Tribunale

  • Arrivano le archiviazioni giudiziarie telematiche. E tra le toghe c’è chi sbuffa

    Circa il 70% dei procedimenti penali termina con l’archiviazione in fase d’indagine ma l’informatizzazione dei servizi giudiziari introdotta per legge (e già in larga parte rinviata al futuro, con l’eccezione delle archiviazioni) fatica ad entrare a regime. Dall’1 gennaio tutto è cambiato, il magistrato non può più disporre l’archiviazione firmando carte ma deve accedere ad “App” autenticandosi, indicare l’ufficio di appartenenza, inserire gli estremi del fascicolo, cliccare su “redigi atto” e su “archiviazione”, poi va scelta da un menù la motivazione. Per procedere a questo punto, però, bisogna giustificare ad “App” il motivo e il problema è che si deve scegliere tra una delle opzioni standard (ad esempio “Modello incompleto”) oppure procedere per una “descrizione libera”. Il tutto moltiplicato per centinaia e centinaia di fascicoli l’anno.

    Tutto questo è visto come una fatica insopportabile e una perdita di tempo da parte del ceto togato, che ha trovato ne Il Fatto Quotidiano il portavoce delle proprie frustrazioni. “Prima riuscivo ad archiviare un fascicolo in meno di dieci minuti, ora ci vogliono almeno due ore” ha lamentato il procuratore di Napoli Nicola Gratteri all’inaugurazione dell’anno giudiziario. “Stamattina nel mio ufficio il sistema è bloccato e non consente l’accesso, e in questi giorni siamo riusciti a inviare non più di tre o quattro richieste. Prima ci ribelliamo, segnalando con fermezza che “App” è radicalmente inadatto a gestire le indagini preliminari, e meglio è”, è quanto ha scritto ai colleghi – come riporta il medesimo quotidiano – il procuratore di Ascoli Umberto Monti. Il Fatto Quotidiano sottolinea che il Guardasigilli Carlo Nordio è al centro di numerosi strali di ex colleghi: “Le ricadute sugli assetti degli uffici saranno devastanti. Naturalmente il ministro, che per questo disastro dovrebbe dimettersi, non si assumerà la responsabilità”, pronostica in chat un gip del Sud. Qualcuno cede allo sconforto: “La sensazione di non essere più un magistrato, ma un funzionario che “flagga” caselle, è fortissima”, racconta in mailing list un pm siciliano. “Confesso di aver provato anche un senso di inutilità quando, dopo la terza volta che non si riusciva a copiare sul modello il testo della richiesta di archiviazione, ho abdicato e salvato le due righe del modello dandola vinta al sistema. Per la prima volta mi sono trovato a subire un vero e proprio condizionamento nel modo in cui ho esercitato la giurisdizione”. Una situazione che crea effetti paradossali: “Chiedere il rinvio a giudizio è diventato più semplice che archiviare“, scherza (ma non troppo) un giovane sostituto. Non male, per il ministro più garantista di sempre.

    Di control, le statistiche sugli errori giudiziari attestano che dal 1991 al 2022 la magistratura non solo non ha archiviato ma ha pure condannato 222 persone che non andavano processate. Il risarcimento dovuto per questi casi è stato di oltre 86 milioni di euro per tutti i 222 casi (solo nel 2022 gli errori giudiziari sono stati 8, e hanno comportato risarcimenti per 9 milioni e 951mila euro). Parallelamente, i casi di ingiusta detenzione – quando vi era sì motivo di processare una persona ma non di privarla della libertà nelle more del processo – sono stati oltre 30mila dal 1992 al 2022 (mediamente per 985 per anno) e hanno comportato indennizzi per oltre 846 milioni di euro (nel 2022 i casi di ingiusta detenzione sono stati 539, gli indennizzi corrisposti sono stati pari a 27,4 milioni di euro).

  • Troppo pochi magistrati minorili, oltre 100mila casi di minorenni in difficoltà restano in alto mare

    Bambini che si drogano, adottandi dimenticati, figli lasciati a genitori che li maltrattano. Sono le conseguenze del deficit di forza lavoro togata che affligge i tribunali minorili del Belpaese. Secondo quanto ricostruito dal Corriere della Sera a firma di Milena Gabanelli e Simona Ravizza, i 29 tribunali minorili italiani hanno 110mila casi pendenti che non riescono a smaltire per carenze d’organico. A Milano ci sono 13 giudici invece dei 18 che dovrebbero essere in servizio, a Roma 12 invece di 16, a Genova 5 invece di 7, a Bari 7 invece di 10. Ne consegue che a Milano vi sono 12.662 casi pendenti: nel tribunale minorile lombardo, che è il più produttivo d’Italia, ogni magistrato minorile deve gestire 974 fascicoli arretrati per anno e nello stesso tempo arrivano 562 casi nuovi, a Roma le pendenze sono 8.368, a Napoli 5.531 e a Bologna addirittura 10.106. In tutta Italia, ci sono 108.876 vicende che coinvolgono minorenni e che richiedono l’intervento dello Stato che attendono di essere definite perché mancano le toghe. L’emergenza non è sfuggita all’ex guardasigilli Marta Cartabia ma resta il fatto che le norme introdotte per far fronte al problema continuano a scontrarsi con la carenza materiale di personale che si occupi di applicare le norme del caso a minorenni in situazioni di difficoltà.

  • In attesa di Giustizia: la parola alla giustizia

    La Corte d’Appello di Brescia ha ritenuto ammissibile l’istanza di revisione del processo per la strage di Erba che ha visto condannati alla pena dell’ergastolo i coniugi Olindo Romano e Rosa Bazzi: istanza munita della insolita caratteristica di essere stata proposta non solo dai difensori ma anche dal Sostituto Procuratore Generale di Milano, Cuno Tarfusser.

    La prima udienza si terrà a marzo ed è frutto di un primo vaglio, positivo, sulla mera correttezza formale di presentazione della richiesta: dovrà, poi, valutarsi la sussistenza dei requisiti sostanziali necessari perché si proceda alla revisione vera e propria. Il che, in buona sostanza, significa un nuovo processo alla luce di prove nuove a discarico degli accusati emerse successivamente alla condanna.

    L’Avvocato Generale di Milano (che non è un avvocato ma un Magistrato con funzioni apicali del medesimo Ufficio cui appartiene Cuno Tarfusser), Lucilla Tontodonati, ha espresso un parere scritto negativo sostenendo che non siano state proposte prove nuove, piuttosto, una rivisitazione di quelle già acquisite in precedenza e valutate in tre gradi di giudizio.

    Tale ragionamento può essere condiviso solo in parte considerando che la originaria porzione “scientifica” delle indagini è suscettibile di essere riconsiderata alla stregua della evoluzione degli strumenti di accertamento tecnico oggi – e non allora – evoluti e disponibili e la ricerca della verità su un crimine efferato dovrebbe essere obiettivo primario. Di più: se Olindo e Rosa fossero innocenti significa che ci sono in libertà i colpevoli di quell’orrendo fatto ed è a costoro che dovrebbe riaprirsi la caccia.

    Tra tutte le osservazioni – che sarebbe eccessivamente lungo e complesso riassumere – a sostegno del dubbio, una probabilmente è la più inquietante di tutte: i minuziosi rilievi fatti sulla scena del crimine hanno consentito la raccolta di una quantità di tracce biologiche e merceologiche riferibili a soggetti rimasti ignoti (oltre a quelle delle vittime e dei loro congiunti) ma non ve n’è una sola che conduca a Romano o Bazzi; il che è più inverosimile che sorprendente. Vi sono, poi, le modalità con cui sono stati gestiti gli interrogatori dei coniugi accusati: sia con domande suggestive che con alcune contestazioni apertamente false che non hanno estorto le confessioni ma le hanno indotte in forma acquiescente ai desiderata degli investigatori. Non ultime le perplessità circa il tardivo riconoscimento di Olindo Romano da parte dell’unico testimone, seguito a ripetute descrizioni di un soggetto completamente diverso e la fantomatica macchia di sangue riferibile ad una delle vittime che si assume repertata sulla vettura dell’imputato e riprodotta in una foto che…non la ritrae! Ed il cui destino resterà un mistero nella confusa catena di raccolta, conservazione ed analisi irrispettosa dei protocolli di polizia scientifica.

    A proposito di reperti, non si deve dimenticare che, ufficialmente per errore (un po’ come capitato a Bergamo nella vicenda legata all’omicidio di Yara Gambirasio) sono andati distrutti dei reperti che, guarda caso, la Cassazione aveva ritenuto fruibili dalla difesa per un’accurata analisi scientifica.

    In buona sostanza, un processo che merita ampiamente di essere sottoposto ad una analisi critica, al di là dei rigori formalistici al cui ossequio si intende legare il diniego della revisione.

    Rispetto che sembrerebbe, altresì, dovuto a quella forma di giustizia che si definisce “teorematica” che si realizza quando vi è l’impossibilità di costruire un’ipotesi di accusa su dati empirici verificati e consolidati e, ad un certo punto, prende forma un teorema e tutti gli elementi che lo confortano vengono valorizzati a differenza di quelli che lo smentiscono.

    Come dire che in una gara di tiro con l’arco prima viene scagliata la freccia e poi si disegna il bersaglio intorno al punto di impatto per dimostrare che si è fatto centro.

    Vi sono fatti e – soprattutto misfatti – che reclamano l’individuazione di un responsabile ma un colpevole purchessia non è giustizia e neppure vendetta sociale ma semplicemente una vergogna a cui, se possibile, dando parola alla Giustizia deve porsi rimedio.

  • Meglio separate

    Meglio separate – Un’inedita prospettiva sulla separazione delle carriere in magistratura”, è un libro scritto da Gaetano Bono – Sostituto Procuratore presso la Procura Generale di Caltanissetta – pubblicato alla fine di ottobre 2023, che affronta senza pregiudizi la questione, mostrando i punti di forza e le criticità delle contrapposte tesi che, da almeno trent’anni, si fronteggiano, e che pongono la magistratura da sempre in posizione di unanime contrasto, quantomeno nel pubblico dibattito.

    Eppure l’autore, da magistrato, mostra che è possibile realizzare una separazione delle carriere non solo tale da fugare i pericoli prospettati dalla magistratura, ma anche da apportare notevoli miglioramenti all’efficienza degli uffici giudiziari.

    Questo libro, difatti, non si limita a parlare della separazione delle carriere, anzi essa funge da spunto per offrire uno spaccato sulla situazione della giustizia italiana, sulle ragioni della sua crisi e sulle possibili soluzioni (non solo nel settore penale).

    Merita di essere evidenziato il registro linguistico adottato, che rende la lettura scorrevole, e consente di rivolgere il libro anche a coloro che non hanno dimestichezza con il mondo giudiziario. In un certo modo, anzi, l’autore sembra avere voluto rivolgersi al cittadino medio che, preso dalla miriade di faccende quotidiane, potrebbe essere indotto a considerare la questione della separazione come un qualcosa che riguarda solo tribunali e avvocati. Mentre invece è in gioco, in ultima analisi, la libertà dei cittadini, che verrebbe meno se non venisse loro assicurata una effettiva tutela giurisdizionale. E se la riforma della Giustizia fosse realizzata male – avverte Bono nel libro – a farne le spese sarebbero soprattutto i cittadini, che perderebbero la possibilità di contare su una magistratura autonoma e indipendente, sia che fossero coinvolti in una vicenda giudiziaria come autori del reato, sia come persone offese.

    L’autore – in coerenza con il metodo che dichiara di adottare, ossia quello di rifiutare qualsivoglia imposizione dogmatica e di svolgere un’analisi scevra da pregiudizi – cerca di mettere il lettore nelle condizioni di farsi una propria idea in maniera consapevole, poiché gli illustra, passo dopo passo, il fondamento delle sue tesi e – forte della sua esperienza professionale di pubblico ministero – si spinge a disvelare i meccanismi di funzionamento degli uffici giudiziari, specialmente degli uffici di procura e dei rapporti tra PM e polizia giudiziaria.

    Dunque parlare di separazione delle carriere dei magistrati, nonostante a prima vista possa sembrare un argomento settoriale, significa trattare di un tema centrale per la nostra democrazia e per la vita quotidiana dei cittadini.

    Acquisire consapevolezza dei pericoli di una separazione fatta male e, nel contempo, dei vantaggi di una riforma ben realizzata, diviene dunque essenziale per potere valutare le proposte di legge che, di volta in volta, vengono presentate in Parlamento. È da sottolineare, infatti, che il libro è stato scritto guardando ai valori e ai principi costituzionali, senza cristallizzarsi su uno specifico testo di legge e ciò lo rende unico nel panorama editoriale, poiché gli altri testi similari partono tutti da specifici riferimenti ed esauriscono la loro proiezione nell’analisi degli stessi; mentre, invece, “Meglio separate” può essere utilizzato sia oggi, sia nel futuro, come uno strumento per valutare se una certa ipotesi di separazione metta a rischio la democrazia, potendo portare alla sottomissione del pubblico ministero al potere politico e mettendo a repentaglio il delicato equilibrio nella distribuzione dei poteri dello Stato.  Ciò, però, non vuol dire che si tratti di un testo astratto, anzi l’autore ha pure analizzato l’attuale riforma in discussione in Parlamento.

    In definitiva, perché leggere “Meglio separate”? Per acquisire maggiore consapevolezza sulle implicazioni della riforma e sulle priorità per migliorare realmente il sistema giustizia, in quanto la separazione – afferma Bono – può rappresentare un’opportunità di miglioramento solo se la si accompagnasse a una maggiore specializzazione dei magistrati, alla riduzione del numero di procedimenti civili e penali, all’accorpamento delle procure piccole in uffici più grandi ed efficienti, all’informatizzazione, alla digitalizzazione, alla diminuzione dei tempi dei processi, e se si rispettassero le condizioni poste nel testo.

  • In attesa di Giustizia: una storia (un’altra) di ordinaria ingiustizia

    Sembra di dover constatare che sia stato tirato il freno a mano ai fieri propositi riformatori del Ministro Nordio: la Giustizia deve dare la precedenza alla qualsiasi, tanto è vero che nel progetto di legge finanziaria non le viene riconosciuta una dotazione degna di questo nome…intanto accade di tutto e la rubrica, questa settimana, offrirà al pubblico ludibrio il caso degli avvocati – uno in particolare, un giovane praticante – di un indagato per falso in una pratica di voluntary disclosure, strumento messo a disposizione dei contribuenti per regolarizzare la posizione fiscale.

    Ovviamente vengono disposte intercettazioni telefoniche e ambientali, meno ovviamente (anzi, illegalmente) anche tra l’accusato ed i suoi difensori, uno dei quali, scelto probabilmente per sfruttarne, con l’età, la minore esperienza, viene convocato per essere sentito dal magistrato come persona informata dei fatti: del che parla – intercettato – ai colleghi di studio con i quali si confronta condividendo la decisione di opporre il segreto professionale se si tratterà di fatti riguardanti il mandato. Gli inquirenti, dunque, sanno in anticipo di quella decisione. Ciononostante, in esordio dell’interrogatorio, il praticante avvocato viene avvertito dell’obbligo di rispondere secondo verità e gli si pongono varie domande di carattere generale (professione, motivi per i quali ha conosciuto l’indagato ecc.).

    L’interrogatorio si protrae, poi, in termini assai più incalzanti per oltre tre ore e mezza e vi partecipano, oltre al magistrato, quattro inquirenti. Uscito dalla caserma, lo sventurato telefona (sempre intercettato) ai colleghi ed ai genitori, piangendo: richiesto del motivo e continuando a piangere spiega che “c’era un colonnello, altri quattro oltre al pubblico ministero… Mi sono sentito morire. Tre ore e mezza trattato come un delinquente!…Mi hanno rovinato la vita, il pubblico ministero ha detto che mi sto approcciando con disinvoltura alla professione legale, erano cinque contro uno e gliel’ho detto che stavano…inducendo a rispondere cose che non ho detto, né pensato ma che se volevano verbalizzare così che scrivessero addirittura loro! Finirà che mi indagheranno impedendomi anche di sostenere l’esame di Stato”.

    L’ascolto delle registrazioni è inquietante per i toni usati ed il clima creato ad arte:  per ragioni di sintesi non andiamo oltre limitando al rilievo alla violazione evidente dell’art. 188 del codice di procedura penale che vieta metodi lesivi della libertà di autodeterminazione della persona confermata, in questo caso, da una consulenza sugli audio dei professori Pietro Pietrini dell’Università di Lucca e Giuseppe Sartori di quella di Padova, per intenderci, due giganti del settore che così concludono: “I risultati delle analisi effettuate dimostrano come la situazione vissuta abbia creato nel soggetto una condizione di turbamento psichico e alterazione emotivo-affettiva compromettendo la sua libertà di autodeterminazione”. Il che, andiamo avanti, oltre ad integrare il reato di concussione o violenza privata rende per legge inutilizzabili le dichiarazioni rese. Per non farsi mancare nulla, nel giudizio a carico del cliente l’avvocato è stato citato come teste d’accusa e quelle dichiarazioni (inutilizzabili) sono, invece, state acquisite sostenendo che il testimone aveva implicitamente rinunciato al segreto professionale.

    All’obiezione di non essere stato messo nelle condizioni di serenità migliori per rispondere, il Tribunale ha ritenuto che “sono questioni che esulano dall’oggetto del processo”. Vergognatevi se ne siete capaci e questo approccio non da Tribunale della Repubblica ma da caserma di gendarmeria cilena ai tempi dell’indimenticato Generale Augusto Pinochet è stata seguita pure con riguardo alle intercettazioni degli avvocati (vietatissime dagli artt. 103 e 271 del codice di procedura).

    Non è un riconosciuto diritto alla riservatezza che vengono omessi i nomi di coloro che si sono resi responsabili di sopraffazioni di ogni genere ed illegalità assortite frutto di immaginazione interpretativa, ma per tutelare quello di chi ha il diritto all’oblio a non diventare oggetto di curiosità morbose dopo aver patito di sofferenze psicologiche, vittima di una giustizia precipitata in un buco nero nel quale si è annidata calpestando le libertà inviolabili dei singoli.

    Nordio, se ci sei, batti un colpo e, magari: un giro degli ispettori in quella Procura e quel Tribunale non guasterebbe, e non solo quelli del Ministero ma anche quelli della Polizia di Stato.

  • In attesa di Giustizia: la vecchia guardia va in pensione ma non si arrende

    Non importa se sono state decine di migliaia i cittadini che hanno firmato  l’iniziativa di legge popolare per la separazione delle carriere tra magistrati giudicanti e pubblici ministeri, non importa neppure se alla Camera sono già in esame quattro diversi disegni di legge sia di maggioranza che di opposizione su questo argomento: la grave colpa per queste iniziative e la responsabilità sul loro possibile percorso parlamentare (che avrà inizio il 6 settembre) viene fatta ricadere su un uomo solo, come se fosse l’uomo solo al comando anche se così non è, Carlo Nordio, Ministro della Giustizia che – per la verità – è da sempre sostenitore di questa riforma.

    Una vecchia guardia composta da oltre trecento magistrati in pensione ha sottoscritto un appello inviato al Guardasigilli avvertendolo dei pericoli cui si andrebbe incontro se la separazione delle carriere diventasse realtà, chiedendo di fermare il percorso parlamentare: tra di loro vi sono giudici, P.M., civilisti e penalisti, molti dei quali sono nomi noti come l’ex Procuratore Generale della Cassazione, Giovanni Salvi, che da P.M. ha a lungo indagato sulla strage di Ustica, o Francesco Greco, ex Procuratore Capo a Milano dove è stato componente storico del Pool “Mani Pulite”.

    Potevano godersi in pace la generosa pensione che lo Stato attribuisce loro, invece hanno ritenuto di riproporre i paventati rischi di questa riforma che, ab immemorabile, è invisa e contrastata con tutte le forze dalla magistratura associata di cui tocca un nervo scoperto; si ipotizza uno stravolgimento della Costituzione che porterebbe con sé la ricaduta antidemocratica della sottoposizione del Pubblico Ministero al potere esecutivo che avrebbe così la facoltà di inibire piuttosto che stimolare le indagini a seconda che attingano alleati od oppositori politici, amici o avversari, potentati o meno: insomma, quello che – secondo Luca Palamara – hanno fatto proprio loro per decenni; c’è, poi, il tema della cultura della giurisdizione: le diverse esperienze sarebbero, infatti, utili ad accrescerla.

    Invero, non è dato comprendere il fondamento di questi timori posto che la nostra Costituzione già disegna una diversità di funzioni – non una separazione delle carriere, compatibile ed ideale con l’attuale sistema accusatorio, perché i Padri Costituenti “guardavano” al modello di processo penale inquisitorio vigente all’epoca –  e, soprattutto, dispone di almeno quattro articoli corrispondenti ad altrettanti paletti volti ad impedire che l’indipendenza della magistratura sia minata dalla sottoposizione all’Esecutivo: nessuno di questi argini ad uno strapotere politico risulta intaccato dalla riforma.

    Quanto alla cultura della giurisdizione, è – appunto – un problema di cultura, di mentalità e non di transito da una funzione (o carriera) ad un’altra: ovviamente avere svolto funzioni giudicanti può essere di grande supporto se si passa a quelle inquirenti poiché il Pubblico Ministero avrà “fatto scuola” di valutazione delle prove e potrà meglio individuare le evidenze utili e sostanziose da ricercare nelle indagini per poi sottoporle al Tribunale. Molti, troppi, sono invece gli esempi di P.M. che transitando alla giudicante hanno mantenuto la mentalità poliziesca dell’inquisitore: Piercamillo Davigo ne è l’archetipo, e questo va decisamente meno bene.

    Lamentano, infine, i firmatari della petizione che il P.M. per legge è obbligato a svolgere indagini in favore dell’indagato e non di rado, in dibattimento, chiede l’assoluzione: il che non potrebbe avvenire se venisse formato alla sola logica dell’accusa. A prescindere dal fatto che sono casi isolati quelli in cui si assiste ad una ricerca delle prove a favore (ne abbiamo, invece, di scoperte e nascoste…) il codice prevede ciò solo al fine di poter scegliere se l’accusa è sostenibile in giudizio oppure no e chiedere quindi l’archiviazione; e vi è da augurarsi che, carriere separate oppure no, il Pubblico Ministero faccia sempre e comunque buon governo dell’equilibrio.

    In buona sostanza non si vedono né rischi ne vantaggi a mantenere unificate le carriere dei magistrati e permane oscuro il motivo di cotanta ostilità che non risieda nella privazione di maggiori chance di passare da una funzione ad un’altra, dal civile al penale e viceversa a caccia di sedi più appetibili, ruoli maggiormente gratificanti e di prestigio a seconda di quali posti si liberino. A pensar male si fa peccato ma, qualche volta, si indovina.

    Concludendo con una provocazione viene da domandarsi perché questi trecento, quando erano giovani e forti nell’esercizio delle loro funzioni, avendo tanto a cuore indipendenza ed equilibrio dei magistrati, cultura della giurisdizione non abbiano mai pensato che una utile separazione delle carriere potesse essere quella tra P.M. e giornalisti che non comporta alcuna modifica costituzionale, sebbene sia materia politicamente e mediaticamente molto sensibile e redditizia visto che su atti ed intercettazioni “dal sen fuggite” si costruiscono fatturati e carriere con pregiudizio della reputazione anche terze persone coinvolte e prima ancora dell’accertamento della responsabilità degli indagati – che, magari non verrà accertata – minando, oltretutto, la “verginità cognitiva” di chi deve giudicare con le anticipazioni del processo e del giudizio possibili facendo zapping tra Chi l’ha visto, i plastici di Porta a Porta, Quarto Grado e la lettura qualche paginata non solo del Fatto Quotidiano ma anche del Corriere della Sera.

  • Eurojusitalia: la prima banca dati in Italia che collega il contenzioso della Corte di Giustizia con il contenzioso nazionale

    La banca dati Eurojusitalia nasce da un’idea di molti anni fa, quando fu pubblicata, nel 2007, la prima edizione della «Giurisprudenza di diritto comunitario. Casi Scelti» (Giuffrè editore, poi, leggibile in www.eurojus.it). Fu privilegiata la raccolta di casi rilevanti di diritto dell’Unione europea, pubblicando varie edizioni dell’opera (la quinta è del 2020) per poi “mettere in cantiere”, in continuità con la precedente iniziativa, la banca dati.

    Lo scopo di Eurojusitalia è di dare uno strumento utile ed immediato per l’accesso alla giurisprudenza della Corte di giustizia e del Tribunale dell’Unione europea che origina da “ricorsi italiani” e da rinvii pregiudiziali sollevati da giudici italiani dal 2020 in poi. L’attenzione è, dunque, per i casi italiani (contenziosi e pregiudiziali) documentando, per i rinvii pregiudiziali, origine e seguito, e quindi ordinanza di rinvio e pronuncia del giudice nazionale che ne è seguita (il c.d. suivi nazionale).

    Eurojusitalia è pertanto in grado di fornire un quadro d’insieme delle questioni italiane sottoposte alla Corte di giustizia e al Tribunale dell’Unione europea. Consente altresì di verificare come i giudici nazionali hanno dato o stanno dando seguito alle decisioni della Corte. Un dato, questo, che non sempre è facile da reperire e, dunque, da conoscere e che può essere utile non solo per chi studia il diritto UE e la sua applicazione in Italia, ma anche per il giudice e l’avvocato che devono affrontare casi analoghi e vogliono, quindi, conoscere il precedente, e anche per chi voglia comunque documentarsi, come si è detto, sui casi italiani.

    La home page del sito è stata progettata per consentire una ricerca informatizzata semplice e agevole, al fine di evitare (se possibile) che chi necessita di un’informazione sia “scoraggiato” dalla difficoltà della ricerca. La pagina principale dispone di una varietà di filtri di ricerca con l’individuazione, per esempio, dell’organo giudicante, degli estremi della causa, della ricerca per materia, della ricerca per parole chiave, della data di pronuncia. In questo modo l’utente è indirizzato verso una più corretta consultazione e al tempo stesso è garantito il collegamento al sito della Corte di giustizia, www.curia.europa.eu, mediante un apposito link di rimando, usufruibile ogniqualvolta l’utente desideri esaminare altra documentazione (i filtri di ricerca sono “cumulabili” e “modificabili” in ogni momento).

    Un’altra peculiarità di Eurojusitalia è quella di offrire un costante aggiornamento, compresa la giurisprudenza del Tribunale unificato dei brevetti, operativo dal 1 giugno 2023, che è legittimato a proporre rinvii pregiudiziali.

    La realizzazione del progetto, fortemente voluto dal Prof. Bruno Nascimbene, professore emerito di diritto dell’Unione europea nell’Università di Milano “Statale”, già ordinario di diritto internazionale nell’Università di Genova, è avvenuta grazie alla collaborazione degli avvocati delle “cause italiane” e si è avvalsa del lavoro di Cristina Ranno, Ginevra Greco, Sara Morlotti, che continueranno a mantenerla aggiornata. Gli aspetti tecnici del portale sono invece gestiti da Pyx-is IT Consulting.

    La banca dati, totalmente open access, è disponibile collegandosi al sito www.eurojusitalia.eu.

  • In attesa di Giustizia: la corrida e la rivoluzione digitale

    Ennesima settimana convulsa sul fronte della giustizia: il luna park dell’opposizione purchessia ha sfoderato l’artiglieria contro le ultime iniziative, o per meglio dire gli annunci, del Guardasigilli il quale ha ribadito che la sua azione di Governo prevede la separazione le carriere tra giudicanti e pubblici ministeri e di rimodulare il reato di concorso esterno in associazione mafiosa; a quest’ultimo proposito non sono mancate neppure le salve di “fuoco amico” supportate dalla vibrante indignazione dei familiari di vittime della mafia.

    Una vera e propria corrida, intesa anche nell’accezione che al termine fu data dal celebre programma condotto da Corrado Mantoni: dilettanti allo sbaraglio in salsa di ignorante malafede e vediamo nell’ordine il perché di cotante ambasce senza che vi sia neppure un articolato su cui ragionare.

    L’obiezione principale che viene rivolta alla separazione delle carriere – con l’Associazione Nazionale Magistrati in prima linea – è che comporta la dipendenza del Pubblico Ministero dall’Esecutivo subendone le imposizioni su quali indagini avviare e quali fermare. Orrore autoritario e fascista da scongiurare a qualunque prezzo.

    Ebbene, che vi sia un simile automatismo non sta scritto da nessuna parte (in Francia, per esempio, le carriere sono unificate ma il P.M. dipende dal Ministro della Giustizia) ed, anzi: per raggiungere questo risultato bisognerebbe modificare ben quattro articoli della Costituzione posti a tutela della indipendenza della Magistratura da qualsiasi altro potere, con ciò intendendosi sia quella giudicante che quella inquirente (la Costituzione lo precisa). Impresa cui nessuno ha mai neppure accennato ed inverosimile se si pensa all’iter previsto per le modifiche costituzionali con doppia lettura alle Camere e maggioranza qualificata di 2/3. Le ragioni della contrarietà sono altre, forse meno nobili… ma andiamo oltre.

    Concorso esterno: sia chiaro innanzitutto, per chi non lo sapesse, che è un delitto che il codice penale non prevede. Proprio così, un reato per cui si può essere condannati frutto di una interpretazione giurisprudenziale, per quanto non risulti che i giudici possano sostituirsi al legislatore con le loro sentenze.

    Nordio, in realtà, non ha affatto detto che intende abolire questa ipotesi di reato ma tipizzarla meglio in via normativa, magari secondo i dettami della Costituzione che prevede che nessuno possa essere ritenuto responsabile per un fatto non previsto dalla legge come reato ed anche che le leggi siano tassative. Cioè puntualmente definite in modo che i cittadini sappiano cosa è consentito e cosa è vietato o punito. Esattamente quello che, commentando le parole del Ministro sostiene, tra i molti, anche Giovanni Fiandaca, professore emerito di diritto penale: uno dei massimi esponenti contemporanei di questa branca del diritto.

    Naturalmente, le critiche sono arricchite dalla considerazione che in l’attuale Ministro della Giustizia non abbia prodotto nulla in termini di utili ed intelligenti riforme mentre la Cartabia…ah, la Cartabia, quella sì!

    Basta vedere l’ultima creatura delle sue commissioni, volta ad efficientare il sistema, che ha visto la luce ad inizio mese: il Portale attraverso il quale si potranno e dovranno depositare ben 103 diversi atti giudiziari, dalla nomina di un difensore agli atti di appello. Un pachidermico prodigio delle più moderne tecnologie operativo già nei prossimi giorni (destinato, chissà perché solo agli avvocati e non ai magistrati) ma si impalla con inquietante frequenza, è ancora incompleto, lento, complicato e per non farsi mancare nulla alcuni riferimenti agli articoli del codice sono sbagliati. Si consideri, infine, che i Funzionari amministrativi dei Tribunali non sono stati formati per l’utilizzo e – soprattutto – se l’atto che si deve inoltrare prevede più di una copia le altre bisogna andarle a depositare cartacee, a mano, in cancelleria. E perché mai? Suvvia! Perché non si possono sprecare troppo toner e carta, non ci sono i fondi, e quelli del PNRR, faticosamente guadagnati con questo cretino meccanico non sono sacrificabili e servono altrove. Avanti così, la Giustizia può attendere.

  • In attesa di Giustizia: l’arte di strisciare

    Paul d’Holbach è considerato uno dei massimi esponenti del materialismo francese, collaborò all’Enciclopedia e si adoperò alla diffusione delle idee e dello spirito dell’Illuminismo. Tra i suoi tanti scritti vi è un interessante ”Saggio sull’arte di strisciare ad uso dei Cortigiani”.

    Un buon cortigiano non deve mai avere un’opinione personale ma solamente quella del padrone o del ministro: è uno degli insegnamenti cardine che il Barone d’Holbach dispensa agli aspiranti cortigiani di successo e la sua lettura deve avere ispirato il duo Padellaro – Travaglio, intenti febbrilmente a mettere il servo ossequio a servizio del decadente potentato, Piercamillo Davigo e della sua visione malata della giustizia.

    L’uomo è in rotta come le truppe austriache descritte da Armando Diaz nel bollettino della Vittoria: dopo la condanna a Brescia per rivelazione di atti di ufficio è risultato soccombente in un altro processo dove, invece, si presentava come parte lesa di diffamazione messa in atto – secondo lui – da Paolo Mieli con un editoriale sul Corsera di te anni fa. Querela sparata a salve: il Tribunale ha ritenuto che vi sia stato solo esercizio del diritto di critica e non diffamazione, assolvendo il giornalista. Sarà, forse, l’ennesimo colpevole che la fa franca?

    I Cortigiani di area M5S, allora, per dare sollievo ai malumori del loro alfiere, con insolito afflato garantista, nonostante la condanna ed in spregio ai loro proverbiali rigori pseudo moralisti, lo hanno prescelto per un’audizione alla Camera a proposito della  ri – modifica della disciplina della prescrizione.

    Davigo non si è lasciato sfuggire l’occasione per suonare la grancassa ribadendo trite castronerie sulla responsabilità degli avvocati, che sono troppi ed in mancanza di lavoro moltiplicano appelli e ricorsi per garantirsi laute parcelle a colpi di prescrizioni. Per Davigo finisce anche qui a mazzate, zittito dall’On. Costa che, statistiche ufficiali alla mano, ha dimostrato come la percentuale preponderante delle prescrizioni matura nel corso delle indagini preliminari quando gli avvocati nemmeno “toccano palla”.

    Quanti dispiaceri…ecco, allora entrare in scena il tandem di attacco de Il Fatto Quotidiano, sciorinando una lingua adulatoria ai limiti del pecoresco con un paragone di Padellaro, a dir poco oltraggioso, tra Davigo e Giovanni Falcone. Noli miscere sacra profanis: eppure, se non fosse una bestemmia, sarebbe solo un meschino tentativo di salvare il soldato Piercamillo dopo l’onta della condanna per reati contro l’amministrazione della giustizia. Basti pensare che Falcone, poiché controcorrente, è stato vittima di odio politico della sinistra che con il contributo degli scudieri eletti al C.S.M.  gli ha impedito di andare a dirigere la Procura di Palermo prima e la Nazionale Antimafia, che era una sua creatura, poi; la carriera di Davigo, invece, non è stata ostacolata da nessuno e – ne siamo lieti – si gode la sua ricca pensione in vita mentre Falcone non ne ha nemmeno raggiunto l’età; il massimo del rischio a cui è esposto l’ex P.M. di Mani Pulite resta quello di incontrare qualcuno che gli faccia il pernacchio come Totò all’ufficiale tedesco nel film “I due marescialli”.

    Travaglio, dal canto suo, ne ha intentato la difesa da impavido lacchè con un editoriale degno dell’Asilo Mariuccia nel quale lamenta che, al momento, sono indagati per omessa denuncia della diffusione da parte di Davigo di verbali secretati solo gli ex consiglieri dei C.S.M. Cascini e Marra. Siamo al “chi lo dice sa di esserlo mille volte più di me”: omette, peraltro, di ricordare il clima che,  grazie a Davigo, in quel periodo si era creato, all’interno del Consiglio e che è stato descritto in aula, a Brescia, da Nino Di Matteo che ha riferito di un’aggressione verbale subita proprio ad opera del Piercamillo nazionale il quale, a dispetto del nome che evoca un tenero gelatino al biscotto non è un mite e gli inveì, ingiustificatamente e con violenza, contro nel corso di una riunione per discutere chi votare come Procuratore Capo di Roma.

    E’ un teatro dell’assurdo: Davigo – che pure ha ammesso la materialità dei quanto commesso – meglio avrebbe fatto a riconoscere i propri errori invece che pervicacemente sostenere una ragione che non c’è e che non può essere supportata neppure sforzandosi di mitizzarlo e giustificarlo sulle colonne del quotidiano che è il più pericoloso concorrente dei Rotoloni Regina.

  • In attesa di Giustizia: contrappasso

    C’è qualcosa di allegorico, cabalistico, nella parabola professionale e di vita di Piercamillo Davigo che da magistrato del Pubblico Ministero aveva promesso di “rivoltare l’Italia come un calzino” magnificando lo standing dei suoi colleghi di funzione: “i magistrati sono il meglio della società civile ed i pubblici ministeri sono il meglio del meglio del meglio”, poi da giudicante aveva presieduto i Collegi di Corte d’Appello e di Cassazione  trasformandoli in altrettanti Comitati di Salute Pubblica; del resto, ipse dixit, non ci sono innocenti ma solo colpevoli che non sono ancora stati scoperti. Anche lui, viene ora da chiedersi?

    L’inesorabile trascorrere degli anni gli ha fatto terminare anzitempo la consiliatura al C.S.M. e da pensionato ha intrapreso quella di editorialista per un quotidiano giacobino che, nella versione cartacea, può essere destinato solo agli scopi meno nobili. Ma la parabola non si era ancora conclusa: l’ultima delle esperienze nel mondo della giustizia l’ha fatta in un ruolo che mai avrebbe immaginato, a stretto contatto – orrore! – con un avvocato cui ha affidato il compito di difenderlo smentendo se stesso a proposito del giudizio di appello, ritenuto superfluo e causa di malfunzione del sistema, ma che ha già preannunziato dopo la sua condanna.

    Quest’ultimo segmento di vita è stato scandito anche da correlazioni enigmaticamente realizzatesi: Davigo è stato rinviato a giudizio proprio nel giorno in cui ricorreva il trentennale dell’arresto di Mario Chiesa che diede inizio alla macelleria giudiziaria di “Mani Pulite” di cui è stato indiscusso protagonista e la sua sentenza di condanna è stata pronunciata mentre si celebrava la memoria di Silvio Berlusconi che, praticamente da solo, ha dato per decenni motivo di esistere alla Procura di Milano ed alla “casella delle lettere” messa a disposizione dal Corsera: se si vuole sapere il perché e gli si vuole dare credito, basta leggere il primo libro intervista di Luca Palamara con Sallusti.

    Torniamo a Brescia: il momento della lettura di una sentenza è un passaggio di grande solennità che si ascolta in piedi e le prime parole sono sempre “In nome del Popolo Italiano…” dando corpo al canone 101 della Costituzione; in nome di quel Popolo, a rappresentarlo durante la pronuncia di condanna, vi era anche Francesco Prete, che è il Procuratore Capo di Brescia, a fianco dei suoi sostituti che avevano condotto le indagini ed il dibattimento: un gesto volto a dimostrare che in quell’Ufficio ci si era mossi con iniziative condivise e probabilmente anche sofferte perché rivolte nei confronti di un ex collega.

    Francesco Prete, ai tempi di Mani Pulite, era un giovane P.M. in forza proprio a Milano e la sua stanza era vicina a quella di Davigo ma non ha mai fatto parte del famoso (o famigerato) pool: lavoratore, equilibrato, studioso, il suo tragitto professionale lo ha portato a dirigere tre Procure (Vasto, Velletri ed infine Brescia) senza mai cercare il “colpo di teatro”, l’inchiesta sensazionalistica che aiuta la carriera o – comunque – offre notorietà e non l’ha perseguita nemmeno ora che le regole di competenza per i processi ai magistrati assegnano a Brescia i procedimenti a carico di quelli milanesi e proprio la sua Procura di un tempo rivela l’esistenza di un verminaio di prassi opache, per usare un termine garbato, di cui si è sempre avuto il sospetto: Francesco Prete ha mantenuto un basso profilo con interviste ridotte al minimo, riserbo e parole misurate che dovrebbero essere patrimonio di chi svolge ruoli sensibili come il suo.

    Contrappasso anche in quest’ultima immagine che raffigura due uomini divenuti inaspettatamente avversari e due modi diversi di interpretare la funzione giurisdizionale mentre un comunicato della Giunta dell’Unione Camere Penali, senza (troppo) sarcasmo, auspica che nel futuro di Davigo, ora che ha scoperto il diritto all’appello, vi siano Giudici con una concezione delle impugnazioni diversa dalla sua.

    Ci mancava la solidarietà, obiettivamente un po’ di maniera, del nemico di sempre per trasformare in fiele il contenuto del calice già amarissimo toccato in sorte all’ultimo (speriamo) dei grandi inquisitori.

    Un augurio di buona sorte, nel rispetto della presunzione di innocenza non si nega a nessuno e lo formuliamo anche noi ma quello in cui è inscritta la parabola discendente di Piercamillo Davigo è come un arazzo che, attraverso ironie e contrappassi, sembra intessuto di una Giustizia quasi poetica.

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