Pace

  • La pace e la guerra in Ucraina: se ne parla in un convegno a Milano

    Sabato 15 marzo 2025, alle ore 15:00, al Centro Culturale di Milano (Largo Corsia dei Servi 4), si svolgerà il convegno UCRAINA: LA GUERRA E LA PACE al quale parteciperanno Marco Invernizzi, Adriano Dell’Asta, Presidente dell’Associazione Russia Cristiana con l’intervento Il progetto politico del “Mondo russo”,  Oleksandra Romantsova, direttrice esecutiva del Centro per le libertà civili di Kiev, vincitore nel 2022 del premio Nobel per la pace (insieme all’Associazione russa Memorial e al Centro bielorusso per i diritti umani “Vjasna”), don Stefano Caprio, docente presso il Pontificio Istituto Orientale con l’intervento Tre anni per tre secoli, Laura Boccenti con Una sola Europa, due diverse crisi. La sfida culturale e spirituale su cui si gioca il futuro dell’Occidente, Domenico Airoma, vicepresidente del Centro Studi Rosario Livatino.

    Il Convegno è promosso da Alleanza Cattolica.

  • Un augurio, una preghiera, una promessa

    Molti seguono le vicende legate alla salute del Papa come un importante fatto di cronaca di portata internazionale, altri perché interessati ad un eventuale nuovo conclave, troppi sperano nelle dimissioni di Francesco.

    La maggior parte delle persone, invece, segue le notizie della malattia del Papa sperando in una sua rapida guarigione, tanti gli sono vicini con una preghiera perché Francesco ha saputo toccare il cuore e la mente di chi è capace di empatia e assetato di giustizia.

    Viviamo anni molto difficili, la tecnologia sta uccidendo l’umanità, la capacità di sedare la nascita di conflitti, attraverso mediazioni e dialogo, che avevamo imparato nel secolo scorso, dopo due guerre mondiali, più che assopita sembra cancellata dall’irrefrenabile desiderio di imperialismo che è ormai comune a dittature e ad alcune democrazie.

    Non c’è molto di nuovo, la parte violenta e malvagia dell’essere umano prima o poi rispunta, il diavolo non ha le corna ma spesso si presenta con vestiti firmati, ricchezze spropositate, potere immenso, fascino persuasivo, non tutti sono capaci di resistere alle sirene del potere, alla gratificazione di essere considerati da chi è più forte.

    Il diavolo non ha le corna ma è presente nella violenza degli spacciatori di droga, nei trafficanti di esseri umani, nel bullismo, nella negazione della vita e della dignità dell’altro.

    Il male è nelle parole di coloro che, forti della loro posizione, possono scatenare guerre, o dichiarare che è colpevole chi è stato invaso e non chi ho invaso il territorio altrui.

    In questa epoca difficile, dove il mondo sembra rovesciato perché troppo spesso trionfa la verità di parte e non la realtà nella sua evidenza, la presenza di Papa Francesco è un punto di riferimento, tiene viva la speranza, fa sentire tutti coloro che si riconoscono nel proprio prossimo, anche i più deboli ed umili, che non si è soli, che comunque vale la pena di credere, di spendersi per una società di valori e di principi condivisi.

    Un augurio, una preghiera, una promessa.

  • Il Santo Natale ci aiuti alla riflessione e ci guidi in azioni giuste

    Sta per finire un anno sempre più segnato da guerre, violenze, solitudini, sofferenze.

    Sperare nel nuovo anno non basta se ciascuno non sarà capace di fermarsi, almeno un attimo, per guardare dentro di se, per cercare di capire quanto può fare per contribuire ad una rinascita di valori e sentimenti nel rispetto per gli altri.

    Anche la politica, o per meglio dire i partiti, rifletta sulla urgente necessità di linguaggi più moderati e di maggior attenzione alle tante necessità dei più deboli e riconosca il fondamentale ruolo di chi deve quotidianamente occuparsi della sicurezza ,del futuro o della solitudine altrui.

    Nonostante tutto vogliamo credere che ci sia ancora tempo e spazio per ricostruire una società che sappia sedare i conflitti, che sia capace di confronti senza pregiudizi, attenta alle inquietudini dei più giovani ed alle angosce dei più anziani

    Una società volta ad un progresso giusto e consapevole perché, nonostante i Musk di turno, ogni epoca ha il suo, la macchina non può sostituirsi all’essere umano e l’intelligenza artificiale non ci può privare della nostra capacità di un giudizio ed una scelta che derivano da sapere, conoscenza e coscienza.

    Crediamo nel Progresso,  che non può, non deve,  essere così repentino da lasciare indietro i più semplici e nella tradizione di quello che di meglio ci ha lasciato il passato, tutti dovremmo essere un po’ conservatori e un po’ riformatori , e daremo consapevoli di quello che siamo solo se avremo rispetto di quello che è stato prima di noi, nel connubio tra tradizione e futuro avremo possibilità di una crescita armoniosa.

    Per questo nuovo anno che arriva a tutti l’augurio di una speranza consapevole e per tutti la speranza deve essere supportata dalla volontà di realizzare quanto è meglio per noi e per gli altri perché “nessuno si salva da solo”.

    Il Santo Natale ci aiuti alla riflessione e ci guidi in azioni giuste.

  • Che cos’è la pace?

    Andate in pace, vivete in pace, la pace sia con voi, quante volte la parola pace e sulle nostre labbra e quante volte effettivamente nei nostri cuori, nelle nostre azioni?

    Mentre camminiamo in un campo o guardiamo in riva al mare una luminosa stellata quante volte abbiamo detto “Senti che pace”.

    La pace è una condizione dello spirito ed una condizione sociale e politica che può esistere solo in assenza di conflitti, di ingiustizie manifeste, di aggressioni, la pace è tale solo nel rispetto di reciproche regole condivise, nella comprensione di se stessi e degli altri.

    Dove è la pace se le regole sono calpestate, se la legge del più forte, potente, ricco vuole imporsi sugli altri?

    Dov’e la pace se la finanza prevale sugli interessi sociali, se il profitto illecito, e fine a se stesso, prevale sulla dignità dell’essere umano, dove è la pace quando i diritti sono calpestati?

    Ci sono voluti secoli di guerre, di armistizi, di carneficine, di accordi perché si arrivasse ad aumentare il grado di civiltà e il recente passato della seconda guerra mondiale portasse gradualmente molti paesi europei ad unirsi per trovare con l’Unione Europea una strada che allontanasse i conflitti e garantisse, tra mille problemi, la Pace.

    Oggi siamo tutti angosciati dalle guerre in medio oriente ed in Ucraina e spesso dimentichiamo le molte altre guerre che anche in questo momento stanno insanguinando il mondo, uccidendo persone inermi, travolgendo economie già deboli in paesi dove povertà e fame sono una drammatica consuetudine.

    Abbiamo scritto e firmato la Carta universale dei diritti ignorando che senza una corrispondente carta universale dei doveri i diritti sarebbero stati spesso violati.

    Abbiamo accolto nelle nostre associazioni democratiche, dalle Nazioni Unite all’Organizzazione Mondiale del Commercio, Paesi che non conoscono né democrazia né diritti senza mettere negli atti costitutivi clausole che ci ponessero al riparo dalle loro logiche di potere, così l’Onu non può fare nulla nel Consiglio di sicurezza per frenare, sospendere od espellere la Russia, dopo il massacro che ha iniziato in Ucraina, e il WTO non ha strumenti per opporsi alle guerre commerciali cinesi.

    Molti governi parlano di pace e parte di quegli stessi governi consente delittuose triangolazioni di armi, petrolio, acciaio che rendono ridicoli i tanti proclami sugli embarghi.

    Se un paese è attaccato, i suoi confini violati, una parte del suo popolo violentata ed uccisa come fa questo paese ad ottenere la pace se non respingendo l’aggressore?  Se non sperando nell’aiuto di chi dovrebbe poter ripristinare le regole internazionali, e come si possono ripristinare queste regole se a monte non si sono predisposti gli strumenti necessari?

    L’arte, nelle sue multiformi espressioni può essere di grande aiuto per ritrovare un dialogo tra le persone ed i popoli, l’arte, che non deve avere colore partitico, è il ponte naturale che, attraverso persone dotate di particolare sensibilità e capacità, può arrivare a toccare le corde più intime di ciascuno.

    La musica, la pittura, la scultura che non hanno bisogno di traduzioni ma arrivano direttamente a noi, con l’udito e la vista, sono i primi veicoli di comunicazione purché si presentino in modo comprensibile e non criptico. Poi le altre espressioni artistiche, a partire dalla poesia, dovranno provare a ricostruire quei sentimenti, quella predisposizione all’ascolto ed alla comprensione che oggi, anche per colpa di un distorto utilizzo della Rete, è sempre più difficile ed effimero.
    Io non credo si debba mai sostenere che se si vuole la pace si deve preparare la guerra ma altrettanto convintamente credo che per mantenere la pace dobbiamo  predisporre tutti gli strumenti necessari, dalle regole comuni ad una diplomazia più forte fino a sistemi militari di difesa adeguati e, per quanto riguarda l’Europa, ad un esercito ed una intelligence comuni e tra gli strumenti per difendere e ritrovare la pace l’arte ha un compito primario.

    La parola Pace è una delle più belle parole quando significa dignità nei fatti, convivenza civile, giustizia, rispetto delle regole internazionali, libertà e sicurezza.

    La parola Pace è una delle più inutili quando è pronunciata senza programmi seri, volontà sincere per raggiungerla.

    La parola Pace è una delle più abusate quando non si sa cosa altro dire, cosa proporre e la si usa strumentalmente.

    La parola Pace diventa una presa in giro, un vilipendio proprio alla pace quando si vuole ottenere la sconfitta dell’aggredito ed il trionfo dell’aggressore.

  • La diplomazia culturale come ‘arma’ preventiva per la pace

    Esistono spazi per una diplomazia culturale che crei i presupposti per la pace in un mondo alle prese con guerre in Ucraina, Medio Oriente e, potenzialmente, a Taiwan, solo per citare i conflitti più noti?

    La domanda se la pone l’Associazione Ars Pace presieduta dall’ex presidente del Parlamento europeo Enrique Baron Crespo in un convegno organizzato al Circolo degli Esteri di Roma da Monica Baldi, eurodeputata e vicepresidente della medesima associazione su ‘Diplomazia culturale e pace’, col patrocinio dell’Unione consoli onorari italiani, del Parlamento europeo e dell’Università per la pace dell’Onu.

    Se la pace è un processo, come suggerisce Baron Crespo intendendo per processo un dialogo che tessa e rafforzi i legami, la chiave per attivare quel processo, ha dichiarato l’on. Cristiana Muscardini intervenendo al convegno, non può che essere l’empatia tra esseri umani. Perché pace, come precisato anche da numerosi altri interventi, è concetto che si può declinare in vari modi: dalla resa alle pretese altrui alla reciproca comprensione delle ragioni degli altri. Ma la pace deve essere una pace giusta, ha sottolineato ancora Muscardini, presidiata da regole della comunità e delle organizzazioni internazionali che garantiscano che le ragioni degli uni non siano interamente sacrificate alle ragioni degli altri. E la diplomazia culturale come soft power, quale l’ha identificata l’ambasciatore e presidente dell’Ucoi Carlo Marsili, è esattamene lo strumento attraverso il quale la comunità internazionale può raggiungere un equilibrio delle rispettive ragioni che non sia fondato sulla forza ma sulla mutua comprensione.

    Chiarito il concetto, la sua implementazione pratica è tutt’altro che ovvia, ha evidenziato Gianfranco Fini intervenendo come ospite al convegno stesso. Perché l’Occidente è davvero ormai in crisi: se ne parla da tempo, ma la cancel culture, la pretesa di rinnegare e cancellare un passato che si trova inaccettabile come se riscrivere la storia fosse una via davvero praticabile e non un’illusione quantomeno ingenua, è la prova fattuale che l’Occidente non sa più cosa sia, cosa voglia essere e cosa voglia rappresentare. Difficile quindi che sia in grado di dialogare con altri e far dialogare altri per comporre le rispettive ragioni.

    Ecco allora, come sottolineato dall’ex ministro degli Esteri e professore della Luiss Enzo Moavero Milanesi, che la via della diplomazia culturale si fa stretta e impervia. E tuttavia, ha evidenziato ancora lo stesso Milanesi, resta una via praticabile: per l’Italia anzitutto, perché se si parla di cultura l’Italia è una potenza a tutti gli effetti, per l’Unione europea, perché la sua stessa costruzione è il risultato di un’ibridazione di identità e culture che non si sono rinnegate ma che proprio ricordando il loro bellicosissimo passato hanno dato vita a un processo di integrazione.

    Altro che abdicare a se stesso, l’Occidente deve ritrovare in se stesso le ragioni per continuare a essere un player globale. Di contro alla cancel culture vi è l’esempio additato dall’ambasciatore e presidente dello Iai (Istituto affari internazionali), Ferdinando Nelli Feroci, della Corea del Sud, Paese a tutti gli effetti appartenente all’Occidente, che tramite la Korea Foundation sta facendo un grande lavoro di affermazione (branding, si direbbe con linguaggio del marketing) della propria cultura e dei propri valori.

    Educazione, informazione, conoscenza, fa eco a Nelli Feroci l’ambasciatrice Maria Assunta Accili (membro del consiglio direttivo della Società italiana per l’organizzazione internazionale), sono i tre elementi attraverso i quali la cultura può evitare ai popoli di precipitare come sonnambuli in relazioni conflittuali anziché armoniose.

    A fronte di un Occidente che per troppo tempo ha dato per scontata la pace, come provoca la giornalista Rai Tiziana De Simone nel moderare il dibattito, vi è un Sud globale, ricorda il rappresentante della sede romana dell’Università della Pace Roberto Savio, che mostra un crescente scetticismo verso l’Occidente propria a causa dei dubbi che questo nutre su se stesso e quindi sul suo ruolo nel mondo e sugli aiuti internazionali verso gli altri Paesi di cui è sempre meno prodigo (da qui, ha notato Savio, l’affermazione di governi sovranisti in 10 dei 27 Paesi del Sud globale).

    Proprio per sollecitare i vari Paesi e per indurre tutti a prendere l’iniziativa del dialogo e del confronto non armato l’associazione promuoverà ulteriori convegni in vari Paesi. Prossima tappa, ha annunciato Monica Baldi, Barcellona.

  • Somalia di male in peggio. E affiora la tentazione di abbandonarla al suo destino

    La transizione della Somalia verso la stabilità rischia di slittare ulteriormente, nel quadro dei complessi sviluppi regionali e dei presunti legami che intercorrono tra le milizie jihadiste somale e i gruppi armati mediorientali. L’ennesima minaccia potrebbe venire ora dal Golfo di Aden, dove gli Stati Uniti hanno lanciato l’allarme sui presunti contatti fra Al Shabaab e gli Houthi, le milizie sciite yemenite sostenute dall’Iran. Secondo il generale Michael Langley, a capo del Comando degli Stati Uniti per l’Africa (Africom), la Somalia deve guardare con estrema attenzione all’accresciuta presenza di miliziani dello Stato islamico nel nord del Paese, ma anche alla crescente collaborazione tra Al Shabaab e gli Houthi. In un’intervista rilasciata in esclusiva al canale “Voa”, Langley ha rivelato che, secondo le stime di Washington, il numero di miliziani dello Stato islamico nel nord somalo sarebbe “quasi raddoppiato” rispetto allo scorso anno. Sebbene il generale non abbia quantificato la presenza, stime precedenti della Difesa Usa parlavano di circa 200 combattenti jihadisti sul territorio. Una minaccia alla quale vanno aggiunti i circa 12-13mila combattenti che Al Shabaab continua a governare in tutta la Somalia.

    Una possibile alleanza, quella tra le milizie sciite Houthi e Al Shabaab, che spaventa non poco gli Usa. “Siamo preoccupati e stiamo monitorando attentamente la situazione, perché questo potrebbe trasformarsi molto rapidamente in un cattivo vicinato” per la Somalia, ha detto Langley. Il generale non ha fatto mistero della sua preoccupazione soprattutto in vista del piano di ritiro della Missione di transizione dell’Unione africana in Somalia (Atmis), previsto – dopo diversi rinvii – entro la fine di dicembre. Il capo di Africom ha escluso che gli Usa possano giocare un ruolo sul campo in questa fase di transizione, affermando che le unità statunitensi manterranno solo la loro missione di consulenza e assistenza. “Siamo lì per consigliare e assisterli nella loro formazione, ma la lotta è loro”, ha detto in riferimento ai militari dell’esercito somalo. Il progetto di ritiro delle forze Atmis prevede infatti il graduale trasferimento di tutti gli oneri di sicurezza all’Esercito nazionale somalo (Sna), nel quadro di una progressiva assunzione di responsabilità nella stabilizzazione del Paese.

    La percezione di un rafforzamento di Al Shabaab, del resto, aveva già spinto il presidente Hassan Sheikh Mohamud a chiedere e ad ottenere dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, per ben tre volte, il rinvio della tabella di marcia del ritiro delle truppe dell’Unione africana, missione alla quale partecipano militari di Kenya, Burundi, Uganda, Etiopia e Gibuti. Lo scorso 19 agosto la missione Atmis è stata prorogata fino al 31 dicembre, permettendo così a circa 12.600 militari dell’Ua di rimanere nel Paese del Corno d’Africa per altri quattro mesi. L’organo esecutivo delle Nazioni Unite ha chiesto in particolare al segretario generale Antonio Guterres di approvare il mantenimento della fornitura alla missione di un pacchetto di supporto logistico in grado di supportare altri 20.900 membri del personale dell’Esercito nazionale somalo o della Forza di polizia nazionale somala in operazioni congiunte o coordinate con l’Atmis. Ad oggi, 10mila ufficiali hanno già lasciato la missione in conformità con il Piano di transizione somalo.

    Se la vasta lanciata dall’esercito contro al Shabaab dopo l’elezione del presidente Hassan Sheikh Mohamud – nel maggio del 2022 – ha contribuito a riconquistare rilevanti porzioni di territorio, la capacità del gruppo jihadista di riorganizzarsi ed adattare la sua azione ad obiettivi civili e militari continua a dare filo da torcere all’esercito somalo. Ad agosto l’attentato ad un frequentato lido di Mogadiscio ha ucciso 32 civili e ne ha feriti 63, mentre meno di un mese prima, il 15 luglio, una bomba fatta esplodere in un bar della capitale mentre veniva trasmessa la finale degli Europei tra Spagna ed Inghilterra ha provocato 9 morti e 23 feriti. A febbraio un’autobomba piazzata nella base Generale Gordon di Mogadiscio ha ucciso quattro militari degli Emirati Arabi Uniti e uno del Bahrein. A questo aspetto si è aggiunta anche la crisi in corso con la vicina Etiopia per l’accordo siglato dal governo di Addis Abeba con l’autoproclamata Repubblica del Somaliland, che rivendica un’indipendenza non riconosciuta da Mogadiscio.

    L’Etiopia offre un importante contributo di sicurezza alla Somalia nelle regioni di confine, e l’eventuale ritiro delle sue forze dal territorio rischierebbe di incrinare il precario equilibrio di sicurezza faticosamente conquistato da Mogadiscio. Un contenzioso che ha creato anche tensioni interne fra il governo federale ed alcuni Stati regionali, in particolare quello del Sudovest, e che a livello regionale ha portato l’Egitto a schierarsi – anche assicurando un consistente sostegno militare – in favore di Mogadiscio, sull’onda di una mai sopita ostilità etiope legata ad altri dossier, a cominciare da quello sulla Grande diga della rinascita etiope (Gerd). Alla missione Atmis hanno contribuito in tutto 22mila militari, provenienti prevalentemente da Uganda, Kenya, Gibuti ed Etiopia.

    I vertici della missione militare Ua stanno progressivamente smantellando le posizioni delle loro truppe, riconsegnando via via la responsabilità della sicurezza territoriale alle Forze armate somale. Così, a febbraio scorso sono state riconsegnate all’esercito sette basi operative: fra queste ci sono la sede della presidenza e del parlamento a Mogadiscio, in precedenza sotto la sicurezza del contingente ugandese; le basi di Bio Cadale, Raga Ceel e Qorillow gestite in precedenza dalle unità del Burundi; quella di Burahache che era in mano alle Forze di difesa del Kenya ed il vecchio aeroporto militare, in precedenza sotto la tutela dell’esercito etiope. Altre due basi sono state chiuse. I successi ottenuti dall’esercito somalo nella controffensiva contro al Shabaab ha permesso ad Atmis di procedere nel ritiro delle sue unità, sebbene la situazione della sicurezza rimanga molto precaria. In questo scenario d’incertezza, il governo federale ha negoziato con i partner internazionali l’istituzione una forza multinazionale che opererebbe per un anno a partire da gennaio del 2025 con il sostegno di Gibuti, Kenya, Uganda e Burundi.

  • Guerre lunghe e mercanti di armi

    La capacità di Kiev di penetrare in territorio russo, anche se sfiancata da più di due anni di una guerra condotta da Putin con particolare durezza ed efferatezza, dimostra inequivocabilmente la fermezza degli ucraini nel voler difendere la loro terra e gli errori dei loro alleati che non hanno fornito prima armi sufficienti ad impedire l’avanzata russa.
    Se l’Ucraina avesse avuto per tempo le armi di cui ora dispone i russi non sarebbero avanzati così tanto come hanno potuto fare per l’impossibilità degli ucraini di potersi difendere con mezzi adeguati.
    Coloro che vogliono sinceramente la pace vogliono il rispetto del diritto internazionale e della sovranità degli Stati e  per questo sanno che se una nazione si deve difendere da un aggressione l’unica strada per contenere le vittime ed i danni è dare risposte forti ed immediate.
    Chi crede nella pace sa che è meglio una battaglia breve e violenta, che porti ad un accordo, mentre invece le guerre che si trascinano portano migliaia di morti in più, distruzione di interi territori non solo per gli edifici rasi al suolo ma per la contaminazione del terreno causata dai tanti ordigni bellici esplosi ed abbandonati
    Le guerre lunghe portano a ferite profonde che per molti sarà difficile rimarginare anche negli anni, le guerre lunghe giovano solo ai mercanti di armi, a certe contorte visioni politiche, spesso portano a sconfitte dolorose.
    Putin, come tutti i dittatori, vede in una guerra lunga la possibilità di far vincere la forza numerica del colosso che governa, un colosso però che sempre più ha bisogno di alleanze sporche per incrementare la propria macchina bellica con nuovi strumenti di morte.
    È stato un grave errore degli alleati dell’Ucraina non aver ascoltato subito le richieste di Zelenskiy, più armi date nell’immediatezza dell’invasione avrebbero portato meno morti, stragi, sofferenze, distruzioni e Putin sarebbe stato costretto prima a finire il massacro che ha iniziato.
    I veri guerrafondai, dittatori e non, sono coloro che trascinano le guerre nel tempo e arricchiscono i fabbricanti di armi e gli speculatori.
    Se vogliamo la pace giusta diamo all’Ucraina quanto le serve ancora e impegniamo quelle diplomazie che fino ad ora sono state inconcludenti o assenti per motivi di incapacità o di bieco interesse.

  • Pacifici non pacifisti

    Se Giano era bifronte la verità sembra avere molte più sfaccettature, infatti mentre la Russia può continuare a colpire uno stato sovrano e indipendente, massacrando civili inermi con i suoi bombardamenti, e ritiene di poterlo fare se gli ucraini rispondono, distruggendo qualche postazione militare in territorio russo, per altro vicino al confine, diventa per Putin una dichiarazione di guerra della Nato.

    La Cina parla di pace ma si ritira dal vertice organizzato in Svizzera e parla di altri, più o meno misteriosi, piani, sembra condivisi anche dalla Turchia, e che hanno sempre il presupposto che l’Ucraina ceda molti suoi territori ai russi.

    Il diritto internazionale possiamo scordarcelo possa tutelare tutti, ormai sembra debba essere rispettato solo dai deboli mentre  i forti, gli arroganti, i dittatori possono fare come vogliono perciò, con buona pace di tutti i pacifisti del mondo noi, che siamo pacifici, che siamo quelli che rispettano le leggi, ci siamo veramente stancati e alziamo cuori e bandiere contro gli aggressori, i terroristi, i potenti che parlano di pace, come il presidente cinese che fa affari e vende armi al dittatore russo.

    Non è di oggi né di ieri la innegabile realtà: se vuoi la pace devi avere la forza di impedire che ti aggrediscano, perciò uno stato che non ha le armi per difendersi prima o poi sarà preda di chi ha deciso di conquistarlo.

    Oggi ai russi fanno gola le ricchezze ucraine, forse un domani non lontano vorranno conquistare anche il Campidoglio e San Pietro.

  • Per realizzare la pace occorrono democrazia e rispetto dei diritti fondamentali

    Ci sono guerre, tentativi di ritrovare la libertà e la vita, che spesso sono dimenticati, così di Birmania non si parla quasi mai mentre il conflitto civile, dal 2021 ad oggi, è sempre più aspro.

    Decine di migliaia di giovani, studenti, professionisti, gente normale, persone comuni sono fuggite dalle città per andare nelle giungla ad unirsi alle milizie che combattono contro l’esercito nazionale baluardo del sanguinoso regime militare.

    I villaggi sono bombardati da elicotteri che sparano ovunque e la brutalità dell’esercito ha raggiunto il limite estremo dopo le manifestazioni seguite al processo burletta al quale è stata sottoposta
    Aung San Suu Kyi, oggi ormai quasi ottantenne.

    Nei primi tempi molti governi avevano protestato ed imposto sanzioni ai generali ma il tempo è passato, altre guerre più vicine hanno distratto l’attenzione, i giovani birmani sono rimasti soli, nella giungla, a sognare la libertà, a difendersi, a vedere uccidere ogni giorno tanti civili, a sopportare ingiustizie e violenze.

    In Birmania non ci sono leggi di guerra o diritti civili da rispettare ma il paese, ricco nel suolo e nel sottosuolo, è di proprietà di una casta militare che considera la società divisa tra pochi, che decidono e comandano, e tutti gli altri che devono obbedire e subire mentre le Nazioni Unite tacciono e sarebbero comunque impotenti per come sono oggi organizzate.

    È giusto parlare di pace, operare sempre per la pace ma non vi è mai pace quando vi sono soprusi, violenze, quando la libertà ed il diritto sono negati, quando si massacra il proprio popolo, si invade un’altra nazione, si compiono stragi ed azioni terroriste.

    Per conquistare la libertà bisogna avere il coraggio di combattere, per realizzare la pace occorrono democrazia e rispetto dei diritti fondamentali.

  • Pace in Ucraina

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo dell’On. Dario Rivolta

    Da più parti si chiede che la guerra in Ucraina si trasformi presto in pace o almeno in una tregua che apra a negoziati per la fine definitiva del conflitto. È più che giusto che si desideri porre fine a una carneficina che tocca soldati e civili da una parte e dall’altra e che ci si interroghi su come arrivare a questa soluzione. Tuttavia, prima di ragionare su cosa fare credo che sia bene che qualcuno, chiunque egli sia, risponda (almeno a sé stesso) a due domande.

    La prima: quali sono gli interessi dell’Europa nel volere che l’Ucraina entri nella NATO? Tutti, salvo gli ipocriti, sanno che la guerra è scoppiata dopo che, per diverse volte, Mosca aveva pubblicamente fatto sapere di considerare come un attentato alla propria sicurezza il possibile ingresso dell’Ucraina nella NATO. Non a caso, quando gli americani vollero che all’ordine del giorno dell’incontro NATO di Bucarest del 2008 fossero inseriti anche l’ingresso nell’Alleanza Atlantica di quel Paese e della Georgia, Germania e Francia (e sottovoce anche l’Italia) si opposero, esprimendo la preoccupazione che tale atto avrebbe causato una risposta della Russia tutt’altro che pacifica. Gli americani dovettero fare buon viso a cattiva sorte ma, in cambio della rinuncia, ottennero che la questione fosse solo rimandata a data successiva. Dopo quanto era accaduto nel 1999 con l’attacco della NATO contro la Serbia (non avallato dall’ONU) e alcune “rivoluzioni colorate” scoppiate i Paesi limitrofi alla Russia, a Mosca si era cominciato a pensare, a torto o a ragione, che l’Occidente stesse puntando a destabilizzare ciò che restava dell’ex-Unione Sovietica. Ad avvalorare tale ipotesi aveva contribuito la trasformazione dello scopo ufficiale della NATO, da puramente difensivo al momento della sua creazione, in un’organizzazione che si poneva come obiettivo di intervenire ovunque si giudicasse (da parte di Washington?) fossero a rischio la democrazia e i diritti umani. A tal proposito vedi Dichiarazione di Roma nel 1991 e la sua formalizzazione a Washington nel 1999 attraverso il “Nuovo Concetto Strategico”.  Naturalmente si sarebbero chiusi gli occhi se le violazioni fossero avvenute in Paesi considerati “amici” o “utili”. E, infatti, nessuno ha aiutato o inviato armi all’Armenia democratica attaccata dall’Azerbaigian autoritario nel Nagorno-Karabakh con l’esodo forzato di decine di migliaia di etnicamente armeni costretti a1988-2024d abbandonare tutto.

    Dunque: Gli americani avevano una loro logica, giusta o sbagliata che fosse, ma gli europei? Voglio quindi ripetere la domanda: che interesse aveva, ed ha, l’Europa ad avere l’Ucraina nella NATO? Chi rispondesse che serve per “contenere” la Russia giustificherebbe le reazioni di Mosca.

    La seconda: Qual è l’interesse dell’Europa nell’avere, e magari in tempi rapidi, l’Ucraina come membro dell’Unione Europea? Dopo che gli USA con l’Inflation Reduction Act hanno messo in ginocchio alcuni settori dell’industria europea invitandoli a delocalizzare verso gli Stati Uniti, vogliamo forse distruggere anche l’agricoltura dell’Europa? È risaputo che, grazie alla mano d’opera a buon mercato e alle immense distese di territori coltivabili ucraini, importare senza dazi i prodotti agricoli da quel Paese metterebbe fuori mercato le nostre aziende e in Polonia sono stati i primi ad accorgersene. Senza contare che, dopo tutti i bombardamenti con proiettili a uranio impoverito dalle due parti in conflitto, ogni prodotto frutto dei campi colpiti dalla guerra arriverebbe da noi contaminato da polveri non radioattive ma estremamente velenose (più del piombo – vedi le malattie mortali riscontrate da civili serbi e soldati NATO in Serbia, Iraq e Afghanistan). E poi, chi dovrebbe pagare i costi della ricostruzione dopo che la guerra sarà finita? Come sempre è successo per i futuri nuovi ingressi, miliardi di euro sono stati mandati da Bruxelles ai Paesi candidati per “adeguare le leggi e le infrastrutture” agli standard europei. Nel caso dell’Ucraina, oltre alla sua dimensione superiore ad ogni precedente Paese entrato, si dovranno aggiungere i fondi necessari a ricostruire strade, fabbriche e intere città. Sanno i cittadini europei cosa sarà trattenuto dalle loro tasche per assecondare i vaneggiamenti di quattro irresponsabili politici a Bruxelles e nelle varie capitali?

    E allora: dove sta l’interesse degli europei a far entrare questo nuovo “membro”, tra l’altro considerato dal FMI come il più corrotto d’Europa? Chi rispondesse che le nostre aziende guadagnerebbero dalla ricostruzione fa solo fantasia e non conosce gli accordi già sottoscritti da Zelensky con Blackrock e J.P. Morgan.

    Veniamo ora alla pace che tutti vogliamo. O almeno a una possibile tregua.

    Il 15 e il 16 giugno prossimi, vicino a Lucerna in Svizzera, si terranno colloqui per identificare un percorso che porti verso una pace giusta e duratura in Ucraina. Ottima iniziativa, se non fosse che la Russia, salvo variazioni dell’ultimo momento, ha già annunciato che non vi parteciperà. È possibile concordare una qualunque pace tra due contendenti nell’assenza di uno dei due?

    Purtroppo, i veri problemi di una negoziazione da intraprendere oggi stanno nel fatto che, checché se ne dica, la vera guerra non è tra Ucraina e Russia ma tra Occidente (in primis gli USA) e la Russia e che nessuno dei contendenti ha fiducia nella buona fede dell’altro. Entrambi sono pervasi da intenzioni massimaliste. Almeno per ora Kiev e l’Occidente, dopo tutti i morti inutili tra la popolazione ucraina, non possono permettersi di perdere la faccia rinunciando a far entrare l’Ucraina nella NATO e abdicando alla rivendicazione dei territori perduti e della Crimea. Inoltre, pensano che l’obiettivo di Mosca sia di instaurare a Kiev un governo fantoccio manovrabile da Mosca. Da parte russa si è sinceramente convinti che l’obiettivo dell’Occidente sia di assicurarsi una “sconfitta strategica” della Russia, la sostituzione dell’attuale regime e il futuro “spezzettamento” della Federazione. Se le due parti sono su queste linee è evidente che l’unica soluzione che si può intravedere è tra la capitolazione o la continuazione dei combattimenti.

    Comunque sia, anche chi nega che la storia sia maestra di vita dovrebbe ricordare come sono finite le guerre nel mondo degli ultimi 70/80 anni. Tutte le volte che sono cessate o sono state sospese grazie a un negoziato senza che sia stato drasticamente risolto il motivo che le aveva scatenate, le ostilità sono ricominciate in breve tempo.

    Vediamo qualche esempio tra i tanti:

    Guerra del Vietnam (1955-1975). Gli accordi di pace di Parigi permisero il ritiro americano dal conflitto ma la guerra continuò fino a che il Vietnam del nord arrivò a detronizzare il governo di Saigon.

    Guerra dei 6 giorni (1967). Gli accordi di Camp David arrivarono solo nel ’78 e consistettero nella vittoria di Israele sull’Egitto sancendo il riconoscimento ufficiale dell’esistenza dello stato israeliano. Dunque: vittoria di Israele.

    Prima guerra del Golfo (1990-1991). Ci fu un cessate il fuoco mediato dall’ONU che sospese temporaneamente il conflitto ma fu sostituito da sanzioni pesanti contro l’Iraq. La guerra ricominciò nel 2003 arrivando alla sconfitta definitiva di Saddam Hussein.

    Guerra civile in Bosnia (1992-1995). Con gli accordi di Dayton si creò un governo federale tra le varie etnie bosniache, croate e serbe che, tuttavia, continuano ancora oggi a essere una polveriera con minaccia di scissioni.

    Guerra del Kossovo (1998-1999). Finì solo con la sconfitta totale della Jugoslavia e gli accordi del ’99 furono, di fatto, la resa di Belgrado. La Serbia tuttora non riconosce l’esistenza autonoma dello stato Kossovaro.

    Guerre tra Armenia e Azerbaigian (1988-2024) Le tensioni etniche tra armeni e azeri datano almeno dall’inizio del ‘900. Nel 1988 con la fine dell’URSS l’Armenia si re-impadronì del Nagorno-Karabakh abitato prevalentemente da armeni. La guerra subito scoppiata finì grazie alla mediazione russa per ricominciare nel 1994 e incattivirsi nel 2016 (guerra dei quattro giorni). Nel 2020 scoppiò di nuovo e ancora la Russia fece da mediatrice imponendo un accordo tra le parti. Accordo reso nullo dalla recente invasione azera del 2024 con successo di quest’ultima grazie all’aiuto della Turchia.

    Se anche l’attuale guerra in Ucraina dovesse finire con un accordo tra le parti che non costituisca una vera vittoria per uno dei due, molto probabilmente si tratterebbe di una soluzione temporanea e, prima o poi, le ostilità ricomincerebbero. Alcuni alti funzionari americani ritengono che la guerra debba finire con un accordo negoziato ma nessuno di loro ha mai detto né agli alleati né tanto meno al governo ucraino su quali basi ciò potrebbe avvenire.

    Dobbiamo dunque rinunciare a cercare la pace? Nessuno dovrebbe permetterselo! Quale pace, tuttavia? Accetterà l’occidente che ciò che resta dell’Ucraina diventi un Paese neutrale come furono l’Austria, la Finlandia e la Svezia, senza che la Nato ci metta becco?  O, in alternativa, accetterà Mosca di rinunciare ai territori che ha già inglobato nella Federazione e che Kiev diventi un nuovo membro dell’Alleanza Atlantica? Entrambe le soluzioni sembrano ad oggi piuttosto improbabili.

    Nel frattempo non va dimenticato che un decreto presidenziale voluto da Zelensky nel Settembre 2022 e tuttora in vigore ha stabilito “l’impossibilità di aprire negoziazioni con il Presidente della Federazione Russa Vladimir Putin” e chi lo facesse sarebbe immediatamente accusato di alto tradimento. Forse bisognerebbe cominciare con il cancellare questo “ukase”.

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