Pace

  • Che cos’è la pace?

    Andate in pace, vivete in pace, la pace sia con voi, quante volte la parola pace e sulle nostre labbra e quante volte effettivamente nei nostri cuori, nelle nostre azioni?

    Mentre camminiamo in un campo o guardiamo in riva al mare una luminosa stellata quante volte abbiamo detto “Senti che pace”.

    La pace è una condizione dello spirito ed una condizione sociale e politica che può esistere solo in assenza di conflitti, di ingiustizie manifeste, di aggressioni, la pace è tale solo nel rispetto di reciproche regole condivise, nella comprensione di se stessi e degli altri.

    Dove è la pace se le regole sono calpestate, se la legge del più forte, potente, ricco vuole imporsi sugli altri?

    Dov’e la pace se la finanza prevale sugli interessi sociali, se il profitto illecito, e fine a se stesso, prevale sulla dignità dell’essere umano, dove è la pace quando i diritti sono calpestati?

    Ci sono voluti secoli di guerre, di armistizi, di carneficine, di accordi perché si arrivasse ad aumentare il grado di civiltà e il recente passato della seconda guerra mondiale portasse gradualmente molti paesi europei ad unirsi per trovare con l’Unione Europea una strada che allontanasse i conflitti e garantisse, tra mille problemi, la Pace.

    Oggi siamo tutti angosciati dalle guerre in medio oriente ed in Ucraina e spesso dimentichiamo le molte altre guerre che anche in questo momento stanno insanguinando il mondo, uccidendo persone inermi, travolgendo economie già deboli in paesi dove povertà e fame sono una drammatica consuetudine.

    Abbiamo scritto e firmato la Carta universale dei diritti ignorando che senza una corrispondente carta universale dei doveri i diritti sarebbero stati spesso violati.

    Abbiamo accolto nelle nostre associazioni democratiche, dalle Nazioni Unite all’Organizzazione Mondiale del Commercio, Paesi che non conoscono né democrazia né diritti senza mettere negli atti costitutivi clausole che ci ponessero al riparo dalle loro logiche di potere, così l’Onu non può fare nulla nel Consiglio di sicurezza per frenare, sospendere od espellere la Russia, dopo il massacro che ha iniziato in Ucraina, e il WTO non ha strumenti per opporsi alle guerre commerciali cinesi.

    Molti governi parlano di pace e parte di quegli stessi governi consente delittuose triangolazioni di armi, petrolio, acciaio che rendono ridicoli i tanti proclami sugli embarghi.

    Se un paese è attaccato, i suoi confini violati, una parte del suo popolo violentata ed uccisa come fa questo paese ad ottenere la pace se non respingendo l’aggressore?  Se non sperando nell’aiuto di chi dovrebbe poter ripristinare le regole internazionali, e come si possono ripristinare queste regole se a monte non si sono predisposti gli strumenti necessari?

    L’arte, nelle sue multiformi espressioni può essere di grande aiuto per ritrovare un dialogo tra le persone ed i popoli, l’arte, che non deve avere colore partitico, è il ponte naturale che, attraverso persone dotate di particolare sensibilità e capacità, può arrivare a toccare le corde più intime di ciascuno.

    La musica, la pittura, la scultura che non hanno bisogno di traduzioni ma arrivano direttamente a noi, con l’udito e la vista, sono i primi veicoli di comunicazione purché si presentino in modo comprensibile e non criptico. Poi le altre espressioni artistiche, a partire dalla poesia, dovranno provare a ricostruire quei sentimenti, quella predisposizione all’ascolto ed alla comprensione che oggi, anche per colpa di un distorto utilizzo della Rete, è sempre più difficile ed effimero.
    Io non credo si debba mai sostenere che se si vuole la pace si deve preparare la guerra ma altrettanto convintamente credo che per mantenere la pace dobbiamo  predisporre tutti gli strumenti necessari, dalle regole comuni ad una diplomazia più forte fino a sistemi militari di difesa adeguati e, per quanto riguarda l’Europa, ad un esercito ed una intelligence comuni e tra gli strumenti per difendere e ritrovare la pace l’arte ha un compito primario.

    La parola Pace è una delle più belle parole quando significa dignità nei fatti, convivenza civile, giustizia, rispetto delle regole internazionali, libertà e sicurezza.

    La parola Pace è una delle più inutili quando è pronunciata senza programmi seri, volontà sincere per raggiungerla.

    La parola Pace è una delle più abusate quando non si sa cosa altro dire, cosa proporre e la si usa strumentalmente.

    La parola Pace diventa una presa in giro, un vilipendio proprio alla pace quando si vuole ottenere la sconfitta dell’aggredito ed il trionfo dell’aggressore.

  • La diplomazia culturale come ‘arma’ preventiva per la pace

    Esistono spazi per una diplomazia culturale che crei i presupposti per la pace in un mondo alle prese con guerre in Ucraina, Medio Oriente e, potenzialmente, a Taiwan, solo per citare i conflitti più noti?

    La domanda se la pone l’Associazione Ars Pace presieduta dall’ex presidente del Parlamento europeo Enrique Baron Crespo in un convegno organizzato al Circolo degli Esteri di Roma da Monica Baldi, eurodeputata e vicepresidente della medesima associazione su ‘Diplomazia culturale e pace’, col patrocinio dell’Unione consoli onorari italiani, del Parlamento europeo e dell’Università per la pace dell’Onu.

    Se la pace è un processo, come suggerisce Baron Crespo intendendo per processo un dialogo che tessa e rafforzi i legami, la chiave per attivare quel processo, ha dichiarato l’on. Cristiana Muscardini intervenendo al convegno, non può che essere l’empatia tra esseri umani. Perché pace, come precisato anche da numerosi altri interventi, è concetto che si può declinare in vari modi: dalla resa alle pretese altrui alla reciproca comprensione delle ragioni degli altri. Ma la pace deve essere una pace giusta, ha sottolineato ancora Muscardini, presidiata da regole della comunità e delle organizzazioni internazionali che garantiscano che le ragioni degli uni non siano interamente sacrificate alle ragioni degli altri. E la diplomazia culturale come soft power, quale l’ha identificata l’ambasciatore e presidente dell’Ucoi Carlo Marsili, è esattamene lo strumento attraverso il quale la comunità internazionale può raggiungere un equilibrio delle rispettive ragioni che non sia fondato sulla forza ma sulla mutua comprensione.

    Chiarito il concetto, la sua implementazione pratica è tutt’altro che ovvia, ha evidenziato Gianfranco Fini intervenendo come ospite al convegno stesso. Perché l’Occidente è davvero ormai in crisi: se ne parla da tempo, ma la cancel culture, la pretesa di rinnegare e cancellare un passato che si trova inaccettabile come se riscrivere la storia fosse una via davvero praticabile e non un’illusione quantomeno ingenua, è la prova fattuale che l’Occidente non sa più cosa sia, cosa voglia essere e cosa voglia rappresentare. Difficile quindi che sia in grado di dialogare con altri e far dialogare altri per comporre le rispettive ragioni.

    Ecco allora, come sottolineato dall’ex ministro degli Esteri e professore della Luiss Enzo Moavero Milanesi, che la via della diplomazia culturale si fa stretta e impervia. E tuttavia, ha evidenziato ancora lo stesso Milanesi, resta una via praticabile: per l’Italia anzitutto, perché se si parla di cultura l’Italia è una potenza a tutti gli effetti, per l’Unione europea, perché la sua stessa costruzione è il risultato di un’ibridazione di identità e culture che non si sono rinnegate ma che proprio ricordando il loro bellicosissimo passato hanno dato vita a un processo di integrazione.

    Altro che abdicare a se stesso, l’Occidente deve ritrovare in se stesso le ragioni per continuare a essere un player globale. Di contro alla cancel culture vi è l’esempio additato dall’ambasciatore e presidente dello Iai (Istituto affari internazionali), Ferdinando Nelli Feroci, della Corea del Sud, Paese a tutti gli effetti appartenente all’Occidente, che tramite la Korea Foundation sta facendo un grande lavoro di affermazione (branding, si direbbe con linguaggio del marketing) della propria cultura e dei propri valori.

    Educazione, informazione, conoscenza, fa eco a Nelli Feroci l’ambasciatrice Maria Assunta Accili (membro del consiglio direttivo della Società italiana per l’organizzazione internazionale), sono i tre elementi attraverso i quali la cultura può evitare ai popoli di precipitare come sonnambuli in relazioni conflittuali anziché armoniose.

    A fronte di un Occidente che per troppo tempo ha dato per scontata la pace, come provoca la giornalista Rai Tiziana De Simone nel moderare il dibattito, vi è un Sud globale, ricorda il rappresentante della sede romana dell’Università della Pace Roberto Savio, che mostra un crescente scetticismo verso l’Occidente propria a causa dei dubbi che questo nutre su se stesso e quindi sul suo ruolo nel mondo e sugli aiuti internazionali verso gli altri Paesi di cui è sempre meno prodigo (da qui, ha notato Savio, l’affermazione di governi sovranisti in 10 dei 27 Paesi del Sud globale).

    Proprio per sollecitare i vari Paesi e per indurre tutti a prendere l’iniziativa del dialogo e del confronto non armato l’associazione promuoverà ulteriori convegni in vari Paesi. Prossima tappa, ha annunciato Monica Baldi, Barcellona.

  • Somalia di male in peggio. E affiora la tentazione di abbandonarla al suo destino

    La transizione della Somalia verso la stabilità rischia di slittare ulteriormente, nel quadro dei complessi sviluppi regionali e dei presunti legami che intercorrono tra le milizie jihadiste somale e i gruppi armati mediorientali. L’ennesima minaccia potrebbe venire ora dal Golfo di Aden, dove gli Stati Uniti hanno lanciato l’allarme sui presunti contatti fra Al Shabaab e gli Houthi, le milizie sciite yemenite sostenute dall’Iran. Secondo il generale Michael Langley, a capo del Comando degli Stati Uniti per l’Africa (Africom), la Somalia deve guardare con estrema attenzione all’accresciuta presenza di miliziani dello Stato islamico nel nord del Paese, ma anche alla crescente collaborazione tra Al Shabaab e gli Houthi. In un’intervista rilasciata in esclusiva al canale “Voa”, Langley ha rivelato che, secondo le stime di Washington, il numero di miliziani dello Stato islamico nel nord somalo sarebbe “quasi raddoppiato” rispetto allo scorso anno. Sebbene il generale non abbia quantificato la presenza, stime precedenti della Difesa Usa parlavano di circa 200 combattenti jihadisti sul territorio. Una minaccia alla quale vanno aggiunti i circa 12-13mila combattenti che Al Shabaab continua a governare in tutta la Somalia.

    Una possibile alleanza, quella tra le milizie sciite Houthi e Al Shabaab, che spaventa non poco gli Usa. “Siamo preoccupati e stiamo monitorando attentamente la situazione, perché questo potrebbe trasformarsi molto rapidamente in un cattivo vicinato” per la Somalia, ha detto Langley. Il generale non ha fatto mistero della sua preoccupazione soprattutto in vista del piano di ritiro della Missione di transizione dell’Unione africana in Somalia (Atmis), previsto – dopo diversi rinvii – entro la fine di dicembre. Il capo di Africom ha escluso che gli Usa possano giocare un ruolo sul campo in questa fase di transizione, affermando che le unità statunitensi manterranno solo la loro missione di consulenza e assistenza. “Siamo lì per consigliare e assisterli nella loro formazione, ma la lotta è loro”, ha detto in riferimento ai militari dell’esercito somalo. Il progetto di ritiro delle forze Atmis prevede infatti il graduale trasferimento di tutti gli oneri di sicurezza all’Esercito nazionale somalo (Sna), nel quadro di una progressiva assunzione di responsabilità nella stabilizzazione del Paese.

    La percezione di un rafforzamento di Al Shabaab, del resto, aveva già spinto il presidente Hassan Sheikh Mohamud a chiedere e ad ottenere dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, per ben tre volte, il rinvio della tabella di marcia del ritiro delle truppe dell’Unione africana, missione alla quale partecipano militari di Kenya, Burundi, Uganda, Etiopia e Gibuti. Lo scorso 19 agosto la missione Atmis è stata prorogata fino al 31 dicembre, permettendo così a circa 12.600 militari dell’Ua di rimanere nel Paese del Corno d’Africa per altri quattro mesi. L’organo esecutivo delle Nazioni Unite ha chiesto in particolare al segretario generale Antonio Guterres di approvare il mantenimento della fornitura alla missione di un pacchetto di supporto logistico in grado di supportare altri 20.900 membri del personale dell’Esercito nazionale somalo o della Forza di polizia nazionale somala in operazioni congiunte o coordinate con l’Atmis. Ad oggi, 10mila ufficiali hanno già lasciato la missione in conformità con il Piano di transizione somalo.

    Se la vasta lanciata dall’esercito contro al Shabaab dopo l’elezione del presidente Hassan Sheikh Mohamud – nel maggio del 2022 – ha contribuito a riconquistare rilevanti porzioni di territorio, la capacità del gruppo jihadista di riorganizzarsi ed adattare la sua azione ad obiettivi civili e militari continua a dare filo da torcere all’esercito somalo. Ad agosto l’attentato ad un frequentato lido di Mogadiscio ha ucciso 32 civili e ne ha feriti 63, mentre meno di un mese prima, il 15 luglio, una bomba fatta esplodere in un bar della capitale mentre veniva trasmessa la finale degli Europei tra Spagna ed Inghilterra ha provocato 9 morti e 23 feriti. A febbraio un’autobomba piazzata nella base Generale Gordon di Mogadiscio ha ucciso quattro militari degli Emirati Arabi Uniti e uno del Bahrein. A questo aspetto si è aggiunta anche la crisi in corso con la vicina Etiopia per l’accordo siglato dal governo di Addis Abeba con l’autoproclamata Repubblica del Somaliland, che rivendica un’indipendenza non riconosciuta da Mogadiscio.

    L’Etiopia offre un importante contributo di sicurezza alla Somalia nelle regioni di confine, e l’eventuale ritiro delle sue forze dal territorio rischierebbe di incrinare il precario equilibrio di sicurezza faticosamente conquistato da Mogadiscio. Un contenzioso che ha creato anche tensioni interne fra il governo federale ed alcuni Stati regionali, in particolare quello del Sudovest, e che a livello regionale ha portato l’Egitto a schierarsi – anche assicurando un consistente sostegno militare – in favore di Mogadiscio, sull’onda di una mai sopita ostilità etiope legata ad altri dossier, a cominciare da quello sulla Grande diga della rinascita etiope (Gerd). Alla missione Atmis hanno contribuito in tutto 22mila militari, provenienti prevalentemente da Uganda, Kenya, Gibuti ed Etiopia.

    I vertici della missione militare Ua stanno progressivamente smantellando le posizioni delle loro truppe, riconsegnando via via la responsabilità della sicurezza territoriale alle Forze armate somale. Così, a febbraio scorso sono state riconsegnate all’esercito sette basi operative: fra queste ci sono la sede della presidenza e del parlamento a Mogadiscio, in precedenza sotto la sicurezza del contingente ugandese; le basi di Bio Cadale, Raga Ceel e Qorillow gestite in precedenza dalle unità del Burundi; quella di Burahache che era in mano alle Forze di difesa del Kenya ed il vecchio aeroporto militare, in precedenza sotto la tutela dell’esercito etiope. Altre due basi sono state chiuse. I successi ottenuti dall’esercito somalo nella controffensiva contro al Shabaab ha permesso ad Atmis di procedere nel ritiro delle sue unità, sebbene la situazione della sicurezza rimanga molto precaria. In questo scenario d’incertezza, il governo federale ha negoziato con i partner internazionali l’istituzione una forza multinazionale che opererebbe per un anno a partire da gennaio del 2025 con il sostegno di Gibuti, Kenya, Uganda e Burundi.

  • Guerre lunghe e mercanti di armi

    La capacità di Kiev di penetrare in territorio russo, anche se sfiancata da più di due anni di una guerra condotta da Putin con particolare durezza ed efferatezza, dimostra inequivocabilmente la fermezza degli ucraini nel voler difendere la loro terra e gli errori dei loro alleati che non hanno fornito prima armi sufficienti ad impedire l’avanzata russa.
    Se l’Ucraina avesse avuto per tempo le armi di cui ora dispone i russi non sarebbero avanzati così tanto come hanno potuto fare per l’impossibilità degli ucraini di potersi difendere con mezzi adeguati.
    Coloro che vogliono sinceramente la pace vogliono il rispetto del diritto internazionale e della sovranità degli Stati e  per questo sanno che se una nazione si deve difendere da un aggressione l’unica strada per contenere le vittime ed i danni è dare risposte forti ed immediate.
    Chi crede nella pace sa che è meglio una battaglia breve e violenta, che porti ad un accordo, mentre invece le guerre che si trascinano portano migliaia di morti in più, distruzione di interi territori non solo per gli edifici rasi al suolo ma per la contaminazione del terreno causata dai tanti ordigni bellici esplosi ed abbandonati
    Le guerre lunghe portano a ferite profonde che per molti sarà difficile rimarginare anche negli anni, le guerre lunghe giovano solo ai mercanti di armi, a certe contorte visioni politiche, spesso portano a sconfitte dolorose.
    Putin, come tutti i dittatori, vede in una guerra lunga la possibilità di far vincere la forza numerica del colosso che governa, un colosso però che sempre più ha bisogno di alleanze sporche per incrementare la propria macchina bellica con nuovi strumenti di morte.
    È stato un grave errore degli alleati dell’Ucraina non aver ascoltato subito le richieste di Zelenskiy, più armi date nell’immediatezza dell’invasione avrebbero portato meno morti, stragi, sofferenze, distruzioni e Putin sarebbe stato costretto prima a finire il massacro che ha iniziato.
    I veri guerrafondai, dittatori e non, sono coloro che trascinano le guerre nel tempo e arricchiscono i fabbricanti di armi e gli speculatori.
    Se vogliamo la pace giusta diamo all’Ucraina quanto le serve ancora e impegniamo quelle diplomazie che fino ad ora sono state inconcludenti o assenti per motivi di incapacità o di bieco interesse.

  • Pacifici non pacifisti

    Se Giano era bifronte la verità sembra avere molte più sfaccettature, infatti mentre la Russia può continuare a colpire uno stato sovrano e indipendente, massacrando civili inermi con i suoi bombardamenti, e ritiene di poterlo fare se gli ucraini rispondono, distruggendo qualche postazione militare in territorio russo, per altro vicino al confine, diventa per Putin una dichiarazione di guerra della Nato.

    La Cina parla di pace ma si ritira dal vertice organizzato in Svizzera e parla di altri, più o meno misteriosi, piani, sembra condivisi anche dalla Turchia, e che hanno sempre il presupposto che l’Ucraina ceda molti suoi territori ai russi.

    Il diritto internazionale possiamo scordarcelo possa tutelare tutti, ormai sembra debba essere rispettato solo dai deboli mentre  i forti, gli arroganti, i dittatori possono fare come vogliono perciò, con buona pace di tutti i pacifisti del mondo noi, che siamo pacifici, che siamo quelli che rispettano le leggi, ci siamo veramente stancati e alziamo cuori e bandiere contro gli aggressori, i terroristi, i potenti che parlano di pace, come il presidente cinese che fa affari e vende armi al dittatore russo.

    Non è di oggi né di ieri la innegabile realtà: se vuoi la pace devi avere la forza di impedire che ti aggrediscano, perciò uno stato che non ha le armi per difendersi prima o poi sarà preda di chi ha deciso di conquistarlo.

    Oggi ai russi fanno gola le ricchezze ucraine, forse un domani non lontano vorranno conquistare anche il Campidoglio e San Pietro.

  • Per realizzare la pace occorrono democrazia e rispetto dei diritti fondamentali

    Ci sono guerre, tentativi di ritrovare la libertà e la vita, che spesso sono dimenticati, così di Birmania non si parla quasi mai mentre il conflitto civile, dal 2021 ad oggi, è sempre più aspro.

    Decine di migliaia di giovani, studenti, professionisti, gente normale, persone comuni sono fuggite dalle città per andare nelle giungla ad unirsi alle milizie che combattono contro l’esercito nazionale baluardo del sanguinoso regime militare.

    I villaggi sono bombardati da elicotteri che sparano ovunque e la brutalità dell’esercito ha raggiunto il limite estremo dopo le manifestazioni seguite al processo burletta al quale è stata sottoposta
    Aung San Suu Kyi, oggi ormai quasi ottantenne.

    Nei primi tempi molti governi avevano protestato ed imposto sanzioni ai generali ma il tempo è passato, altre guerre più vicine hanno distratto l’attenzione, i giovani birmani sono rimasti soli, nella giungla, a sognare la libertà, a difendersi, a vedere uccidere ogni giorno tanti civili, a sopportare ingiustizie e violenze.

    In Birmania non ci sono leggi di guerra o diritti civili da rispettare ma il paese, ricco nel suolo e nel sottosuolo, è di proprietà di una casta militare che considera la società divisa tra pochi, che decidono e comandano, e tutti gli altri che devono obbedire e subire mentre le Nazioni Unite tacciono e sarebbero comunque impotenti per come sono oggi organizzate.

    È giusto parlare di pace, operare sempre per la pace ma non vi è mai pace quando vi sono soprusi, violenze, quando la libertà ed il diritto sono negati, quando si massacra il proprio popolo, si invade un’altra nazione, si compiono stragi ed azioni terroriste.

    Per conquistare la libertà bisogna avere il coraggio di combattere, per realizzare la pace occorrono democrazia e rispetto dei diritti fondamentali.

  • Pace in Ucraina

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo dell’On. Dario Rivolta

    Da più parti si chiede che la guerra in Ucraina si trasformi presto in pace o almeno in una tregua che apra a negoziati per la fine definitiva del conflitto. È più che giusto che si desideri porre fine a una carneficina che tocca soldati e civili da una parte e dall’altra e che ci si interroghi su come arrivare a questa soluzione. Tuttavia, prima di ragionare su cosa fare credo che sia bene che qualcuno, chiunque egli sia, risponda (almeno a sé stesso) a due domande.

    La prima: quali sono gli interessi dell’Europa nel volere che l’Ucraina entri nella NATO? Tutti, salvo gli ipocriti, sanno che la guerra è scoppiata dopo che, per diverse volte, Mosca aveva pubblicamente fatto sapere di considerare come un attentato alla propria sicurezza il possibile ingresso dell’Ucraina nella NATO. Non a caso, quando gli americani vollero che all’ordine del giorno dell’incontro NATO di Bucarest del 2008 fossero inseriti anche l’ingresso nell’Alleanza Atlantica di quel Paese e della Georgia, Germania e Francia (e sottovoce anche l’Italia) si opposero, esprimendo la preoccupazione che tale atto avrebbe causato una risposta della Russia tutt’altro che pacifica. Gli americani dovettero fare buon viso a cattiva sorte ma, in cambio della rinuncia, ottennero che la questione fosse solo rimandata a data successiva. Dopo quanto era accaduto nel 1999 con l’attacco della NATO contro la Serbia (non avallato dall’ONU) e alcune “rivoluzioni colorate” scoppiate i Paesi limitrofi alla Russia, a Mosca si era cominciato a pensare, a torto o a ragione, che l’Occidente stesse puntando a destabilizzare ciò che restava dell’ex-Unione Sovietica. Ad avvalorare tale ipotesi aveva contribuito la trasformazione dello scopo ufficiale della NATO, da puramente difensivo al momento della sua creazione, in un’organizzazione che si poneva come obiettivo di intervenire ovunque si giudicasse (da parte di Washington?) fossero a rischio la democrazia e i diritti umani. A tal proposito vedi Dichiarazione di Roma nel 1991 e la sua formalizzazione a Washington nel 1999 attraverso il “Nuovo Concetto Strategico”.  Naturalmente si sarebbero chiusi gli occhi se le violazioni fossero avvenute in Paesi considerati “amici” o “utili”. E, infatti, nessuno ha aiutato o inviato armi all’Armenia democratica attaccata dall’Azerbaigian autoritario nel Nagorno-Karabakh con l’esodo forzato di decine di migliaia di etnicamente armeni costretti a1988-2024d abbandonare tutto.

    Dunque: Gli americani avevano una loro logica, giusta o sbagliata che fosse, ma gli europei? Voglio quindi ripetere la domanda: che interesse aveva, ed ha, l’Europa ad avere l’Ucraina nella NATO? Chi rispondesse che serve per “contenere” la Russia giustificherebbe le reazioni di Mosca.

    La seconda: Qual è l’interesse dell’Europa nell’avere, e magari in tempi rapidi, l’Ucraina come membro dell’Unione Europea? Dopo che gli USA con l’Inflation Reduction Act hanno messo in ginocchio alcuni settori dell’industria europea invitandoli a delocalizzare verso gli Stati Uniti, vogliamo forse distruggere anche l’agricoltura dell’Europa? È risaputo che, grazie alla mano d’opera a buon mercato e alle immense distese di territori coltivabili ucraini, importare senza dazi i prodotti agricoli da quel Paese metterebbe fuori mercato le nostre aziende e in Polonia sono stati i primi ad accorgersene. Senza contare che, dopo tutti i bombardamenti con proiettili a uranio impoverito dalle due parti in conflitto, ogni prodotto frutto dei campi colpiti dalla guerra arriverebbe da noi contaminato da polveri non radioattive ma estremamente velenose (più del piombo – vedi le malattie mortali riscontrate da civili serbi e soldati NATO in Serbia, Iraq e Afghanistan). E poi, chi dovrebbe pagare i costi della ricostruzione dopo che la guerra sarà finita? Come sempre è successo per i futuri nuovi ingressi, miliardi di euro sono stati mandati da Bruxelles ai Paesi candidati per “adeguare le leggi e le infrastrutture” agli standard europei. Nel caso dell’Ucraina, oltre alla sua dimensione superiore ad ogni precedente Paese entrato, si dovranno aggiungere i fondi necessari a ricostruire strade, fabbriche e intere città. Sanno i cittadini europei cosa sarà trattenuto dalle loro tasche per assecondare i vaneggiamenti di quattro irresponsabili politici a Bruxelles e nelle varie capitali?

    E allora: dove sta l’interesse degli europei a far entrare questo nuovo “membro”, tra l’altro considerato dal FMI come il più corrotto d’Europa? Chi rispondesse che le nostre aziende guadagnerebbero dalla ricostruzione fa solo fantasia e non conosce gli accordi già sottoscritti da Zelensky con Blackrock e J.P. Morgan.

    Veniamo ora alla pace che tutti vogliamo. O almeno a una possibile tregua.

    Il 15 e il 16 giugno prossimi, vicino a Lucerna in Svizzera, si terranno colloqui per identificare un percorso che porti verso una pace giusta e duratura in Ucraina. Ottima iniziativa, se non fosse che la Russia, salvo variazioni dell’ultimo momento, ha già annunciato che non vi parteciperà. È possibile concordare una qualunque pace tra due contendenti nell’assenza di uno dei due?

    Purtroppo, i veri problemi di una negoziazione da intraprendere oggi stanno nel fatto che, checché se ne dica, la vera guerra non è tra Ucraina e Russia ma tra Occidente (in primis gli USA) e la Russia e che nessuno dei contendenti ha fiducia nella buona fede dell’altro. Entrambi sono pervasi da intenzioni massimaliste. Almeno per ora Kiev e l’Occidente, dopo tutti i morti inutili tra la popolazione ucraina, non possono permettersi di perdere la faccia rinunciando a far entrare l’Ucraina nella NATO e abdicando alla rivendicazione dei territori perduti e della Crimea. Inoltre, pensano che l’obiettivo di Mosca sia di instaurare a Kiev un governo fantoccio manovrabile da Mosca. Da parte russa si è sinceramente convinti che l’obiettivo dell’Occidente sia di assicurarsi una “sconfitta strategica” della Russia, la sostituzione dell’attuale regime e il futuro “spezzettamento” della Federazione. Se le due parti sono su queste linee è evidente che l’unica soluzione che si può intravedere è tra la capitolazione o la continuazione dei combattimenti.

    Comunque sia, anche chi nega che la storia sia maestra di vita dovrebbe ricordare come sono finite le guerre nel mondo degli ultimi 70/80 anni. Tutte le volte che sono cessate o sono state sospese grazie a un negoziato senza che sia stato drasticamente risolto il motivo che le aveva scatenate, le ostilità sono ricominciate in breve tempo.

    Vediamo qualche esempio tra i tanti:

    Guerra del Vietnam (1955-1975). Gli accordi di pace di Parigi permisero il ritiro americano dal conflitto ma la guerra continuò fino a che il Vietnam del nord arrivò a detronizzare il governo di Saigon.

    Guerra dei 6 giorni (1967). Gli accordi di Camp David arrivarono solo nel ’78 e consistettero nella vittoria di Israele sull’Egitto sancendo il riconoscimento ufficiale dell’esistenza dello stato israeliano. Dunque: vittoria di Israele.

    Prima guerra del Golfo (1990-1991). Ci fu un cessate il fuoco mediato dall’ONU che sospese temporaneamente il conflitto ma fu sostituito da sanzioni pesanti contro l’Iraq. La guerra ricominciò nel 2003 arrivando alla sconfitta definitiva di Saddam Hussein.

    Guerra civile in Bosnia (1992-1995). Con gli accordi di Dayton si creò un governo federale tra le varie etnie bosniache, croate e serbe che, tuttavia, continuano ancora oggi a essere una polveriera con minaccia di scissioni.

    Guerra del Kossovo (1998-1999). Finì solo con la sconfitta totale della Jugoslavia e gli accordi del ’99 furono, di fatto, la resa di Belgrado. La Serbia tuttora non riconosce l’esistenza autonoma dello stato Kossovaro.

    Guerre tra Armenia e Azerbaigian (1988-2024) Le tensioni etniche tra armeni e azeri datano almeno dall’inizio del ‘900. Nel 1988 con la fine dell’URSS l’Armenia si re-impadronì del Nagorno-Karabakh abitato prevalentemente da armeni. La guerra subito scoppiata finì grazie alla mediazione russa per ricominciare nel 1994 e incattivirsi nel 2016 (guerra dei quattro giorni). Nel 2020 scoppiò di nuovo e ancora la Russia fece da mediatrice imponendo un accordo tra le parti. Accordo reso nullo dalla recente invasione azera del 2024 con successo di quest’ultima grazie all’aiuto della Turchia.

    Se anche l’attuale guerra in Ucraina dovesse finire con un accordo tra le parti che non costituisca una vera vittoria per uno dei due, molto probabilmente si tratterebbe di una soluzione temporanea e, prima o poi, le ostilità ricomincerebbero. Alcuni alti funzionari americani ritengono che la guerra debba finire con un accordo negoziato ma nessuno di loro ha mai detto né agli alleati né tanto meno al governo ucraino su quali basi ciò potrebbe avvenire.

    Dobbiamo dunque rinunciare a cercare la pace? Nessuno dovrebbe permetterselo! Quale pace, tuttavia? Accetterà l’occidente che ciò che resta dell’Ucraina diventi un Paese neutrale come furono l’Austria, la Finlandia e la Svezia, senza che la Nato ci metta becco?  O, in alternativa, accetterà Mosca di rinunciare ai territori che ha già inglobato nella Federazione e che Kiev diventi un nuovo membro dell’Alleanza Atlantica? Entrambe le soluzioni sembrano ad oggi piuttosto improbabili.

    Nel frattempo non va dimenticato che un decreto presidenziale voluto da Zelensky nel Settembre 2022 e tuttora in vigore ha stabilito “l’impossibilità di aprire negoziazioni con il Presidente della Federazione Russa Vladimir Putin” e chi lo facesse sarebbe immediatamente accusato di alto tradimento. Forse bisognerebbe cominciare con il cancellare questo “ukase”.

  • Festival del Cinema dei Diritti Umani di Napoli: il documentario italiano ‘Stai fermo lì’ riceve il Premio per la Pace dell’Ambasciata svizzera in Italia

    “Quello che mi rattrista maggiormente sono i ricordi delle persone trattenute in carcere, picchiate e torturate, anche per motivi futili come indossare i jeans o ascoltare la musica occidentale… i ricordi delle madri che aspettano i figli e disperate non sanno dove sono finiti. Una situazione che ancora oggi va avanti… E pensare invece che noi dovremmo essere fratelli, dovremmo condividere la felicità e tutti insieme proteggere la terra!”. Sono parole pronunciate da Babak Monazzami, giovane persiano, nel documentario Stai fermo lì che racconta una parte della sua vita. Il documentario ha ricevuto il Premio sulla Pace dell’Ambasciata Svizzera in Italia in occasione del Festival del Cinema dei Diritti Umani di Napoli, giunto alla XV edizione, svoltosi nel capoluogo campano dal 15 al 25 novembre e intitolato, quest’anno, Diritti minori – I bambini alla guerra.

    A raccogliere e filmare i pensieri e i racconti di Babak è la giornalista Clementina Speranza, alla sua prima esperienza in veste di regista, che ha intitolato il documentario Stai fermo lì, come la canzone di Giusy Ferreri per cui Monazzami ha interpretato, durante il suo periodo milanese, un video musicale e che un po’ il leitmotiv della sua vita: da una parte scappa e dall’altra è costretto a rimanere fermo.

    Artista poliedrico Babak dipinge tele dai molteplici soggetti che compaiono anche nel documentario e una sua opera dedicata ai diritti umani, La sposa bambina, era presente anche in sala in occasione della proiezione alla quale ha partecipato con l’autrice del documentario. “Non è stato facile effettuare le riprese, l’emozione ha interrotto numerose volte il girato. Il ripercorrere i ricordi cruenti e tragici, o sentimentali, sui propri cari, impediva a Babak di proseguire”, afferma Clementina Speranza.  E aggiunge: “Obiettivo non è solo quello di risvegliare la coscienza del pubblico, ma anche di ricordare quale sia il prezzo che il silenzio può esigere. È un invito a non chiudere gli occhi verso chi è dovuto scappare dalla propria terra anche se mai l’avrebbe voluto”.

    Da tre anni l’Ambasciata di Svizzera collabora con il Festival dei Diritti umani istituendo il ‘Premio per la Pace’, valore che caratterizza fortemente il documentario Stai fermo lì, come sottolineato da Raffaella D’Errico, Console Onoraria di Svizzera in Campania: “Assegnando questo premio, l’Ambasciata di Svizzera intende mettere in evidenza come il rispetto dei diritti umani sia il presupposto necessario per ottenere una pace durevole. La difesa dei diritti umani deve andare al di là dei casi più noti ed eclatanti; ogni destino individuale vale la nostra attenzione”.

    Con quasi 50 conflitti, di cui due alle porte dell’Europa, e nel 75° anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo il documentario Stai fermo lì racconta una storia tipica del nostro tempo. “E’ il frutto di una serie di guerre che l’Occidente ha dichiarato ai paesi Orientali lasciando poi irrisolti i problemi e creando nuovi e ulteriori problemi, non ai governi ma alle popolazioni indifese, e a chi fugge e viene perseguitato in tutto il mondo” – spiega Maurizio Del Bufalo, direttore artistico del Festival del Cinema dei Diritti Umani di Napoli. Proprio come nel caso di Babak, “un agente di pace, un mediatore culturale che viene perseguitato anche in Europa. Stiamo pagando le colpe di una cattiva gestione della pace mondiale. Questo premio per la pace – conclude Del Bufalo – vuole essere un premio a chi, nonostante le condizioni in cui il suo Paese si trovi, riesce a lavorare per la pace di tutti anche a costo di pagare per le conseguenze del suo coraggio”.

    In sala erano presenti Julie Meylan, Prima Segretaria dell’Ambasciata della Svizzera in Italia, Mariano Bruno, Console Onorario del Principato di Monaco, Segretario Generale del Corpo Consolare di Napoli; Francesca Giglio console Onoraria delle Filippine; Stefano Ducceschi, Console Onorario della Germania; Gianluca Eminente, console onorario dell’Islanda; Valentina Mazza, console onoraria del Kazakhstan; Maria Luisa Cusati, Console Onoraria del Portogallo; Jacopo Fronzoni Console Onorario della Slovenia.

  • Necessarie riflessioni per evitare il peggio

    Non far nulla senza riflessione, alla fine dell’azione non te ne pentirai.

    Siracide (32;19), Antico Testamento.

    La prossima settimana, il 9 maggio, si celebrerà il 73o anniversario di quella che ormai è nota come la Dichiarazione Schuman. Un documento storico che rappresentava le convinzioni ed il pensiero lungimirante dei Padri Fondatori dell’Europa unita. Un documento presentato il 9 maggio 1950 dall’allora ministro degli Esteri francese Robert Schuman. Bisogna sottolineare che in quel periodo i Paesi europei stavano cercando di portare avanti il processo della ricostruzione dopo una lunga e devastante seconda guerra mondiale. E per portare avanti ed atturare il loro Progetto per un’Europa senza guerre ed unita, i Padri Fondatori, dopo lunghe e responsabili riflessioni, avevano deciso di partire con delle scelte adeguate e concrete. Scelte che permettevano una effettiva collaborazione economica tra i Paesi europei e, allo stesso tempo, rendevano difficile l’avvio di un altro conflitto armato in Europa. E non a caso la prima iniziativa si riferiva a due materie prime, indispensabili sia per la guerra che per lo sviluppo economico, tanto importante in generale, ma anche durante quel periodo di ricostruzione. Si trattava del carbone e dell’accaio. I Padri Fondatori erano convinti che il controllo comune della produzione di quelle due importanti materie prime avrebbe evitato una nuova guerra, soprattutto fra i due rivali storici, la Francia e la Germania, ma anche fra altri paesi europei. Ne era convinto anche Schuman che, nella sua dichiarazione, resa pubblica il 9 maggio 1950, sottolineava che così facendo una nuova guerra diventava “non solo impensabile, ma materialmente impossibile”. Circa un’anno dopo, il 18 aprile 1951, con il Trattato di Parigi, è stata istituita la Comunità europea del carbone e dell’accaio. Tra i promotori di quella storica iniziativa c’erano Jean Monnet, Robert Schuman, Konrad Adenauer ed Alcide De Gasperi. Un’iniziativa quella della Comunità europea del carbone e dell’accaio nella quale, all’inizio, aderirono la Francia, la Germania, l’Italia, il Belgio, il Lussemburgo e i Paesi Bassi, ma che era aperta anche per altri Paesi europei. Le convinzioni e la visione dei Padri Fondatori per un’Europa comune, rese pubbliche con la Dichiarazione Schuman il 9 maggio 1950, diventarono poi parte integrante del Trattato di Roma, approvato il 25 marzo 1957 dai primi sei Paesi fondatori della Comunità economica europea, gli stessi che aderirono alla costituzione della Comunità europea del carbone e dell’accaio.

    La scorsa settimana, dal 28 e fino al 30 aprile, Papa Francesco è stato in Ungheria. Ha incontrato le più alte autorità istituzionali ed ecclesiastiche del Paese. Ha fatto anche diverse visite durante la sua permanenza in Ungheria. Dopo aver incontrato la presidente della Repubblica ed il primo ministro ungherese, venerdì scorso papa Francesco ha avuto un incontro con i rappresentanti delle autorità, della società civile e del corpo diplomatico. Durante quell’incontro il Pontefice ha fatto appello all’Europa di “ritrovare l’anima europea”, riferendosi al pensiero lungimirante dai Padri Fondatori. Papa Francesco ha ribadito la sua ormai da tempo espressa preoccupazione per quanto sta accadendo in Ucraina, dove “tornano a ruggire i nazionalismi”. Il Pontefice ha anche sottolineato la necessità che la politica, “regredita a una sorta di infantilismo bellico”, debba ritornare a quella che rispetta quanto stabilito dai Padri Fondatori. Durante quell’incontro il Pontefice ha ribadito che “…Nel dopoguerra l’Europa ha rappresentato, insieme alle Nazioni Unite, la grande speranza, nel comune obiettivo che un più stretto legame fra le Nazioni prevenisse ulteriori conflitti”. Aggiungendo però che purtroppo “…la passione per la politica comunitaria e per la multilateralità sembra un bel ricordo del passato: pare di assistere al triste tramonto del sogno corale di pace, mentre si fanno spazio i solisti della guerra”. Per il Pontefice la pace, in una simile e preoccupante situazione internazionale, è indispensabile. Ma come egli ha detto, la pace “non verrà mai dal perseguimento dei propri interessi strategici, bensì da politiche capaci di guardare all’insieme, allo sviluppo di tutti: attente alle persone, ai poveri e al domani; non solo al potere, ai guadagni e alle opportunità del presente”. Prima di partire per Roma, nel pomeriggio di domenica scorsa il Santo Padre ha avuto un incontro, presso la Facoltà di Informatica e di Scienze Bioniche dell’Università Cattolica Péter Pázmány a Budapest, con rappresentanti degli studenti, nonché con quelli della comunità della cultura e delle università. “La cultura, in un certo senso, è come un grande fiume: collega e percorre varie regioni della vita e della storia, mettendole in relazione, permette di navigare nel mondo e di abbracciare Paesi e terre lontane, disseta la mente, irriga l’anima, fa crescere la società”, ha detto ai partecipanti all’incontro il Santo Padre. In seguito, riferendosi a quanto disse Gesù ai giudei – “Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi” (Vangelo secondo Giovani, 8/32) – il Pontefice ha detto ai partecipanti che “…l’Ungheria ha visto il susseguirsi di ideologie che si imponevano come verità, ma non davano libertà”. Ed ha aggiunto, ribadendo che “…anche oggi il rischio non è scomparso: penso al passaggio dal comunismo al consumismo. Ad accomunare entrambi gli “ismi” c’è una falsa idea di libertà. Quella del comunismo era una “libertà” costretta, limitata da fuori, decisa da qualcun altro; quella del consumismo è una “libertà” libertina, edonista, appiattita su di sé, che rende schiavi dei consumi e delle cose. E quanto è facile passare dai limiti imposti al pensare, come nel comunismo, al pensarsi senza limiti, come nel consumismo!”.

    Da anni Papa Francesco sta parlando di una terza guerra mondiale a pezzetti. Durante un’intervista rilasciata il 18 dicembre 2022 egli ha detto: “La guerra distrugge, distrugge sempre.  Da tempo io ho parlato, stiamo vivendo la terza guerra mondiale a pezzetti”. Dal 31 gennaio al 5 febbraio scorso, Papa Francesco è andato prima in Congo e, da li, in Sud Sudan. Sul volo di ritorno dal Sud Sudan, il 5 febbraio, durante lo scambio di opinioni con i giornalisti, rispondendo ad uno di loro, papa Francesco convinto e perentorio ha affermato che “…Tutto il mondo è in guerra, in autodistruzione, fermiamoci in tempo!”. Mentre, rispondendo ad un altro giornalista, il Pontefice ha parlato anche della gravità e delle preoccupanti conseguenze di tante guerre in corso in diverse parti del mondo. Per lui non c’è soltanto la guerra in corso in Ucraina. “Da dodici-tredici anni la Siria è in guerra, da più di dieci anni lo Yemen è in guerra, pensa al Myanmar […] Dappertutto, nell’America Latina, quanti focolai di guerra ci sono! Sì, ci sono guerre più importanti per il rumore che fanno, ma, non so, tutto il mondo è in guerra e in autodistruzione. Dobbiamo pensare seriamente: è in autodistruzione! Fermiamoci in tempo”, ha detto Papa Francesco.

    Da anni il Pontefice sta parlando non solo della “terza guerra mondiale a pezzetti”, ma anche della “globalizzazione dell’indifferenza”. Una pericolosa tendenza, un preoccupante fenomeno quello della “globalizzazione dell’indifferenza” sul quale il Pontefice non smette mai di trattare, cercando di attirare l’attenzione e di rendere consapevole l’opinione pubblica in tutto il mondo delle gravi conseguenze di questo fenomeno. Lo ha fatto e lo sta facendo in tante occasioni durante questi anni. L’8 luglio 2013, solo circa quattro mesi dalla sua elezione, papa Francesco ha fatto la sua prima visita apostolica in Italia; è andato a Lampedusa. Un’isola quella di Lampedusa dove, con delle fatiscenti imbarcazioni arrivavano i profughi dalle coste dell’Africa settentrionale. Un’isola diventata nota sia per l’accoglienza dei profughi da parte degli abitanti, sia per le tante tragedie di mare nelle sue vicinanze, Un’isola quella di Lampedusa dove anche attualmente i diversi centri di accoglienza sono pieni, oltre i limiti, di profughi e dove, vicino alle sue coste, continuano le tragedie di mare. Quell’8 luglio 2013 a Lampedusa, papa Francesco ha cominciato la sua omelia, riferendosi ai tanti profughi che avevano perso la vita nelle tragedie di mare. “Immigrati morti in mare, da quelle barche che invece di essere una via di speranza sono state una via di morte”. Poi ha confessato che quando aveva appreso quella notizia, aveva sentito il dovere “di venire…qui oggi a pregare, a compiere un gesto di vicinanza, ma anche a risvegliare le nostre coscienze perché ciò che è accaduto non si ripeta”. Così ha cominciato la suo omelia il Pontefice. E poi, in seguito, ha trattato l’indifferenza dell’essere umano ed il perché di questa indifferenza. “…La cultura del benessere, che ci porta a pensare a noi stessi, ci rende insensibili alle grida degli altri”. Tutto ciò, secondo il Pontefice, “…porta all’indifferenza verso gli altri, anzi porta alla globalizzazione dell’indifferenza. In questo mondo della globalizzazione siamo caduti nella globalizzazione dell’indifferenza. Ci siamo abituati alla sofferenza dell’altro, non ci riguarda, non ci interessa, non è affare nostro!”. Il Pontefice, riferendosi alle tante vittime delle tragedie di mare, si è chiesto in seguito: “Chi di noi ha pianto per questo fatto e per fatti come questo? Chi ha pianto per la morte di questi fratelli e sorelle? Chi ha pianto per queste persone che erano sulla barca? Per le giovani mamme che portavano i loro bambini? Per questi uomini che desideravano qualcosa per sostenere le proprie famiglie? Siamo una società che ha dimenticato l’esperienza del piangere, del ‘patire con’”. Tutto ciò, secondo papa Francesco, perché “…la globalizzazione dell’indifferenza ci ha tolto la capacità di piangere!”.

    La Giornata Mondiale della Pace è diventata una ricorrenza onorata e celebrata ogni 1o gennaio, partendo dal 1968, per volere e decisione di Papa Paolo VI, proclamato santo il 14 ottobre 2018, Papa Francesco, ogni volta che si presenta l’opportunità, tratta l’argomento della “globalizzazione dell’indifferenza”. Lo ha fatto anche nel suo Messaggio in occasione della Giornata Mondiale della Pace, il 1° gennaio 2016, con il tema “Superare l’indifferenza e conquistare la pace”. Il Santo Padre, con il suo Messaggio ha chiesto a tutte le persone di buona volontà “…di riflettere sul fenomeno della “globalizzazione dell’indifferenza”, che è la causa di tante situazioni di violenza e ingiustizia”. Mentre durante un incontro con alcuni ambasciatori non residenti, accreditati presso la Santa Sede, svoltosi nel maggio 2018, papa Francesco ha trattato di nuovo l’argomento della “globalizzazione dell’indifferenza”. Rivolgendosi ai partecipanti all’incontro il Pontefice ha detto: “Quest’anno, che segna il settantesimo anniversario dell’adozione, da parte delle Nazioni Unite, della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, dovrebbe servire da appello per un rinnovato spirito di solidarietà nei riguardi di tutti i nostri fratelli e sorelle, specialmente di quanti soffrono i flagelli della povertà, della malattia e dell’oppressione”. Aggiungendo anche che “…Nessuno può ignorare la nostra responsabilità morale a sfidare la globalizzazione dell’indifferenza, il far finta di niente davanti a tragiche situazioni di ingiustizia che domandano un’immediata risposta umanitaria.”. Nell’ambito della Giornata mondiale del Migrante e del Rifugiato, il 29 settembre 2019, nel suo Messaggio papa Francesco ha scritto: “Le società economicamente più avanzate sviluppano al proprio interno la tendenza a un accentuato individualismo che, unito alla mentalità utilitaristica e moltiplicato dalla rete mediatica, produce la globalizzazione dell’indifferenza.”.

    Chi scrive queste righe è convinto che bisogna riflettere su quanto sta dicendo e denunciando da anni papa Francesco, E cioè sia sulla “terza guerra mondiale a pezzetti”, sia sulla “globalizzazione dell’indifferenza”. Chi scrive queste righe è convinto che si tratta di necessarie riflessioni per evitare il peggio e pensa anche a quanto ha scritto Ambrose Bierce sulle riflessioni. Secondo lui si tratta di un “processo mentale attraverso il quale raggiungiamo una visione più chiara del nostro rapporto con gli avvenimenti del passato e che ci mette in grado di evitare pericoli che non incontreremo mai più sul nostro cammino”. Perché, come scritto nell’Antico Testamento, Siracide (32;19) “Non far nulla senza riflessione, alla fine dell’azione non te ne pentirai.

  • Rispetto degli altri, giustizia, empatia: concetti ancora difficili

    Da quando è iniziata la devastante guerra di Putin contro l’Ucraina il pensiero del Patto Sociale e mio personale è sempre stato espresso in modo chiaro ed inequivocabile.

    Anche oggi che vediamo, ogni giorno di più, proseguire le nefandezze dell’autoproclamatosi zar continuiamo e continueremo ad essere a fianco del coraggioso popolo ucraino. Sappiamo bene che ogni giorno vi è il rischio che il conflitto si allarghi ulteriormente e che l’insano orgoglio di Putin gli impedirà di fermare se stesso e la propria follia.

    Putin non ammetterà mai di avere sbagliato ed i tiepidi mediatori di pace, da Erdogan al presidente cinese, non otterranno altro che quello che già hanno ottenuto: nulla. Perché nulla possono, nel caso di Erdogan, o vogliono ottenere nel caso di Xi Jinping.

    Ciascuno pensa di guadagnare qualcosa, dalla guerra, Iran e Corea del nord in primis.

    Putin ragiona con la forza e meno forza comprende di avere più scatena tutto quanto è ancora in suo possesso, supportato da una frangia di corrotti e sanguinari personaggi che, in un paese civile e libero, sarebbero al 41 bis.

    Il rischio di una terza guerra mondiale esiste e forse è il prezzo che tutti dobbiamo pagare rispetto ai silenzi, alle indifferenze, alle incapacità di prendere decisioni e di guardare alle conseguenze di ogni scelta politica, finanziaria, economica e sociale che in questi decenni sono state prese e non prese da chi ha governato i più importanti paesi del mondo.

    Come sanno bene gli analisti politici ci stiamo tutti giocando il futuro, economico, democratico, in sintesi l’assetto di vita in libertà che gran parte del mondo si era sanguinosamente e faticosamente conquistato nei decenni scorsi.

    Non è più solo un problema di territori ucraini da difendere dall’annessione alla Russia ma il concetto stesso di libertà, sovranità, democrazia.

    Lo dimostrano le commesse militari tra Iran e Putìn, il lancio di missili super potenti della Corea del nord, i palloni cinesi che sconfinano nei cieli degli Stati Uniti o del Sud America, le comprensibili paure israeliane, gli interessi americani, le mollezze europee, le titubanze tedesche, ora si ora no, l’uso di internet senza regole, il decadimento di una società mondializzata nei suoi aspetti peggiori, o anche la capacità di farsi corrompere di una certa politica.

    In questi panorami che ci vedono tutti a rischio voglio dedicare un pensiero anche a quei milioni di cittadini russi, e delle repubbliche alleate, che devono, incapaci, impossibilitati ad opporsi, vivere senza libertà e giustizia, trascinati al massacro in una guerra decisa e voluta solo per gli interessi di Putin e dei suoi accoliti a partire da quel nefasto e corrotto personaggio di Kirill.

    E il pensiero corre alle troppe realtà che, in questo mondo, vedono soprusi ed ingiustizie, povertà enormi con ricchezze ingiuste, carestie e siccità, missili e bombe a grappolo, persone che perdono tutto sotto un missile, altre il cui tutto è una capanna di fango.

    Perché il rispetto degli altri, la giustizia, l’empatia rimangono concetti così difficili?

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