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Somalia di male in peggio. E affiora la tentazione di abbandonarla al suo destino

La transizione della Somalia verso la stabilità rischia di slittare ulteriormente, nel quadro dei complessi sviluppi regionali e dei presunti legami che intercorrono tra le milizie jihadiste somale e i gruppi armati mediorientali. L’ennesima minaccia potrebbe venire ora dal Golfo di Aden, dove gli Stati Uniti hanno lanciato l’allarme sui presunti contatti fra Al Shabaab e gli Houthi, le milizie sciite yemenite sostenute dall’Iran. Secondo il generale Michael Langley, a capo del Comando degli Stati Uniti per l’Africa (Africom), la Somalia deve guardare con estrema attenzione all’accresciuta presenza di miliziani dello Stato islamico nel nord del Paese, ma anche alla crescente collaborazione tra Al Shabaab e gli Houthi. In un’intervista rilasciata in esclusiva al canale “Voa”, Langley ha rivelato che, secondo le stime di Washington, il numero di miliziani dello Stato islamico nel nord somalo sarebbe “quasi raddoppiato” rispetto allo scorso anno. Sebbene il generale non abbia quantificato la presenza, stime precedenti della Difesa Usa parlavano di circa 200 combattenti jihadisti sul territorio. Una minaccia alla quale vanno aggiunti i circa 12-13mila combattenti che Al Shabaab continua a governare in tutta la Somalia.

Una possibile alleanza, quella tra le milizie sciite Houthi e Al Shabaab, che spaventa non poco gli Usa. “Siamo preoccupati e stiamo monitorando attentamente la situazione, perché questo potrebbe trasformarsi molto rapidamente in un cattivo vicinato” per la Somalia, ha detto Langley. Il generale non ha fatto mistero della sua preoccupazione soprattutto in vista del piano di ritiro della Missione di transizione dell’Unione africana in Somalia (Atmis), previsto – dopo diversi rinvii – entro la fine di dicembre. Il capo di Africom ha escluso che gli Usa possano giocare un ruolo sul campo in questa fase di transizione, affermando che le unità statunitensi manterranno solo la loro missione di consulenza e assistenza. “Siamo lì per consigliare e assisterli nella loro formazione, ma la lotta è loro”, ha detto in riferimento ai militari dell’esercito somalo. Il progetto di ritiro delle forze Atmis prevede infatti il graduale trasferimento di tutti gli oneri di sicurezza all’Esercito nazionale somalo (Sna), nel quadro di una progressiva assunzione di responsabilità nella stabilizzazione del Paese.

La percezione di un rafforzamento di Al Shabaab, del resto, aveva già spinto il presidente Hassan Sheikh Mohamud a chiedere e ad ottenere dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, per ben tre volte, il rinvio della tabella di marcia del ritiro delle truppe dell’Unione africana, missione alla quale partecipano militari di Kenya, Burundi, Uganda, Etiopia e Gibuti. Lo scorso 19 agosto la missione Atmis è stata prorogata fino al 31 dicembre, permettendo così a circa 12.600 militari dell’Ua di rimanere nel Paese del Corno d’Africa per altri quattro mesi. L’organo esecutivo delle Nazioni Unite ha chiesto in particolare al segretario generale Antonio Guterres di approvare il mantenimento della fornitura alla missione di un pacchetto di supporto logistico in grado di supportare altri 20.900 membri del personale dell’Esercito nazionale somalo o della Forza di polizia nazionale somala in operazioni congiunte o coordinate con l’Atmis. Ad oggi, 10mila ufficiali hanno già lasciato la missione in conformità con il Piano di transizione somalo.

Se la vasta lanciata dall’esercito contro al Shabaab dopo l’elezione del presidente Hassan Sheikh Mohamud – nel maggio del 2022 – ha contribuito a riconquistare rilevanti porzioni di territorio, la capacità del gruppo jihadista di riorganizzarsi ed adattare la sua azione ad obiettivi civili e militari continua a dare filo da torcere all’esercito somalo. Ad agosto l’attentato ad un frequentato lido di Mogadiscio ha ucciso 32 civili e ne ha feriti 63, mentre meno di un mese prima, il 15 luglio, una bomba fatta esplodere in un bar della capitale mentre veniva trasmessa la finale degli Europei tra Spagna ed Inghilterra ha provocato 9 morti e 23 feriti. A febbraio un’autobomba piazzata nella base Generale Gordon di Mogadiscio ha ucciso quattro militari degli Emirati Arabi Uniti e uno del Bahrein. A questo aspetto si è aggiunta anche la crisi in corso con la vicina Etiopia per l’accordo siglato dal governo di Addis Abeba con l’autoproclamata Repubblica del Somaliland, che rivendica un’indipendenza non riconosciuta da Mogadiscio.

L’Etiopia offre un importante contributo di sicurezza alla Somalia nelle regioni di confine, e l’eventuale ritiro delle sue forze dal territorio rischierebbe di incrinare il precario equilibrio di sicurezza faticosamente conquistato da Mogadiscio. Un contenzioso che ha creato anche tensioni interne fra il governo federale ed alcuni Stati regionali, in particolare quello del Sudovest, e che a livello regionale ha portato l’Egitto a schierarsi – anche assicurando un consistente sostegno militare – in favore di Mogadiscio, sull’onda di una mai sopita ostilità etiope legata ad altri dossier, a cominciare da quello sulla Grande diga della rinascita etiope (Gerd). Alla missione Atmis hanno contribuito in tutto 22mila militari, provenienti prevalentemente da Uganda, Kenya, Gibuti ed Etiopia.

I vertici della missione militare Ua stanno progressivamente smantellando le posizioni delle loro truppe, riconsegnando via via la responsabilità della sicurezza territoriale alle Forze armate somale. Così, a febbraio scorso sono state riconsegnate all’esercito sette basi operative: fra queste ci sono la sede della presidenza e del parlamento a Mogadiscio, in precedenza sotto la sicurezza del contingente ugandese; le basi di Bio Cadale, Raga Ceel e Qorillow gestite in precedenza dalle unità del Burundi; quella di Burahache che era in mano alle Forze di difesa del Kenya ed il vecchio aeroporto militare, in precedenza sotto la tutela dell’esercito etiope. Altre due basi sono state chiuse. I successi ottenuti dall’esercito somalo nella controffensiva contro al Shabaab ha permesso ad Atmis di procedere nel ritiro delle sue unità, sebbene la situazione della sicurezza rimanga molto precaria. In questo scenario d’incertezza, il governo federale ha negoziato con i partner internazionali l’istituzione una forza multinazionale che opererebbe per un anno a partire da gennaio del 2025 con il sostegno di Gibuti, Kenya, Uganda e Burundi.

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