Contribuenti

  • Quale difesa per il contribuente?

    In mezzo ai vari provvedimenti proclamati, poi smentiti, poi nuovamente promossi che hanno caratterizzato il susseguirsi di notizie di quest’ultimo periodo, questa mattina ne ho letto uno che mi ha lasciato oltremodo basito.

    La Corte dei Conti, con un proprio comunicato stampa del 24 ottobre 2019, ha offerto, “quale Magistratura posta dalla Costituzione a salvaguardia degli interessi dell’erario, il proprio contributo al miglior esercizio della giustizia tributaria stessa”. Il passaggio sconvolgente, a parere dello scrivente, è proprio quello di candidarsi in nome della funzione costituzionale di tutela degli interessi erariali, dimenticandosi di un passaggio fondamentale che è quello della necessaria terzietà della magistratura!

    Il timore, fondato visto il presupposto citato dalla Corte stessa, è quello che venga meno questa necessaria terzietà e quindi vengano lesi i diritti, costituzionalmente previsti, di difesa e di un giusto processo che devono essere garantiti a ciascun contribuente. Timore, peraltro, avallato dall’Unione nazionale camere avvocati tributaristi che, prontamente, ha segnalato il proprio disappunto in una nota ufficiale.

    La giustizia tributaria è già al centro di un grosso dibattito da anni, di cui è consapevole la Corte stessa che nel comunicato prosegue, sottolineando la sua necessaria riforma “alla luce dei più rilevanti problemi che oggi caratterizzano la giustizia tributaria, sia in termini di maggiore imparzialità, indipendenza e terzietà dei giudici tributari, che in termini di rafforzamento della loro professionalità, da assicurare anche mediante uno statuto unitario di assunzione e di trattamento economico, così come pure in termini di recupero di una più “ragionevole durata” del processo tributario, da assicurare anche mediante “giudici monocratici” e con istituti deflattivi del contenzioso”. Concetti di imparzialità, indipendenza e terzietà dei Giudici che, quindi, sono ben chiari alla Corte e che non si capisce come possano essere coniugati in maniera efficace con la funzione di difesa degli interessi erariali cui la stessa è chiamata.

    Da troppo tempo i diritti dei contribuenti non appaiono paritetici se raffrontati con quelli dell’ente accertatore che, dal legislatore in primis, e nella gestione del processo dopo, dovrebbe essere trattato in maniera paritaria con la parte ricorrente. Invece spesso, per le annose ragioni di gettito, così non è: si pensi al fatto che il contribuente è chiamato a pagare parte della pretesa erariale ancora prima che inizi il processo, salvo che ottenga la sospensiva della riscossione, evento per altro non scontato e automatico, o ancora ai provvedimenti legislativi che “salvano” pregiudizievoli che avrebbero reso nulli o annullabili gli atti emessi. Ancora, accade che l’Ufficio difenda fino in Cassazione posizioni indifendibili, sperperando risorse delle Stato e denaro dei contribuenti.

    Spesso la pretesa accertata si basa su presunzioni con l’aggravante dell’inversione dell’onere della prova: il contribuente viene accusato e si trova a dover dimostrare di non aver commesso il fatto rasentando, a volte, l’insulso della probatio diabolica.

    Se il quadro velocemente dipinto non fosse già abbastanza preoccupante e indicatore della ormai imprescindibile riforma della giustizia tributaria, lo diventa oltremodo, se si legge il recente comunicato della Corte dei Conti incardinandolo nel contesto della lotta all’evasione nonché nei toni assunti dal dibattito politico al riguardo. Lotta all’evasione, per carità, che è sacrosanta ma che non dovrebbe assumere i caratteri dell’inquisizione e dovrebbe essere accompagnata da provvedimenti di revisione del sistema fiscale che è ormai del tutto inadeguato al Paese.

    Mi auguro, quindi, che il Presidente del Consiglio in carica, ricordando la propria estrazione di giurista, accademico e avvocato, nonché la promessa fatta di essere “l’avvocato del popolo italiano”, respinga garbatamente la proposta formulata dalla Corte dei Conti, forse in un impeto di disponibilità, e si acceleri invece su una seria riforma della giustizia tributaria che valorizzi il ruolo del Giudice attraverso la sua specializzazione, che preveda la separazione delle carriere e pari trattamento e tutela per tutte le parti del processo.

  • Problemi di pensione per gli eurodeputati

    I contribuenti europei rischiano il salvataggio del Parlamento europeo a causa di un deficit attuariale di 326 milioni di euro per il sistema pensionistico per i deputati. Istituito per la prima volta nel 1990 e aperto ai deputati al Parlamento europeo fino al 2009, il fondo pensionistico volontario rischia di far sborsare ingenti somme di denaro al bilancio del Parlamento, per un forte aumento del numero di persone che raggiungono un’età di pensionamento anticipato.

    «Già dopo cinque anni c’era un deficit fino a 9 milioni di euro, il che non era normale”, ha dichiarato l’eurodeputato verde belga Bart Staes. Tali perdite sono pagate indirettamente dal contribuente dell’UE perché il bilancio del Parlamento europeo è la linea di vita finanziaria del fondo. I deputati hanno sospeso i contributi nel 2009. Fino ad allora, per ogni 1.000 euro versati nello schema, il parlamento dell’Ue ha contribuito con 2.000 euro. Il denaro è stato poi investito dall’associazione no profit di diritto lussemburghese nota come Cassa pensione dei membri del Parlamento europeo. Senza soldi in arrivo, più deputati in pensione e un ingannevole portafoglio azionario, il fondo – considerato il frutto dell’ex deputato britannico e del politico conservatore Richard Balfe, che oggi ne è il presidente – rischia di fallire in 6 anni.

    Il fondo è stato lanciato anche perché molti deputati francesi e italiani non avevano un regime pensionistico adeguato all’epoca. Balfe e altri deputati conservatori e laburisti hanno quindi insistito per creare un fondo per tutti. I deputati erano tenuti a versare al regime solo due anni per poter beneficiare della pensione vitalizia Ma il Parlamento europeo è tenuto a sottoscrivere il regime e deve garantire i pagamenti, quindi sarà costretto a pagare trovando denaro altrove nel suo bilancio qualora il fondo diventi insolvente.

    EUobserver ha visionato i documenti che elencano gli iscritti al fondo tra il 2003 e il 2008. I deputati britannici, incluso l’euroscettico Nigel Farage, sembrano dominare. Figurano anche gli ex deputati francesi Marine Le Pen e suo padre Jean-Marie.

    A maggio 2015, lo schema contava 1.007 membri e 721 ex deputati al Parlamento europeo o loro familiari superstiti ricevevano prestazioni pensionistiche. Altri 145 deputati supplementari riceveranno pagamenti mensili dal fondo nel 2022. Questo significa che i pagamenti aumenteranno dai circa 16 milioni di euro del 2016 a una media di oltre 20 milioni di euro per i prossimi anni.

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