L’11 marzo gli abitanti della Groenlandia sono stati chiamati alle urne per eleggere il governo locale, in quello che potrebbe essere un voto cruciale per il futuro dell’isola, la più grande al mondo. Negli ultimi tempi, la Groenlandia si è infatti trovata oggetto di attenzioni inusuali per un territorio così isolato e marginale nella politica internazionale. L’isola, che gode di una semi-autonomia dalla Danimarca, è stata infatti definita dal presidente statunitense Donald Trump come “indispensabile per la sicurezza nazionale e internazionale”, in virtù della sua posizione strategica, tra l’Oceano Atlantico e il Circolo polare artico, e per via delle ingenti ricchezze del suo sottosuolo. Per queste ragioni, il titolare della Casa Bianca ha promesso di fare il possibile affinché la Groenlandia passi sotto il controllo statunitense, nonostante ciò voglia dire scontrarsi con una nazione alleata all’interno della Nato, la Danimarca. I toni usati da Trump negli ultimi mesi non sembrano tenere in particolare conto nemmeno la volontà della popolazione locale dell’isola, che da decenni vive un complesso dilemma tra la volontà di una maggiore autonomia politica da Copenaghen, se non una totale indipendenza, e la realtà di non avere strumenti economici alla portata per assicurare la sostenibilità di tale progetto.
I groenlandesi sono infatti dipendenti dal sostegno finanziario che il governo danese fornisce loro ogni anno (oltre 500 milioni di euro), necessario a coprire i limiti di un’economia basata prevalentemente sulla pesca e sul turismo. La grande ricchezza della Groenlandia, costituita dalle risorse naturali e minerarie, rappresenta un capitolo a parte: il timore di vedere il proprio territorio profondamente alterato dall’attività estrattiva ha fatto prevalere tra gli elettori un sentimento di diffidenza verso quelle iniziative economiche che potrebbero senz’altro assicurare grandi rendite e quindi favorire il processo di indipendenza. Tale approccio “conservatore”, motivato da considerazioni ecologiste e politiche, ha consegnato la vittoria al partito Inuit Ataqatigiit nelle ultime elezioni locali nel 2021. All’epoca lo sfruttamento minerario era stato al centro del dibattito tra le varie formazioni groenlandesi, in particolare per quanto concerneva il giacimento di terre rare di Kvanefjeld. A distanza di quattro anni, la posta in ballo non è più limitata alle scelte economiche ma coinvolge anche il futuro della Groenlandia e la sovranità del territorio, a fronte delle ambizioni rivendicate da Trump. Allo stato attuale l’isola gode di una grande autonomia dalla Danimarca, eccetto per gli affari esteri, la difesa e la politica monetaria, che spettano a Copenaghen – nel cui Parlamento sono comunque assicurati dei seggi ai rappresentanti groenlandesi. Sebbene i sondaggi confermino la predominanza del sentimento indipendentista tra i cittadini, non c’è uniformità di giudizio sulle tempistiche dell’effettivo distacco dalla Danimarca e il potenziale impatto di tale decisione sulle finanze pubbliche e sugli standard di vita.
Le proposte dei principali partiti groenlandesi rispecchiano questa dinamica. Il già citato Inuit Ataqatigiit, formazione socialista e ambientalista attualmente al governo con il suo leader Mute Bourup Egede, si dice formalmente indipendentista ma non ha presentato piani concreti per questo obiettivo, sottolineando le difficili condizioni economiche in cui la Groenlandia potrebbe trovarsi una volta ottenuta una piena sovranità. Linea similare è quella del partner di maggioranza, il partito di impostazione socialdemocratica Siumut, che sostiene una secessione graduale dalla Danimarca e che in passato ha lanciato l’idea di un referendum da tenersi a breve termine, salvo poi ritirare tale iniziativa. Naleraq, la principale forza di opposizione, ritiene invece che una rapida transizione verso l’indipendenza sia possibile e che gli abitanti della Groenlandia ne trarrebbero beneficio economicamente grazie a un rilancio dell’industria della pesca e in generale delle esportazioni. Un tema su cui Naleraq ha insistito in campagna elettorale è anche quello relativo a un accordo di difesa con gli Stati Uniti, che già operano alcune basi sull’isola. Contrari all’indipendenza sono invece gli esponenti di Atassut, partito conservatore che promuove invece il proseguimento del rapporto con la corona danese nel contesto del Commonwealth con Copenaghen.
I desideri di Trump non sembrano dunque sposarsi con quelli delle formazioni politiche groenlandesi, in particolare per quel che riguarda il controllo dei giacimenti minerari e in generale delle risorse naturali del territorio artico. Recenti sondaggi condotti in Groenlandia per testate locali e danesi hanno evidenziato come solo il 6% dei cittadini sia favorevole a un passaggio sotto la sovranità Usa, a fronte dell’85% di contrari a qualsiasi prospettiva del genere. Gli elettori chiamati domani a rinnovare i 31 seggi dell’Inatsisartut, il Parlamento di Nuuk, dovranno dunque decidere in che direzione condurre la Groenlandia, in un complicato equilibrio tra istanze di indipendenza e un gioco politico di dimensioni transatlantiche.