Made in Italy: l’ennesima sconfitta
Oltre Un anno e mezzo fa l’Unione Europea decise di togliere l’obbligo di indicare la località di fabbricazione dei beni alimentari sulle confezioni. Per completare poi l’opera di smantellamento della filiera produttiva dell’agroalimentare stabilì contemporaneamente l’annullamento della certificazione e della dichiarazione della filiera lattiero casearia. Un’azione e decisione politica che dimostrano ancora una volta quanto l’Unione Europea, attraverso le politiche economiche e strategiche, rappresenti il vero problema per quanto riguarda la tutela del made in Italy e delle famose 4 A (Tessile-abbigliamento-calzaturiero-pelletteria, Agroalimentare-vinicolo, Arredamento, Automazione).
Immediatamente, e in più occasioni, anche recentemente, ho espresso la mia totale ed assoluta contrarietà verso tali iniziative politiche ed economiche perché questa scelta europea va esattamente contro gli interessi non solo dei produttori del settore agroalimentare italiano ma soprattutto dei consumatori che hanno tutto il diritto di essere informati al meglio relativamente alla filiera a monte del prodotto, che rappresenta un valore economico ed etico.
Allo stesso tempo avevo molto criticato l’azione dell’attuale governo, in particolare del ministro Calenda e dell’ex ministro Martina che lo scorso anno hanno reintrodotto tale obbligatorietà relativamente all’indicazione del sito produttivo annullata dall’Unione Europea. La mia posizione fortemente negativa non era e non è tutt’ora tanto nel merito (in quanto la conoscenza rappresenta sempre un valore anche economico) ma nella semplice considerazione che la materia afferente il Made In è di competenza esclusiva dell’Europa. Questo significa che qualsiasi normativa nazionale debba uniformarsi obbligatoriamente a quanto stabilito dalla legge europea nella materia specifica perché la legge europea è superiore a quella italiano. L’azione del governo, invece, ha ignorato tale principio, e cioè la capacità di incidere normativamente sulla materia, supportato dagli ottimi consulenti legali, giuridici ed economici che si ritrovano ora a vederla annullata dall’Unione Europea, come era naturale immaginare e prevedere bocciando clamorosamente l’azione dei due ministri del governo nel suo complesso.
Viene da pensare allora, considerando la pletora di consulenti economici e giuridici della quale il governo si avvale, come tale annullamento dimostri essenzialmente la mancanza di competenze dell’intera compagine governativa. In questo contesto infatti è paradossale come questa iniziativa del governo italiano si sia trasformata in un ulteriore fattore anticompetitivo per imprese italiane dell’agroalimentare rispetto ai concorrenti esteri che assolutamente non erano, né lo sono ora, soggetti a tale quadro normative.
E’ naturale chiedersi allora come sia stato stato possibile varare una norma che poi sarebbe stata automaticamente bocciata, come scrissi l’anno scorso e anche pochi mesi fa, cosa che automaticamente e normalmente è avvenuta.
Ancora una volta la voglia di dimostrare di aver operato a favore del made in Italy ha portato ad un ennesimo fallimento di questo governo, in particolare della ministri dell’Economia e delle ex ministro dell’Agricoltura, i quali, tra l’altro, hanno esposto il nostro Paese ad una figura decisamente ridicola in rapporto alle competenze giuridiche dimostrate attraverso questa iniziativa normativa.
Quando si parla di declino culturale questo potrebbe rappresentarne l’esempio in quanto coinvolge nella loro articolata complicità ministri e viceministri con i diversi consulenti giuridici ed economici, nessuno dei quali è stato in grado di prevedere tale bocciatura ma ha preferito dare il proprio consenso ad una legge solo per dimostrare di aver realizzato qualcosa a favore di cittadini e soprattutto delle aziende .
Mai come adesso questo declino sta costando all’Italia in termini economici, giuridici e di considerazione internazionale e mai come adesso questo risulta espressione di una classe di ministri e di consulenti di vario genere inadeguati al complesso mercato globale nel quale noi operiamo.
Al tempo stesso mai come ora riemerge il rammarico per quei sei mesi gettati al vento di presidenza dell’Unione Europea nel secondo semestre del 2015 annullati per ottenere uno 0,1/0,2% di maggior deficit che avrebbe supportato, finendo interamente a debito, la politica legata al Jobs Act e agli 80 euro di rimborso fiscale.
In un paese normale e quindi di un paese democratico gli autori di questa legge verrebbero chiamati a rendere conto pubblicamente delle proprie azioni in considerazione dei pessimi risultati ottenuti.