privato

  • I giochi di ruolo e l’inversione ideologica

    Nel 2020/21 il Primo Ministro inglese del governo conservatore Boris Johnson avviò il processo di rientro nella gestione pubblica della Ferrovie Britanniche (British Railways). Una scelta politica decisamente controcorrente rispetto al DNA ideologico ma scaturita dai risultati di un’indagine che aveva evidenziato come la privatizzazione si fosse tradotta nel peggioramento del servizio e nell’aumento dei biglietti praticati all’utenza. Una verifica reale e non ideologica che confermava come la semplice privatizzazione di un monopolio indivisibile non possa che determinare lo spostamento dei vantaggi gestionali e monopolistici dal pubblico al privato, quando invece una corretta applicazione del pensiero liberale, che indica nel principio della concorrenza un vantaggio per l’utenza finale, ed essere privatizzati dovrebbero essere gli accessi ai molteplici monopoli statali per il conseguimento dell’obiettivo di determinare un vantaggio reale a favore dell’utenza.

    Ora, alla fine del 2024, il nuovo governo laburista guidato dal Primo Ministro inglese Starmer ha approvato la privatizzazione delle Poste inglesi (Royal Mail fondate nel 1516 a Londra) e cedute al magnate ceco Kretinky. Si torna, quindi, al vecchio modello sulla base del quale viene applicata una strategia molto apprezzata in Italia dalla “élite” che si definisce a torto einaudiana, il cui doppio obiettivo è quello di fornire un’ulteriore ma di breve durata (l’anno di approvazione del bilancio) risorsa finanziaria al bilancio pubblico, ma contemporaneamente trasferendo i vantaggi della gestione monopolistica dallo stato ad un privato.

    La vicenda inglese conferma ancora una volta come tanto in Gran Bretagna quanto nella Unione Europea ormai si stia assistendo ad una decisa inversione dei ruoli e dell’ispirazione politica e soprattutto culturale, sulla base della quale si contraddistinguono e contrappongono il versante conservatore dal laburista.

    In altre parole, il radicamento culturale del versante progressista in Europa, ed ancora più in Italia, sempre più si rivela incline alla adozione di politiche di privatizzazione di monopoli indivisibili giustificandole con l’obiettivo di una riduzione del debito, obiettivo per altro mai raggiunto in quanto i “benefici” si sono ridotti alla sola riduzione deficit (*).

    L’adozione di questo modello pseudoliberale si è rivelata assolutamente deleteria in Italia per l’utenza, come dimostrano le impennate dei costi energetici e il rapporto alle bollette pagate sia in Francia che in Germania (rispettivamente -73% e -35%) e successive alla cessione a fondi privati di quote delle aziende controllate dallo Stato in campo energetico.

    Senza dimenticare la vergognosa vicenda di Autostrade conclusasi con i suoi 43 morti del Ponte Morandi.

    Il declino di un paese trova la propria manifestazione tangibile nel peggioramento delle condizioni economiche e sociali, ma trae la propria origine da una regressione culturale, la quale tende ad interpretare in modo arbitrario gli stessi principi del pensiero liberale.

    Se poi questo risponda alla ricerca di interessi particolari o semplice espressione di incultura poco cambia.

    (*) la maggior parte delle privatizzazioni in Italia sono state gestite dai governi “laburisti” Ciampi/Prodi/D’Alema

  • Poste Italiane e la speculazione finanziaria

    Gli scandali del Banco di Napoli e del Banco di Sicilia convinsero il mondo della politica della necessità di privatizzare il sistema bancario. In teoria la scelta sembrava inevitabile e persino corretta, ma non teneva nella giusta considerazione l’impatto delle volontà di speculatori con interessi di corto raggio.

    Una miopia che ha determinato nel 2023 ad avere oltre 3.300 comuni privi di uno sportello bancario, cioè 41,5% dei comuni italiani, con un gravissimo disservizio per l’utenza e conseguente aumento dei costi.

    All’interno di un sistema privato, infatti, il servizio reso alla comunità non può che presentare i connotati di un costo anche quando venga sostenuto da un ritorno economico a carico dell’utenza.

    Quindi nella annosa questione relativa alle privatizzazioni rimane fondamentale valutare quanto sia necessario tener conto dell’obiettivo finale di un investitore privato, che difficilmente si identifica con quello di assicurare un servizio alla comunità.

    Tornando ai tempi nostri, la scelta definita “strategica” di privatizzare Poste Italiane assume dei connotati decisamente simili in rapporto a quanto avvenuto per il sistema bancario, ma probabilmente con una conseguenza molto più importante rispetto allo stesso sistema bancario.

    Attualmente lo Stato detiene il 29,26% delle Poste attraverso il Ministero dell’Economia ed il 35% con la Cassa Depositi e Prestiti (CDP). La quota che verrà messa sul mercato nei prossimi anni sarà relativa a quel 29,6%, i cui valori attuali risultano tra i quattro e mezzo (4,5) ed i cinque (5) miliardi.

    La giustificazione addotta dall’attuale Ministro dell’Economia e dall’intera maggioranza è quella di utilizzare queste risorse finanziarie aggiuntive per una riduzione del debito pubblico. Francamente andrebbe ricordato come i cinque miliardi ridurrebbero di poco più del 6,3% la sola spesa corrente per un anno dei soli interessi sul debito pubblico (79 miliardi) .

    Ovviamente, a maggior ragione, i cinque miliardi appaiono decisamente influenti se confrontati con l’ammontare del debito pubblico che si attesta a 2.872 miliardi e persino in rapporto alla spesa corrente pubblica annuale che è di oltre 1100 miliardi.

    Da questa semplice confronto di cifre si può immaginare come le motivazioni possano essere diverse e probabilmente molto più torbide ed inconfessabili per una classe politica e governativa che dovrebbe pensare ad accrescere il patrimonio di un paese invece di liquidarlo.

    Seguendo quindi lo storytelling governativo, avvenuta la cessione del 29% lo Stato, attraverso Cassa Depositi e Prestiti, manterrebbe la maggioranza relativa, ma non più assoluta, di Poste Italiane.

    All’interno, quindi, di questo rinnovato equilibrio delle quote azionarie sarebbe sufficiente un semplice accordo tra gli altri azionisti, magari rappresentati da qualche fondo privato estero, che non solo potrebbero porre in minoranza lo Stato italiano, ma soprattutto assumere un ruolo operativo in previsione di una modifica della strategia e degli obiettivi di Poste Italiane.

    Nel caso in cui venisse adottato lo schema utilizzato per il sistema bancario non sembra difficile immaginare , successivamente alla creazione di una nuova maggioranza azionaria, con un CdA espressione proprio del nuovo equilibrio il quale, legittimamente, potrebbe disinvestire nel settore “core” delle Poste Italiane in vista di una cessione ad un concorrente privato, tipo Amazon, del servizio di recapito della posta.

    Una volta ultimata l’operazione e liberi da questo servizio a bassa redditività, i nuovi azionisti potrebbero concentrarsi sul vero business che rappresenta già oggi il vero obiettivo, il quale è rappresentato dall’ammontare del risparmio privato dei cittadini depositato presso le casse di Poste Italiane. Una risorsa finanziaria che ad oggi viene quantificata in trecentodiciotto (318) miliardi di risparmi.

    Questo ammontare di risorse finanziarie potrebbe cosi essere utilizzato come leva finanziarie per il conseguimento dei più disparati obiettivi speculativi finanziari. Sempre all’interno di questa ipotesi potrebbe risultare funzionale per l’acquisizione a prezzi stracciati di una parte di quel patrimonio immobiliare italiano,  il cui valore fosse decaduto in quanto i proprietari non fossero stati in grado economicamente di armonizzarsi alle direttive Green imposte dalla Commissione Europea.

    Uno scenario decisamente disastroso in quanto determinerebbe l’effetto paradossale di una depatrimonializzazione del settore immobiliare privato italiano la cui acquisizione speculativa, quindi a prezzi molto inferiori alla valutazioni precedenti l’attuazione della direttiva europea, risulterebbe finanziata dalle risorse finanziarie dello stesso risparmio privato italiano.

    La storia ci ha insegnato come la cessione degli asset strategici, qualora gestiti per il conseguimento di interessi puramente speculativi, diventi veicolo di riduzione del patrimonio nazionale, come per le vittime innocenti nel caso di Autostrade e la tragedia del ponte Morandi.

    Con la sostanziale privatizzazione di Poste Italiane l’esito finale non sarà diverso,forse anche peggiore.

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