Usa

  • Harris e Trump

    La maggior parte dei cittadini europei si è accorta che gli attuali governi dell’Unione sono composti in gran parte da personaggi di bassissima statura culturale e politica e non reggono il confronto con chi guidava gli stessi Paesi 30 o 40 anni fa. Se poi guardiamo alla Commissione Europea, a partire dalla Presidente Ursula Von der Leyen e dagli pseudo ministri degli esteri precedenti o di recente nomina, il quadro sembra perfino peggiore. Purtroppo, a dare poche speranze per il futuro c’è anche il fatto che, se mai fosse possibile, negli Stati Uniti la situazione non è certo incoraggiante. Tra meno di un mese, i cittadini americani che hanno optato di partecipare alle elezioni voteranno per il futuro presidente dovendo scegliere tra Kamala Harris e Donald Trump. La prima fu sempre stata giudicata dalla stampa occidentale come del tutto inadeguata perfino per il ruolo di Vice Presidente, salvo diventare, secondo gli stessi media, una summa di bravura, di fascino e di intelligenza nel momento in cui si è trovata quasi incidentalmente a diventare la candidata Presidente per conto del Partito Democratico. Come in pochi giorni abbia subito questa trasformazione è e resterà sconosciuto.

    Di Donald Trump, al contrario, si parlava male già durante la sua Presidenza e ora che è nuovamente candidato i giudizi negativi sono ulteriormente aumentati. Le descrizioni che lo accompagnano non lasciano spazio ad alcunché di positivo e, oltre a dipingerlo come il futuro distruttore del sistema democratico, lo si presenta come un corpo estraneo a tutta la storia americana. In altre parole sarebbe un alieno ignorante che vive di populismo gradito soltanto a fanatici e a ignoranti come lui. Oggettivamente, risulta difficile immaginarlo quale un virtuoso della cultura ma presentarlo come un incidente storico nella società americana è una faziosa e falsa interpretazione.

    A differenza di ciò che si vuol far credere, quello che viene chiamato il suo progetto “isolazionista” è una costante che ha abbracciato la politica degli Stati Uniti dal 1789 almeno fino alla prima metà del ‘900. Lo stesso Presidente Washington nel 1796 aveva chiesto che il Paese sviluppasse “il minore legame politico possibile” con le potenze straniere aggiungendo: “è nostra politica l’evitare alleanze permanenti con qualsiasi parte del mondo”. Come si sa, tale approccio non ha impedito ai vari governi di sviluppare ben presto una propria politica imperiale. A nord verso il Canada, a sud con la guerra che portò all’occupazione del Texas e perfino nell’Oceano Pacifico con l’occupazione di varie isole (tra cui le Hawaii) fino alle Filippine, sottratte alla Spagna. *

    Differentemente da ciò che Washington disse, e pur non avendo sottoscritto alcun accordo specifico, gli Stati Uniti parteciparono invece alla Prima Guerra Mondiale al fianco della Triplice Alleanza. Il motivo, va sottolineato, rappresenta da sempre la costante della politica estera americana: impedire che in qualunque parte del mondo potessero crearsi le condizioni per cui una singola potenza potesse diventarvi egemone. Sia nella prima che nella seconda guerra mondiale il pericolo fu identificato nel crescere della potenza tedesca. In quei casi, la filosofia “isolazionista” fu abbandonata ma si trattava pur sempre di un altro concetto ancora oggi caro a Trump: “America first”, seppur con sue particolari e moderne modalità. Sempre “America first” ha guidato le politiche americane in Medio Oriente, in Asia e in Sud America e anche lì con l’obiettivo di impedire il crescere di una qualunque potenza che da sola egemonizzasse l’area. Il problema, e cioè la vera differenza di allora con le politiche trumpiane, è che gli scopi attuali di Washington all’estero non sono più in equilibrio con i suoi mezzi interni disponibili. La deindustrializzazione, l’indebolimento numerico della classe media, la iper-globalizzazione delle economie, le pressioni migratorie al confine sud e l’enorme deficit pubblico spingono milioni di statunitensi a seguire quel Trump che propone di liberarsi dai fardelli esteri per concentrare le risorse sul fronte interno.

    Molti di coloro che votano democratico sono ancora convinti che il loro Paese debba continuare ad essere un faro di luce nel mondo in quanto esempio virtuoso del sistema democratico e liberale. Tuttavia, una lettura realistica della realtà mondiale lascerebbe capire anche a costoro due cose: la prima che altre culture non condividono necessariamente la filosofia politica nata e cresciuta nell’Occidente geografico, la seconda che, di là dalla retorica propagandistica, troppo spesso gli interventi militari americani nel mondo sono avvenuti a favore di regimi illiberali che rappresentavano il contrario dei valori proclamati a gran voce. Meno ipocrita (o più ingenuo) Trump dichiara in termini molto netti di essere “scettico nei confronti di unioni internazionali che……fanno crollare l’America…“ e: ”non sottoscriveremo mai alcun accordo che riduca la nostra capacità di controllare i nostri affari”.

    Anche in economia Trump non presenta progetti particolarmente nuovi, così come non è nuova l’idea di ridare slancio al protezionismo attraverso più alte tariffe doganali. Prima di lui, sebben con minore enfasi declamatoria, anche i presidenti Democratici hanno varato barriere tariffarie riguardanti vari settori industriali e il settore siderurgico europeo ne sa qualcosa. Comunque, già nel 1930 quando la crisi economica del ’29 stava esplodendo, fu fatta una legge fortemente protezionista la Smooth Hawley Tariff Act che colpì la maggior parte dei beni di importazione. Durante la sua presidenza, pur se oggettivamente i risultati attesi sono stati infinitamente minori del previsto, Trump ha rinegoziato l’Accordo di Libero Scambio Nord Americano, ha bocciato il progetto di Partenariato Transpacifico e il Partenariato Transatlantico e ha introdotto tariffe doganali elevatissime per tutti i prodotti in arrivo dalla Cina. Anche su quest’ultimo aspetto va notato che, nonostante i Democratici continuino a proclamare come un valore il liberismo economico, Biden Presidente ha confermato i dazi introdotti da Trump contro la Cina e ne ha persino aggiunti altri. Ciò con cui qualunque futuro Presidente dovrà far i conti è una maggiore diffusione della povertà dei ceti medi e bassi con il relativo aumento della disparità del benessere a favore delle classi alte. Per entrambi, il problema riguarderà il disavanzo commerciale crescente e un fortissimo incremento del debito pubblico giunto a livelli enormi.

    Un altro dei punti di forza della narrativa trumpiana è la lotta contro gli immigrati illegali ma anche questa volta ci sono precedenti storici cui ci si può rifare. Nonostante sia evidente a tutti che gli Stati Uniti attuali siano il frutto di importanti e costanti flussi migratori il sentimento anti immigrati da parte della popolazione WASP (white anglo-saxon protestant) è da sempre presente. Quando gli Stati Uniti annessero più della metà del Messico nella guerra del 1846-48 espulsero dai terreni conquistati la maggior parte dei messicani. Nel 1924 il Congresso approvò una legge che riduceva del 90% il numero di ebrei e cattolici ammessi ufficialmente del Paese e vietò totalmente l’immigrazione asiatica. Quanto all’idea di Trump di deportare i clandestini attualmente presenti nel Paese, si tratta semplicemente della copia di un provvedimento adottato già negli anni ’30 che rimandò verso il Messico un milione di immigrati clandestini. Che il livore anti-immigrati sia molto diffuso nella popolazione americana è dimostrato dal fatto che anche il Democratico Biden ha cercato di assecondare tale sentimento varando un ordine esecutivo che prevede la chiusura temporanea del confine meridionale e ha cercato di far passare una legge che bloccasse la maggior parte dei nuovi arrivi attraverso il Messico. Tale legge non è passata perché i parlamentari repubblicani non hanno voluto concedergli un guadagno di immagine presso l’elettorato.

    Come conclusione, continuare a credere ciò che i media mainstream vogliono propinarci e cioè che il fenomeno Trump sia totalmente estraneo alla tradizione politica americana è chiaramente un falso storico. Detto ciò, l’avere Harris o Trump come Presidente a Washington per noi europei qualcosa cambierebbe ma, di là dalla forma che il loro agire assumerà, una loro comune costanza sarà (comprensibilmente) di tutelare gli interessi del loro Paese e di considerarci una loro naturale “zona di influenza”.

    * Incidentalmente, non è male ricordare a chi, giustamente, accusa l’Italia di aver tradito la Triplice Intesa nella prima guerra mondiale nonostante gli accordi sottoscritti, che nulla è mai inventato. Quando, nel 1793, la Francia rivoluzionaria (che aveva aiutato i ribelli americani contro l’Inghilterra) chiese l’aiuto degli Stati Uniti in base a un accordo sottoscritto nel 1778, il governo di George Washington disdisse unilateralmente l’impegno assunto dichiarandolo contrario all’interesse nazionale del momento.

  • Quadro UE-USA per la protezione dei dati personali: le autorità statunitensi ne hanno messo in atto gli elementi costitutivi

    La Commissione ha pubblicato una relazione a seguito del primo riesame della decisione di adeguatezza relativa al quadro UE-USA per la protezione dei dati personali (DPF) trasferiti dall’Unione europea a organizzazioni negli Stati Uniti.

    Sulla base delle informazioni raccolte durante il riesame, la Commissione conclude che le autorità statunitensi hanno messo in atto tutti gli elementi costitutivi del quadro. Ciò comprende l’attuazione di garanzie per limitare l’accesso ai dati personali da parte delle autorità di intelligence statunitensi a quanto necessario e proporzionato per proteggere la sicurezza nazionale, e l’istituzione di un meccanismo di ricorso indipendente e imparziale. La relazione contiene inoltre una serie di raccomandazioni volte a garantire che il quadro continui a funzionare efficacemente, compresa l’elaborazione di orientamenti comuni, da parte delle autorità statunitensi e dell’UE, sugli obblighi fondamentali collegati a tale regime. La Commissione continuerà a monitorare gli sviluppi e riferirà periodicamente sul funzionamento del quadro.

    Il riesame si basa sui contributi di un’ampia gamma di attori, tra cui organizzazioni della società civile, associazioni di categoria, autorità dell’UE per la protezione dei dati e autorità statunitensi coinvolte nell’attuazione del quadro, nonché sui riscontri forniti dal grande pubblico mediante il portale “Di’ la tua”.

  • La Cambogia apre la sua base di Ream alla US Navy

    Il vicepremier della Cambogia, Sun Chanthol, ha dichiarato che la Marina degli Stati Uniti è benvenuta presso la base navale di Ream, che la Cambogia ha ammodernato e ampliato con il sostegno della Cina e che il Pentagono teme possa diventare un avamposto di Pechino nel Golfo della Thailandia. “La base navale di Ream non è per i cinesi, i cinesi ci hanno fornito l’assistenza per espandere la base navale di Ream per le nostre esigenze difensive, e non perché venga utilizzata dalla Cina o da una qualsiasi altra forza armate contro un altro Paese”, ha dichiarato Sun durante un evento organizzato a Washington dal Center for Strategic and International Studies.

    Stando a un reportage pubblicato lo scorso luglio dal quotidiano statunitense “Wall Street Journal”, la base navale di Ream, in Cambogia, è ormai “divisa in due”: un settore è controllato dalla Marina locale, l’altro da quella cinese. Il reportage confermerebbe tutti i timori dell’amministrazione del presidente Joe Biden in merito alle attività militari di Pechino nel Paese del sud-est asiatico. Era stato lo stesso “Wall Street Journal”, nel 2019, a rivelare l’esistenza di un accordo segreto tra i governi di Pechino e Phnom Penh per lo stazionamento di navi militari cinesi in Cambogia. Nella base di Ream si trovano dallo scorso dicembre due corvette della Marina cinese, inizialmente approdate in Cambogia per quelle che il governo locale aveva definito “attività di formazione”. “La loro presenza lì, a sei mesi di distanza, prova come le forze armate cinesi abbiano trovato una sistemazione permanente in un’area marittima che potrebbe svolgere un ruolo chiave in un eventuale conflitto per Taiwan o per il Mar Cinese Meridionale”, scrive il “Wsj”.

    La base navale di Ream è collegata alla capitale cambogiana da un’autostrada finanziata con 2 miliardi di dollari dalla stessa Cina e inaugurata nel 2022. Ora, riferisce il “Wall Street Journal”, è “puntellata di gru da costruzione” e la vista dal cancello meridionale mostra “grandi cantieri in corso”. Ai lavori, secondo un residente locale citato dal quotidiano, starebbero partecipando anche operai cinesi. La stessa fonte afferma che la base di Ream è ormai “divisa” in due, con un’area riservata alla Marina cinese e una a quella cambogiana. “La Marina cinese non vuole che operai e marinai cambogiani si avvicinino al loro settore”, aggiunge il residente. A confermare inoltre la presenza delle due corvette cinesi a Ream sono le immagini satellitari fornite dalla società Maxar Technologies, che mostrano come le due navi abbiano anche lasciato la base per brevi periodi di tempo a gennaio e a marzo, salvo poi rientrarvi.

    Il ministero degli Esteri di Pechino, da parte sua, ha confermato la scorsa estate la presenza delle due corvette in Cambogia, attribuendola però al “sostegno cinese al progetto di ricostruzione della Base navale di Ream, che porterà a rafforzare la capacità della Cambogia di proteggere la propria sovranità e indipendenza nazionale”. A Phnom Penh si è recato in visita all’inizio di giugno il segretario alla Difesa Usa, Lloyd Austin, che ha parlato con il governo cambogiano delle prospettive di rilancio di qualche forma di cooperazione militare tra i due Paesi. Non è chiaro, tuttavia, se il capo del Pentagono abbia sollevato la questione della presenza militare cinese a Ream. Preoccupazione in merito era già stata espressa dal presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, in occasione di una precedente visita nel 2022.

     

  • Il silenzio arabo nella crisi mediorientale

    Credere che un anno fa, il 7 ottobre 2023, sia cominciata una delle più gravi crisi mediorientali rappresenta una visione legittima ma piuttosto limitata e probabilmente viziata da un approccio ideologico. L’inizio di questa crisi sfociata nell’attuale conflitto trae la propria origine strategica e politica con l’inizio della presidenza Biden, il quale annullò, appena insediatosi alla Casa Bianca, l’accordo siglato dalla precedente amministrazione Trump con l’Arabia Saudita (sunnita), che aveva una funzione anti Iran (sciita), con l’obiettivo di isolare quella teocrazia all’interno del mondo arabo e con lo stesso appoggio della Russia.

    Questa scellerata decisione di politica estera dell’amministrazione Biden, invece, ha determinato come effetto immediato quello di riportare la teocrazia iraniana all’interno dello scacchiere internazionale e soprattutto medio orientale, come hanno dimostrato i finanziamenti a vari gruppi terroristici come Hamas e gli Hezbollah,

    In altre parole, il riconoscimento statunitense di un ritrovato ruolo alla teocrazia sciita iraniana all’interno dello scacchiere politico ha rigenerato, come affetto collaterale, lo stesso ruolo dell’Opec che l’accordo tra Stati Uniti, Arabia Saudita e Russia, anche sul prezzo del barile di petrolio, aveva messo in disparte.

    Soprattutto nello scacchiere mediorientale, il tradimento diplomatico statunitense ha posto le basi politiche dell’attuale crisi, il cui esito finale risulta ancora in via di definizione, anche se già ora alcune aspettative politiche cominciano a delinearsi.

    Pur riconoscendo che il mondo arabo, infatti, da sempre risulti di difficile lettura ed interpretazione, tuttavia forse all’interno di questo scenario di guerra israelo-palestinese contemporaneo i ruoli appaiono un po’ più definiti. Prova ne sia che dal 7 ottobre 2023 ad oggi si sia registrato l’assoluto silenzio delle Nazioni arabe moderate e soprattutto dell’Arabia Saudita, un silenzio indice di un nuovo atteggiamento politico nei confronti di Israele.

    Questi paesi arabi intendono assistere in complice silenzio alle azioni sempre più profonde della strategia militare israeliana, da tempo non più limitate all’interno di Gaza ma anche del Libano e forse in previsione probabilmente anche dello stesso Iran.

    L’inconfessabile desiderio dell’Arabia Saudita, i cui vertici politici hanno confermato una volta di più l’assoluto disinteresse per la causa palestinese, quanto dei paesi arabi moderati, rimane quello di vedere implodere la democrazia iraniana, da sempre fornitrice di supporti finanziari ai diversi gruppi terroristici che mettono a rischio la stabilità di molti paesi del Medio Oriente.

    Il paradosso di questa crisi mediorientale è definibile dal clamore assicurato nell’occidente dalle frange più estremiste nelle democrazie occidentali nella più totale assenza di una posizione politica dell’Unione europea, al quale si contrappone il silenzio dei paesi arabi moderati e della stessa Arabia Saudita che vedono in Israele lo strumento attraverso il quale eliminare il più grande pericolo al mondo arabo rappresentato dall’Iran.

  • China probes Calvin Klein over Xinjiang cotton

    China has announced it is investigating the company that owns US fashion brands Tommy Hilfiger and Calvin Klein for suspected “discriminatory measures” against Xinjiang cotton companies.

    The move marks a new effort by Beijing to fight back against allegations from western officials and human rights activists that cotton and other goods in the region have been produced using forced labour from the Uyghur ethnic group.

    The US banned imports from the area in 2021, citing those concerns.

    China’s Ministry of Commerce accused the firm of “boycotting Xinjiang cotton and other products without any factual basis”.

    PVH, which owns the two brands and has a significant presence in China as well as the US, said it was in contact with Chinese authorities.

    It has 30 days to respond to officials, at which point it could be added to the country’s “unreliable entities” list, raising the prospect of further punishment.

    “As a matter of company policy, PVH maintains strict compliance with all relevant laws and regulations in all countries and regions in which we operate,” the company said. “We are in communication with the Chinese Ministry of Commerce and will respond in accordance with the relevant regulations.”

    On Wednesday, a Chinese Ministry of Commerce official denied that the probe was linked to US plans to ban certain Chinese electric vehicle technology.

    “China has always handled the issue of the unreliable entity list prudently, targeting only a very small number of foreign entities that undermine market rules and violate Chinese laws,” they said.

    “Honest and law-abiding foreign entities have nothing to worry about.”

    Cullen Hendrix, senior fellow at the Peterson Institute of International Economics, said it was not clear exactly what prompted the investigation into PVH now.

    But he said the announcement was likely to hurt the firm’s reputation among Chinese shoppers – and send a wider warning to global firms of the risks of simply bowing to western concerns.

    “China is, to a certain extent, flexing its muscle and reminding, not necessarily western governments, but western firms… that actions have consequences,” he said.

    “This same kind of naming-and-shaming tactic, that human rights organisations in the west have used, can be weaponised here.”

    The investigation of PVH comes as tensions between China and the west have been growing on a range of issues, including electric cars and manufacturing.

    On Monday, the US proposed rules to ban the use of certain technology in Chinese and Russian cars, citing security threats.

    China has previously put US firms on its unreliable entities list, which it created as trade tensions heated up between Beijing and Washington.

    Those firms were major defence contractors, such as Lockheed Martin and Raytheon, over their business in Taiwan.

    Mr Hendrix said the decision to target PVH – a consumer-facing firm with a clearly recognisable US brand – showed the two countries’ disputes were widening beyond areas such as defence and advanced technologies.

    “These things have a way of spilling over,” he said. “It’s affecting a growing number of supply chains across different sectors of the economy.”

    In its annual report, PVH warned investors of revenue and reputational risks stemming from the fight over Xinjiang.

    It noted that the issue had been “subject to significant scrutiny and contention in China, the United States and elsewhere, resulting in criticism against multinational companies, including us”.

    The company was named in a 2020 report by the Australian Strategic Policy Institute that identified dozens of firms that were allegedly benefiting from labour abuses in Xinjiang.

    At the time PVH said it took the reports seriously and would continue to work to address the matter.

    PVH employs more than 29,000 people globally and does more than 65% of its sales outside of the US.

  • Taiwan, Cina e USA

    Da più parti si sostiene che la scintilla che potrebbe dare inizio alla terza guerra mondiale originerà nell’estremo oriente e in particolare a Taiwan. È risaputo che questa isola, formalmente autodichiaratasi autonoma, è rivendicata dalla Repubblica Popolare Cinese come parte integrante del proprio territorio. Apparentemente, la quasi totalità degli Stati aderenti all’ONU condivide la posizione di Pechino e infatti tutti costoro dichiarano di sostenere l’idea che “la Cina è una sola”, cioè quella “Popolare”. La conseguenza è che, sempre formalmente, quasi nessuno Stato del mondo prevede l’esistenza di una Ambasciata propria a Taiwan né accetta di avere rapporti diplomatici ufficiali. Poi, come succede nella naturale ipocrisia della politica, molti, compresa l’Italia, vi tengono un “ufficio commerciale” e ospitano il corrispettivo taiwanese.

    Gli Stati Uniti raggiungono il massimo dell’ipocrisia quando alte cariche delle istituzioni politiche americane vi si recano senza informare Pechino e, da sempre, riforniscono quel Paese di armi di vario genere. Tutto ciò continuando a ribadire che la “Cina è una sola”: quella con capitale Pechino.

    Perché si ricorre a questo doppio standard così contraddittorio?

    È bene ricordare che la Taiwan attuale (già Formosa) nacque come Stato alla fine della guerra civile cinese che fu vinta dalle forze maoiste. La parte sconfitta, guidata dal gen. Chiang Kai-shek, vi si era rifugiata rivendicando di essere la vera Cina (e cioè la Repubblica di Cina, già esistente dal 1912 e membro dell’ONU) e sperando di potersi ricongiungere vittoriosamente, in un ipotetico futuro, con la madre patria continentale. Fino al 1991, la Repubblica di Cina ha continuato attivamente a sostenere di essere l’unico governo legittimo della Cina (e di rappresentarla tutta), e durante gli anni cinquanta e sessanta la sua richiesta venne accolta dagli Stati Uniti e da alcuni dei suoi alleati. Durante la Presidenza Nixon però le cose cambiarono perché gli Usa decisero di approfittare della rottura dei rapporti di Pechino con Mosca per stringere nuove relazioni con la Repubblica Popolare in funzione anti-sovietica. Dall’ottobre 1971 l’Assemblea dell’Onu, pure piena di nuovi Stati non tutti alleati con l’Occidente, ritirò così il riconoscimento di membro (e di titolare del Consiglio di Sicurezza) a Taiwan e lo concesse a Pechino. Subito, la maggior parte degli Stati mondiali ruppe le relazioni diplomatiche con Taipei e le allacciò a tutti gli effetti con Pechino. È da allora che la Cina Popolare viene riconosciuta da quasi tutti come la vera “unica Cina” e che Taiwan viene considerata un’entità “separata”, ma solo “temporaneamente”. In realtà, come vediamo tutti i giorni, la pratica è un’altra e, anche se non formalmente, tanti continuano a dialogare con Taipei come se fosse uno Stato a sé stante.

    Vediamo di cosa stiamo parlando: si tratta di un fazzoletto di terra molto vicino alle coste continentali cinesi, con un grande sviluppo economico ma con una popolazione di soli 24 milioni di abitanti (la Repubblica Popolare vanta un miliardo e trecento milioni di individui). Come mai una realtà così piccola potrebbe diventare la ragione di uno scontro bellico potenzialmente distruttivo per tutto il mondo? Perché gli USA continuano ad armarla mettendo già nel conto le reazioni fortemente negative di Pechino?

    Per comprenderlo occorre fare ricorso alla geopolitica. Gli Stati Uniti sono oramai da anni la potenza egemone nell’intero globo e, anche attraverso dei documenti ufficiali del governo, hanno ribadito di voler continuare ad esserlo nel futuro (A questo proposito, e non incidentalmente, dobbiamo ricordarci che noi italiani, come tutti gli europei, siamo stretti alleati degli USA e, seppur da una posizione molto minore, partecipiamo a questa egemonia e ne traiamo, in parte, i relativi vantaggi). Una delle caratteristiche di una posizione dominante è la sicurezza del controllo degli oceani e delle vie di comunicazione. La Cina è cresciuta incommensurabilmente dopo la morte di Mao Ze Dong e, con la sua economia e con i grandi investimenti effettuati nelle forze armate, sta insidiando di fatto l’egemonia americana. Come comprensibile, a Washington questo fatto non può piacere. È quindi giudicato necessario, da chi concorda con le posizioni americane, che in qualche modo la Cina di Pechino sia “contenuta”. Ecco quindi dove la geografia viene in aiuto.

    Per garantirsi anche nel futuro il controllo delle vie di comunicazione e “contenere” l’espansione cinese, gli USA hanno innanzitutto costruito un’alleanza con i Paesi che costituiscono la prima “catena” di isole che, all’occorrenza, potrebbero impedire alle navi cinesi di potersi affacciare sull’Oceano Pacifico. Si tratta a nord di Corea del Sud e del Giappone, al centro proprio di Taiwan e a sud delle Filippine, della Malesia/Borneo e del Vietnam. Tutti questi paesi hanno i loro motivi per diffidare di Pechino e i loro rapporti bilaterali con la Repubblica Popolare sono pieni di rivendicazioni contrastanti in merito a isolette di varie dimensioni oggetto di contenzioso. Inoltre, il Mar Cinese del Sud con le sue tante isole e i confini di sovranità marittima che ne derivano è ricco di petrolio, gas naturale e di fauna ittica, e oltre ad essere una importante via di navigazione può diventare sede di basi militari strategiche.

    Poiché essere prudenti è un bene ma esserlo doppiamente lo è ancora di più, gli Stati Uniti hanno deciso di confermare una seconda “catena” di isole in grado di bloccare ulteriormente transiti giudicati possibilmente “inopportuni” anche da e verso l’Oceano Indiano. Ad est e a sud della precedente “catena” si è quindi rinforzata un’altra alleanza che comprende Guam, Palau, tutta l’Indonesia a partire dalla Nuova Guinea e l’Australia.

    A questo punto diventa comprensibile anche il perché la Cina si senta circondata in modo ostile e cerchi di reagire in qualche modo a partire dal “recuperare” il potenziale nemico più vicino: Taiwan, appunto.

    Pechino è la capitale di uno Stato di più di un miliardo di persone e, considerato che gran parte del suo territorio è desertico, vuole garantirsi la possibilità di nutrire i propri cittadini anche attraverso le importazioni continuative di generi alimentari. Nello stesso tempo sta cercando di far sì che la sua economia continui a svilupparsi e per farlo necessita di rifornimenti energetici che arrivano in gran parte dal Medio Oriente, quindi attraverso l’Oceano Indiano. Esattamente la stessa via che è indispensabile per garantire che le esportazioni che hanno indispensabilmente contribuito alla sua crescita degli ultimi trent’anni possa continuare a rimanere percorribile, qualunque cosa succeda.

    Non è un caso che i cinesi si siano impadroniti (contro la sentenza del Tribunale Internazionale del Mare) di qualche scoglio appartenente alle Filippine aumentandone artificialmente la superficie e installandovi basi militari. Anche tutti gli altri contenziosi aperti con Giappone, Vietnam, Malesia e Brunei puntano allo stesso scopo.

    L’indipendenza di Taiwan non è dunque una questione di confronto tra diversi sistemi di governo né una pura questione di principio. Rientra in un gioco molto più ampio tra una potenza egemone e una che punta a non rimanervi soggetta. Il Mar Cinese Meridionale è oggi il teatro della competizione strategica sino-americana. Come sempre in questi casi nessuno ha tutte le ragioni, ma nemmeno tutti i torti: ognuno dei protagonisti persegue il proprio egoistico interesse e ritiene che sia suo dovere (o necessità) il farlo.

    Come può risolversi la questione? Potrebbe continuare in un apparente stallo per anni ma poi la soluzione starà solamente in uno dei due modi possibili: o si troverà un accordo che consentirà una coesistenza pacifica o si arriverà a uno scontro bellico dalle dimensioni imprevedibili. Purtroppo, anche se non ne sento parlare, una situazione simile si verificò negli anni ’30 del secolo scorso con un Giappone in forte espansione e gli USA che non gradivano cedere il loro controllo sull’Oceano. Allora si cominciò con le sanzioni americane e si arrivò nel dicembre del ’41 a Pearl Harbour.

  • Nuova guerra fredda: bombardieri cinesi e russi intercettati sull’Alaska

    Il Comando di difesa aerospaziale del Nord America (Norad) ha intercettato a fine luglio due bombardieri russi e due cinesi in volo al largo dell’Alaska. Lo ha riferito un funzionario del dipartimento della Difesa Usa citato dall’emittente televisiva “Cnn”, secondo cui è la prima volta che bombardieri dei due Paesi vengono intercettati mentre effettuano un pattugliamento congiunto al largo di quello Stato Usa. I quattro bombardieri si sono mantenuti nello spazio aereo internazionale all’interno della Zona di identificazione per la difesa aerea dell’Alaska, e “non sono stati ritenuti una minaccia”, secondo un comunicato diffuso dal Norad. I quattro velivoli – due bombardieri strategici russi a lungo raggio Tu-95 Bear e due bombardieri cinesi H-6 – sono stati intercettati da cacciabombardieri statunitensi F-16 ed F-35 e da cacciabombardieri canadesi Cf-18.

    Gli Stati Uniti intendono adottare un nuovo approccio alle sfide strategiche nell’Artide, basato su una più stretta collaborazione con alleati e Paesi partner e in risposta al crescente allineamento delle politiche regionali di Russia e Cina. Il dipartimento della Difesa Usa ha presentato questa settimana una nuova strategia regionale, che prevede l’istituzione di una “Tavola rotonda per le politiche di sicurezza nell’Artide”, tesa a definire linee guida in materia di difesa. La Tavola rotonda si affiancherà al Consiglio artico, il forum internazionale di alto livello che include tra i suoi membri anche la Russia, e che non si occupa di questioni legate alla difesa. Il dipartimento della Difesa Usa non aggiornava la propria strategia per l’Artide dal 2019, e la nuova versione del documento fa esplicito riferimento ai tentativi della Cina di aumentare la propria presenza e influenza nella regione.

    Il documento evidenzia anche la maggior frequenza delle esercitazioni militari congiunte intraprese da Russia e Cina nell’Artide, e sottolinea che navi da guerra dei due Paesi hanno operato in acque internazionali al largo dell’Alaska sia nel 2022 che nel 2023. “L’isolamento della Russia causato dalla sua invasione su larga scala dell’Ucraina l’ha resa sempre più dipendente (dalla Cina) per il finanziamento delle infrastrutture di esportazione energetica nell’Artide”, afferma il documento strategico, secondo cui “oltre l’80 per cento della produzione russa di gas naturale e il 20% di quella di petrolio viene dall’Artide, e la Russia si sta rivolgendo sempre più ai fondi (della Cina) per l’estrazione e l’acquisto di queste risorse”. La politica artica adottata dalla Cina nel 2018 afferma che il futuro della regione è questione che riguarda “il benessere” di tutti gli Stati mondiali, e che la governance dell’Artide richiede la partecipazione e il contributo ” di tutte le parti interessate”.

  • Dagli Usa aiuti militari per 500 milioni di dollari alle Filippine

    Gli Stati Uniti hanno deciso di destinare 500 milioni di dollari di aiuti militari alle Filippine per “rafforzare la cooperazione nel campo della sicurezza” con il loro “più antico alleato nella regione”. Lo ha annunciato il segretario di Stato Antony Blinken, durante il suo viaggio a Manila assieme al capo del Pentagono Lloyd Austin mentre restano forti le tensioni con la Cina nel Mar Cinese Meridionale. Blinken e Austin hanno partecipato al Dialogo ministeriale 2+2 a Camp Aguinaldo con gli omologhi, rispettivamente Enrique Manalo e Gilberto Teodoro, al termine del quale è stato annunciato un investimento che il capo della diplomazia di Washington ha definito “generazionale”, in grado di modernizzare forze armate e Guardia costiera di Manila.

    “Questo livello di finanziamento non ha precedenti e invia un chiaro messaggio di sostegno alle Filippine da parte dell’amministrazione Biden-Harris, del Congresso e del popolo americano”, ha detto da parte sua il segretario alla Difesa Austin. Stando a quanto reso noto dagli Stati Uniti, 125 milioni di dollari andranno alla costruzione e al miglioramento delle basi militari in cui Manila ha consentito lo stazionamento di truppe Usa sulla base dell’Accordo rafforzato per la cooperazione in materia di difesa. A Manila Blinken ha anche garantito che, qualsiasi cambiamento vi sarà a Washington dopo le elezioni presidenziali del prossimo 5 novembre, gli impegni degli Stati Uniti nei confronti delle Filippine non saranno modificati.

    “Abbiamo un Trattato di mutua difesa per il quale gli Stati Uniti si sono impegnati. Questo impegno durerà”, ha assicurato il segretario di Stato. Lo stesso messaggio è arrivato anche da Austin: “Potete scommettere sul fatto che questo sostegno continuerà”. Manalo, da parte sua, ha parlato di un’alleanza, quella con gli Usa, che ha “tenuto alla prova del tempo”. Blinken e Austin sono reduci da incontri ministeriali a Tokyo, inclusa una riunione dei capi della diplomazia del Quad, durante i quali hanno espresso la loro “seria preoccupazione riguardo alla situazione nel Mar Cinese Meridionale”, teatro di dispute territoriali tra la Cina e le Filippine che negli ultimi mesi sono culminate in diversi incidenti tra le imbarcazioni dei due Paesi, con l’impiego di cannoni ad acqua e veri e propri abbordaggi da parte della Guardia costiera di Pechino. “Continuiamo a esprimere la nostra viva preoccupazione per la militarizzazione (…) e per le manovre coercitive e intimidatorie nel mar Cinese meridionale”, hanno dichiarato il segretario di Stato Usa Antony Blinken e gli altri tre ministri degli Esteri del quartetto in un comunicato congiunto, con un riferimento implicito alla Cina.

    Le Filippine “continueranno a far valere i loro diritti” sulle aree del Mar Cinese Meridionale oggetto della disputa territoriale con la Cina, ha invece chiarito il ministero degli Esteri filippino, dopo l’annuncio il 21 luglio di un accordo con Pechino per evitare scontri durante le operazioni di rifornimento dell’avamposto militare di Manila presso la secca di Second Thomas. Il ministero ha anche smentito, contrariamente a quanto suggerito da Pechino, che “l’accordo provvisorio” annunciato ieri obblighi Manila a “notificare preventivamente” alla Cina gli invii di rifornimenti verso l’avamposto, che si trova sul relitto della nave Brp Sierra Madre. “I principi e gli approcci stabiliti nell’accordo sono stati raggiunti attraverso una serie di attente e meticolose consultazioni tra entrambe le parti che hanno aperto la strada a una convergenza di idee senza compromettere le posizioni nazionali”, ha dichiarato la portavoce del ministero degli Esteri filippino Teresita Daza. “Le dichiarazioni (del ministero degli Esteri cinese) in merito alle notifiche preventive e alle conferme sul posto non sono dunque accurate”.

    La Cina “è disposta a consentire” il rifornimento di beni di prima necessità da parte delle Filippine al personale della sua nave da guerra ancorata “illegalmente” nella secca dell’atollo Second Thomas (che Pechino chiama Ren’ai Jao, ndr), ma ribadisce la richiesta a Manila di rimuoverla. Con queste parole il portavoce del ministero degli Esteri cinese ha risposto alla richiesta di commento sull’accordo concluso fra Pechino e Manila sulla gestione delle attività nell’area dell’atollo Second Thomas, rivendicato da entrambi i Paesi. “La Cina ha recentemente avuto una serie di consultazioni con le Filippine sulla gestione della situazione a Ren’ai Jiao e ha raggiunto un accordo provvisorio con le Filippine sul rifornimento umanitario dei beni di prima necessità”, ha dichiarato il portavoce in un comunicato, precisando che “le parti hanno concordato di gestire congiuntamente le differenze marittime e di lavorare per la riduzione della tensione nel Mar Cinese Meridionale”.

    Nel comunicato, Pechino precisa che “Ren’ai Jiao fa parte del Nansha Qundao cinese e che la Cina ha la sovranità su Ren’ai Jiao e sul resto di Nansha Qundao, nonché sulle acque adiacenti”. “Mantenendo la propria nave da guerra a terra a Ren’ai Jiao per decenni consecutivi, le Filippine hanno violato la sovranità della Cina e la Dichiarazione sulla condotta delle parti nel Mar Cinese Meridionale in particolare l’articolo 5 che afferma che le parti dovrebbero astenersi dal azione di abitare sulle isole e sulle scogliere disabitate”. Come secondo punto, ha proseguito il portavoce, Pechino si dice disposta a consentire alle Filippine di assicurare la consegna di beni di prima necessità al suo personale che vive sulla nave da guerra, precisando che la richiesta dovrà essere debitamente comunicata e che le autorità cinesi monitoreranno l’intero processo di rifornimento. Tuttavia, precisa ancora il portavoce, “se le Filippine dovessero inviare grandi quantità di materiali da costruzione alla nave da guerra e tentare di costruire strutture fisse o avamposti permanenti, la Cina non lo accetterebbe assolutamente” e ne impedirebbe l’attuazione.

  • Gorbaciov e Trump

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo dell’On. Dario Rivolta 

    Nella seconda metà degli anni ‘80 ebbi occasione di trovarmi frequentemente in Unione Sovietica per motivi di lavoro. Avendo a che fare con il settore delle televisioni, i miei interlocutori erano spesso artisti, registi, giornalisti e anche politici di vario livello. Potei così constatare come un iniziale e forte sostegno verso Gorbaciov si andava trasformando in una ostilità popolare nei suoi confronti, diffusa e sempre più marcata. Moltissimi erano stati felici quando fu annunciata la Perestroika e l’apparire della Glasnost sembrò ai più l’inizio di una grande trasformazione in senso liberale della politica e della società. Ben presto tuttavia la gente cominciò a rendersi conto che le intenzioni di Gorbaciov non erano quelle di trasformare il Paese in modo radicale, bensì di cercare di effettuare un qualche maquillage, utile o forse indispensabile per salvare il potere del PCUS e consentirgli di “passare la nottata”.
    Nonostante la crescente impopolarità di Michail Gorbaciov tra i suoi concittadini, chi si fosse informato attraverso la stampa europea (anche tutta quella italiana) avrebbe immaginato di trovarsi di fronte ad un politico intelligente, coraggioso, lungimirante e fortemente amato dai suoi. In realtà chiunque avesse potuto avere in Russia contatti non ufficiali e capisse un po’ di politica e di psicologia sociale avrebbe capito che il sistema era al collasso, che Gorbaciov non era più, se mai lo fosse stato, in grado di dirigerlo e che, man mano che ci si avvicinava alla fine del decennio, lui stava diventando ciò che in politica si definisce un “cadavere ambulante”.
    Quando effettuò una visita ufficiale in Cina incontrò tra gli altri Deng Xiao Ping, che in privato lo definì poi “un idiota”. L’ex presidente statunitense Nixon, di cui si può dire tutto ma non che non capisse di politica, tornando da Mosca, ove si era trattenuto quasi un mese, si mise a fare una campagna pro Eltsin, considerando Gorbaciov inadeguato.
    Ai veri addetti ai lavori tutto ciò sembrava evidente, ma i giornalisti occidentali (e quasi tutti i politici europei che conoscevano l’Unione Sovietica solo attraverso ciò che leggevano) continuavano a esaltare Gorbaciov. Di più, dopo la sua caduta, iniziarono a denigrare Eltsin, troppo “russo” e meno accattivante. Tacquero anche della molto probabile complicità del vecchio presidente nel colpo di Stato, organizzato solo ufficialmente contro di lui ma fortunatamente fallito proprio grazie a Eltsin.
    Durante l’ultimo anno in cui Gorbaciov fu a capo dell’URSS mi capitò di incontrare all’aeroporto di Mosca Demetrio Volcic, corrispondente RAI da diversi anni proprio da quella capitale. Avvicinatolo, gli chiesi come fosse possibile che un giornalista esperto come lui, perfettamente padrone della lingua russa e abitante quel Paese da molti anni continuasse nelle sue corrispondenze televisive ad esaltare la figura e l’azione di un uomo evidentemente inadeguato al compito che la storia gli aveva dato, e comunque vicino alla propria fine politica. Ecco cosa mi rispose: “Io devo dire ciò che a Roma piace e si aspettano”. Fui allibito, ma apprezzai la sua sincerità. Oggi quell’atteggiamento, apparentemente strano per la supposta deontologia giornalistica, potrebbe aiutarci a spiegare da cosa sono motivate alcune corrispondenze dall’estero o le chiacchere di opinionisti, o pseudo tali, sempre concordi tra loro. Mi riferisco sia ai servizi giornalistici riguardanti le varie aree di crisi (Ucraina, Medio Oriente, Taiwan), sia a quanto ci si dice sui candidati delle prossime elezioni statunitensi.
    Partiamo dall’ex-candidato Joe Biden. Fino a quando, complice un penoso dibattito televisivo, la sua senilità intellettuale non fosse diventata così evidente da essere innegabile, quasi tutti i media italiani (ed europei in genere) ce lo dipingevano come un presidente virtuoso e soprattutto amico dell’Europa. La sua auspicata ri-vittoria sembrava essere l’unico baluardo contro la barbarie autoritaria dell’”anti-democratico” Donald Trump e ci si strappava i capelli nel pensare che avrebbe potuto perdere. Era normale che tutte le sue precedenti battute fuori luogo, i suoi errori geografici, le sue confusioni storiche, i tanti strafalcioni non avessero alcuna influenza nell’immaginarlo presidente della più grande potenza mondiale per altri quattro anni? E i validi giornalisti, alcuni dei quali residenti negli USA, è possibile che non ricordassero come da senatore non si distinse particolarmente per intelligenza o lungimiranza (pur essendo diventato presidente della Commissione esteri, organo solitamente piuttosto potente) e fosse un vice-presidente quasi insignificante? Perché, da presidente che spinge per l’Ucraina nella NATO, nessuno gli ha ricordato quando negli anni ’90 sosteneva che allargare la stessa verso est sarebbe stato un errore, poiché avrebbe causato una possibile reazione violenta russa? Come mai nessuno dei nostri giornalisti investigativi non ha fatto luce sui suoi coinvolgimenti economici personali (da vice presidente) con l’Ucraina? E perché non si è parlato, se non di striscio, sulle prebende copiose che suo figlio Hunter riceveva da quel paese senza fare praticamente nulla?
    Comunque, si sottolineava, lui era quello dell’”America is back” che, a differenza del “nemico” Trump, riconfermava che gli USA tornavano ad essere amici dell’Europa. Tanto amici da varare (senza consultare o almeno informare preventivamente Bruxelles) due leggi, l’IRA (Inflation Reduction Act) e il CHIPS and Science Act del 2022, che penalizzano i prodotti europei se le nostre aziende non spostano parte della loro produzione negli USA. Trump, il troglodita, ci aveva minacciati di non considerare più valido l’art.5 della NATO se ogni stato alleato non avesse provveduto a destinare almeno il 2% del PIL per l’acquisto di materiali per la difesa. Ovviamente, visto il ruolo NATO e la necessità di omogeneizzare gli armamenti, la maggior parte di questa spesa sarebbe dovuta finire ai produttori di armi americane. Ebbene, Biden (e prima di lui Obama) è sempre stato più gentleman e meno tranchant del tycoon dai capelli tinti e non usa i suoi modi e le sue parole, ma qualcuno ha forse dimenticato che le loro richieste erano e sono le stesse di Trump in merito al 2%? La differenza può stare nei modi e nei toni, ma mai nella sostanza. Sia che le elezioni presidenziali siano vinte dai democratici o dai repubblicani noi dovremo cominciare (finalmente) a pensare che la nostra difesa dovrà essere garantita soltanto da noi perché, di là dalle dichiarazioni, gli USA non possono far fronte da soli a tre aree di crisi contemporaneamente. Perché coltivare un’illusione? È naturale che ogni Paese persegua il proprio interesse e, quando si tratta di una grande potenza dominante, questo interesse può assumere anche una forma molto spregiudicata. Biden e la sua amministrazione, nonostante una enorme macchina di pubbliche relazioni a loro favorevoli, non sono diversi. E non è un caso che dopo la distruzione del North Stream 1 e 2, che ha messo in ginocchio l’economia tedesca, gli Stati Uniti siano diventati i maggiori fornitori di gas del nostro continente (a prezzi molto più alti di quanto l’Europa pagava alla Russia).
    Comunque, non essendo più Biden il candidato, i media possono permettersi di smettere di incensarlo. Il suo posto tra i santi adesso lo sta avendo Kamala Harris. Fino a prima della sua attuale candidatura era conosciuta da tutti come una vice-presidente insignificante e gaffeuse. Si diceva di quanto fosse poco popolare e qualcuno arrivò a dire che nominarla come vice fosse stato un errore. Dal momento in cui è diventata prima papabile e poi candidata dei Democratici alla presidenza tutto è cambiato. All’improvviso nelle penne dei giornalisti è diventata una bravissima politica, estremamente seducente nei confronti dell’elettorato e unica persona capace di salvare il sistema democratico americano insidiato dal proto-dittatore Trump. Ecco, costui che mai fu amato dalla stampa nostrana, è il naturale obiettivo degli strali di tutti i veri “progressisti”. Chi ne parlasse bene o non accettasse il gioco di poterlo ridicolizzare estrapolando le sue parole dai contesti in cui sono pronunciate è certamente un “anti-democratico” o, come è tornato di moda dire, un “neo-fascista”. È naturale, nel seguire i commenti della stampa nostrana, immaginare che i milioni di suoi sostenitori americani siano solo dei fanatici ignoranti, ultra-conservatori, retrogradi e chi più ne ha più ne metta.
    Per il buon vivere, non si dica mai che la sua politica internazionale è un “realismo” che si contrappone a quell’idealismo fintamente amante della democrazia che pianta semi di guerra in tutto il mondo. Non si dica che fu il primo a capire, mentre i suoi predecessori spingevano la Cina nel WTO, che si aveva di fronte un Paese orientato a sovvertire tutti gli equilibri economici e politici che avevano garantito fino a pochi anni orsono l’egemonia americana nel mondo. Non si ricordi mai che, durante la sua presidenza, i coreani del Nord non effettuarono alcun nuovo lancio missilistico. Si faccia finta di non sapere che con gli Accordi di Abramo (pur discutibili sotto certi aspetti) si stava preparando una pace definitiva tra Israele e l’Arabia Saudita. Ciò che conta è parlare bene dei Democratici, e magari perfino dei guerrafondai neo-conservatori pur di criticare Trump. Trump sicuramente non è un intellettuale e non brilla per raffinatezza nelle sue locuzioni, ma non è né un uomo stupido né un politico incapace, eppure viene da quasi tutti dipinto come il punto più basso che la presidenza americana potrebbe toccare.
    Perché non si può scrivere che Trump ha evitato, pur con i suoi modi da spaccone, nuovi coinvolgimenti militari, ha iniziato a districare gli Stati Uniti dai venti anni di occupazione fallita dell’Afghanistan e ha ingaggiato Stati avversari come Cina, Corea del Nord e Russia in modi che riducevano la possibilità di un conflitto? La verità è che questo vanesio tycoon sa che gli Stati Uniti non hanno più il potere di una volta e non possono più permettersi di pagare somme enormi per essere presenti in tutto il mondo. Sa che esiste una differenza tra gli interessi nazionali indispensabili e quelli desiderati. Non è un pazzo: è solo un realista.
    Purtroppo, nel seguire come la stampa riferisce quasi unanimemente delle elezioni americane, oltre al citato atteggiamento che si ebbe verso Gorbaciov, mi viene da ricordare gli anni in cui non tutti i nostri giornalisti erano comunisti ma tutti sapevano che la “patente di legittimità democratica” si doveva ritirare solo in via delle Botteghe Oscure. Adesso l’indirizzo è fisicamente cambiato, ma temo che la procedura sia rimasta la stessa.

    * Già deputato, è analista geopolitico ed esperto di relazioni e commercio internazionali.

  • La “trappola di Tucidide” di Cina e Usa. E l’insussistenza Europea

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Dario Rivolta apparso su notiziegeopolitiche.net il 27 luglio 2024

    Da un po’ di tempo a questa parte diversi analisti di politica internazionale usano volentieri i concetti della “Trappola di Tucidide” per parlare dei rapporti tra Cina e Stati Uniti. Tucidide fu uno storico greco che sostenne fosse inevitabile scoppiasse la guerra tra una potenza dominante in declino e una nuova potenza nascente che aspirasse a prenderne il posto.
    Se applicassimo quel criterio alla situazione del mondo di oggi non dovremmo nemmeno domandarci se scoppierà una guerra tra la Cina e gli Stati Uniti. La sola domanda che potremmo porci è: quando.
    Per cercare di rispondere al quesito è interessante leggere l’intervista che l’americano Graham Allison ha concesso poche settimane orsono ad un giornale indipendente di Hong Kong. Il personaggio non è un qualunque politologo: fu assistente segretario alla Difesa nell’amministrazione Clinton ed è ora professore di Government alla Harward University, oltre che rettore e fondatore della John F. Kennedy scuola di Government, sempre alla Harward. In un libro dal titolo “Destinati alla guerra” naturalmente parla proprio di Washington e Pechino come classici rivali.
    Poco prima di rilasciare l’intervista aveva compiuto un viaggio in Cina dove incontrò non solo il ministro degli esteri Wang Yi e altri alti livelli del ministero degli Esteri, ma anche lo stesso presidente Xi Jinping per una lunga conversazione a due. Allison descrive l’uomo come fortemente ambizioso, sicuro di sé e determinato a far sì che la Cina diventi ogni cosa che potrà essere. Parole particolarmente curiose e interessanti sono quelle di Xi quando riferisce di una conversazione avuta con Barak Obama. Il presidente cinese ricorda che Obama gli disse che se i cinesi fossero diventati benestanti come gli americani e come loro consumassero la stessa quantità di energia con conseguente emissione di gas nocivi, la biosfera sarebbe diventata inabitabile per tutti. Dopo una pausa Xi aggiunse ad Allison: “Si immagina dunque che noi dovremmo essere felici di essere benestanti solo un quinto di quanto lo sono oggi gli americani?”. E dette lui stesso la risposta affermando che comunque la Cina era intenzionata a modernizzarsi in un suo proprio modo pur senza effetti negativi per l’intero mondo. Era fiducioso che, poiché i cinesi sono gente intelligente e grandi lavoratori, avrebbero facilmente raggiunto almeno la metà del PIL pro capite degli americani. E poi: “Faccia un conto aritmetico. Poiché noi siamo una popolazione quattro volte più numerosa significa che il nostro Pil pro-capite sarà due volte quello degli Usa. E con un PIL doppio avremo un budget della difesa che sarà il doppio, un budget per l’intelligence due volte più grande e una leva economica con altrettanta proporzione”.
    Sembrerebbe ovvio che, qualora ciò avvenisse, la “Trappola di Tucidide” potrebbe diventare una realtà.
    Allison non si dichiara però pessimista. Ritiene che esista, di là da un certo determinismo, un fattore umano che potrà influenzare il possibile comportamento dei leader. In particolare, riferendosi alla storia dei due millenni passati, ricorda che, pur in presenza di una potenza ascendente e di una in declino, non sempre ciò ha dato luogo ad una guerra. L’alternativa possibile dei nostri tempi è che i leader dei due Paesi, consci di ciò che potrebbe significare per il mondo un conflitto atomico, potrebbero scegliere di continuare a confrontarsi a distanza anche per trenta, quaranta o altri cinquant’anni senza ricorrere al conflitto. In questo caso sarebbero la storia e le rispettive popolazioni a decidere quale dei due sistemi, quello cinese o quello americano, meglio soddisfi ciò che i cittadini vogliono e il conflitto andrà appianandosi automaticamente.
    A una domanda in merito al risultato dell’incontro che Biden e Xi ebbero mesi fa a San Francisco, Allison risponde che, pur senza conoscere i dettagli di quell’incontro riservato, è probabile che si siano trovati d’accordo su diversi punti. Ammette tuttavia che entrambi possano aver nutrito e continuato a nutrire dubbi sulla buona fede e sul rispetto degli accordi da parte dell’altro. Sicuramente, continua, qualunque intesa sia stata raggiunta non ne saranno stati definiti i dettagli e quindi ciascuno potrà interpretare le cose a modo suo. Una seconda osservazione importante che Allison fa è che i poteri di un presidente Usa e di quello cinese sono molto diversi: mentre il primo opera in un sistema con più voci e con la presenza di contrappesi, il secondo può più facilmente imporre al proprio Paese le decisioni che intende assumere. E ciò potrebbe avere conseguenze, ma non necessariamente quelle di mutua soddisfazione.
    Un argomento cui l’intervistatore non rinuncia è di chiedere cosa pensi l’intervistato dei rapporti tra Cina e Russia. Allison risponde che molti politologi e politici statunitensi hanno continuato a ritenere innaturale, e quindi impossibile, una alleanza tra Cina e Russia e tuttora stentano ad accettare il fatto che sia stata proprio Washington a spingerli verso una alleanza sempre più stretta. La logica, ahimè negletta anche da politici altrimenti intelligenti, è “il nemico del mio nemico è mio amico”. È esattamente ciò che sta accadendo: Mosca e Pechino hanno il comune obiettivo di rendere innocuo quello che definiscono l’ordine egemonico statunitense “unipolare” per favorire invece un ordine multipolare in cui entrambe possano diventare dei poli strategicamente importanti nel mondo. Resterebbe solo da aggiungere che la Russia non aveva altra scelta dopo essere stata emarginata politicamente ed economicamente dall’occidente.
    Alla domanda “se la Russia è impegnata in una grande guerra contro l’Ucraina e se gli Stati Uniti si focalizzano su di essa, quale opportunità potrebbe crearsi per la Cina? Se nello stesso tempo esiste un Medio Oriente in fiamme e anche esso richiede l’attenzione degli Usa, come può Washington affrontare tre pericolosi scenari contemporaneamente?”. Anche in questo caso la risposta, non si sa se totalmente sincera o perché non è facile accettare di diventare una Cassandra, è relativamente ottimista: “L’atteggiamento dell’amministrazione statunitense nei confronti della Cina dovrà avere tre componenti: una ferma competizione, una continua comunicazione e una sincera cooperazione. A quale fine? Per ottenere una competizione pacifica, a lungo termine che consenta di vedere in 25 anni o in mezzo secolo quale dei due sistemi risponda con maggior successo a ciò che i popoli vogliono”. Inoltre, aggiunge, gli americani stanno saggiamente costruendo una rete di alleanze come l’AUKUS, il QUAD, il rafforzamento dei trattati con Giappone, Corea del Sud, Australia e Filippine, e ciò assicurerà un sufficiente contrappeso alla Cina nel contesto asiatico. È ovvio, continua ancora Allison, che gli Stati Uniti dovranno fare delle scelte poiché è impossibile, nonostante siano la più grande potenza militare del mondo, fronteggiare contemporaneamente tre aree di crisi lontane tra loro. Sarà allora ovvio che le risorse destinate all’Europa dovranno essere ridotte sostanzialmente e occorrerà fare una scelta anche dal punto di vista economico per assicurare che alcuni prodotti importanti attualmente controllati dalla potenza dominante siano garantiti e non resi disponibili ai concorrenti.
    A questo punto l’intervistatore pone una domanda cruciale che pochi, anche tra gli storici, oserebbero porre. “Quale parallelo si può fare tra questa situazione con la Cina e le sanzioni statunitensi che portarono alla guerra tra il Giappone e gli Stati Uniti nel 1940?“.
    La risposta: “E’ certo vero che, storicamente, un certo numero di rivalità tucididee si siano manifestate proprio sulle risorse… se noi forziamo un concorrente a scegliere tra un suo strangolamento sicuro entro sei mesi o un anno, oppure tentare una soluzione rischiosa ma magari con la possibilità di vincere una guerra… Può diventare razionale per un contendente scegliere la guerra. Ora, io penso che nell’attuale rivalità tecnologica l’amministrazione Biden sia determinata nel cercare di mantenere il più ampio possibile il gap con i cinesi in tutte le frontiere tecnologiche quali intelligenza artificiale, semiconduttori, genomica o quantum per la biologia sintetica. Tuttavia in nessuno di questi gli Usa saranno capaci di impedire alla Cina qualche versione diversa di capacità. Potrebbe essere questione di una generazione o due… i cinesi sono intelligenti e grandi lavoratori e hanno ogni anno dieci volte più laureati degli americani… in Cina, dove c’è una competizione molto più forte tra le compagnie produttrice di macchine elettriche, la società BYD (partecipata finanziariamente anche da Warren Buffett) è attualmente quella che ha preso la maggiore fetta di mercato che fu di Tesla. La mia scommessa sarebbe che la rivalità tecnologica sarà forte ma non arriverà al punto da strangolare le opportunità per la Cina di svilupparsi per conto proprio o di trovare altre fonti… Siamo in una economia globalizzata e ci sono altre fonti potenziali per quasi qualunque cosa gli Stati Uniti cercherebbero di tenere sotto controllo… Gli sforzi americani potranno ritardare ma non impedire gli sforzi cinesi su questi fronti… non penso che queste intenzioni americane possano diventare un decisivo fattore di guerra”.
    A questo punto ognuno tragga le valutazioni che preferisce dal contenuto di questa intervista, ma è corretto notare che in nessuno dei temi toccati nell’intervista si trova un qualunque ruolo per l’Europa. L’unica volta in cui la si menziona è quando si afferma che affinché gli Usa possano concentrarsi efficacemente nelle aree considerate di crisi è necessario per Washington ridurre gli impegni che ha verso il Vecchio continente. Naturalmente nessuno può auspicare che scoppi una guerra mondiale ma, se dovesse succedere, gli europei vi verrebbero trascinati solo come obbedienti vassalli e, se fortunatamente nessun conflitto accadesse, i veri “grandi” troveranno un qualunque accordo tra di loro e ciò accadrebbe alle spalle o addirittura sulle teste degli europei stessi.

    Sarà mai possibile che qualche politico europeo capisca che l’Europa deve assolutamente cambiare e mettere mano ai Trattati esistenti per costruire, con chi lo vorrà, una vera Unione politica di carattere federale? Altrimenti il destino degli europei sarà solo quello del “vaso di coccio” di manzoniana memoria.

    * Già deputato, è analista geopolitico ed esperto di relazioni e commercio internazionali.

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