trasparenza

  • Google si impegna a fornire ai consumatori informazioni più chiare e accurate per conformarsi alle norme dell’UE

    Al fine di allineare le sue pratiche al diritto dell’UE – in particolare per quanto riguarda la mancanza di trasparenza e di informazioni chiare ai consumatori – Google si è impegnata a introdurre modifiche in diversi dei suoi prodotti e servizi. A seguito di un dialogo avviato nel 2021 con la rete di cooperazione per la tutela dei consumatori (CPC), coordinata dalla Commissione europea e guidata dall’Autorità olandese per i consumatori e i mercati e dalla direzione generale belga per l’ispezione economica, Google ha accettato di affrontare le questioni sollevate dalle autorità e di apportare modifiche a Google Store, Google Play Store, Google Hotels e Google Flights, per garantire il rispetto delle norme dell’UE in materia di tutela dei consumatori.

    A seguito del dialogo, Google si è impegnata a limitare la propria capacità di apportare modifiche unilaterali agli ordini per quanto riguarda prezzi o cancellazioni e a creare un indirizzo di posta elettronica riservato alle autorità per la tutela dei consumatori, in modo che quest’ultime possano segnalare e richiedere la rapida rimozione di contenuti illegali.

    Google ha inoltre accettato di introdurre una serie di modifiche alle sue pratiche, quali:

    Google Flights e Google Hotels

    • Chiarire ai consumatori se stipulano un contratto direttamente con Google o se la società agisce semplicemente come intermediario;
    • indicare chiaramente il prezzo utilizzato come riferimento quando la piattaforma pubblicizza offerte promozionali, come pure il fatto che le recensioni su Google Hotels non sono verificate;
    •  accettare gli stessi impegni in materia di trasparenza assunti da altre grandi piattaforme ricettive, per quanto riguarda le modalità con cui presentano le informazioni ai consumatori, ad esempio in materia di prezzi o disponibilità.

    Google Play Store e Google Store

    • Fornire informazioni precontrattuali chiare sui costi di consegna, sul diritto di recesso e sulla disponibilità di opzioni di riparazione o sostituzione. Google faciliterà inoltre l’acquisizione di informazioni sulla società (ad esempio la ragione sociale e l’indirizzo), indicando punti di contatto diretti ed efficaci (ad esempio, la possibilità di parlare con un operatore telefonico);
    • chiarire le modalità di consultazione delle differenti versioni nazionali di Google Play Store e informare gli sviluppatori dell’obbligo di rendere le loro applicazioni disponibili in tutta l’UE (ai sensi del regolamento sui blocchi geografici) e consentire ai consumatori di utilizzare mezzi di pagamento di tutti i paesi dell’UE.

    La rete di cooperazione per la tutela dei consumatori effettuerà un attivo monitoraggio dell’attuazione di tali impegni e le autorità nazionali eserciteranno un controllo sugli stessi, intervenendo per garantirne l’osservanza, qualora permangano elementi di preoccupazione. In particolare, vi è una pratica di Google che non è pienamente conforme al regolamento sui blocchi geografici, in quanto la società applica limitazioni tecniche all’uso di applicazioni che sarebbero normalmente disponibili nel paese in cui l’utente si trova in via temporanea. Google si è giustificata dicendo che gli utenti possono cambiare il proprio paese di residenza una volta all’anno per avere accesso alle applicazioni e ai giochi locali in un altro Stato membro. Una modifica di questo tipo, tuttavia, può comportare la perdita di contenuti acquisiti e del credito rimanente in violazione del regolamento sui blocchi geografici.

  • Soldi investiti? No, sono in fuga

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi** apparso su ‘ItaliaOggi’ il 23 maggio 2020 

    Gli investimenti diretti esteri (Fdi è l’acronimo in inglese) possono avere un ruolo molto importante per lo sviluppo economico, per l’aumento della produttività e dell’occupazione e per l’integrazione internazionale. Perciò, tutti i Paesi sono interessati ad attrarli. Vari centri studi, tra cui quelli dell’Ocse e del Fmi, ritengono che ammontino a oltre 40 mila mld di dollari.

    Però, di questi, almeno 15 mila miliardi, pari a quasi il 40% del totale, sarebbero «investimenti fantasma», registrati in alcuni Paesi noti come dei paradisi fiscali, allo scopo, soprattutto, di evitare di pagare le tasse o per pagarne il meno possibile. La situazione, anche in questo campo, invece di essere stata sottoposta a controlli e a restrizioni, è peggiorata dopo la Grande Crisi del 2008, quando la percentuale era del 30%.

    Altri studi confermano che, oltre ai citati investimenti diretti esteri, anche il 40% dei profitti delle stesse multinazionali finisce nei paradisi fiscali. Ciò avviene nonostante che dal 1985 al 2018 il «global corporate tax rate», la media mondiale della tassazione sui profitti delle imprese, sia scesa dal 49 al 24%. Nel 2015 il profitto globale delle multinazionali è stato di 1.700 miliardi di dollari. Si calcola che di questi il 36%, circa 600 miliardi, sia stato «dirottato» nei paradisi fiscali.

    Si possono definire «investimenti fantasma» perché sono trasferimenti, oltre i vari confini, fatti da imprese che fanno parte dello stesso gruppo internazionale, passando attraverso dei «contenitori» vuoti localizzati nei paradisi fiscali. Questi contenitori sono dei veicoli che non sono coinvolti in alcuna attività reale. Servono soltanto per i giochi fiscali. È sorprendente che la metà degli investimenti fantasma transiti in due Paesi dell’Ue, Olanda e Lussemburgo, ben noti paradisi fiscali! Cosa sicuramente scandalosa e inaccettabile, ancora di più adesso che l’Europa si trova in grave emergenza economica per gli effetti della pandemia Covid-19. Se a loro si aggiungessero Hong Kong, le Virgin Islands britanniche, Bermuda, Singapore, le isole Cayman, la Svizzera, l’Irlanda e Mauritius, questo gruppo di dieci Paesi sarebbe responsabile per l’85% degli «investimenti fantasma».

    Nel piccolo Lussemburgo, per esempio, arrivano investimenti esteri pari a 4mila mld $, tanto quanti gli Usa e più di quelli della Cina. Naturalmente per attrarre così tanti investimenti virtuali i paradisi fiscali e i centri off-shore offrono un livello di tassazione molto basso, molto più basso dei Paesi dove sono realizzate le attività reali. Offrono, inoltre, una serie di altri servizi, quali l’anonimato, la scarsa trasparenza e un sistema giuridico a dir poco compiacente. Offerte molto apprezzate da chi vuole evadere o eludere la tassazione ed evitare controlli più stringenti sulle proprie attività.

    Negli anni Ottanta, l’Irlanda aveva una tassa sui redditi d’impresa del 50%. Oggi è del 12,5%. La legge irlandese si presta anche a «soluzioni fiscali creative». Si pensi all’operazione chiamata «doppia birra irlandese con un panino olandese», che prevede il trasferimento dei profitti di multinazionali registrate in Irlanda e in Olanda verso le isole Cayman. In questo modo sembra che le corporation in questione arrivino addirittura a pagare zero tasse, o quasi. Inoltre, in Irlanda il rapporto profitto/salari è pari all’800%, poiché le imprese straniere registrate nel Paese possono dire di avere dei profitti altissimi in rapporto ai pochi lavoratori dipendenti in loco.

    Spesso economisti e analisti male informati o interessati portano l’Irlanda, per la sua bassa tassazione e la sua crescita del Pil, come esempio di gestione virtuosa. Ma dimenticano di dire che gli alti ricavi derivano soprattutto dagli investimenti esteri che arrivano nel Paese proprio per la bassa tassazione. È stato calcolato che, se tutti i Paesi del mondo applicassero la stessa tassa sui redditi delle imprese, le fughe verso i paradisi fiscali quasi scomparirebbero. Ciò produrrebbe un aumento delle entrate fiscali del 15% nei Paesi Ue e del 10% negli Usa e una loro diminuzione del 60% nei paradisi fiscali.

    Queste problematiche sono emerse prepotentemente anche in Italia in seguito alla richiesta di credito avanzata al governo dalla Fiat per ben 6,3 miliardi di euro. Fca, com’è noto, opera in Italia ma ha la sede legale in Olanda e quella fiscale in Gran Bretagna. In Europa la concorrenza relativa alla tassazione dei profitti delle multinazionali ha assunto aspetti intollerabili. Si pensi soltanto che ben 6 Paesi, Irlanda, Lussemburgo, Belgio, Olanda, Malta e Cipro, che hanno fatto parte del gruppo originario dell’Unione prima della sua estensione all’Est Europa, sono considerati paradisi fiscali!

    Una seria riforma fiscale a livello europeo, che valga per tutti i 27 Paesi Ue, non è più rinviabile. È necessaria, urgente e decisiva per l’effettiva realizzazione dell’Europa unita e federale.

    *già sottosegretario all’Economia **economista

  • La Commissione europea pubblica una metodologia comune di prova sulle differenze di qualità nei prodotti alimentari

    Il Centro comune di ricerca (JRC), il servizio della Commissione europea per la scienza e la conoscenza, ha elaborato una metodologia comune per consentire alle autorità nazionali di tutela dei consumatori di effettuare prove che confrontino la composizione e le caratteristiche dei prodotti alimentari commercializzati in confezioni simili nell’Unione. Quest’iniziativa completa le azioni già intraprese dalla Commissione in seguito al discorso sullo stato dell’Unione del Presidente Juncker.

    Il Centro comune di ricerca ha presentato la metodologia nella riunione del Forum ad alto livello per un miglior funzionamento della filiera alimentare.

    Nel giugno 2017 il Forum ad alto livello per un miglior funzionamento della filiera alimentare, scelto dalla Commissione per affrontare la questione delle differenze di qualità nei prodotti alimentari, ha incaricato il Centro comune di ricerca di sviluppare la metodologia. La metodologia completa le azioni annunciate nell’iniziativa della Commissione chiamata “new deal” per i consumatori che mira a chiarire e rafforzare i diritti dei consumatori, anche vietando le pratiche di differenziazione qualitativa dei prodotti che sono ingannevoli per i consumatori; permettere a enti qualificati di avviare azioni rappresentative per conto dei consumatori; dotare di maggiori poteri sanzionatori le autorità degli Stati membri che tutelano i consumatori.

    Tutti i prodotti alimentari venduti nell’UE devono rispettare severe norme di sicurezza e i consumatori devono essere informati delle caratteristiche principali, stabilite in particolare nel diritto dell’UE in materia di etichettatura, e non dovrebbero essere indotti in errore, ad esempio, dalle confezioni. Alle autorità nazionali responsabili della sicurezza alimentare e della tutela dei consumatori spetta il compito di garantire che gli alimenti immessi sul mercato unico rispettino la pertinente legislazione dell’UE. La metodologia di prova,  che si basa sui principi fondamentali della trasparenza, comparabilità, selezione di campioni analoghi e prova dei prodotti, aiuterà le autorità ad accertare che i prodotti alimentari siano commercializzati in conformità al diritto dell’Unione.

    Con il coordinamento del Centro comune di ricerca, i laboratori di alcuni Stati membri dell’UE applicheranno ora la metodologia in una campagna di prova paneuropea, al fine di raccogliere dati sulla portata del problema delle differenze di qualità. I primi risultati dovrebbero essere disponibili entro la fine del 2018. Questo esercizio dovrebbe fornire orientamenti pratici alle autorità che indagano sulle pratiche ingannevoli.

    Soddisfazione è stata espressa dai Commissari europei Bieńkowska, responsabile per il Mercato interno, l’industria, l’imprenditoria e le PMI, Věra Jourová, responsabile per la Giustizia, i consumatori e la parità di genere e Tibor Navracsics, Commissario per l’Istruzione, la cultura, i giovani e lo sport e responsabile per il Centro comune di ricerca, secondo i quali con la nuova iniziativa tutti i cittadini dell’Unione godranno degli stessi diritti e di un trattamento equo all’interno del mercato unico, per sentirsi tutelati e trattati allo stesso modo e ricevere informazioni chiare e oneste sui prodotti che acquistano.

    Fonte: Comunicato della Commissione europea del 14/06/2018

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