori in grado di registrare e tracciare la provenienza e la destinazione dei container, suscitando così il timore che la Cina possa acquisire dati e informazioni sui materiali movimentati all’interno o verso l’esterno del Paese per supportare le operazioni militari statunitensi in tutto il mondo.

    Secondo un ex alto funzionario del controspionaggio americano, Bill Evanina, le gru potrebbero anche fornire un accesso remoto a chi cerca di interrompere il flusso di merci. «Possono essere la nuova Huawei», ha detto Evanina, riferendosi al gigante cinese delle telecomunicazioni, le cui apparecchiature sono state vietate ai funzionari statunitensi dopo aver avvertito che potevano essere usate per spiare gli americani. «È la combinazione perfetta di un’attività commerciale legittima che può mascherare una raccolta clandestina di informazioni», ha aggiunto l’ex funzionario del controspionaggio.

    Un rappresentante dell’ambasciata cinese a Washington ha rinviato al mittente le preoccupazioni degli Stati Uniti per le gru porta container, parlando di un tentativo «paranoico» di ostacolare il commercio e la cooperazione economica. «Far circolare la teoria della ‘minaccia cinese’ è irresponsabile e danneggia gli interessi degli Stati Uniti stessi», ha dichiarato.

    I timori sulle gru cinesi seguono le recenti tensioni sui palloni aerostatici come presunto mezzo di sorveglianza cinese, che hanno puntato i riflettori sulla natura mutevole dello spionaggio. E si aggiungono alle preoccupazioni di Washington sulla app cinese TikTok, vietata il mese scorso sui cellulari governativi non solo americani ma anche canadesi per tenere le informazioni dei cittadini lontane da possibili occhi indiscreti.

  • L'”arte” della guerra

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo del Prof. Francesco Pontelli

    La guerra, qualsiasi guerra, presenta un aspetto relativo alla battaglia territoriale ed un altro contemporaneo giocato nell’articolato contesto diplomatico al quale aggiungere nella contemporaneità della nostra società anche l’aspetto mediatico.

    Il successo in una guerra, quindi, necessita ovviamente di una superiorità militare espressa con una capacità strategica vincente, ma anche di una parallela visione diplomatica attraverso la quale trovare delle soluzioni politiche per un cessate il fuoco, senza dimenticare l’obiettivo di isolare quanto più possibile il nemico che si intende abbattere.

    La Grande Alleanza nata tra Stati Uniti, Gran Bretagna ed Unione Sovietica aveva l’obiettivo, per altro perfettamente riuscito, di isolare la Germania nazista e quindi porre le basi militari, politiche e diplomatiche finalizzate alla vittoria nella Seconda Guerra Mondiale.

    L’amministrazione Biden, già prima dell’inizio della guerra russo-ucraina avviata da Putin, decise scientemente di annullare le alleanze che la precedente amministrazione Trump aveva definito, come l’accordo tra gli Stati Uniti con l’Arabia Saudita. Un’intesa di carattere politico ed economico con vicendevoli opportunità per i due contraenti che aveva assicurato il mantenimento del pezzo del petrolio a 60 dollari grazie proprio all’alleanza tra il primo produttore di petrolio al mondo, cioè gli Stati Uniti, con la prima nazione per riserve petrolifere, cioè la sunnita Arabia Saudita. Contemporaneamente l’intero mondo occidentale vedeva il potere dell’Opec, con la sua politica ricattatoria, ridimensionato come mai in precedenza.

    L’apertura, invece, dell’amministrazione Biden allo storico nemico sciita, l’Iran, fu giustamente vissuta come un tradimento da parte dell’Arabia Saudita la quale, in più occasioni, ha dimostrato il proprio risentimento appoggiando senza esitazione le politiche restrittive relative alle estrazioni di petrolio da parte dell’Opec.

    Una apertura americana che ha visto ovviamente l’appoggio dell’Unione Europea, da sempre incapace di elaborare una propria politica estera e che ha determinato, in più, il beffardo appoggio tecnologico e militare dello stesso Iran alla Russia di Putin, quindi contro gli stessi Stati Uniti ed Unione Europea.

    L’annuncio di questi giorni della ulteriore riduzione delle estrazioni di petrolio di oltre un milione di barili di petrolio rappresenta l’ennesima conferma della sempre più evidente contrapposizione tra il mondo occidentale con i paesi esportatori di petrolio a causa proprio della politica estera dell’amministrazione Biden.

    La situazione risulta talmente problematica che i nemici di sempre, Iran e Arabia Saudita, sotto l’egida della Cina (*), hanno ora addirittura raggiunto un primo storico accordo tra le due declinazioni della religione araba da sempre in guerra, cioè sciita e sunnita, compattando il fronte economico e politico che si contrappone nella complessa guerra russo-ucraina.

    Emerge evidente come, diversamente dalla vittoriosa strategia della Seconda Guerra Mondiale, la quale ha unito mondi politici ed istituzionali diversi come Stati Uniti Gran Bretagna ed Unione Sovietica, la contemporanea strategia americana, della NATO e della stessa Unione Europea tenda sempre più a non solare il nemico dichiarato, cioè la Russia di Putin, quanto a fortificare le alleanze tra Cina, Russia e mondo arabo.

    La supremazia militare mondiale degli Stati Uniti, quando non viene supportata da una adeguata politica estera e diplomatica, si riduce alla semplice esposizione dei primati militari e tecnologici. Traguardi i quali, tuttavia, perdono ogni effetto “deterrente” a favore dell’efficacia complessiva di una visione strategica politica, militare e diplomatica delle quali l’attuale amministrazione Biden, come la stessa Unione Europea, sembrano esserne assolutamente deficitarie.

    (*) La Cina acquisisce una nuova centralità nella geopolitica mondiale proprio in ragione degli errori statunitensi.

  • Il Credit Suisse e i derivati

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi apparso su ItaliaOggi il 22 marzo 2023

    Il credito di salvataggio di ben 54 miliardi di dollari da parte della Banca centrale svizzera non è bastato a stabilizzare il Credit Suisse. Anche la fusione con la più grande banca elvetica, l’Ubs, non sembra calmare le acque turbolente dei mercati finanziari internazionali. La ragione, di cui si tende a non parlare, è una e semplice: l’esposizione in derivati finanziari speculativi otc, quelli non regolamentati e tenuti fuori bilancio, del Credit Suisse e delle banche too big to fail. In particolare quelle americane.

    L’ultimo rapporto sui derivati dell’Office of the Comptroller of the Currency, l’agenzia Usa di controllo bancario, ha rilevato che, al 30 settembre 2022, quattro banche statunitensi detenevano ben 195 mila miliardi di dollari di derivati finanziari, pari all’88,6% del valore nozionale di quelli presenti nel sistema bancario nazionale. JPMorgan Chase ne deteneva 54.300 miliardi di dollari, Goldman Sachs 50.970, Citibank 46.000 e Bank of America 21.600. Sebbene la legislazione Dodd-Frank promulgata dopo la grande crisi del 2008 richiedesse che i derivati passassero attraverso la compensazione centrale, il 58,3% di essi non lo fa, rimanendo nella totale opacità.

    Anche un recente studio della Banca dei regolamenti internazionali analizza le gravi complicazioni nella gestione dei derivati ed evidenzia che «le banche estere con sede al di fuori degli Stati Uniti hanno un debito in derivati otc di 39 mila miliardi. Più del doppio del loro debito registrato in bilancio e più di 10 volte il loro capitale». Un’esposizione ritenuta «sbalorditiva» e foriera di nuovi sconvolgimenti.

    Il Tesoro Usa sta esaminando l’esposizione delle banche statunitensi verso il Credit Suisse. Non si scopre adesso che il sistema bancario internazionale è strettamente interconnesso e che la crisi di un componente importante può diventare sistemica. Perciò, non regge la giustificazione secondo cui il problema sarebbe di origine estera, come le autorità americane hanno più volte sostenuto.

    Negli Usa il quadro normativo distingue le banche con sede sul territorio nazionale da quelle con sedi estere. Queste ultime non sono sottoposte agli stessi standard, come i requisiti patrimoniali e una liquidità più stringente. Conoscendo bene i rischi, l’hanno fatto per attirare negli Usa capitali, anche speculativi, per restare, a tutti i costi, il mercato dominante.

    La storia delle crisi del Credit Suisse è stata bellamente ignorata per anni e consapevolmente sottovalutata. D’altra parte, rivelava la malattia dell’intero sistema che non s’intendeva affrontare drasticamente e curare.

    Nel 2021 la banca aveva perso 5,5 miliardi di dollari a seguito di derivati pericolosi con l’hedge fund speculativo americano Archegos Capital Management, poi fallito. I segnali di allarme furono ignorati da tutti, non solo dal Credit Suisse. Quest’ultimo era già stato coinvolto, con forti perdite, anche nello scandalo e nel fallimento di Greensill Capital, la società di servizi finanziari britannica, che aveva lasciato un buco di 10 miliardi. In precedenza aveva pagato una multa di 5,3 miliardi di dollari alle autorità americane per aver ingannato gli investitori sul rischio dei titoli subprime legati alle ipoteche immobiliari.

    Credit Suisse, quindi, ha sempre operato sul mercato Usa. Da anni controlla la First Boston. Tra i suoi azionisti vi sono gli arabi, Arabia Saudita e Qatar, con il 20% e, poi, come sempre c’è l’onnipresente fondo americano BlackRock con circa il 5% delle azioni. Ben sapendo che si mettono in difficoltà le banche che hanno ingenti investimenti in titoli di Stato a lunga scadenza e a basso rendimento, l’aumento dei tassi d’interesse da parte delle banche centrali sembra essere una scelta obbligata. Nelle loro intenzioni mettere un freno all’inflazione resta la priorità, per evitare sconquassi economici e sociali. Per gli istituti finanziari in crisi metteranno a disposizione decine, centinaia di miliardi.

    È chiaro, però, che simili salvataggi pubblici non sono la soluzione. A ogni crisi il problema si ripresenta in dimensioni maggiori e peggiori. Perciò non ci si dovrebbe mai stancare di ripetere che una riforma globale della finanza è necessaria e ineludibile. Per riportare un po’ di sanità nel sistema finanziario, sarebbe opportuno ritornare alla separazione bancaria, alla legge Glass Steagall Act del presidente Franklin Delano Roosevelt, e battere la speculazione attraverso l’accantonamento dei derivati otc e il divieto della cosiddetta leva finanziaria.

    *già sottosegretario all’Economia **economista

  • Fallimento Silicon Valley Bank

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi apparso su ‘ItaliaOggi’ il 15 marzo 2023

    Quando il sistema finanziario è schiacciato dalle bolle causate dai debiti è da irresponsabili portare le banche sulle montagne russe. Ciò che ha fatto la Federal Reserve ieri e sta facendo oggi. Il risultato più evidente è il fallimento della Silicon Valley Bank (Svb) di Santa Clara in California. Tutti ci auguriamo che non diventi l’inizio di un nuovo collasso finanziario globale come nel 2008.

    Durante il periodo del tasso d’interesse zero e dei quantitative easing molte imprese, anche quelle zombie, come la Banca dei regolamenti internazionali di Basilea definisce quelle in condizione quasi fallimentari, hanno ottenuto notevoli volumi di nuovi crediti dalle banche, anche di medie dimensioni. Adesso hanno grandi difficoltà nel pagamento del servizio sul debito.

    A loro volta, le banche hanno convenientemente acquistato grandi quantità di titoli di Stato, in particolare Treasury bond della durata di 10 anni, che pur con un rendimento modesto, rappresentavano una garanzia di stabilità, senza rischi e un interessante profitto rispetto allo zero assoluto. Il repentino e continuo aumento dei tassi d’interesse da parte della Fed, combinato con gli annunci di nuovi rialzi dei tassi per lunghi periodi futuri, sta stravolgendo i meccanismi finanziari. Per esempio, le obbligazioni del Tesoro a scadenza 1 e 2 anni offrono adesso interessi maggiori di quelle della durata di 10 anni emesse in passato. Una cosa irragionevole e destabilizzante.

    Il problema è sistemico, poiché il settore bancario ha in pancia una montagna di asset a basso rendimento, e sta peggiorando con l’aumento del tasso d’interesse della Fed.

    La Svb è la banca in cui la maggior parte dei clienti sono società tecnologiche start up che depositano i prestiti ottenuti dal cosiddetto venture capital, cioè quei gruppi che finanziano i loro lavori in cambio di un ritorno futuro, quando i risultati e le nuove tecnologie saranno realizzati. I loro investimenti sono delle scommesse. L’aumento dei tassi d’interesse ha, tra l’altro, ridotto i flussi finanziari da parte del venture capital. Di conseguenza le start up hanno usato sempre più i loro depositi presso la Svb. Quest’ultima, già sotto pressione, ha aumentato notevolmente la vendita dei titoli in perdita. Caso emblematico è quello delle obbligazioni decennali che rendono meno di quelle annuali.

    Quando la Svb ha annunciato l’intenzione di mettere sul mercato 2,25 miliardi di dollari in nuove azioni per sostenere il proprio bilancio, la «bomba» è esplosa, provocando una corsa agli sportelli, sia in forma telematica sia fisica. Per evitare il panico, la Federal Deposit Insurance Corporation (Fdic), l’agenzia governativa indipendente che assicura i depositi bancari e sovrintende alle istituzioni finanziarie, è subito intervenuta garantendo i depositi fino a 250 mila dollari e altre misure di sostegno per le parti non assicurate.

    La Svb non è una too big to fail, troppo grossa per poter essere lasciata fallire, ma nemmeno una «banchetta». È la 16sima del sistema bancario americano. Ha un patrimonio pari a 212 miliardi di dollari. Si tratta del secondo più grande fallimento bancario nella storia degli Usa, dopo la bancarotta della Washington Mutual, con asset pari a 318 miliardi, avvenuto nel settembre 2008, all’inizio della grande crisi finanziaria.

    È da tener presente che questo default non avviene in un mare calmo ma nelle tempeste provocate anche dal collasso del mercato delle cripto valute. Infatti, un’altra banca, la Signature Bank di New York, che conta molti depositi in cripto valute, e un patrimonio di 110 miliardi di dollari, è fallita dopo aver subito un crollo nel valore delle sue azioni e delle sue obbligazioni. Si tratta della terza bancarotta bancaria più grande nella storia americana.

    All’inizio di marzo anche la Silvergate Capital Corp., una piccola banca di San Diego legatissima alle cripto valute e con un patrimonio di 14 miliardi di dollari, è fallita. Le decisioni della Fed stanno spingendo i mercati a muoversi nel breve e nel brevissimo periodo. Ciò rende il sistema instabile, imprevedibile e ad alto rischio. Le parole che circolano con timore sono «rischio di contagio» e «effetto domino». Infatti, la fibrillazione provocata dalle azioni Svb in caduta libera, è stata grande, tanto che altri titoli bancari sono stati sospesi per evitare una slavina.

    L’andamento dei tassi d’interesse sarà la spada di Damocle sui mercati e sul sistema finanziario e bancario internazionale. D’altra parte, non è un caso che i derivati finanziari over the counter siano concentrati per l’80% del loro valore nozionale totale (630 mila miliardi di dollari) sui tassi d’interesse. Per fortuna c’è Janet Yellen, segretario al Tesoro Usa, che ha espresso fiducia nella resilienza del settore bancario americano. La cosa, però, rassicura solo chi ci vuole credere.

    Nel frattempo la Fed ha iniziato un programma di crediti di emergenza alle banche in difficoltà, come la First Republic Bank, per evitare che vendano i Treasury bond in loro possesso e che abbiano dei fondi extra per far fronte a eventuali ritiri dei depositi da parte dei clienti.

    *già sottosegretario all’Economia **economista

  • Usa, debito pubblico eccessivo

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi apparso su ‘ItaliaOggi’ l’11 marzo 2023

    Il debito federale americano di 31.381 miliardi di dollari è il limite posto nel bilancio dello Stato per l’anno fiscale che va da ottobre 2022 a settembre 2023. Il tetto è stato già raggiunto il 19 gennaio scorso. Vi saranno problemi per coprire le spese dei prossimi mesi.

    Janet Yellen, segretario del Tesoro, in merito ha annunciato «manovre tecniche» per posporre il default, che «produrrebbe una catastrofe economica e finanziaria». Per evitare la sospensione delle attività e dei pagamenti da parte di vari organismi pubblici si dovrà per forza sfondare il tetto del debito. Non sarà facile, data la composizione del Congresso, con la Camera dei deputati a maggioranza repubblicana.

    In tre anni il debito federale succitato è aumentato di ben 8.500 miliardi! Dal 2009 è quasi triplicato! Il Congress Budget Office, l’agenzia bipartisan che analizza gli andamenti di bilancio, stima che il deficit sarà almeno di 400 miliardi superiore del previsto. Essa aveva anche calcolato interessi sul debito pari a 282 miliardi.

    Nel frattempo, però, l’inasprimento della politica monetaria della Federal Reserve e gli aumenti del tasso d’interesse fanno stimare che il servizio sul debito raggiungerebbe i 400 miliardi di dollari. Se il tasso di sconto della Fed dovesse essere del 5%, com’era nel 2007, gli interessi sul debito potrebbero salire a 1.000 miliardi! Un aumento da non escludere, visto che lo considerano possibile la Fed di San Francisco e anche JP Morgan, la più grande banca americana.

    Alla fine, pensiamo che, come in passato, si troverà un compromesso tra maggioranza e opposizione. Ne va dell’affidabilità internazionale degli Stati Uniti. L’alternativa è dichiarare bancarotta. D’altra parte è difficile immaginare che i ministeri sospendano a lungo le attività, mettendo gli impiegati in cassa integrazione, o che in numerose città e Stati dell’Unione i vigili del fuoco o la polizia possano essere bloccati per mancanza di fondi.

    Si stanno considerando anche nuove e inedite iniziative. C’è chi propone di ripianare il deficit di bilancio coniando monete sonanti fino a un valore di mille miliardi di dollari. L’idea fu già discussa durante la presidenza di Obama. Sarebbe consentito dal 14° emendamento, Sez. 4, della Costituzione che sancisce: «Non potrà essere posta in questione la validità del debito pubblico degli Stati Uniti, autorizzato con legge».

    Chi propone tale soluzione sostiene che non sarebbe inflattiva. Portano l’esempio del presidente Abramo Lincoln che, nel mezzo della guerra civile, fece una simile iniziativa. Allora, dicono, i nuovi soldi andarono a finanziare un periodo di espansione economica senza precedenti, soprattutto nella siderurgia, nelle infrastrutture ferroviarie e nella meccanizzazione dell’agricoltura, con una notevole crescita della produttività. Oggi, invece, ci sembra che ogni nuova liquidità scompaia nel “buco nero” della finanza speculativa.

    C’è anche chi vorrebbe trasferire dalla Fed al Tesoro i titoli federali, circa 6.000 miliardi di dollari, a suo tempo acquistati attraverso i «quantitative easing». Il Tesoro potrebbe, quindi, annullare questa parte del debito. Sarebbe una possibilità legale che richiederebbe ovviamente il consenso del Congresso e della Fed, ma lascerebbe la banca centrale con una voragine nei conti. Oggi, infatti, essa giustifica i passivi di bilancio inserendo detti titoli negli attivi.

    Altra idea è di coniare “monete di platino” per un grande valore, sulla base dell’Articolo 1, Sez. 8, della Costituzione che afferma: «Il Congresso ha il potere… di coniare moneta e regolarne il valore».

    In passato il Congresso ha cercato di limitare questa generale possibilità ma ha lasciato un’eccezione, la moneta di platino, che una disposizione speciale permette di essere coniata in qualsiasi importo per scopi commemorativi. Le monete di platino furono proposte al Congresso già nel 2013 ma senza successo. Tali soluzioni straordinarie appaiono molto fantasiose. Alla fine, la decisione sarà quella molto più semplice di aumentare il debito pubblico. Cosa che, però, ingigantisce la bolla e i rischi connessi.

    Per noi europei è opportuno riflettere sul fatto che negli Usa si discuta su come affrontare le emergenze finanziarie e il problema del debito pubblico. Se si pensa bene, anche i quantitative easing sono stati degli interventi straordinari per evitare il crollo del sistema bancario e finanziario. Hanno, però, stravolto i meccanismi monetari centrali. Tutto “legalmente”!

    *già sottosegretario all’Economia **economista

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