Pensioni

  • Spese previdenziali sotto controllo

    L’ultimo Rapporto sul Bilancio del Sistema Previdenziale italiano curato dal Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali, presentato di recente alla Camera, attesta che nel 2022 la spesa assistenziale in Italia ha toccato quota 157 miliardi, in crescita del 126% rispetto al 2012). Resta invece sostanzialmente stabile la spesa per le prestazioni previdenziali (comprensiva delle prestazioni invalidità, vecchiaia e superstiti), che vale il 12,97% del Pil, in calo rispetto al 13,42% dell’anno precedente.

    Nel 2022 – si legge nel rapporto – l’Italia ha complessivamente destinato a pensioni, sanità e assistenza 559,513 miliardi di euro, con un incremento del 6,2% rispetto all’anno precedente (32,656 miliardi): la spesa per prestazione sociali ha assorbito oltre la metà di quella pubblica totale, il 51,65 per cento.

    Rispetto al 2012, e dunque nell’arco di un decennio, la spesa per welfare è aumentata di ben 127,5 miliardi strutturali (+29,4%); aumento ascrivibile soprattutto agli oneri assistenziali a carico della fiscalità generale, cresciuti del 126,3% a fronte dei “soli” 37 miliardi della spesa previdenziale (+17%) e del 18% del nostro Pil.

    Dopo il crollo dovuto al Covid, sono cresciute nuovamente e anche per il 2022 le entrate contributive, salite dell’8% rispetto al 2021 toccando quota 224,94 miliardi di euro, valore ampiamente superiore a quello pre-pandemico. Diminuisce di conseguenza anche il saldo (negativo) tra entrate e uscite, pari a circa 22,64 miliardi: sul deficit del sistema pensionistico continua a pesare soprattutto il disavanzo della gestione dei dipendenti pubblici.

    Quattro gestioni obbligatorie Inps hanno saldi positivi. I lavoratori dipendenti, al netto delle gestioni speciali, presentano un attivo di 17.715 milioni di euro contro gli 11,5 miliardi del 2021; i lavoratori dello spettacolo (ex Enpals) fanno registrare un attivo di 373 milioni (contro i 288 del 2021); il saldo della gestione separata dei lavoratori parasubordinati passa da 7.700 a 8.477 milioni; le casse privatizzate dei liberi professionisti vedono un saldo (4,259 miliardi di euro) del 15,35% migliore rispetto al 2021.

    Grazie a un’occupazione in ripresa seppur distante dai livelli europei – si legge nel report – continua a migliorare il rapporto attivi/pensionati, fondamentale indicatore di tenuta della previdenza italiana: nel 2022 il valore si attesta a quota 1,4443. La “soglia della semi-sicurezza” dell’1,5 è ancora lontana ma, nel complesso, il sistema regge e continuerà a farlo, a patto di saper compiere – in un Paese che invecchia – scelte oculate su politiche attive per il lavoro, anticipi ed età di pensionamento.

  • Le pensioni con 41 anni di contributi costano 4,3 miliardi

    Si va verso la riapertura del confronto sulla previdenza in vista della scadenza a fine 2021 di Quota 100, ma il Governo avverte che la discussione non potrà concentrarsi sull’anticipo della pensione quanto sulle prestazioni future di coloro che oggi sono giovani e che rischiano di avere pensioni interamente contributive molto basse. Il presidente dell’Inps, Pasquale Tridico, presentando il Rapporto annuale 2020 dell’Istituto ha quantificato la spesa di alcune delle proposte sul tappeto di fatto bocciando una delle richieste del sindacato ovvero l’uscita con 41 anni di contributi indipendentemente dall’età.

    L’ipotesi, già accantonata nel 2019, quando fu poi introdotta Quota 100, perché troppo costosa, peserebbe nel 2022 secondo l’Inps per 4,3 miliardi per arrivare a fine decennio a 9,2 miliardi. In media costerebbe lo 0,4% del Pil. Al momento l”uscita anticipata indipendente dall’età è possibile fino al 2026 con almeno 42 anni e 10 mesi di contributi (41 e 10 per le donne) oltre a 3 mesi di finestra mobile.

    Il dibattito sulle pensioni – ha detto il ministro del Lavoro, Andrea Orlando, parlando alla presentazione del Rapporto Inps – “è eccessivamente concentrato sulla flessibilità in uscita e sulla possibilità di anticipo dell’uscita dal mercato del lavoro” mentre “dovremmo concentrarsi sulle prospettive che riguardano in particolare gli assegni delle nuove generazioni”. Il confronto secondo il ministro dovrebbe aprirsi dopo la riforma degli ammortizzatori sociali che è “all’ultimo miglio”. Tridico sostiene la proposta che prevede un’opzione di anticipo della sola quota contributiva della pensione che costerebbe in un primo momento 500 milioni per poi arrivare a un costo massimo di 2,4 miliardi nel 2029, ma questa ipotesi non piace ai sindacati che insistono su una flessibilità diffusa dopo i 62 anni e sull’uscita con 41 anni di contributi.

    “Non sembra vi sia nell’Esecutivo – sottolinea il segretario confederale della Cgil, Roberto Ghiselli – la consapevolezza che se non arrivassero risposte concrete su un tema così sensibile, sarà inevitabile una incisiva mobilitazione dei lavoratori”.  Anche Cisl e Uil chiedono con urgenza il tavolo anche perché il tempo stringe rispetto alla scadenza di Quota 100, misura che, sempre secondo i dati Inps, ha portato al pensionamento anticipato 253.000 persone, prevalentemente uomini (il 71,5%).

    Secondo il Rapporto annuale il 2020 a causa della pandemia ha registrato un calo degli occupati del 2,8% con un crollo dei lavoratori indipendenti diminuiti del 5,1%. Grazie al blocco dei licenziamenti si sono ridotte le cessazioni decise dall’azienda per motivi economici (da 560.000 a 230.000) mentre sarebbero 330.000 i posti salvati grazie al blocco. La retribuzione media annua dei dipendenti è scesa da 24.140 euro del 2019 a 23,091 del 2020 con un calo del 4,3% e una perdita media per dipendente di poco più di 1.000 euro. L’imponibile previdenziale è di 33 miliardi, scendendo da 598 miliardi nel 2019 a 564 miliardi nel 2020 (-5,6%).

  • Il principio di non retroattività

    La retroattività è il fatto e la condizione di avere effetto anche per il passato. Nel diritto italiano, il principio generale della non r. (o irretroattività) delle leggi, cioè il principio che la legge non dispone che per l’avvenire, è codificato nell’art. 11 disp. prel. c.c. La non retroattività della legge penale, che consiste propriamente nel divieto di applicare sanzioni previste da una legge non entrata in vigore prima che fosse commesso il reato, è un principio fissato dalla Costituzione, all’art. 25. Esso discende come corollario dall’essenza stessa della norma penale, che è comando diretto alla generalità dei cittadini: il delitto è disobbedienza, violazione di questo comando; non può esservi quindi delitto se non sussiste un comando giuridico a cui obbedire e le misure che si applicassero contro chi ha commesso un’azione che non era in contrasto con una legge in vigore al momento del fatto, non potrebbero avere valore di ‘pena’.  Così afferma l’enciclopedia Treccani. La non retroattività è dunque un principio fissato dall’articolo 25 della Costituzione. In Italia se ne è parlato molto con l’entrata in vigore della legge Severino, che ha permesso di condannare Silvio Berlusconi per reati che al momento dei fatti contestati non erano considerati tali. Quindi Silvio Berlusconi, nonostante l’art. 25 della Costituzione,  è stato condannato perché la non retroattività non è stata rispettata. La Corte europea dei diritti umani di Strasburgo, alla quale Berlusconi aveva presentato ricorso,  non si è pronunciata sulla legittimità della legge Severino, ma ha permesso al ricorrente di esercitare i suoi diritti politici nonostante la condanna subita. Strani questi misteri delle Corti, nazionali o internazionali che siano. Dopo anni dal ricorso, non sono in grado di affermare se la non retroattività è legittima o meno. Quello che sembra palese per il cittadino comune, diventa una difficoltà, un intoppo per i giuristi esperti. A meno che, come spesso accade, non ci sia di mezzo la politica, anziché il diritto.

    Un altro esempio del non rispetto della non retroattività ci è offerto dalla polemiche e dalle decisioni di questi mesi, riguardanti le cosiddette pensioni d’oro o i vitalizi concessi ai parlamentari. Erano legali e legittime le decisioni prese a suo tempo per concedere questi benefici? Se non lo erano, è corretto porvi rimedio. Ma se lo erano, penalizzare chi ne usufruisce legalmente e legittimamente risulta una prevaricazione dispotica. Perché, oltretutto, applicare a distanza di tempo la retroattività, significa inferire un colpo mortale ad un altro principio sacrosanto: la certezza del diritto. Senza questa certezza tutto diventa casuale e provvisorio. Una società affidata al caso e al provvisorio non va molto lontano. Una società che non rispetta la non retroattività e con ciò, la non certezza del diritto, è destinata al caos, alla precarietà, alle prevaricazioni del più forte. La china del giustizialismo sembra la pista di lancio di queste aberrazioni. La garanzia è offerta dalla maestà della legge, non osservando la quale tutto diventa possibile, talvolta in nome del popolo, tal altra per ignoranza personale, ma sempre contro l’equilibrio e la legittimità del precetto. Si comincia con la retroattività e si finisce, Dio non voglia, con un pensiero unico e con un uomo solo al comando. Guai al venir meno di regole osservate per secoli da popoli e culture diverse. Ciò che ci preoccupa, tuttavia, è il silenzio, se non il tacito consenso, a questo cambiamento di comportamenti. L’uomo solo al comando non ci arriva da solo. L’esperienza del secolo appena trascorso dovrebbe averci insegnato molte cose sul valore e le conseguenze di certi cambiamenti, Si comincia, appunto, con una cosa apparentemente da niente, la retroattività, che dice poco alle moltitudini, per finire con l’incertezza totale sui sacrosanti diritti che danno un senso alla nostra vita, tra i quali poniamo in primis il diritto di poter usufruire della certezza del diritto.

  • “Pensioni: chi paga cosa”, la commedia goldoniana

    I numeri impietosi relativi agli investimenti culturali, quindi alle quote di Pil destinate all’istruzione ed alla formazione, vedono l’Italia ben al di sotto della media europea con uno scarso 4% di PIL destinato al settore culturale. Si pensi che la Germania destina  il doppio mentre  l’Unione Europea mediamente il 4,9%, preceduti anche dalla Danimarca al 7% e dal Belgio, con il 6,4% del proprio Pil.

    Ovviamente questi numeri italiani miserabili non possono essere attribuibili all’attuale governo ma alla classe politica nella sua interezza che ha gestito l’istruzione negli ultimi trent’anni. Paradossale poi come gli effetti di questa mancanza di investimenti culturali per il nostro Paese non risultino nemmeno così evidenti in quanto l’abbassamento del livello culturale coinvolge inevitabilmente anche gli osservatori “culturali”.

    Rimane Tuttavia lo sconcerto per tali numeri e per un Paese non più espressione dell’eccellenza della cultura occidentale ma semplicemente luogo di custodia dei reperti storici che tutto il mondo ci invidia e che rappresentano un fattore distonico con l’attuale livello culturale generale italiano.  Un Paese, il nostro, neppure in grado di indignarsi di fronte ad un ministro che per tutta la propria carriera politica ha affermato di possedere una laurea ed una volta sbugiardata ha mantenuto il privilegio di gestire il ministero, ovviamente dell’Istruzione.

    Questo decadimento culturale, di cui il declino economico ne risulta soltanto una delle più manifeste e tangibili forme, coinvolge anche il mondo dell’università in modo imbarazzante.  L’esempio più classico si manifesta attraverso  un teatrino goldoniano relativo alla polemica sulle pensioni il cui titolo dell’opera potrebbe recitare “Pensioni: chi paga cosa”, in relazione cioè al peso  della popolazione extracomunitaria nel pagamento delle pensioni italiane.

    Il presidente dell’INPS, esimio economista della Bocconi afferma che “gli immigrati pagano le pensioni agli italiani”. Considerati i trend di crescita della popolazione extracomunitaria in un Paese culturalmente evoluto, da un docente della Bocconi si pretenderebbe quanto meno l’utilizzo del verbo declinato al futuro, cioè “pagheranno” le pensioni probabilmente nel 2035/2040.

    Attualmente infatti circa l’8,8% del PIL risultata attribuibile alla popolazione extracomunitaria per un valore di circa 127 miliardi. Se poi si avesse l’ardire di incrociare questi dati con il numero di occupati extracomunitari emergerebbe che rappresentano l’11% della forza lavoro. Una classica relazione causa effetto imporrebbe la semplice considerazione relativa al livello retributivo risultante di livello decisamente medio basso anche dei contributi. Nonostante ciò, vengono versati sempre da quell’11% degli occupati contributi previdenziali per 11 miliardi su un totale di 219 relativi alla spesa previdenziale, mentre la spesa complessiva dell’INPS risulta di 411 miliardi.

    Quindi, a fronte di 18 milioni di pensioni erogate dall’Inps in relazione alla quota PIL attribuibile al pagamento delle stesse, attraverso i contributi delle popolazioni extracomunitarie risultano “pagate” di queste circa 650.000: poco più del 3.6% del totale.

    Un numero certamente notevole in quanto cresciuto in un modo molto veloce (altro fattore quello della velocità della crescita che non viene mai preso in considerazione in relazione all’aumento della popolazione extracomunitaria) ma che rappresenta comunque una quota minima relativa alla spesa generale come al numero di pensioni erogate. Risulta evidente quindi che la posizione dell’attuale presidente dell’Inps sia rigorosamente ideologica. Senza nulla togliere all’importanza del contributo della cittadinanza extracomunitaria, tuttavia in considerazione dei numeri presentati al momento attuale, sembra incredibile il mancato utilizzo del verbo “pagheranno” in relazione alla crescita futura e quindi ragionando in prospettiva assolutamente preferibile al termine “pagano” usato dal presidente dell’INPS come gli stessi numeri smentiscono chiaramente.

    Utilizzando il verbo “pagare” all’indicativo presente emerge evidente la posizione ideologica del presidente Boeri (per altro assolutamente legittima) ma conseguentemente priva di ogni supporto tecnico e numerico, e quindi economico.

    Anche una delle massime espressioni della cultura universitaria dimostra in modo inequivocabile come alla competenza sia subentrata l’ideologia, altra espressione del declino culturale. Da un presidente dell’INPS, come da un docente di economia della Bocconi, ci si sarebbe aspettati o meglio si dovrebbe pretendere  un’analisi molto più approfondita, che coinvolga anche quel fenomeno di emigrazione di diplomati e laureati italiani all’estero che arreca danni allo Stato per 23 miliardi di risorse investite (92.000 per un diploma e 30.000 per ogni anno universitario di risorse pubbliche) e 11 miliardi di perdita di Pil.

    Invece di confrontarsi sui numeri ma soprattutto sulle prospettive ed sugli andamenti demografici ed economici, tenendo sempre nella massima considerazione la velocità di sviluppo di tali fattori, soprattutto della popolazione e della sua importanza anche a livello contributivo, ci si confronta su posizioni ideologiche che tolgono qualsiasi tipo di spessore culturale a chi le manifesta.

    A fronte di investimenti culturali sotto la media europea sono inevitabili questi risultati ampiamente al di sotto della decenza culturale.

  • Assegni familiari più ricchi (dell’1,1%) dall’1 luglio

    L’Inps ha ricalcolato gli importi degli assegni per il nucleo familiare (Anf), cioè quegli importi che vengono erogati anche all’estero a pensionati italiani o lavoratori dipendenti da imprese o enti italiani, con familiari a carico.

    Dall’1 luglio 2018 cambiano i livelli di reddito in vigore fino al 30 giugno 2019 ai fini della corresponsione dell’assegno per il nucleo familiare. L’assegno aumenterà dell’1,1% cioé della stessa misura in cui sono aumentati i prezzi al consumo rilevati dall’Istat tra il 2016 e il 2017. Questo perché, come ricorda la circolare numero 68 dell’11 maggio dell’Istituto di previdenza, «la legge n. 153/88 stabilisce che i livelli di reddito familiare ai fini della corresponsione dell’assegno per il nucleo familiare sono rivalutati annualmente, con effetto dall’1 luglio di ciascun anno, in misura pari alla variazione dell’indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai ed impiegati, calcolato dall’Istat, intervenuta tra l’anno di riferimento dei redditi per la corresponsione dell’assegno e l’anno immediatamente precedente».

    Può godere dell’assegno chi ricava da lavoro dipendente il 70% del reddito familiare annuo, dato dalla somma dei redditi lordi di chi richiede l’Anf e dei familiari che compongono il nucleo (il periodo di riferimento è quello dei 12 mesi precedenti il primo luglio dell’anno per il quale viene effettuata la richiesta di assegno e ha valore fino al 30 giugno dell’anno successivo). L’assegno viene concesso anche ai pensionati in convenzione, titolari di una pensione (pro-rata) italiana, secondo quanto prevedono i regolamenti dell’Unione europea di sicurezza sociale e ad alcune convenzioni bilaterali.  Con la legge Cirinnà l’Anf è stato riconosciuto anche a coppie di fatto,  famiglie monogenitoriali e unioni civili fra persone dello stesso sesso.

    La richiesta dell’assegno va presentata da un componente del nucleo familiare al proprio datore di lavoro o all’Inps, se si è pensionati, percettori di Naspi (indennità di disoccupazione), mobilità o cassa integrazione a pagamento diretto dell’Inps, lavoratori parasubordinati iscritti alla gestione separata, lavoratori con contratto di lavoro domestico. Per richiedere l’Anf è necessario compilare, via web o col pin dell’Inps, da soli o avvalendosi di un Caf il modulo Anf/Dip–Cod. Sr16 per il biennio 2018–2019. Chi gode dell’Anf a seguito alla legge “Cirinnà” dovrà rivolgersi direttamente all’Inps tramite modello Anf42. Chi abbia diritto all’Anf ma non riesce a presentare la domanda, ha 5 anni di tempo per chiedere il pregresso

    L’assegno viene pagato ogni mese, aggiunto in busta paga dal datore di lavoro, che recupera poi il quantitativo dall’Inps attraverso il pagamento dei contributi previdenziali e imposte (con l’F24).

  • Il dilemma delle pensioni in Italia e nelle Ue

    L’Italia è il terzo Paese d’Europa in cui le pensioni incidono maggiormente sul Pil, dopo l’Austria, la Francia e la Grecia. Sebbene altri Paesi dell’Unione consentano di andare in pensione prima di quanto sia permesso fare all’Italia, quegli stessi Paesi hanno una gestione più oculata delle finanze pubbliche e dunque un’età pensionabile più bassa incide meno sul modo in cui viene spesa la ricchezza nazionale prodotta (il Pil appunto). Secondo dati diffusi dalla Ue, la spesa pensionistica inciderà per l’11,40% tra tutti i Paesi dell’Unione europea nel 2020, ma arriverà a incidere per il 16% in Austria, per il 15,40% in Grecia, per il 15% in Francia e per il 14,80% in Italia. Abolire la legge Fornero ci allontanerebbe dunque ulteriormente dall’Europa, al cui interno tutti i Paesi stanno elevando l’età pensionabile così da garantire che la percentuale di popolazione che consuma ricchezza nazionale (sotto forma di godimento della pensione) non superi quella di chi la ricchezza nazionale produce (continuando a lavorare, anche in età un tempo pensionabile). Perché tale proporzione rimanga di 2 pensionati ogni 5 lavoratori, come era nel 2010, occorre che l’età pensionabile in tutti i Paesi dell’Unione sia portata a 67 anni nel 2040 e a 70 nel 2060, anche perché negli anni a venire mentre continueranno a invecchiare quanti sono già in vita e miglioreranno le prospettive di durata della vita stessa, in Europa ci saranno sempre meno nuovi nati, per via del calo demografico complessivo.

    L’Italia con la Fornero è anche in anticipo sulla tabella di marcia (nel 2018 donne e uomini possono andare in pensione a 66 anni e mezzo, nel 2019 a parte che per 15 categorie l’età pensionabile sarà ancora più alta), ma è anche uno dei Paesi con la più alta percentuale di debito pubblico complessivo (non solo legato alle pensioni) al mondo. E l’equità che l’Unione si prefigge di realizzare non è quella dell’età della pensione, ma quella del peso contabile dei pensionati sui costi complessivi sostenuti dal singolo Stato per tutte le misure a sostegno della popolazione nazionale (che non si limitano alle pensioni, ma includono ad esempio la sanità, i costi di funzionamento degli uffici pubblici e via dicendo). Il sistema italiano del resto è a ripartizione: ogni anno si fa il conto di quanto serve per erogare l’intero ammontare a tutti i pensionati e si ripartisce quella somma sull’intera platea dei lavoratori, sotto forma di contributi (in realtà in Italia una parte delle pensioni viene finanziata dallo Stato attingendo dall’incasso di altre tasse, altrimenti i contributi diverrebbero eccessivamente pesanti). E’ evidente che un Paese in cui nascono sempre meno persone e ci sono sempre meno lavoratori anche tra quanti sono già nati non può non limitare il numero di pensionati da sostenere. E poiché non si può, ovviamente, anticipare forzosamente il momento in cui si cessa di essere pensionati, non si può che ritardare il momento in cui si diventa pensionati.

  • Leonardo: “doppia innovazione”

    Mai termine fu più inappropriato per indicare un’azienda italiana nata o, come qualcuno dice, risorta dalla gestione e dalle spoglie di Finmeccanica.

    Passata sotto il controllo e la gestione di Profumo, ex Unicredit ed ex MpS,  i cui disastri sono sotto gli occhi di tutti, ora Leonardo manda in prepensionamento 1100 dipendenti assieme a 65 dirigenti. E’ evidente come non tutti questi 1100 dipendenti avranno raggiunto contemporaneamente parametri minimi al fine di ottenere un trattamento pensionistico. In questo senso verranno utilizzati ulteriori ammortizzatori sociali come la Naspi che permetterà ai dipendenti che non abbiano questo tipo di requisiti per entrare all’interno del sistema pensionistico. Come sta avvenendo per molte  aziende partecipate dagli enti locali anche per questa che viene indicata come il gioiello dell’ingegneria italiana vengono utilizzati due ammortizzatori sociali per riacquisire competitività.

    Il primo viene rappresentato dalla Naspi per ottenere il raggiungimento dei requisiti minimi per arrivare ad un altro capitolo della spesa pubblica come le pensioni senza averne peraltro requisiti.

    Il secondo è l’Istituto del prepensionamento. In altre parole, il sistema pensionistico nel suo complesso assieme all’utilizzo temporaneo della Naspi rappresentano due ammortizzatori sociali utilizzati impropriamente al fine di ottenere un miglioramento del rapporto tra costi fissi e variabili, una diminuzione del Clup (costo del lavoro per unita di prodotto) e di conseguenza un miglioramento della produttività.

    Quella che viene indicata come l’azienda del futuro a forte innovazione tecnologica da tutto l’establishment e la nomenclatura economica, politica ed  accademica al fine di raggiungere i propri obiettivi economici e la remunerazione del capitale non esita a scaricare  sulla spesa pubblica o, meglio, su due capitolati della spesa pubblica le proprie inadeguatezze e incapacità organizzative.

    In questo contesto risulta evidente “la doppia innovazione”.

    Leonardo rappresenta in pieno il declino di una classe dirigente (che perlomeno una volta veniva  indicata come ‘boiardi di Stato’), politica ed accademica incapace di  elaborare strategie di sviluppo che non coinvolgano le finanze pubbliche utilizzate impropriamente per raggiungere obiettivi.

    Quella stessa classe politica che propone le riforme pensionistiche sempre più penalizzanti per i cittadini ed omette di riconoscere di aver utilizzato il sistema pensionistico come ammortizzatore sociale per ogni crisi aziendale dagli anni ‘70 in poi ora lo usa come semplice strumento “innovativo” per avviare un riassetto organizzativo. Una strategia nata morta in quanto ci ha posto nelle situazioni attuali di assoluta insostenibilità dei principali parametri economici.

    Leonardo fu un ingegnere ed  un inventore unico al mondo. Francamente nella gestione e della strategia di questa società non si intravede nessun carattere innovativo ma ancora una volta prevale il vecchio principio dello scaricare le proprie inadeguatezze  sulla spesa pubblica utilizzando peraltro impropriamente due ammortizzatori fiscali. Da qui va riconosciuta alla dirigenza dell’azienda e alla classe politica che l’ha scelta il merito di aver creato una “doppia innovazione”.

  • Problemi di pensione per gli eurodeputati

    I contribuenti europei rischiano il salvataggio del Parlamento europeo a causa di un deficit attuariale di 326 milioni di euro per il sistema pensionistico per i deputati. Istituito per la prima volta nel 1990 e aperto ai deputati al Parlamento europeo fino al 2009, il fondo pensionistico volontario rischia di far sborsare ingenti somme di denaro al bilancio del Parlamento, per un forte aumento del numero di persone che raggiungono un’età di pensionamento anticipato.

    «Già dopo cinque anni c’era un deficit fino a 9 milioni di euro, il che non era normale”, ha dichiarato l’eurodeputato verde belga Bart Staes. Tali perdite sono pagate indirettamente dal contribuente dell’UE perché il bilancio del Parlamento europeo è la linea di vita finanziaria del fondo. I deputati hanno sospeso i contributi nel 2009. Fino ad allora, per ogni 1.000 euro versati nello schema, il parlamento dell’Ue ha contribuito con 2.000 euro. Il denaro è stato poi investito dall’associazione no profit di diritto lussemburghese nota come Cassa pensione dei membri del Parlamento europeo. Senza soldi in arrivo, più deputati in pensione e un ingannevole portafoglio azionario, il fondo – considerato il frutto dell’ex deputato britannico e del politico conservatore Richard Balfe, che oggi ne è il presidente – rischia di fallire in 6 anni.

    Il fondo è stato lanciato anche perché molti deputati francesi e italiani non avevano un regime pensionistico adeguato all’epoca. Balfe e altri deputati conservatori e laburisti hanno quindi insistito per creare un fondo per tutti. I deputati erano tenuti a versare al regime solo due anni per poter beneficiare della pensione vitalizia Ma il Parlamento europeo è tenuto a sottoscrivere il regime e deve garantire i pagamenti, quindi sarà costretto a pagare trovando denaro altrove nel suo bilancio qualora il fondo diventi insolvente.

    EUobserver ha visionato i documenti che elencano gli iscritti al fondo tra il 2003 e il 2008. I deputati britannici, incluso l’euroscettico Nigel Farage, sembrano dominare. Figurano anche gli ex deputati francesi Marine Le Pen e suo padre Jean-Marie.

    A maggio 2015, lo schema contava 1.007 membri e 721 ex deputati al Parlamento europeo o loro familiari superstiti ricevevano prestazioni pensionistiche. Altri 145 deputati supplementari riceveranno pagamenti mensili dal fondo nel 2022. Questo significa che i pagamenti aumenteranno dai circa 16 milioni di euro del 2016 a una media di oltre 20 milioni di euro per i prossimi anni.

  • Abolire la legge Fornero sulle pensioni porterebbe l’Italia alla rovina

    Tempo di elezioni, tempo di demagogia e la riforma delle pensioni, la legge Fornero, è uno degli argomenti prediletti della demagogia: si va da Luigi Di Maio, che ha proposto l’abolizione graduale in cinque anni della riforma, a Matteo Salvini, leader della Lega Nord che ha parlato di cinque mesi. Nessuno ricorda però che l’Italia tra i Paesi industrializzati è quello che spende di più per il suo sistema pensionistico e che dunque deve cercare di razionalizzare ulteriormente tali uscite anziché incrementarle, come accadrebbe abolendo la riforma.

    «Cancellare la riforma Fornero vuol dire continuare a dissanguarci per finanziare il sistema pensionistico», scrive l’economista e blogger Massimo Fontana sul suo profilo Facebook, dove sottolinea che non servirebbe peraltro a niente, «visto che la storiella di liberare posti di lavoro per i giovani è una favola smentita da tutte le ricerche economiche».
    Secondo quanto disposto dalla Ragioneria generale dello Stato abolire la riforma Fornero significa rinunciare a circa 350 miliardi di euro di risparmi cumulati fino al 2060. Il buco di bilancio che si verrebbe a creare a medio termine, ovvero nel decennio 2020-30 significherebbe  circa un punto di Pil ogni anno, cioè 17 miliardi di euro, con un massimo di 1,4 punti nel 2020, ovvero 23,8 miliardi fra 2 anni. 
    L’esperto Giuliano Cazzola su formiche.net osserva: «Non dobbiamo dimenticare che le misure adottate nel 2017 hanno comportato un aggravio di spesa di 7 miliardi in un triennio, mentre quelle della legge di bilancio per il 2018 aggiungeranno altri 2 miliardi in un decennio. Per non parlare poi della pensione minima – a 1000 euro per 13 mensilità – contenuta nel programma di Silvio Berlusconi: un vero e proprio gettare soldi dall’elicottero sulla platea dei pensionati. Senza porsi una domanda di buon senso: chi potrà contare comunque su un assegno di tale entità, avrà interesse a versare i contributi? Bisogna trovare il coraggio di denunciare l’insussistenza dell’equazione poveri = pensionati – prosegue Cazzzola – L’universo delle persone in quiescenza viene, infatti, presentato come se fosse organizzato su due poli: uno di tanti poveracci che non arrivano alla fine del mese e che compiono miracoli con le poche centinaia di euro che ricevono; l’altro di un gruppo di ricconi – percettori di trattamenti dorati – da mettere alla gogna e da sottoporre ad esproprio proletario. Nella diffusione di questa bufala, i media soprattutto televisivi, portano una responsabilità enorme».
    La soluzione per le pensioni in realtà esiste già ed è fornita dal mercato: il sistema finanziario offre già oggi la possibilità di crearsi una previdenza parallela e integrativa, ma ovviamente questa comporta accantonamenti mensili a carico del diretto interessato e dunque – vista la mancanza di cultura liberista dell’Italia – nessuna forza politica la propone, pur essendo la soluzione più sostenibile.

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