Taiwan

  • Taiwan, Cina e USA

    Da più parti si sostiene che la scintilla che potrebbe dare inizio alla terza guerra mondiale originerà nell’estremo oriente e in particolare a Taiwan. È risaputo che questa isola, formalmente autodichiaratasi autonoma, è rivendicata dalla Repubblica Popolare Cinese come parte integrante del proprio territorio. Apparentemente, la quasi totalità degli Stati aderenti all’ONU condivide la posizione di Pechino e infatti tutti costoro dichiarano di sostenere l’idea che “la Cina è una sola”, cioè quella “Popolare”. La conseguenza è che, sempre formalmente, quasi nessuno Stato del mondo prevede l’esistenza di una Ambasciata propria a Taiwan né accetta di avere rapporti diplomatici ufficiali. Poi, come succede nella naturale ipocrisia della politica, molti, compresa l’Italia, vi tengono un “ufficio commerciale” e ospitano il corrispettivo taiwanese.

    Gli Stati Uniti raggiungono il massimo dell’ipocrisia quando alte cariche delle istituzioni politiche americane vi si recano senza informare Pechino e, da sempre, riforniscono quel Paese di armi di vario genere. Tutto ciò continuando a ribadire che la “Cina è una sola”: quella con capitale Pechino.

    Perché si ricorre a questo doppio standard così contraddittorio?

    È bene ricordare che la Taiwan attuale (già Formosa) nacque come Stato alla fine della guerra civile cinese che fu vinta dalle forze maoiste. La parte sconfitta, guidata dal gen. Chiang Kai-shek, vi si era rifugiata rivendicando di essere la vera Cina (e cioè la Repubblica di Cina, già esistente dal 1912 e membro dell’ONU) e sperando di potersi ricongiungere vittoriosamente, in un ipotetico futuro, con la madre patria continentale. Fino al 1991, la Repubblica di Cina ha continuato attivamente a sostenere di essere l’unico governo legittimo della Cina (e di rappresentarla tutta), e durante gli anni cinquanta e sessanta la sua richiesta venne accolta dagli Stati Uniti e da alcuni dei suoi alleati. Durante la Presidenza Nixon però le cose cambiarono perché gli Usa decisero di approfittare della rottura dei rapporti di Pechino con Mosca per stringere nuove relazioni con la Repubblica Popolare in funzione anti-sovietica. Dall’ottobre 1971 l’Assemblea dell’Onu, pure piena di nuovi Stati non tutti alleati con l’Occidente, ritirò così il riconoscimento di membro (e di titolare del Consiglio di Sicurezza) a Taiwan e lo concesse a Pechino. Subito, la maggior parte degli Stati mondiali ruppe le relazioni diplomatiche con Taipei e le allacciò a tutti gli effetti con Pechino. È da allora che la Cina Popolare viene riconosciuta da quasi tutti come la vera “unica Cina” e che Taiwan viene considerata un’entità “separata”, ma solo “temporaneamente”. In realtà, come vediamo tutti i giorni, la pratica è un’altra e, anche se non formalmente, tanti continuano a dialogare con Taipei come se fosse uno Stato a sé stante.

    Vediamo di cosa stiamo parlando: si tratta di un fazzoletto di terra molto vicino alle coste continentali cinesi, con un grande sviluppo economico ma con una popolazione di soli 24 milioni di abitanti (la Repubblica Popolare vanta un miliardo e trecento milioni di individui). Come mai una realtà così piccola potrebbe diventare la ragione di uno scontro bellico potenzialmente distruttivo per tutto il mondo? Perché gli USA continuano ad armarla mettendo già nel conto le reazioni fortemente negative di Pechino?

    Per comprenderlo occorre fare ricorso alla geopolitica. Gli Stati Uniti sono oramai da anni la potenza egemone nell’intero globo e, anche attraverso dei documenti ufficiali del governo, hanno ribadito di voler continuare ad esserlo nel futuro (A questo proposito, e non incidentalmente, dobbiamo ricordarci che noi italiani, come tutti gli europei, siamo stretti alleati degli USA e, seppur da una posizione molto minore, partecipiamo a questa egemonia e ne traiamo, in parte, i relativi vantaggi). Una delle caratteristiche di una posizione dominante è la sicurezza del controllo degli oceani e delle vie di comunicazione. La Cina è cresciuta incommensurabilmente dopo la morte di Mao Ze Dong e, con la sua economia e con i grandi investimenti effettuati nelle forze armate, sta insidiando di fatto l’egemonia americana. Come comprensibile, a Washington questo fatto non può piacere. È quindi giudicato necessario, da chi concorda con le posizioni americane, che in qualche modo la Cina di Pechino sia “contenuta”. Ecco quindi dove la geografia viene in aiuto.

    Per garantirsi anche nel futuro il controllo delle vie di comunicazione e “contenere” l’espansione cinese, gli USA hanno innanzitutto costruito un’alleanza con i Paesi che costituiscono la prima “catena” di isole che, all’occorrenza, potrebbero impedire alle navi cinesi di potersi affacciare sull’Oceano Pacifico. Si tratta a nord di Corea del Sud e del Giappone, al centro proprio di Taiwan e a sud delle Filippine, della Malesia/Borneo e del Vietnam. Tutti questi paesi hanno i loro motivi per diffidare di Pechino e i loro rapporti bilaterali con la Repubblica Popolare sono pieni di rivendicazioni contrastanti in merito a isolette di varie dimensioni oggetto di contenzioso. Inoltre, il Mar Cinese del Sud con le sue tante isole e i confini di sovranità marittima che ne derivano è ricco di petrolio, gas naturale e di fauna ittica, e oltre ad essere una importante via di navigazione può diventare sede di basi militari strategiche.

    Poiché essere prudenti è un bene ma esserlo doppiamente lo è ancora di più, gli Stati Uniti hanno deciso di confermare una seconda “catena” di isole in grado di bloccare ulteriormente transiti giudicati possibilmente “inopportuni” anche da e verso l’Oceano Indiano. Ad est e a sud della precedente “catena” si è quindi rinforzata un’altra alleanza che comprende Guam, Palau, tutta l’Indonesia a partire dalla Nuova Guinea e l’Australia.

    A questo punto diventa comprensibile anche il perché la Cina si senta circondata in modo ostile e cerchi di reagire in qualche modo a partire dal “recuperare” il potenziale nemico più vicino: Taiwan, appunto.

    Pechino è la capitale di uno Stato di più di un miliardo di persone e, considerato che gran parte del suo territorio è desertico, vuole garantirsi la possibilità di nutrire i propri cittadini anche attraverso le importazioni continuative di generi alimentari. Nello stesso tempo sta cercando di far sì che la sua economia continui a svilupparsi e per farlo necessita di rifornimenti energetici che arrivano in gran parte dal Medio Oriente, quindi attraverso l’Oceano Indiano. Esattamente la stessa via che è indispensabile per garantire che le esportazioni che hanno indispensabilmente contribuito alla sua crescita degli ultimi trent’anni possa continuare a rimanere percorribile, qualunque cosa succeda.

    Non è un caso che i cinesi si siano impadroniti (contro la sentenza del Tribunale Internazionale del Mare) di qualche scoglio appartenente alle Filippine aumentandone artificialmente la superficie e installandovi basi militari. Anche tutti gli altri contenziosi aperti con Giappone, Vietnam, Malesia e Brunei puntano allo stesso scopo.

    L’indipendenza di Taiwan non è dunque una questione di confronto tra diversi sistemi di governo né una pura questione di principio. Rientra in un gioco molto più ampio tra una potenza egemone e una che punta a non rimanervi soggetta. Il Mar Cinese Meridionale è oggi il teatro della competizione strategica sino-americana. Come sempre in questi casi nessuno ha tutte le ragioni, ma nemmeno tutti i torti: ognuno dei protagonisti persegue il proprio egoistico interesse e ritiene che sia suo dovere (o necessità) il farlo.

    Come può risolversi la questione? Potrebbe continuare in un apparente stallo per anni ma poi la soluzione starà solamente in uno dei due modi possibili: o si troverà un accordo che consentirà una coesistenza pacifica o si arriverà a uno scontro bellico dalle dimensioni imprevedibili. Purtroppo, anche se non ne sento parlare, una situazione simile si verificò negli anni ’30 del secolo scorso con un Giappone in forte espansione e gli USA che non gradivano cedere il loro controllo sull’Oceano. Allora si cominciò con le sanzioni americane e si arrivò nel dicembre del ’41 a Pearl Harbour.

  • La Ferrari raddoppia le vendite di auto a Taiwan

    Le vendite del marchio automobilistico Ferrari a Taiwan sono raddoppiate negli ultimi quattro anni, sostenute dalla crescente ricchezza delle imprese di chip e semiconduttori e dal ritorno di capitale dovuto alla diversificazione delle catene di approvvigionamento.

    L’amministratore delegato di Ferrari, Benedetto Vigna, ha affermato che la domanda a Taiwan sta crescendo più rapidamente che in Cina o Hong Kong a causa di un forte aumento delle vendite di vetture ai cittadini sempre più ricchi di Taiwan. “La Cina cresce ma meno di Taiwan”, ha dichiarato Vigna al quotidiano “Financial Times”, aggiungendo: “A Taiwan ci sono più imprenditori e l’industria dei chip è in forte espansione”.

    Il mese scorso Ferrari ha registrato guadagni annuali record. E sebbene la maggior parte dei suoi guadagni provenga dall’Europa e dagli Stati Uniti, la casa automobilistica ha riferito che le spedizioni verso la Cina continentale e Taiwan sono aumentate dal 5% del totale nel 2020 a quasi l’11% nel 2023. Ferrari sta sfruttando un’impennata della ricchezza privata che ha reso Taiwan al quinto posto nel mondo, in parte grazie anche alla forte espansione del settore dei semiconduttori.

  • Gli Usa mandano armi a Taiwan

    L’amministrazione del presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha approvato per la prima volta la fornitura di armi a Taiwan nell’ambito di un programma federale di assistenza militare diretta per Paesi stranieri. Il dipartimento di Stato ha informato il Congresso federale dell’approvazione di un pacchetto di aiuti militari a Taiwan del valore di 80 milioni di dollari: un importo relativamente contenuto, ma che rende Taiwan beneficiaria per la prima volta in assoluto del programma federale “Foreign Military Financing”, concepito per contribuire alle capacità di difesa di Paesi alleati e amici degli Stati Uniti. Tramite il ricorso al programma, la Casa Bianca finanzierà il pacchetto di aiuti militari attingendo ad un bilancio suppletivo già approvato per l’assistenza militare all’Ucraina. Prima d’ora i governi statunitensi non avevano mai concesso armi a Taiwan tramite programmi di assistenza diretta, una misura che rischia di essere interpretata dalla Cina come un riconoscimento indiretto della statualità dell’isola. Il dipartimento di Stato ha insistito ieri che il ricorso al programma di finanziamento non implica un riconoscimento della sovranità di Taiwan.

    Soltanto il 26 agosto Washington ha approvato la vendita a Taiwan di sistemi d’arma per un importo complessivo pari a 500 milioni di dollari, segnalando un ulteriore rafforzamento del sostegno militare all’isola nonostante le obiezioni della Cina. Secondo il dipartimento della Difesa Usa, le vendite includeranno sistemi di puntamento a infrarossi e altri sistemi per cacciabombardieri F-16. La decisione coincide con l’annuncio da parte di Taiwan di una spesa aggiuntiva pari a 2,97 miliardi di dollari per l’acquisto di armamenti il prossimo anno. Circa la metà dei fondi aggiuntivi verrà destinata all’acquisto di aerei da combattimento, e i fondi rimanenti andranno principalmente ai sistemi navali.

  • Taiwan aprirà un ufficio anche a Milano, dopo quello di Roma

    Taiwan punta al raddoppio in Italia ed aprirà un altro ufficio di rappresentanza a Milano dopo quello di Roma. L’iniziativa, ufficializzata dal ministero degli Esteri, ha lo scopo di “continuare ad approfondire gli scambi e la cooperazione” bilaterali “nei settori dell’economia, del commercio, della cultura, dell’istruzione, della scienza, della tecnologia e del turismo”, ma cade in un momento molto delicato dei rapporti tra Roma e Pechino. Il governo italiano deve infatti decidere entro fine anno se rinnovare o meno il memorandum con la Cina siglato nel 2019 sull’adesione alla Belt and Road, la Nuova Via della Seta; e se accettare l’invito a recarsi a Pechino esteso dal presidente Xi Jinping alla premier Giorgia Meloni nel bilaterale di novembre al G20 di Bali. Milano è una “grande città del nord Italia” dove “la maggior parte dei principali Paesi del mondo ha stabilito consolati”, si legge nella nota di Taipei, a ricordare che i suoi uffici negli Stati che non riconoscono formalmente Taiwan fungono da ambasciate o consolati de facto. C’è un volo Taipei-Milano di Eva Air da ottobre 2022, mentre l’altra compagnia taiwanese China Air ha ripristinato di recente il Taipei-Roma, dopo la fine della crisi del Covid-19, a sostegno di un interscambio commerciale vivace che nel 2021 ha sfiorato i 6 miliardi di dollari.

    I media dell’isola hanno ricordato l’intervista dello scorso settembre alla Cna, l’agenzia ufficiale taiwanese, con la quale la premier Meloni disse di “pensare a una nuova e più intensa stagione di cooperazione: scambi culturali, turismo, prevenzione e gestione delle crisi sanitarie, ricerca scientifica e progetti nel settore chiave dei microchip, dove Taiwan è leader mondiale”, criticando le azioni assertive di Pechino e le loro implicazioni per l’Italia e l’Ue. Lo scorso novembre i parlamentari taiwanesi hanno lanciato l’Associazione di amicizia Taiwan-Italia per rafforzare i legami bilaterali. Mentre questo mese era attesa una visita a Taipei di una delegazione di parlamentari italiani, poi annullata.

    La Cina comunista non ha mai governato Taiwan, ma la considera una parte “inalienabile” del suo territorio da riunificare anche con la forza, se necessario. Dopo le maxi manovre dell’8-10 aprile delle forze armate cinesi a testare un blocco aeronavale intorno all’isola capace di strozzare la sua economia, gli Usa hanno inviato domenica il cacciatorpediniere Uss Milius in “un transito di routine nello Stretto di Taiwan, in acque in cui si applicano le libertà di navigazione e il sorvolo in alto mare in conformità con il diritto internazionale”, a ribadire il proprio impegno “per un Indo-Pacifico libero e aperto”. Il Comando del teatro orientale dell’Esercito popolare di liberazione cinese ha detto di aver “monitorato le operazioni di passaggio della nave”, mantenendo “sempre un alto livello di allerta ad ogni momento”.

    La questione Taiwan è stata al centro della ministeriale G7degli Esteri svoltosi a metà aprile in Giappone, che ha sottolineato l’importanza di pace e stabilità nello Stretto e l’opposizione all’uso della forza per cambiare lo status quo, ribadendo la consapevolezza di dover lavorare a relazioni costruttive con Pechino. Dura la risposta cinese. Taipei “è un affare interno della Cina” che esclude “interferenze esterne: malgrado non siano ancora unificate, le due sponde dello Stretto di Taiwan appartengono alla stessa Cina”, ha affermato il portavoce del ministero degli Esteri Wang Wenbin. Ma a Pechino sono i documenti del Pentagono finiti su internet a catturare di più l’attenzione. Due valutazioni degli esperti Usa su tutti: l’ammissione, in caso di guerra, della superiorità aerea dell’Esercito popolare di liberazione e i timori verso i missili ipersonici DF-27, che avrebbero “un’alta probabilità” di perforare i sistemi di difesa americani.

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