La maggior parte dei cittadini europei si è accorta che gli attuali governi dell’Unione sono composti in gran parte da personaggi di bassissima statura culturale e politica e non reggono il confronto con chi guidava gli stessi Paesi 30 o 40 anni fa. Se poi guardiamo alla Commissione Europea, a partire dalla Presidente Ursula Von der Leyen e dagli pseudo ministri degli esteri precedenti o di recente nomina, il quadro sembra perfino peggiore. Purtroppo, a dare poche speranze per il futuro c’è anche il fatto che, se mai fosse possibile, negli Stati Uniti la situazione non è certo incoraggiante. Tra meno di un mese, i cittadini americani che hanno optato di partecipare alle elezioni voteranno per il futuro presidente dovendo scegliere tra Kamala Harris e Donald Trump. La prima fu sempre stata giudicata dalla stampa occidentale come del tutto inadeguata perfino per il ruolo di Vice Presidente, salvo diventare, secondo gli stessi media, una summa di bravura, di fascino e di intelligenza nel momento in cui si è trovata quasi incidentalmente a diventare la candidata Presidente per conto del Partito Democratico. Come in pochi giorni abbia subito questa trasformazione è e resterà sconosciuto.
Di Donald Trump, al contrario, si parlava male già durante la sua Presidenza e ora che è nuovamente candidato i giudizi negativi sono ulteriormente aumentati. Le descrizioni che lo accompagnano non lasciano spazio ad alcunché di positivo e, oltre a dipingerlo come il futuro distruttore del sistema democratico, lo si presenta come un corpo estraneo a tutta la storia americana. In altre parole sarebbe un alieno ignorante che vive di populismo gradito soltanto a fanatici e a ignoranti come lui. Oggettivamente, risulta difficile immaginarlo quale un virtuoso della cultura ma presentarlo come un incidente storico nella società americana è una faziosa e falsa interpretazione.
A differenza di ciò che si vuol far credere, quello che viene chiamato il suo progetto “isolazionista” è una costante che ha abbracciato la politica degli Stati Uniti dal 1789 almeno fino alla prima metà del ‘900. Lo stesso Presidente Washington nel 1796 aveva chiesto che il Paese sviluppasse “il minore legame politico possibile” con le potenze straniere aggiungendo: “è nostra politica l’evitare alleanze permanenti con qualsiasi parte del mondo”. Come si sa, tale approccio non ha impedito ai vari governi di sviluppare ben presto una propria politica imperiale. A nord verso il Canada, a sud con la guerra che portò all’occupazione del Texas e perfino nell’Oceano Pacifico con l’occupazione di varie isole (tra cui le Hawaii) fino alle Filippine, sottratte alla Spagna. *
Differentemente da ciò che Washington disse, e pur non avendo sottoscritto alcun accordo specifico, gli Stati Uniti parteciparono invece alla Prima Guerra Mondiale al fianco della Triplice Alleanza. Il motivo, va sottolineato, rappresenta da sempre la costante della politica estera americana: impedire che in qualunque parte del mondo potessero crearsi le condizioni per cui una singola potenza potesse diventarvi egemone. Sia nella prima che nella seconda guerra mondiale il pericolo fu identificato nel crescere della potenza tedesca. In quei casi, la filosofia “isolazionista” fu abbandonata ma si trattava pur sempre di un altro concetto ancora oggi caro a Trump: “America first”, seppur con sue particolari e moderne modalità. Sempre “America first” ha guidato le politiche americane in Medio Oriente, in Asia e in Sud America e anche lì con l’obiettivo di impedire il crescere di una qualunque potenza che da sola egemonizzasse l’area. Il problema, e cioè la vera differenza di allora con le politiche trumpiane, è che gli scopi attuali di Washington all’estero non sono più in equilibrio con i suoi mezzi interni disponibili. La deindustrializzazione, l’indebolimento numerico della classe media, la iper-globalizzazione delle economie, le pressioni migratorie al confine sud e l’enorme deficit pubblico spingono milioni di statunitensi a seguire quel Trump che propone di liberarsi dai fardelli esteri per concentrare le risorse sul fronte interno.
Molti di coloro che votano democratico sono ancora convinti che il loro Paese debba continuare ad essere un faro di luce nel mondo in quanto esempio virtuoso del sistema democratico e liberale. Tuttavia, una lettura realistica della realtà mondiale lascerebbe capire anche a costoro due cose: la prima che altre culture non condividono necessariamente la filosofia politica nata e cresciuta nell’Occidente geografico, la seconda che, di là dalla retorica propagandistica, troppo spesso gli interventi militari americani nel mondo sono avvenuti a favore di regimi illiberali che rappresentavano il contrario dei valori proclamati a gran voce. Meno ipocrita (o più ingenuo) Trump dichiara in termini molto netti di essere “scettico nei confronti di unioni internazionali che……fanno crollare l’America…“ e: ”non sottoscriveremo mai alcun accordo che riduca la nostra capacità di controllare i nostri affari”.
Anche in economia Trump non presenta progetti particolarmente nuovi, così come non è nuova l’idea di ridare slancio al protezionismo attraverso più alte tariffe doganali. Prima di lui, sebben con minore enfasi declamatoria, anche i presidenti Democratici hanno varato barriere tariffarie riguardanti vari settori industriali e il settore siderurgico europeo ne sa qualcosa. Comunque, già nel 1930 quando la crisi economica del ’29 stava esplodendo, fu fatta una legge fortemente protezionista la Smooth Hawley Tariff Act che colpì la maggior parte dei beni di importazione. Durante la sua presidenza, pur se oggettivamente i risultati attesi sono stati infinitamente minori del previsto, Trump ha rinegoziato l’Accordo di Libero Scambio Nord Americano, ha bocciato il progetto di Partenariato Transpacifico e il Partenariato Transatlantico e ha introdotto tariffe doganali elevatissime per tutti i prodotti in arrivo dalla Cina. Anche su quest’ultimo aspetto va notato che, nonostante i Democratici continuino a proclamare come un valore il liberismo economico, Biden Presidente ha confermato i dazi introdotti da Trump contro la Cina e ne ha persino aggiunti altri. Ciò con cui qualunque futuro Presidente dovrà far i conti è una maggiore diffusione della povertà dei ceti medi e bassi con il relativo aumento della disparità del benessere a favore delle classi alte. Per entrambi, il problema riguarderà il disavanzo commerciale crescente e un fortissimo incremento del debito pubblico giunto a livelli enormi.
Un altro dei punti di forza della narrativa trumpiana è la lotta contro gli immigrati illegali ma anche questa volta ci sono precedenti storici cui ci si può rifare. Nonostante sia evidente a tutti che gli Stati Uniti attuali siano il frutto di importanti e costanti flussi migratori il sentimento anti immigrati da parte della popolazione WASP (white anglo-saxon protestant) è da sempre presente. Quando gli Stati Uniti annessero più della metà del Messico nella guerra del 1846-48 espulsero dai terreni conquistati la maggior parte dei messicani. Nel 1924 il Congresso approvò una legge che riduceva del 90% il numero di ebrei e cattolici ammessi ufficialmente del Paese e vietò totalmente l’immigrazione asiatica. Quanto all’idea di Trump di deportare i clandestini attualmente presenti nel Paese, si tratta semplicemente della copia di un provvedimento adottato già negli anni ’30 che rimandò verso il Messico un milione di immigrati clandestini. Che il livore anti-immigrati sia molto diffuso nella popolazione americana è dimostrato dal fatto che anche il Democratico Biden ha cercato di assecondare tale sentimento varando un ordine esecutivo che prevede la chiusura temporanea del confine meridionale e ha cercato di far passare una legge che bloccasse la maggior parte dei nuovi arrivi attraverso il Messico. Tale legge non è passata perché i parlamentari repubblicani non hanno voluto concedergli un guadagno di immagine presso l’elettorato.
Come conclusione, continuare a credere ciò che i media mainstream vogliono propinarci e cioè che il fenomeno Trump sia totalmente estraneo alla tradizione politica americana è chiaramente un falso storico. Detto ciò, l’avere Harris o Trump come Presidente a Washington per noi europei qualcosa cambierebbe ma, di là dalla forma che il loro agire assumerà, una loro comune costanza sarà (comprensibilmente) di tutelare gli interessi del loro Paese e di considerarci una loro naturale “zona di influenza”.
* Incidentalmente, non è male ricordare a chi, giustamente, accusa l’Italia di aver tradito la Triplice Intesa nella prima guerra mondiale nonostante gli accordi sottoscritti, che nulla è mai inventato. Quando, nel 1793, la Francia rivoluzionaria (che aveva aiutato i ribelli americani contro l’Inghilterra) chiese l’aiuto degli Stati Uniti in base a un accordo sottoscritto nel 1778, il governo di George Washington disdisse unilateralmente l’impegno assunto dichiarandolo contrario all’interesse nazionale del momento.