Tribunale

  • Meglio separate

    Meglio separate – Un’inedita prospettiva sulla separazione delle carriere in magistratura”, è un libro scritto da Gaetano Bono – Sostituto Procuratore presso la Procura Generale di Caltanissetta – pubblicato alla fine di ottobre 2023, che affronta senza pregiudizi la questione, mostrando i punti di forza e le criticità delle contrapposte tesi che, da almeno trent’anni, si fronteggiano, e che pongono la magistratura da sempre in posizione di unanime contrasto, quantomeno nel pubblico dibattito.

    Eppure l’autore, da magistrato, mostra che è possibile realizzare una separazione delle carriere non solo tale da fugare i pericoli prospettati dalla magistratura, ma anche da apportare notevoli miglioramenti all’efficienza degli uffici giudiziari.

    Questo libro, difatti, non si limita a parlare della separazione delle carriere, anzi essa funge da spunto per offrire uno spaccato sulla situazione della giustizia italiana, sulle ragioni della sua crisi e sulle possibili soluzioni (non solo nel settore penale).

    Merita di essere evidenziato il registro linguistico adottato, che rende la lettura scorrevole, e consente di rivolgere il libro anche a coloro che non hanno dimestichezza con il mondo giudiziario. In un certo modo, anzi, l’autore sembra avere voluto rivolgersi al cittadino medio che, preso dalla miriade di faccende quotidiane, potrebbe essere indotto a considerare la questione della separazione come un qualcosa che riguarda solo tribunali e avvocati. Mentre invece è in gioco, in ultima analisi, la libertà dei cittadini, che verrebbe meno se non venisse loro assicurata una effettiva tutela giurisdizionale. E se la riforma della Giustizia fosse realizzata male – avverte Bono nel libro – a farne le spese sarebbero soprattutto i cittadini, che perderebbero la possibilità di contare su una magistratura autonoma e indipendente, sia che fossero coinvolti in una vicenda giudiziaria come autori del reato, sia come persone offese.

    L’autore – in coerenza con il metodo che dichiara di adottare, ossia quello di rifiutare qualsivoglia imposizione dogmatica e di svolgere un’analisi scevra da pregiudizi – cerca di mettere il lettore nelle condizioni di farsi una propria idea in maniera consapevole, poiché gli illustra, passo dopo passo, il fondamento delle sue tesi e – forte della sua esperienza professionale di pubblico ministero – si spinge a disvelare i meccanismi di funzionamento degli uffici giudiziari, specialmente degli uffici di procura e dei rapporti tra PM e polizia giudiziaria.

    Dunque parlare di separazione delle carriere dei magistrati, nonostante a prima vista possa sembrare un argomento settoriale, significa trattare di un tema centrale per la nostra democrazia e per la vita quotidiana dei cittadini.

    Acquisire consapevolezza dei pericoli di una separazione fatta male e, nel contempo, dei vantaggi di una riforma ben realizzata, diviene dunque essenziale per potere valutare le proposte di legge che, di volta in volta, vengono presentate in Parlamento. È da sottolineare, infatti, che il libro è stato scritto guardando ai valori e ai principi costituzionali, senza cristallizzarsi su uno specifico testo di legge e ciò lo rende unico nel panorama editoriale, poiché gli altri testi similari partono tutti da specifici riferimenti ed esauriscono la loro proiezione nell’analisi degli stessi; mentre, invece, “Meglio separate” può essere utilizzato sia oggi, sia nel futuro, come uno strumento per valutare se una certa ipotesi di separazione metta a rischio la democrazia, potendo portare alla sottomissione del pubblico ministero al potere politico e mettendo a repentaglio il delicato equilibrio nella distribuzione dei poteri dello Stato.  Ciò, però, non vuol dire che si tratti di un testo astratto, anzi l’autore ha pure analizzato l’attuale riforma in discussione in Parlamento.

    In definitiva, perché leggere “Meglio separate”? Per acquisire maggiore consapevolezza sulle implicazioni della riforma e sulle priorità per migliorare realmente il sistema giustizia, in quanto la separazione – afferma Bono – può rappresentare un’opportunità di miglioramento solo se la si accompagnasse a una maggiore specializzazione dei magistrati, alla riduzione del numero di procedimenti civili e penali, all’accorpamento delle procure piccole in uffici più grandi ed efficienti, all’informatizzazione, alla digitalizzazione, alla diminuzione dei tempi dei processi, e se si rispettassero le condizioni poste nel testo.

  • In attesa di Giustizia: una storia (un’altra) di ordinaria ingiustizia

    Sembra di dover constatare che sia stato tirato il freno a mano ai fieri propositi riformatori del Ministro Nordio: la Giustizia deve dare la precedenza alla qualsiasi, tanto è vero che nel progetto di legge finanziaria non le viene riconosciuta una dotazione degna di questo nome…intanto accade di tutto e la rubrica, questa settimana, offrirà al pubblico ludibrio il caso degli avvocati – uno in particolare, un giovane praticante – di un indagato per falso in una pratica di voluntary disclosure, strumento messo a disposizione dei contribuenti per regolarizzare la posizione fiscale.

    Ovviamente vengono disposte intercettazioni telefoniche e ambientali, meno ovviamente (anzi, illegalmente) anche tra l’accusato ed i suoi difensori, uno dei quali, scelto probabilmente per sfruttarne, con l’età, la minore esperienza, viene convocato per essere sentito dal magistrato come persona informata dei fatti: del che parla – intercettato – ai colleghi di studio con i quali si confronta condividendo la decisione di opporre il segreto professionale se si tratterà di fatti riguardanti il mandato. Gli inquirenti, dunque, sanno in anticipo di quella decisione. Ciononostante, in esordio dell’interrogatorio, il praticante avvocato viene avvertito dell’obbligo di rispondere secondo verità e gli si pongono varie domande di carattere generale (professione, motivi per i quali ha conosciuto l’indagato ecc.).

    L’interrogatorio si protrae, poi, in termini assai più incalzanti per oltre tre ore e mezza e vi partecipano, oltre al magistrato, quattro inquirenti. Uscito dalla caserma, lo sventurato telefona (sempre intercettato) ai colleghi ed ai genitori, piangendo: richiesto del motivo e continuando a piangere spiega che “c’era un colonnello, altri quattro oltre al pubblico ministero… Mi sono sentito morire. Tre ore e mezza trattato come un delinquente!…Mi hanno rovinato la vita, il pubblico ministero ha detto che mi sto approcciando con disinvoltura alla professione legale, erano cinque contro uno e gliel’ho detto che stavano…inducendo a rispondere cose che non ho detto, né pensato ma che se volevano verbalizzare così che scrivessero addirittura loro! Finirà che mi indagheranno impedendomi anche di sostenere l’esame di Stato”.

    L’ascolto delle registrazioni è inquietante per i toni usati ed il clima creato ad arte:  per ragioni di sintesi non andiamo oltre limitando al rilievo alla violazione evidente dell’art. 188 del codice di procedura penale che vieta metodi lesivi della libertà di autodeterminazione della persona confermata, in questo caso, da una consulenza sugli audio dei professori Pietro Pietrini dell’Università di Lucca e Giuseppe Sartori di quella di Padova, per intenderci, due giganti del settore che così concludono: “I risultati delle analisi effettuate dimostrano come la situazione vissuta abbia creato nel soggetto una condizione di turbamento psichico e alterazione emotivo-affettiva compromettendo la sua libertà di autodeterminazione”. Il che, andiamo avanti, oltre ad integrare il reato di concussione o violenza privata rende per legge inutilizzabili le dichiarazioni rese. Per non farsi mancare nulla, nel giudizio a carico del cliente l’avvocato è stato citato come teste d’accusa e quelle dichiarazioni (inutilizzabili) sono, invece, state acquisite sostenendo che il testimone aveva implicitamente rinunciato al segreto professionale.

    All’obiezione di non essere stato messo nelle condizioni di serenità migliori per rispondere, il Tribunale ha ritenuto che “sono questioni che esulano dall’oggetto del processo”. Vergognatevi se ne siete capaci e questo approccio non da Tribunale della Repubblica ma da caserma di gendarmeria cilena ai tempi dell’indimenticato Generale Augusto Pinochet è stata seguita pure con riguardo alle intercettazioni degli avvocati (vietatissime dagli artt. 103 e 271 del codice di procedura).

    Non è un riconosciuto diritto alla riservatezza che vengono omessi i nomi di coloro che si sono resi responsabili di sopraffazioni di ogni genere ed illegalità assortite frutto di immaginazione interpretativa, ma per tutelare quello di chi ha il diritto all’oblio a non diventare oggetto di curiosità morbose dopo aver patito di sofferenze psicologiche, vittima di una giustizia precipitata in un buco nero nel quale si è annidata calpestando le libertà inviolabili dei singoli.

    Nordio, se ci sei, batti un colpo e, magari: un giro degli ispettori in quella Procura e quel Tribunale non guasterebbe, e non solo quelli del Ministero ma anche quelli della Polizia di Stato.

  • In attesa di Giustizia: la vecchia guardia va in pensione ma non si arrende

    Non importa se sono state decine di migliaia i cittadini che hanno firmato  l’iniziativa di legge popolare per la separazione delle carriere tra magistrati giudicanti e pubblici ministeri, non importa neppure se alla Camera sono già in esame quattro diversi disegni di legge sia di maggioranza che di opposizione su questo argomento: la grave colpa per queste iniziative e la responsabilità sul loro possibile percorso parlamentare (che avrà inizio il 6 settembre) viene fatta ricadere su un uomo solo, come se fosse l’uomo solo al comando anche se così non è, Carlo Nordio, Ministro della Giustizia che – per la verità – è da sempre sostenitore di questa riforma.

    Una vecchia guardia composta da oltre trecento magistrati in pensione ha sottoscritto un appello inviato al Guardasigilli avvertendolo dei pericoli cui si andrebbe incontro se la separazione delle carriere diventasse realtà, chiedendo di fermare il percorso parlamentare: tra di loro vi sono giudici, P.M., civilisti e penalisti, molti dei quali sono nomi noti come l’ex Procuratore Generale della Cassazione, Giovanni Salvi, che da P.M. ha a lungo indagato sulla strage di Ustica, o Francesco Greco, ex Procuratore Capo a Milano dove è stato componente storico del Pool “Mani Pulite”.

    Potevano godersi in pace la generosa pensione che lo Stato attribuisce loro, invece hanno ritenuto di riproporre i paventati rischi di questa riforma che, ab immemorabile, è invisa e contrastata con tutte le forze dalla magistratura associata di cui tocca un nervo scoperto; si ipotizza uno stravolgimento della Costituzione che porterebbe con sé la ricaduta antidemocratica della sottoposizione del Pubblico Ministero al potere esecutivo che avrebbe così la facoltà di inibire piuttosto che stimolare le indagini a seconda che attingano alleati od oppositori politici, amici o avversari, potentati o meno: insomma, quello che – secondo Luca Palamara – hanno fatto proprio loro per decenni; c’è, poi, il tema della cultura della giurisdizione: le diverse esperienze sarebbero, infatti, utili ad accrescerla.

    Invero, non è dato comprendere il fondamento di questi timori posto che la nostra Costituzione già disegna una diversità di funzioni – non una separazione delle carriere, compatibile ed ideale con l’attuale sistema accusatorio, perché i Padri Costituenti “guardavano” al modello di processo penale inquisitorio vigente all’epoca –  e, soprattutto, dispone di almeno quattro articoli corrispondenti ad altrettanti paletti volti ad impedire che l’indipendenza della magistratura sia minata dalla sottoposizione all’Esecutivo: nessuno di questi argini ad uno strapotere politico risulta intaccato dalla riforma.

    Quanto alla cultura della giurisdizione, è – appunto – un problema di cultura, di mentalità e non di transito da una funzione (o carriera) ad un’altra: ovviamente avere svolto funzioni giudicanti può essere di grande supporto se si passa a quelle inquirenti poiché il Pubblico Ministero avrà “fatto scuola” di valutazione delle prove e potrà meglio individuare le evidenze utili e sostanziose da ricercare nelle indagini per poi sottoporle al Tribunale. Molti, troppi, sono invece gli esempi di P.M. che transitando alla giudicante hanno mantenuto la mentalità poliziesca dell’inquisitore: Piercamillo Davigo ne è l’archetipo, e questo va decisamente meno bene.

    Lamentano, infine, i firmatari della petizione che il P.M. per legge è obbligato a svolgere indagini in favore dell’indagato e non di rado, in dibattimento, chiede l’assoluzione: il che non potrebbe avvenire se venisse formato alla sola logica dell’accusa. A prescindere dal fatto che sono casi isolati quelli in cui si assiste ad una ricerca delle prove a favore (ne abbiamo, invece, di scoperte e nascoste…) il codice prevede ciò solo al fine di poter scegliere se l’accusa è sostenibile in giudizio oppure no e chiedere quindi l’archiviazione; e vi è da augurarsi che, carriere separate oppure no, il Pubblico Ministero faccia sempre e comunque buon governo dell’equilibrio.

    In buona sostanza non si vedono né rischi ne vantaggi a mantenere unificate le carriere dei magistrati e permane oscuro il motivo di cotanta ostilità che non risieda nella privazione di maggiori chance di passare da una funzione ad un’altra, dal civile al penale e viceversa a caccia di sedi più appetibili, ruoli maggiormente gratificanti e di prestigio a seconda di quali posti si liberino. A pensar male si fa peccato ma, qualche volta, si indovina.

    Concludendo con una provocazione viene da domandarsi perché questi trecento, quando erano giovani e forti nell’esercizio delle loro funzioni, avendo tanto a cuore indipendenza ed equilibrio dei magistrati, cultura della giurisdizione non abbiano mai pensato che una utile separazione delle carriere potesse essere quella tra P.M. e giornalisti che non comporta alcuna modifica costituzionale, sebbene sia materia politicamente e mediaticamente molto sensibile e redditizia visto che su atti ed intercettazioni “dal sen fuggite” si costruiscono fatturati e carriere con pregiudizio della reputazione anche terze persone coinvolte e prima ancora dell’accertamento della responsabilità degli indagati – che, magari non verrà accertata – minando, oltretutto, la “verginità cognitiva” di chi deve giudicare con le anticipazioni del processo e del giudizio possibili facendo zapping tra Chi l’ha visto, i plastici di Porta a Porta, Quarto Grado e la lettura qualche paginata non solo del Fatto Quotidiano ma anche del Corriere della Sera.

  • Eurojusitalia: la prima banca dati in Italia che collega il contenzioso della Corte di Giustizia con il contenzioso nazionale

    La banca dati Eurojusitalia nasce da un’idea di molti anni fa, quando fu pubblicata, nel 2007, la prima edizione della «Giurisprudenza di diritto comunitario. Casi Scelti» (Giuffrè editore, poi, leggibile in www.eurojus.it). Fu privilegiata la raccolta di casi rilevanti di diritto dell’Unione europea, pubblicando varie edizioni dell’opera (la quinta è del 2020) per poi “mettere in cantiere”, in continuità con la precedente iniziativa, la banca dati.

    Lo scopo di Eurojusitalia è di dare uno strumento utile ed immediato per l’accesso alla giurisprudenza della Corte di giustizia e del Tribunale dell’Unione europea che origina da “ricorsi italiani” e da rinvii pregiudiziali sollevati da giudici italiani dal 2020 in poi. L’attenzione è, dunque, per i casi italiani (contenziosi e pregiudiziali) documentando, per i rinvii pregiudiziali, origine e seguito, e quindi ordinanza di rinvio e pronuncia del giudice nazionale che ne è seguita (il c.d. suivi nazionale).

    Eurojusitalia è pertanto in grado di fornire un quadro d’insieme delle questioni italiane sottoposte alla Corte di giustizia e al Tribunale dell’Unione europea. Consente altresì di verificare come i giudici nazionali hanno dato o stanno dando seguito alle decisioni della Corte. Un dato, questo, che non sempre è facile da reperire e, dunque, da conoscere e che può essere utile non solo per chi studia il diritto UE e la sua applicazione in Italia, ma anche per il giudice e l’avvocato che devono affrontare casi analoghi e vogliono, quindi, conoscere il precedente, e anche per chi voglia comunque documentarsi, come si è detto, sui casi italiani.

    La home page del sito è stata progettata per consentire una ricerca informatizzata semplice e agevole, al fine di evitare (se possibile) che chi necessita di un’informazione sia “scoraggiato” dalla difficoltà della ricerca. La pagina principale dispone di una varietà di filtri di ricerca con l’individuazione, per esempio, dell’organo giudicante, degli estremi della causa, della ricerca per materia, della ricerca per parole chiave, della data di pronuncia. In questo modo l’utente è indirizzato verso una più corretta consultazione e al tempo stesso è garantito il collegamento al sito della Corte di giustizia, www.curia.europa.eu, mediante un apposito link di rimando, usufruibile ogniqualvolta l’utente desideri esaminare altra documentazione (i filtri di ricerca sono “cumulabili” e “modificabili” in ogni momento).

    Un’altra peculiarità di Eurojusitalia è quella di offrire un costante aggiornamento, compresa la giurisprudenza del Tribunale unificato dei brevetti, operativo dal 1 giugno 2023, che è legittimato a proporre rinvii pregiudiziali.

    La realizzazione del progetto, fortemente voluto dal Prof. Bruno Nascimbene, professore emerito di diritto dell’Unione europea nell’Università di Milano “Statale”, già ordinario di diritto internazionale nell’Università di Genova, è avvenuta grazie alla collaborazione degli avvocati delle “cause italiane” e si è avvalsa del lavoro di Cristina Ranno, Ginevra Greco, Sara Morlotti, che continueranno a mantenerla aggiornata. Gli aspetti tecnici del portale sono invece gestiti da Pyx-is IT Consulting.

    La banca dati, totalmente open access, è disponibile collegandosi al sito www.eurojusitalia.eu.

  • In attesa di Giustizia: la corrida e la rivoluzione digitale

    Ennesima settimana convulsa sul fronte della giustizia: il luna park dell’opposizione purchessia ha sfoderato l’artiglieria contro le ultime iniziative, o per meglio dire gli annunci, del Guardasigilli il quale ha ribadito che la sua azione di Governo prevede la separazione le carriere tra giudicanti e pubblici ministeri e di rimodulare il reato di concorso esterno in associazione mafiosa; a quest’ultimo proposito non sono mancate neppure le salve di “fuoco amico” supportate dalla vibrante indignazione dei familiari di vittime della mafia.

    Una vera e propria corrida, intesa anche nell’accezione che al termine fu data dal celebre programma condotto da Corrado Mantoni: dilettanti allo sbaraglio in salsa di ignorante malafede e vediamo nell’ordine il perché di cotante ambasce senza che vi sia neppure un articolato su cui ragionare.

    L’obiezione principale che viene rivolta alla separazione delle carriere – con l’Associazione Nazionale Magistrati in prima linea – è che comporta la dipendenza del Pubblico Ministero dall’Esecutivo subendone le imposizioni su quali indagini avviare e quali fermare. Orrore autoritario e fascista da scongiurare a qualunque prezzo.

    Ebbene, che vi sia un simile automatismo non sta scritto da nessuna parte (in Francia, per esempio, le carriere sono unificate ma il P.M. dipende dal Ministro della Giustizia) ed, anzi: per raggiungere questo risultato bisognerebbe modificare ben quattro articoli della Costituzione posti a tutela della indipendenza della Magistratura da qualsiasi altro potere, con ciò intendendosi sia quella giudicante che quella inquirente (la Costituzione lo precisa). Impresa cui nessuno ha mai neppure accennato ed inverosimile se si pensa all’iter previsto per le modifiche costituzionali con doppia lettura alle Camere e maggioranza qualificata di 2/3. Le ragioni della contrarietà sono altre, forse meno nobili… ma andiamo oltre.

    Concorso esterno: sia chiaro innanzitutto, per chi non lo sapesse, che è un delitto che il codice penale non prevede. Proprio così, un reato per cui si può essere condannati frutto di una interpretazione giurisprudenziale, per quanto non risulti che i giudici possano sostituirsi al legislatore con le loro sentenze.

    Nordio, in realtà, non ha affatto detto che intende abolire questa ipotesi di reato ma tipizzarla meglio in via normativa, magari secondo i dettami della Costituzione che prevede che nessuno possa essere ritenuto responsabile per un fatto non previsto dalla legge come reato ed anche che le leggi siano tassative. Cioè puntualmente definite in modo che i cittadini sappiano cosa è consentito e cosa è vietato o punito. Esattamente quello che, commentando le parole del Ministro sostiene, tra i molti, anche Giovanni Fiandaca, professore emerito di diritto penale: uno dei massimi esponenti contemporanei di questa branca del diritto.

    Naturalmente, le critiche sono arricchite dalla considerazione che in l’attuale Ministro della Giustizia non abbia prodotto nulla in termini di utili ed intelligenti riforme mentre la Cartabia…ah, la Cartabia, quella sì!

    Basta vedere l’ultima creatura delle sue commissioni, volta ad efficientare il sistema, che ha visto la luce ad inizio mese: il Portale attraverso il quale si potranno e dovranno depositare ben 103 diversi atti giudiziari, dalla nomina di un difensore agli atti di appello. Un pachidermico prodigio delle più moderne tecnologie operativo già nei prossimi giorni (destinato, chissà perché solo agli avvocati e non ai magistrati) ma si impalla con inquietante frequenza, è ancora incompleto, lento, complicato e per non farsi mancare nulla alcuni riferimenti agli articoli del codice sono sbagliati. Si consideri, infine, che i Funzionari amministrativi dei Tribunali non sono stati formati per l’utilizzo e – soprattutto – se l’atto che si deve inoltrare prevede più di una copia le altre bisogna andarle a depositare cartacee, a mano, in cancelleria. E perché mai? Suvvia! Perché non si possono sprecare troppo toner e carta, non ci sono i fondi, e quelli del PNRR, faticosamente guadagnati con questo cretino meccanico non sono sacrificabili e servono altrove. Avanti così, la Giustizia può attendere.

  • In attesa di Giustizia: l’arte di strisciare

    Paul d’Holbach è considerato uno dei massimi esponenti del materialismo francese, collaborò all’Enciclopedia e si adoperò alla diffusione delle idee e dello spirito dell’Illuminismo. Tra i suoi tanti scritti vi è un interessante ”Saggio sull’arte di strisciare ad uso dei Cortigiani”.

    Un buon cortigiano non deve mai avere un’opinione personale ma solamente quella del padrone o del ministro: è uno degli insegnamenti cardine che il Barone d’Holbach dispensa agli aspiranti cortigiani di successo e la sua lettura deve avere ispirato il duo Padellaro – Travaglio, intenti febbrilmente a mettere il servo ossequio a servizio del decadente potentato, Piercamillo Davigo e della sua visione malata della giustizia.

    L’uomo è in rotta come le truppe austriache descritte da Armando Diaz nel bollettino della Vittoria: dopo la condanna a Brescia per rivelazione di atti di ufficio è risultato soccombente in un altro processo dove, invece, si presentava come parte lesa di diffamazione messa in atto – secondo lui – da Paolo Mieli con un editoriale sul Corsera di te anni fa. Querela sparata a salve: il Tribunale ha ritenuto che vi sia stato solo esercizio del diritto di critica e non diffamazione, assolvendo il giornalista. Sarà, forse, l’ennesimo colpevole che la fa franca?

    I Cortigiani di area M5S, allora, per dare sollievo ai malumori del loro alfiere, con insolito afflato garantista, nonostante la condanna ed in spregio ai loro proverbiali rigori pseudo moralisti, lo hanno prescelto per un’audizione alla Camera a proposito della  ri – modifica della disciplina della prescrizione.

    Davigo non si è lasciato sfuggire l’occasione per suonare la grancassa ribadendo trite castronerie sulla responsabilità degli avvocati, che sono troppi ed in mancanza di lavoro moltiplicano appelli e ricorsi per garantirsi laute parcelle a colpi di prescrizioni. Per Davigo finisce anche qui a mazzate, zittito dall’On. Costa che, statistiche ufficiali alla mano, ha dimostrato come la percentuale preponderante delle prescrizioni matura nel corso delle indagini preliminari quando gli avvocati nemmeno “toccano palla”.

    Quanti dispiaceri…ecco, allora entrare in scena il tandem di attacco de Il Fatto Quotidiano, sciorinando una lingua adulatoria ai limiti del pecoresco con un paragone di Padellaro, a dir poco oltraggioso, tra Davigo e Giovanni Falcone. Noli miscere sacra profanis: eppure, se non fosse una bestemmia, sarebbe solo un meschino tentativo di salvare il soldato Piercamillo dopo l’onta della condanna per reati contro l’amministrazione della giustizia. Basti pensare che Falcone, poiché controcorrente, è stato vittima di odio politico della sinistra che con il contributo degli scudieri eletti al C.S.M.  gli ha impedito di andare a dirigere la Procura di Palermo prima e la Nazionale Antimafia, che era una sua creatura, poi; la carriera di Davigo, invece, non è stata ostacolata da nessuno e – ne siamo lieti – si gode la sua ricca pensione in vita mentre Falcone non ne ha nemmeno raggiunto l’età; il massimo del rischio a cui è esposto l’ex P.M. di Mani Pulite resta quello di incontrare qualcuno che gli faccia il pernacchio come Totò all’ufficiale tedesco nel film “I due marescialli”.

    Travaglio, dal canto suo, ne ha intentato la difesa da impavido lacchè con un editoriale degno dell’Asilo Mariuccia nel quale lamenta che, al momento, sono indagati per omessa denuncia della diffusione da parte di Davigo di verbali secretati solo gli ex consiglieri dei C.S.M. Cascini e Marra. Siamo al “chi lo dice sa di esserlo mille volte più di me”: omette, peraltro, di ricordare il clima che,  grazie a Davigo, in quel periodo si era creato, all’interno del Consiglio e che è stato descritto in aula, a Brescia, da Nino Di Matteo che ha riferito di un’aggressione verbale subita proprio ad opera del Piercamillo nazionale il quale, a dispetto del nome che evoca un tenero gelatino al biscotto non è un mite e gli inveì, ingiustificatamente e con violenza, contro nel corso di una riunione per discutere chi votare come Procuratore Capo di Roma.

    E’ un teatro dell’assurdo: Davigo – che pure ha ammesso la materialità dei quanto commesso – meglio avrebbe fatto a riconoscere i propri errori invece che pervicacemente sostenere una ragione che non c’è e che non può essere supportata neppure sforzandosi di mitizzarlo e giustificarlo sulle colonne del quotidiano che è il più pericoloso concorrente dei Rotoloni Regina.

  • In attesa di Giustizia: contrappasso

    C’è qualcosa di allegorico, cabalistico, nella parabola professionale e di vita di Piercamillo Davigo che da magistrato del Pubblico Ministero aveva promesso di “rivoltare l’Italia come un calzino” magnificando lo standing dei suoi colleghi di funzione: “i magistrati sono il meglio della società civile ed i pubblici ministeri sono il meglio del meglio del meglio”, poi da giudicante aveva presieduto i Collegi di Corte d’Appello e di Cassazione  trasformandoli in altrettanti Comitati di Salute Pubblica; del resto, ipse dixit, non ci sono innocenti ma solo colpevoli che non sono ancora stati scoperti. Anche lui, viene ora da chiedersi?

    L’inesorabile trascorrere degli anni gli ha fatto terminare anzitempo la consiliatura al C.S.M. e da pensionato ha intrapreso quella di editorialista per un quotidiano giacobino che, nella versione cartacea, può essere destinato solo agli scopi meno nobili. Ma la parabola non si era ancora conclusa: l’ultima delle esperienze nel mondo della giustizia l’ha fatta in un ruolo che mai avrebbe immaginato, a stretto contatto – orrore! – con un avvocato cui ha affidato il compito di difenderlo smentendo se stesso a proposito del giudizio di appello, ritenuto superfluo e causa di malfunzione del sistema, ma che ha già preannunziato dopo la sua condanna.

    Quest’ultimo segmento di vita è stato scandito anche da correlazioni enigmaticamente realizzatesi: Davigo è stato rinviato a giudizio proprio nel giorno in cui ricorreva il trentennale dell’arresto di Mario Chiesa che diede inizio alla macelleria giudiziaria di “Mani Pulite” di cui è stato indiscusso protagonista e la sua sentenza di condanna è stata pronunciata mentre si celebrava la memoria di Silvio Berlusconi che, praticamente da solo, ha dato per decenni motivo di esistere alla Procura di Milano ed alla “casella delle lettere” messa a disposizione dal Corsera: se si vuole sapere il perché e gli si vuole dare credito, basta leggere il primo libro intervista di Luca Palamara con Sallusti.

    Torniamo a Brescia: il momento della lettura di una sentenza è un passaggio di grande solennità che si ascolta in piedi e le prime parole sono sempre “In nome del Popolo Italiano…” dando corpo al canone 101 della Costituzione; in nome di quel Popolo, a rappresentarlo durante la pronuncia di condanna, vi era anche Francesco Prete, che è il Procuratore Capo di Brescia, a fianco dei suoi sostituti che avevano condotto le indagini ed il dibattimento: un gesto volto a dimostrare che in quell’Ufficio ci si era mossi con iniziative condivise e probabilmente anche sofferte perché rivolte nei confronti di un ex collega.

    Francesco Prete, ai tempi di Mani Pulite, era un giovane P.M. in forza proprio a Milano e la sua stanza era vicina a quella di Davigo ma non ha mai fatto parte del famoso (o famigerato) pool: lavoratore, equilibrato, studioso, il suo tragitto professionale lo ha portato a dirigere tre Procure (Vasto, Velletri ed infine Brescia) senza mai cercare il “colpo di teatro”, l’inchiesta sensazionalistica che aiuta la carriera o – comunque – offre notorietà e non l’ha perseguita nemmeno ora che le regole di competenza per i processi ai magistrati assegnano a Brescia i procedimenti a carico di quelli milanesi e proprio la sua Procura di un tempo rivela l’esistenza di un verminaio di prassi opache, per usare un termine garbato, di cui si è sempre avuto il sospetto: Francesco Prete ha mantenuto un basso profilo con interviste ridotte al minimo, riserbo e parole misurate che dovrebbero essere patrimonio di chi svolge ruoli sensibili come il suo.

    Contrappasso anche in quest’ultima immagine che raffigura due uomini divenuti inaspettatamente avversari e due modi diversi di interpretare la funzione giurisdizionale mentre un comunicato della Giunta dell’Unione Camere Penali, senza (troppo) sarcasmo, auspica che nel futuro di Davigo, ora che ha scoperto il diritto all’appello, vi siano Giudici con una concezione delle impugnazioni diversa dalla sua.

    Ci mancava la solidarietà, obiettivamente un po’ di maniera, del nemico di sempre per trasformare in fiele il contenuto del calice già amarissimo toccato in sorte all’ultimo (speriamo) dei grandi inquisitori.

    Un augurio di buona sorte, nel rispetto della presunzione di innocenza non si nega a nessuno e lo formuliamo anche noi ma quello in cui è inscritta la parabola discendente di Piercamillo Davigo è come un arazzo che, attraverso ironie e contrappassi, sembra intessuto di una Giustizia quasi poetica.

  • In attesa di Giustizia: E tre!

    Per la terza settimana di fila questa rubrica si occupa di processi per gravissimi disastri in cui sono contestati reati colposi: e cosa ciò significhi, per il profano, si è tentato di spiegarlo con parole semplici proprio nel numero precedente. Questa volta è di scena il giudizio per crollo del Ponte Morandi con la cronaca – ed il commento – di una delle ultime udienze.

    Cronaca che staglia la distanza sempre più profonda che si va creando tra ciò che un processo penale dovrebbe essere, nel rispetto delle regole costituzionali ed ordinarie che lo istituiscono e lo governano, e ciò che si vorrebbe invece che diventi. E’ una cronaca che fa capire quale sia l’unica garanzia rispetto ad una montante deriva illiberale: e cioè l’indipendenza, la libertà morale e l’autorevolezza del Giudice.

    In aula vi è stata tensione altissima ed un durissimo botta e risposta tra la pubblica accusa ed il Tribunale, scaturita da una intemerata del P.M. il quale, azzardando un po’ di calcoli sul numero dei testimoni ancora da esaminare ed il ritmo delle udienze, prevede che l’istruttoria dibattimentale possa concludersi non prima del dicembre 2025, quando “alcuni dei reati più gravi” potrebbero essere già prescritti, sollecitando perciò un aumento del ritmo di celebrazione del processo, cambio di passo: un boccone ghiotto su cui la stampa si  è buttata a pesce, gridando a giustizia negata, alla prescrizione strumento di salvezza dei ricchi e dei potenti, eccetera. Il Presidente del Collegio si limita a giudicare troppo allarmistiche le previsioni del P.M. ma la mattina successiva ritorna sulla questione e definisce quello del PM un “proclama offensivo nei confronti del Tribunale” (che ha sospeso la trattazione di gran parte degli altri processi, per celebrare questo), e tocca il punto, che in questa, come in altre analoghe vicende processuali, viene sistematicamente ignorato. Se si ha a cuore l’aspettativa di una tempestiva risposta giudiziaria ad una simile tragedia “magari bisognava effettuare scelte processuali diverse e non contestare, ad esempio, un milione di falsi che devono essere accertati uno per uno” e conclude: “Se poi in quest’aula c’è qualcuno che ritiene che le sentenze si facciano senza processo, sbaglia”.

    Non può sfuggire il valore di questo accadimento, che va ben oltre la singola vicenda processuale, la quale ha peraltro tutti i crismi della parabola. Gli ingredienti ci sono tutti: processo di enorme impatto mediatico, aspettativa di condanne esemplari, diritti delle vittime dei reati rappresentati come incondizionatamente prevalenti sui diritti di difesa e sulla presunzione di non colpevolezza. Sullo sfondo, la fosca ed un po’ prematura previsione di una prescrizione salvifica. Sono già pronti i forconi, insomma. Ma ecco, diciamoci la verità, inatteso, un Giudice che – pur in un processo ad altissima esposizione mediatica – fa, imperterrito, il Giudice e sposta l’asse di quella lamentela del PM, come sempre occorrerebbe fare ma nessuno mai fa. Cominciamo a ragionare piuttosto – dice – su quanto siano durate le indagini, e se le scelte operate dalla Procura nell’esercizio dell’azione penale abbiano considerato la dimensione e l’impatto dell’accusa anche sui tempi del conseguente processo. Se si individuano 60 imputati e decine e decine di imputazioni, protraendo le indagini per anni, poi non si pretenda che gli imputati non si difendano con tutta la pienezza dei propri diritti. Ma è la seconda affermazione che merita ancora più ammirazione: questo Tribunale non è disposto a pronunciare sentenze senza processo. Nessuno si illuda – sostiene quel Giudice – di fare pressioni indebite, paventando populisticamente scenari drammatici che si vorrebbe addossare, alla fin fine, alla responsabilità del Tribunale da un lato, e del diritto di difesa degli imputati dall’altro. Parole dure che danno la esatta dimensione della solennità di ciò che il Giudice può e deve saper rappresentare nel giudizio penale, della indispensabilità della sua indipendenza da ogni forma di condizionamento, da ogni riflesso conformistico, da ogni sudditanza nei confronti di tutte le parti processuali. Ciò che, peraltro, deriva in termini di disillusone per chi è in attesa di giustizia è quando un accadimento come questo ci appare come una notizia straordinaria, quando invece dovrebbe essere una noiosa e scontata ovvietà. Ma il destino delle parabole è proprio questo: farti comprendere, quasi raccontandoti una favola, l’amara durezza della realtà nella quale ti trovi a vivere.

  • In attesa di Giustizia: (in)giustizia sportiva

    Il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me…i giudici sportivi devono essere dei cultori  della Critica della Ragion Pratica per essere riusciti a condannare la Juventus ad una pena che, per l’illecito  che le è stato attribuito non esiste: un po’ quello che successe a Norimberga, allorquando i gerarchi nazisti furono processati per “crimini contro l’umanità”, delitto che, in sé e per sé non era contemplato da nessuna norma giuridica sebbene attenesse alla legge morale; ma, insomma, quella era Norimberga e il Tribunale finì per darne una definizione aggiungendo l’omicidio, lo sterminio di massa, la persecuzione su base razziale, politica o religiosa.

    In sintesi, e per avviare la riflessione, sono stati inflitti alla Juventus quindici punti di penalizzazione senza che sia stato formalizzato uno specifico illecito sportivo connesso al tema delle plusvalenze e la motivazione della sentenza altro non fa che confermare un clima di giustizialismo diffuso che è andato a toccare anche il settore sportivo.

    Il provvedimento dice, senza spiegarsi oltre, che è vero: la norma che si assume violata nel capo di imputazione non c’è ma i documenti arrivati dalla Procura di Torino (relativi ad un processo ancora da celebrarsi ed in cui verificare la fondatezza dell’accusa…) sembrano descrivere – in ogni caso – una realtà fatta  di imbrogli. Ed ecco che l’insulto alla legge morale supplisce alla mancanza di una contestazione scritta.

    Formalismi avvocateschi? Nossignori: ai bianconeri è stato ascritta l’inosservanza dei doveri di lealtà e probità sportiva: definizione un po’ generica se l’addebito viene mosso senza specificare in cosa siano consistiti e…si badi bene: stiamo parlando, e non ve n’è dubbio, di alterazione di scritture contabili.   Secondo il codice sportivo, per  arrivare ad una penalizzazione si sarebbe dovuto sostenere, e possibilmente dimostrare con delle perizie, che quei falsi erano intesi a dissimulare una situazione di insolvenza risalente al 2020 che avrebbe impedito alla Juve di iscriversi al campionato  successivo.

    L’ipotesi è  fantasiosa prima ancora che totalmente inesplorata: comunque sia, in mancanza di imputazione  e  di prove a supporto, la sanzione non avrebbe dovuto essere la penalizzazione in classifica ma una multa, salata ma pur sempre sopportabile dalla famiglia Agnelli.

    Anche in questa sede un ruolo decisivo lo hanno svolto le intercettazioni telefoniche, ovviamente fatte nell’indagine penale e trasferite al giudice sportivo senza che siano state ancora periziate (cioè verificato, come prevede la legge, che ciò che è stato manoscritto dagli agenti addetti all’ascolto corrisponda a ciò che è stato effettivamente detto e registrato). E’, a questo punto, inutile rilevare che il giusto processo per le società sportive è un traguardo ancora lontano da raggiungere e che la motivazione della sentenza di condanna della Juventus assomiglia di più ad una supercazzola che ad un funambolismo giuridico: certamente non a quella che dovrebbe essere la sostanza di un provvedimento reso al termine di un giudizio serio.

    Lo sport è qualcosa che appartiene alla vita di tutti noi e di tutti i giorni: per alcuni è una passione, un hobby, per molti altri è un lavoro da atleta o da dirigente e la pretesa che disponga di un ordinamento giuridico che non emuli il codice penale su base analogica dei tempi dell’URSS e sia affidato a giudici competenti non è fuor di luogo.

    Può darsi che questa rubrica torni in argomento e la questione  potrebbe essere meno stucchevole di un commento all’affaire Cospito: carcere duro o no per  un gentiluomo d’altri tempi ritenuto responsabile di aver piazzato due ordigni, di cui uno ad alto potenziale nell’assalto ad una Scuola Allievi dei Carabinieri?

    In attesa di Giustizia sportiva per ora è tutto, a voi studio centrale.

     

  • In attesa di Giustizia: non scrutate nell’abisso

    Chi lotta con i mostri deve guardarsi di non diventare, così facendo, un mostro. E se tu scruterai a lungo un abisso anche l’abisso scruterà dentro di te. Così scriveva Friedrich Nietzsche nel saggio filosofico “Al di là del bene e del male”

    E’ quello che deve  essere accaduto alla Ministra Marta Cartabia ed ai componenti delle sue Commissioni di studio quando hanno riguardato  – di necessità virtù – il sistema giudiziario italiano ponendovi mano per riformarlo: dallo sprofondo in cui giaceva (e giace tutt’ora)  uno stregonesco maleficio deve avere infettato le menti degli estensori della riforma lasciando inascoltate le voci di studiosi del processo del rango di Paolo Ferrua e Giorgio Spangher – solo per citarne un paio – che hanno da subito ammonito sulla necessità di più che un ripensamento.

    Niente da fare: avanti tutta con due progetti, perché si è intervenuti sia sul processo penale che su quello civile, destinati più che ad un banale fallimento ad accelerare il decesso e la decomposizione di un apparato disfunzionale ed agonizzante da decenni.

    La corsa era contro il tempo per il conseguimento entro fine anno dei fondi del PNRR di cui le esauste casse dello Stato hanno costantemente un bisogno estremo: e allora poco importa se gli Uffici Giudiziari hanno strutture inadeguate ad affrontare le novità, meno ancora se queste ultime presentano profili di autentica schizofrenia come nel caso della pezza messa all’obbrobrio della riforma della prescrizione sostanziale, voluta da quei raffinato giurista che risponde al nome di Alfonso Bonafede, che non è stata abrogata ma continuerà a convivere, almeno per un po’, con quella processuale.

    E non è tutto: da quest’anno avremo anche pene semi detentive per scontare le quali mancano le apposite sezioni penitenziarie e per realizzare le quali – come al solito – non ci sono né i soldi né il tempo.

    Il processo di appello è diventato (nelle ridotte ipotesi in cui si potrà celebrare) una burletta ma in compenso ed in molti casi, anche per reati di un certo rilievo, non avrà luogo neppure ad un giudizio essendo state cambiate alcune regole perché l’azione penale possa essere avviata. Il tutto, rigorosamente, senza la predisposizione di norme transitorie.

    Ah, già: le norme transitorie. Un tempo si diceva che la loro redazione fosse riservata ai giuristi migliori perché regolare il diritto intertemporale  non è  affar semplice dovendosi  bilanciare esigenze e garanzie tra un regime pregresso ed uno innovativo senza creare pregiudizi ai cittadini: ebbene, nella riforma “Cartabia” o non vi sono o sono semplicemente incomprensibili e già oggi, ad una settimana dalla entrata in vigore e tanto per fare un solo esempio, ci si confronta con il desolato stupore di cancellieri che non sanno se devono ricevere un atto manualmente o se deve essere spedito via pec.

    L’elenco potrebbe essere lungo ed i dettagli dello scempio difficili da illustrare perché a volte anche il giurista si interroga se stia leggendo un testo di legge o un numero speciale della Settimana Enigmistica.

    Questo, in sintesi, è quanto è riuscito a partorire in tema di giustizia il cosiddetto Governo dei Migliori: figuriamoci se fossero stati anche solo modesti e non i peggiori.

    Complimenti vivissimi, infine, anche alla Commissione Europea che, dopo qualche iniziale e timida critica al progetto di riforma, gli ha dato in ogni caso il via libera invece che affossarlo; salvo, poi, nella relazione annuale 2022 sullo Stato di diritto e nel capitolo dedicato all’Italia esprimere critiche durissime affermando che con perle normative di questo tipo si mette a rischio l’effettività stessa del sistema giudiziario.

    Nel frattempo, però, è stato tagliato il traguardo di fine anno vittoriosamente conquistando il premio in fondi europei ed  il futuro della giustizia è già iniziato presentandosi a mani vuote.

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