Tribunale

  • In attesa di Giustizia: il Sogliolone d’oro

    Un grande penalista milanese che oggi non c’è più, Corso Bovio, negli anni ’90 del secolo scorso – segnati dal fenomeno di Mani Pulite e dal disinteresse creativo per le garanzie degli indagati – aveva istituito un premio: il Sogliolone d’Oro che veniva attribuito al Giudice per le Indagini Preliminari più appiattito sulle richieste della Procura, in particolare quelle di arresto; Corso si procurava una sogliola di plastica, di quelle che sono montate su una specie di cornice, hanno le pile e si dibattono a comando e andava a consegnarla personalmente all’onorificato di turno ed in quegli anni, qualcun altro, Dino Cristiani, penalista Presidente della Camera Penale di Pavia, spiegava che l’acronimo GIP stava per Giudice Inutile Preliminare, anche considerando l’inesistente funzione filtro disponendo il rinvio a giudizio anche con riguardo alle imputazioni più azzardate.

    Qualcosa però è cambiato: la Procura di Milano da qualche giorno ha aperto le ostilità con l’Ufficio GIP, chiedendo la ricusazione di due giudici perché non allineati con le ipotesi della Procura con buona pace della indipendenza della magistratura che implica anche quella dei giudici (che la Costituzione vuole tersi ed imparziali) dalle richieste dei pubblici ministeri. A finire sulla graticola sono stati Tommaso Perna e Roberto Crepaldi per due vicende diverse tra loro ma sintomatiche che quando il gip si spalma sulle ipotesi della Procura va bene – molto apprezzati, soprattutto, gli ordini di custodia in carcere con un copia-incolla delle richieste del P.M. – ma se ardisce distaccarsi dall’impianto accusatorio deve essere messo al bando in nome della infallibilità dell’organo inquirente.

    Perna è il giudice delle indagini preliminari che non ha accolto se non in parte assolutamente minima 150 richieste di arresto richieste dalla Direzione Distrettuale Antimafia che ipotizza un’alleanza Cosa Nostra-Camorra-’Ndrangheta nel Milanese. Secondo la Procura la colpa di Perna (contro il quale si spara a palle incatenate  chiedendo un’azione disciplinare ed inoltrando una denuncia penale a Brescia) è quella di essere stato citato in alcuni colloqui difensivi tra indagati e legali – vietate dalla legge –  come possibile destinatario di istanze di scarcerazione  poi respinte, ma tant’è…-  in seguito a legittime e usuali interlocuzioni tra difensori e giudice trasformate in grimaldelli per paventare la commissione di condotte penalmente rilevanti. Mah…

    Il GIP Crepaldi, invece, è destinatario di una sollecitazione ad astenersi avanzata dal P.M. Francesco De Tommasi, il magistrato che ha condotto le indagini sulla trentasettenne Alessia Pifferi, condannata all’ergastolo per omicidio perché nel luglio del 2022 lasciò per una settimana da sola a casa la figlia di un anno, morta di stenti e di fame. De Tommasi aveva aperto un’indagine a carico di quattro psicologhe del carcere di San Vittore, di uno psichiatra e dell’avvocato della donna a processo in corso consentendo che ne fosse dato ampio risalto sui media. Tutto ciò aveva già condotto una Collega P.M, coassegnataria del fascicolo a rimettere la delega prendendo le distanze da De Tomasi mentre Crepaldi, attraverso un comunicato dell’ANM aveva stigmatizzato l’accaduto, senza entrare nel merito della vicenda, nell’ottica di un «sereno svolgimento del processo, a tutela di tutte le parti processuali». Il P.M. aveva già chiesto in precedenza che Crepaldi si astenesse dal giudicare in giudicare questo secondo filone d’indagine ma così non è stato e nel frattempo Crepaldi è diventato noto per aver rigettato la richiesta di arresto di alcuni avvocati perché a parere della Procura farsi pagare dai propri clienti se non producono il modello Unico o una busta paga equivale a commettere il reato di riciclaggio.

    Al netto delle valutazioni che si possono fare, vicende come queste dimostrano la necessità ed urgenza di separare carriere e funzioni inquirenti e giudicanti anche perché il vero problema sarà – una volta distinti i concorso e diversificati i CSM – modificare una diffusa mentalità: quella che fa vincere il Sogliolone d’Oro.

  • In attesa di giustizia: consigli per gli acquisti

    C’era una volta Tribuna Politica, oggi la si definirebbe un talk show ma era una rubrica – condotta da un bravissimo giornalista, Jader Jacobelli –  centrata esclusivamente sui temi della politica ed andava in onda sul Canale Nazionale e c’era solo quello, almeno i primi tempi nel 1961, mentre al giorno d’oggi il dibattito politico è affidato ad una quantità impressionante di trasmissioni che praticamente e senza soluzione di continuo danno vita ad una campagna elettorale permanente: tant’è che non c’è stato neanche il tempo di archiviare  polemiche e bollettini della vittoria dell’ultima tornata referendaria che, al netto delle notizie dal fronte, già ci si prepara alla prossima che riguarderà l’approvazione popolare della legge costituzionale sulla separazione delle carriere tra pubblici ministeri e magistrati giudicanti: un referendum confermativo che non richiede il raggiungimento del quorum 50%+1 e l’A.N.M.  è già scesa in campo con uno spot visibile, peraltro, solo su YouTube.

    Il Presidente del sindacato delle Toghe (quello che ha detto che servirebbero un paio di magistrati morti ammazzati per far risalire il consenso nei confronti dell’Ordine Giudiziario), forse, avrebbe gradito qualcosa di truculento come immagini delle stragi di Capaci e di via D’Amelio con una voce narrante di sottofondo a sostenere la frottola che Falcone era contrario alla separazione delle carriere, invece la scelta è caduta su una attrice belloccia che ha imparato un copione per  presentare la giustizia italiana ai cittadini come un modello inimitabile che sarebbe dannoso riformare suggerendo che vi sia un pericolo insito proprio nella separazione delle carriere.

    Perché riparare qualcosa che non è rotto, fanno sostanzialmente recitare: il nostro sistema è già costruito in maniera geniale (addirittura!)…sottinteso “la separazione delle carriere creerebbe solo danni”.

    Probabilmente non ferratissima in diritto costituzionale, l’interprete passa a descrivere la genialata senza ricordare che, secondo le coordinate dell’articolo 111, la giustizia è assicurata da un meccanismo secondo il quale la prova si forma davanti a un giudice imparziale e terzo tra le parti – accusa e difesa – in contraddittorio tra di loro ed in posizione di parità davanti a quel giudice equidistante; la spiegazione – invece – è volta ad illustrare come il processo penale funzioni benissimo così proprio perché Pubblici Ministeri e Giudici sono colleghi ed Il P.M. è il primo, con profonda cultura della giurisdizione, ad assicurarsi che la Polizia Giudiziaria rispetti il codice durante le indagini, quindi fin dal primo momento in cui un cittadino finisce sotto processo;  poi c’è l’immancabile richiamo alla indipendenza della magistratura dal potere politico che garantisce Giudici e Pubblici Ministeri da interferenze esterne: tutti canoni che la Costituzione già prevede e che non sono messi minimamente in discussione della riforma.

    Manca solo di ricordare l’ultima trovata: separare le carriere comporterebbe un aumento di costi a carico delle esauste casse dello Stato per la necessità di istituire un secondo C.S.M. dedicato ai Pubblici Ministeri mentre sarebbe meglio parlare delle decine di milioni che vengono destinati alle riparazioni per ingiuste detenzioni ed alle stratosferiche prebende, mai rinegoziate, garantite agli operatori telefonici per intercettazioni che hanno un costo industriale vicino allo zero.

    Degli avvocati, nello spot, invece non si parla se non per dire che il loro compito è proteggere l’imputato. Proteggere da cosa, visto che la costruzione è geniale e i due protagonisti assoluti sono perfetti, indipendenti, equanimi e sorridenti?

    Il cittadino, dimenticando le centinaia di migliaia che hanno comperato i libri con le memorie/confessioni di Luca Palamara e quelli che hanno sottoscritto il disegno di legge di iniziativa popolare per la separazione delle carriere, a questo punto dovrebbe essere indotto tra non molti mesi a correre alle urne per bocciare la riforma.

    Al curatore di questa rubrica, che è un avvocato difensore, a questo punto viene da pensare ed anche da canticchiare le strofe di una melodia di Charles Aznavour “Ed io fra di voi, se non parlo mai…” giusto per inquadrare il ruolo di “protettore” in cui si trova precipitato, dopo tanti anni di studio e di fatica, oltre che di convinzione di essere parte essenziale del processo e della giustizia che non sempre è giusta.

  • Sanzioni Usa contro quattro giudici della Corte penale internazionale

    Il segretario di Stato Usa, Marco Rubio, ha annunciato sanzioni contro quattro giudici della Corte penale internazionale (Cpi), accusati di aver avviato azioni contro cittadini statunitensi e israeliani senza averne gli strumenti legali. I quattro giudici – l’ugandese Solomy Balungi Bossa, la peruviana Luz del Carmen Ibanez Carranza, la beninese Reine Adelaide Sophie Alapini Gansou, la slovena Beti Hohler – sono “direttamente coinvolti” negli sforzi della Corte per “arrestare, fermare, perseguire cittadini degli Stati Uniti o Israele, senza il consenso” dei due Paesi, non aderenti allo Statuto di Roma, si legge in una nota. La Corte penale internazionale, prosegue il segretario di Stato “è politicizzata e rivendica falsamente discrezionalità illimitata nell’indagare, accusare e perseguire cittadini degli Stati Uniti e dei nostri alleati”. Washington adotterà tutte le azioni “necessarie per proteggere la nostra sovranità, quella di Israele e di qualsiasi altro alleato degli Stati Uniti dalle azioni illegittime della Corte penale internazionale”. Rubio ha infine rivolto un invito ai Paesi che sostengono la Cpi, “molti dei quali hanno ottenuto la loro libertà al prezzo di grandi sacrifici degli statunitensi”, a contrastare “questo vergognoso attacco” a Usa e Israele.

    Per la Corte penale internazionale “le sanzioni emesse dagli Stati Uniti nei confronti dei quattro giudici, sono un chiaro tentativo di attentare all’indipendenza del tribunale”. “Queste misure sono un chiaro tentativo di minare l’indipendenza di un’istituzione giudiziaria internazionale che opera grazie al mandato di 125 Stati membri da tutto il pianeta. La Cpi fornisce giustizia e speranza a milioni di vittime di atrocità inimmaginabili, nel rigoroso rispetto dello Statuto di Roma, e mantiene i più alti standard di protezione dei diritti degli indagati e delle vittime”, si legge nella nota. Attaccare chi lavora per “accertare le responsabilità” non “aiuta i civili ostaggio dei conflitti”, ma “incoraggia solo coloro che credono di poter agire impunemente”. Le misure, comunicate dal segretario di Stato Marco Rubio, “non sono dirette solo a persone designate, ma anche a tutti coloro che sostengono la Corte, compresi i cittadini e le entità corporative degli Stati Parte. Sono contro vittime innocenti in tutte le situazioni dinanzi alla Corte, nonché lo stato di diritto, la pace, la sicurezza e la prevenzione dei crimini più gravi che sconvolgono la coscienza dell’umanità”.

  • In attesa di Giustizia: comune senso del pudore

    Ho visto cose che voi umani non potete nemmeno immaginare: ho visto celebrare processi in videoconferenza e decidere la sorte di un uomo con la connessione intermittente che faceva capire una parola si e tre no, ho visto cancellerie chiuse con i funzionari a casa in smart working ma senza i computer criptati per lavorare e ho visto sentenze della Cassazione sostenere che un certificato medico presentato in udienza da un avvocato non vale nulla perché andava spedito via pec.

    Benvenuti nel meraviglioso mondo del processo penale telematico dove tutto è fantasia, intuizione, colpo d’occhio e velocità di esecuzione, un po’ come sostiene il Perozzi in Amici Miei riferendosi al genio…solo che in questo caso di genialità non c’è nulla, anzi: serve fantasia per interpretare le circolari ministeriali, intuizione per capire come funziona il leviatanico portale di deposito atti, colpo d’occhio per scoprire gli uffici con all’interno un umanoide che sia ancora disposto a darvi retta e velocità di esecuzione per cogliere l’attimo in cui i sistemi informatici messi a disposizione da via Arenula sono miracolosamente funzionanti.

    In questo girone dantesco destinato agli inefficienti che è diventato il back office della giustizia penale la semplificazione che avrebbe dovuto portare ha, invece, fallito miseramente peggiorando le cose ed è ancora più facile imbattersi in forme particolari di mancanza di senso del pudore come nella sentenza della Cassazione che questa settimana offre amari spunti di riflessione.

    Accade che un avvocato, per ragioni di salute, non sia in grado di raggiungere Roma per discutere un processo proprio in Cassazione: come si è fatto per decenni chiede ad un collega la cortesia di andare a chiedere un rinvio per legittimo impedimento inviandogli via mail una copia di certificato medico; per completezza di informazione ricordiamo, anche a chi non è seguace di Davigo e Travaglio, che questi rinvii non valgono a raggiungere la prescrizione perché ne sospendono il corso.

    Risultato: la Suprema Eccellentissima Corte rigetta l’istanza e senza rispetto alcuno per il comune senso del pudore e con sprezzo del ridicolo scrive che la richiesta non può essere accolta perché: 1) il certificato medico è in fotocopia 2) perché doveva essere spedito alla cancelleria via pec.

    E così fu che il ricorso è stato trattato senza il difensore a discuterne le ragioni; questa decisione induce alcune riflessioni: la prima di queste attiene alla primazia che sembra doversi ormai riconoscersi alle macchine ed il vade retro ad un gentiluomo in toga soprattutto se per sostenere le proprie ragioni è munito solamente di una fotocopia…fotocopia che la pec (nell’eventualità remota che qualcuno la legga per tempo o non finisca nella spam a causa della presenza di un allegato sospetto) si direbbe in grado di trasformare miracolosamente in un originale così come la macchinetta della Lavazza sita nel corridoio della cancelleria inizi a mescere Barolo al posto del cappuccino.

    L’etimologia del termine giurisprudenza richiama ad un corretto governo del buon senso nella interpretazione della legge ed, a tacer di questo, il codice prevede espressamente che vi possa essere deposito di atti e documenti in udienza e questa decisione non è priva dello sgradevole retrogusto del sospetto nei confronti di avvocati che si ammalano al momento più opportuno…ammesso che lo siano davvero.  Vergogniamoci per loro che non sono in grado di farlo da soli.

  • In attesa di Giustizia: terre di nessuno

    Nel Parco di Yellowstone, che ricade nel Distretto Giudiziario del Wyoming, si estende una striscia di terra della superficie di circa 130 chilometri quadrati che sconfina nell’Idaho ed in quel territorio, quasi un enclave tipo Campione d’Italia, non ci abita nessuno il che pone un problema giuridico: secondo il VI emendamento della Costituzione Americana ogni imputato ha diritto ad un giusto processo di fronte ad una giuria composta da cittadini dello Stato e del Distretto in cui il crimine è stato commesso…Dunque se in quella lingua di terra venisse commesso un delitto non sarebbe concretamente possibile celebrare un processo per la mancanza di potenziali giurati: d’altronde, essendo un’area disabitata, è improbabile che venga commesso un reato da chicchessia e di qualsiasi natura; nessuno, correttamente, ha mai pensato di istituirvi un Tribunale di Contea vuoto.

    Da noi invece, qualche anno fa, si è fatta una revisione della geografia giudiziaria perché alcuni Tribunali apparivano in sovrannumero rispetto al territorio, molti erano stati edificati distanti pochi chilometri di distanza uno dall’altro per offrire presidi di legalità in un tempo – quello della Unità d’Italia – in cui i mezzi di trasporto non erano quelli attuali e tra tutti primeggiava il Piemonte dove Casa Savoia ne aveva disseminati una quantità notevole (molti dei quali sopravvissuti), compreso un secondo Distretto di Corte d’Appello a Casale Monferrato in aggiunta a Torino. Spending review, redistribuzione delle risorse ed efficientamento del sistema sono risultati raggiunti ben al di sotto delle aspettative con questa riforma risalente al Governo Monti e non senza qualche singolare sviluppo come quello che riguarda la sede distaccata di Ischia del Tribunale di Napoli, inizialmente soppressa e riaccorpata al Capoluogo, poi riaperta con un andirivieni di fascicoli che facilitava smarrimento e prescrizione ed ora in procinto di essere nuovamente chiusa abbandonando un’isola con oltre 50.000 abitanti, che in stagione diventano circa 400.000, e sei Comuni, nelle mani dei soli Giudici di Pace che – tra l’altro – hanno competenza limitata e nessuna per il reato più frequentemente commesso a livello locale: l’abuso edilizio.

    Non più tardi di qualche mese fa il Governo aveva rassicurato l’Ordine degli Avvocati di Napoli prorogando proprio a dicembre il provvedimento di riapertura provvisorio in essere in attesa dell’avvio del necessario iter legislativo volto alla stabilizzazione della sede ma il diavolo ci ha messo la coda, o meglio, il Consiglio Giudiziario (che è una sorta di propaggine locale del C.S.M.) con il voto determinante – guarda un po’ – dei magistrati.

    Motivo: dopo il trasferimento di un giudice l’interpello per trovare chi lo sostituisse non è andato a buon fine, probabilmente a causa del sovrumano sacrificio richiesto a Suo Onore di prendere l’aliscafo alle 6,30 del mattino un paio di volte alla settimana per andare a fare udienza a Ischia…con la conseguenza di costringere tutti gli altri a prenderlo per raggiungere Napoli: poliziotti, carabinieri, testimoni, imputati, parti lese e periti e con ciò allontanando dalla sede di lavoro per molto più tempo del necessario una moltitudine di cittadini, parte dei quali costituiscono un presidio indispensabile della comunità come agenti delle forze dell’ordine, medici, infermieri, vigili del fuoco, ufficiali postali e via enumerando.

    Non è il solo esempio: per limitarsi ad un altro che ha creato disagi notevoli per l’utenza lo si rinviene con la soppressione del Tribunale di Montepulciano che impone complicate trasferte fino a Siena, ma la lista continua.

    A ciò si aggiunga che la sezione distaccata del Tribunale di Napoli a Capri era stata a suo tempo accorpata ad Ischia (competente anche per Procida) ed i profili critici devono essere moltiplicati per altre due isole, seppur più piccole.

    Molti anni fa, per ragioni diverse, ad Anacapri fu chiusa anche la Casa Mandamentale, cioè un piccolo carcere locale, ma di questo si lamentarono solo i pochissimi detenuti che trovavano molto chic espiare la pena nell’Isola Azzurra.

  • In attesa di Giustizia: la legge è uguale per tutti?

    Sembra di poter dire che al peggio non c’è mai limite e non c’è limite alla impunita strafottenza con cui la corporazione dei magistrati si stringe sistematicamente a tutela dei propri adepti e privilegi: ecco a voi due storie, una particolarmente sgradevole, sulle quali riflettere.

    Chi segue questa rubrica ricorderà che più di una volta sono stati segnalati episodi relativi a sentenze che si erano scoperte come decise prima della fine del processo (e chissà quante non vengono disvelate, considerato che non possono essere accadimenti episodici): ebbene, per uno di questi fatti, si è da pochi giorni arrivati ad una decisione della rigorosissima sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura.

    Accadde a Firenze nel febbraio scorso che un difensore, chiedendo di consultare il fascicolo che lo interessava mentre il Collegio era impegnato in camera di consiglio per un altro processo – probabilmente a fare colazione, facendosela portare dal bar, visto l’andazzo – scoprì che all’interno si trovava la sentenza già scritta, motivata e ben definita con la condanna e la determinazione della pena: tutto ciò senza che avesse discusso non solo l’avvocato ma neppure il Pubblico Ministero. Quasi, quasi, sarebbe preferibile una bella ordalia.

    Qualcuno si sarebbe, forse, dovuto prendere la briga di sequestrare immediatamente tutti i fascicoli, almeno quelli del giorno, verificando se altri contenessero qualcosa del genere. Invece, niente: anzi, il Tribunale si accanì contro il difensore perchè aveva osato esercitare il suo diritto di consultazione, debitamente autorizzato dal P.M. a cui era stata fatta la richiesta ed era presente in aula. Solo per la presa di posizione della Camera Penale di Firenze la vicenda è finita al C.S.M.

    Ed ecco, dopo pochi mesi, l’Organo di Autogoverno (che più spesso impiega anni a decidere in guisa da far raggiungere serenamente la pensione agli incolpati e poi chiudere il disciplinare con un nulla di fatto) eccezionalmente sollecito a decidere sulla richiesta di trasferimento di quei magistrati per incompatibilità ambientale; neanche chissà che: avrebbero solo dovuto fare le valigie ed andare altrove a fingere di fare i giudici invece di essere spediti a calci nel sedere a fare i fattorini per Glovo.

    Il Consiglio ha deciso di archiviare il tutto perché l’accaduto è (testuale) “privo di ricadute nell’esercizio indipendente ed imparziale sulla giurisdizione”: il richiamo all’imparzialità in questo caso più che un insulto all’intelligenza è asserto da voltastomaco ed in un Paese civile tutti i cittadini, quelli nel cui nome viene esercitata la giustizia, avrebbero dovuto essere adeguatamente informati di questa duplice vergogna e, traendone le conclusioni, prendere d’assalto Palazzo dei Marescialli come fosse la Bastiglia; ogni altro commento è lasciato a voi lettori.

    La seconda vicenda è un po’ meno stomachevole: si tratta del risarcimento per ingiusta detenzione riconosciuto (giustamente va detto) dalla Corte d’Appello di Milano a Pasquale Longarini, già Procuratore della Repubblica di Aosta, vittima di una giustizia (?) che ha impiegato anni per assolverlo da accuse infamanti di induzione indebita, violazione del segreto di ufficio e favoreggiamento. Nessuno nega che a quest’uomo sia stata rovinata la vita, la carriera e che abbia subito l’onta di due mesi di arresti domiciliari ma…la riparazione per ingiusta detenzione è prevista proprio solo per le carcerazioni preventive rivelatesi ingiuste a seguito di assoluzione e la domanda che ci si deve porre è perché al Dott. Longarini siano stati corrisposti circa 800 euro per ogni giorno di prigionia domestica (in totale quasi 50.000). Infatti, per un comune mortale la “tariffa” non arriva a 120 euro/giorno: 1/7, più o meno…più meno che più se si considera che recentemente ad un imprenditore di Frosinone per due anni e otto mesi di carcere e cinque mesi di arresti domiciliari sono stati versati 160.000 euro. Soldi, comunque, di noi contribuenti: evidentemente l’abito non fa il monaco ma il tipo di toga indossata fa il risarcimento.

  • In attesa di Giustizia: attacco alle garanzie

    Milàn l’è semper un gran Milàn: così si dice per sottolineare una sorta di eccellenza della città in diversi settori; con la locale Procura, dai primi anni ’90, vanta anche il primato nel calpestare le garanzie degli indagati: i trucchetti per eludere il termine di durata massima delle indagini prevista per legge svolgendole a totale insaputa dei destinatari, fascicoli con un unico numero di registrazione iniziale creando una sorta di discarica per centinaia di notizie di reato in cui la difesa è di fatto impossibilitata ad orientarsi adeguatamente, il “gioco a nascondino” delle prove a favore degli accusati (quello che ha determinato l’incriminazione del Procuratore Aggiunto Fabio De Pasquale è solo il più noto) sono solo alcuni dei fantasiosi metodi con cui addomesticare i rigori della legge che, nel loro complesso, hanno preso il nome di Codice Ambrosiano, rimarcando una discontinuità rispetto al resto della penisola che tanto il carnevale quanto la Messa avevano già segnato.

    L’ultima tendenza è quella di indagare gli avvocati nell’ambito degli stessi processi in cui sono impegnati nella difesa: ecco così, poco dopo il caso legato al difensore di Alessia Pifferi, una richiesta di interdizione all’esercizio della professione per un anno nei confronti di due professionisti, collegata ad un’inchiesta per traffico di stupefacenti nella quale risultano assistere alcuni dei presunti trafficanti.

    Tale richiesta costituisce un attacco concentrico alle garanzie processuali, alla libertà dell’avvocato e all’esercizio del diritto di difesa che non sono generiche enunciazioni di principio ma canoni costituzionali.

    Ai due sventurati è stato attribuito il reato di ricettazione che consiste nel fatto di chi riceve denaro o altri beni provenienti da reato per procurare a sé o ad altri un profitto e ne sono sospettati per aver ottenuto il compenso per l’attività professionale svolta da parte di soggetti che si presume commercino droga.

    Impressiona per la sua natura l’ipotesi di accusa a carico di clienti che – probabilmente –  non presentano il Modello Unico all’Agenzia delle Entrate ma che dire, allora, se la difesa riguardasse un manager imputato di falso in bilancio o un imprenditore con il vizietto della bustarella, piuttosto che il produttore di salumi che falsamente certifica l’appartenenza al consorzio “Prosciutto di Parma” (sì, può essere un reato anche questo): gli esempi si sprecano e qui si arrestano per questioni di brevità.

    Fortunatamente, non solo a Berlino ma anche a Milano qualche giudice si trova ancora ed in questo caso il Giudice per le Indagini Preliminari cui era stata avanzata la richiesta l’ha rigettata con una motivazione ricca di riferimenti alla giurisprudenza, alle prove ed al buon senso laddove rimarca che il difensore dovrebbe addirittura rinunciare totalmente ai propri compensi allorquando l’assistito sia reo confesso.

    L’iniziativa della Procura, al di là della condivisibile decisione del giudice chiamato a vagliarla, ha determinato una ferma reazione dell’Ordine degli Avvocati di Milano, della Giunta dell’Unione e della Camera Penale di Milano rimarcando la prassi giudiziaria in inarrestabile deriva da quei principi costituzionali, che la magistratura sistematicamente disattende con buona pace della “cultura della giurisdizione” alla quale si dice appartenere anche il pubblico ministero.

    Emerge, viceversa una pericolosa assimilazione della difesa dell’indagato a quella del reato, se non ad una condivisione implicita di scelte criminali.

    Novelli influencers del diritto e della pubblica opinione, è bene che i P. M. si rendano conto che sono lontani i tempi di Mani Pulite e delle manifestazioni davanti al Palazzo di Giustizia con i cartelli “Di Pietro, Davigo, Colombo, fateci sognare”, che la schiera dei loro followers si sta drasticamente riducendo e tra questi non mancano i giudici.

  • Arrivano le archiviazioni giudiziarie telematiche. E tra le toghe c’è chi sbuffa

    Circa il 70% dei procedimenti penali termina con l’archiviazione in fase d’indagine ma l’informatizzazione dei servizi giudiziari introdotta per legge (e già in larga parte rinviata al futuro, con l’eccezione delle archiviazioni) fatica ad entrare a regime. Dall’1 gennaio tutto è cambiato, il magistrato non può più disporre l’archiviazione firmando carte ma deve accedere ad “App” autenticandosi, indicare l’ufficio di appartenenza, inserire gli estremi del fascicolo, cliccare su “redigi atto” e su “archiviazione”, poi va scelta da un menù la motivazione. Per procedere a questo punto, però, bisogna giustificare ad “App” il motivo e il problema è che si deve scegliere tra una delle opzioni standard (ad esempio “Modello incompleto”) oppure procedere per una “descrizione libera”. Il tutto moltiplicato per centinaia e centinaia di fascicoli l’anno.

    Tutto questo è visto come una fatica insopportabile e una perdita di tempo da parte del ceto togato, che ha trovato ne Il Fatto Quotidiano il portavoce delle proprie frustrazioni. “Prima riuscivo ad archiviare un fascicolo in meno di dieci minuti, ora ci vogliono almeno due ore” ha lamentato il procuratore di Napoli Nicola Gratteri all’inaugurazione dell’anno giudiziario. “Stamattina nel mio ufficio il sistema è bloccato e non consente l’accesso, e in questi giorni siamo riusciti a inviare non più di tre o quattro richieste. Prima ci ribelliamo, segnalando con fermezza che “App” è radicalmente inadatto a gestire le indagini preliminari, e meglio è”, è quanto ha scritto ai colleghi – come riporta il medesimo quotidiano – il procuratore di Ascoli Umberto Monti. Il Fatto Quotidiano sottolinea che il Guardasigilli Carlo Nordio è al centro di numerosi strali di ex colleghi: “Le ricadute sugli assetti degli uffici saranno devastanti. Naturalmente il ministro, che per questo disastro dovrebbe dimettersi, non si assumerà la responsabilità”, pronostica in chat un gip del Sud. Qualcuno cede allo sconforto: “La sensazione di non essere più un magistrato, ma un funzionario che “flagga” caselle, è fortissima”, racconta in mailing list un pm siciliano. “Confesso di aver provato anche un senso di inutilità quando, dopo la terza volta che non si riusciva a copiare sul modello il testo della richiesta di archiviazione, ho abdicato e salvato le due righe del modello dandola vinta al sistema. Per la prima volta mi sono trovato a subire un vero e proprio condizionamento nel modo in cui ho esercitato la giurisdizione”. Una situazione che crea effetti paradossali: “Chiedere il rinvio a giudizio è diventato più semplice che archiviare“, scherza (ma non troppo) un giovane sostituto. Non male, per il ministro più garantista di sempre.

    Di control, le statistiche sugli errori giudiziari attestano che dal 1991 al 2022 la magistratura non solo non ha archiviato ma ha pure condannato 222 persone che non andavano processate. Il risarcimento dovuto per questi casi è stato di oltre 86 milioni di euro per tutti i 222 casi (solo nel 2022 gli errori giudiziari sono stati 8, e hanno comportato risarcimenti per 9 milioni e 951mila euro). Parallelamente, i casi di ingiusta detenzione – quando vi era sì motivo di processare una persona ma non di privarla della libertà nelle more del processo – sono stati oltre 30mila dal 1992 al 2022 (mediamente per 985 per anno) e hanno comportato indennizzi per oltre 846 milioni di euro (nel 2022 i casi di ingiusta detenzione sono stati 539, gli indennizzi corrisposti sono stati pari a 27,4 milioni di euro).

  • Troppo pochi magistrati minorili, oltre 100mila casi di minorenni in difficoltà restano in alto mare

    Bambini che si drogano, adottandi dimenticati, figli lasciati a genitori che li maltrattano. Sono le conseguenze del deficit di forza lavoro togata che affligge i tribunali minorili del Belpaese. Secondo quanto ricostruito dal Corriere della Sera a firma di Milena Gabanelli e Simona Ravizza, i 29 tribunali minorili italiani hanno 110mila casi pendenti che non riescono a smaltire per carenze d’organico. A Milano ci sono 13 giudici invece dei 18 che dovrebbero essere in servizio, a Roma 12 invece di 16, a Genova 5 invece di 7, a Bari 7 invece di 10. Ne consegue che a Milano vi sono 12.662 casi pendenti: nel tribunale minorile lombardo, che è il più produttivo d’Italia, ogni magistrato minorile deve gestire 974 fascicoli arretrati per anno e nello stesso tempo arrivano 562 casi nuovi, a Roma le pendenze sono 8.368, a Napoli 5.531 e a Bologna addirittura 10.106. In tutta Italia, ci sono 108.876 vicende che coinvolgono minorenni e che richiedono l’intervento dello Stato che attendono di essere definite perché mancano le toghe. L’emergenza non è sfuggita all’ex guardasigilli Marta Cartabia ma resta il fatto che le norme introdotte per far fronte al problema continuano a scontrarsi con la carenza materiale di personale che si occupi di applicare le norme del caso a minorenni in situazioni di difficoltà.

  • In attesa di Giustizia: la parola alla giustizia

    La Corte d’Appello di Brescia ha ritenuto ammissibile l’istanza di revisione del processo per la strage di Erba che ha visto condannati alla pena dell’ergastolo i coniugi Olindo Romano e Rosa Bazzi: istanza munita della insolita caratteristica di essere stata proposta non solo dai difensori ma anche dal Sostituto Procuratore Generale di Milano, Cuno Tarfusser.

    La prima udienza si terrà a marzo ed è frutto di un primo vaglio, positivo, sulla mera correttezza formale di presentazione della richiesta: dovrà, poi, valutarsi la sussistenza dei requisiti sostanziali necessari perché si proceda alla revisione vera e propria. Il che, in buona sostanza, significa un nuovo processo alla luce di prove nuove a discarico degli accusati emerse successivamente alla condanna.

    L’Avvocato Generale di Milano (che non è un avvocato ma un Magistrato con funzioni apicali del medesimo Ufficio cui appartiene Cuno Tarfusser), Lucilla Tontodonati, ha espresso un parere scritto negativo sostenendo che non siano state proposte prove nuove, piuttosto, una rivisitazione di quelle già acquisite in precedenza e valutate in tre gradi di giudizio.

    Tale ragionamento può essere condiviso solo in parte considerando che la originaria porzione “scientifica” delle indagini è suscettibile di essere riconsiderata alla stregua della evoluzione degli strumenti di accertamento tecnico oggi – e non allora – evoluti e disponibili e la ricerca della verità su un crimine efferato dovrebbe essere obiettivo primario. Di più: se Olindo e Rosa fossero innocenti significa che ci sono in libertà i colpevoli di quell’orrendo fatto ed è a costoro che dovrebbe riaprirsi la caccia.

    Tra tutte le osservazioni – che sarebbe eccessivamente lungo e complesso riassumere – a sostegno del dubbio, una probabilmente è la più inquietante di tutte: i minuziosi rilievi fatti sulla scena del crimine hanno consentito la raccolta di una quantità di tracce biologiche e merceologiche riferibili a soggetti rimasti ignoti (oltre a quelle delle vittime e dei loro congiunti) ma non ve n’è una sola che conduca a Romano o Bazzi; il che è più inverosimile che sorprendente. Vi sono, poi, le modalità con cui sono stati gestiti gli interrogatori dei coniugi accusati: sia con domande suggestive che con alcune contestazioni apertamente false che non hanno estorto le confessioni ma le hanno indotte in forma acquiescente ai desiderata degli investigatori. Non ultime le perplessità circa il tardivo riconoscimento di Olindo Romano da parte dell’unico testimone, seguito a ripetute descrizioni di un soggetto completamente diverso e la fantomatica macchia di sangue riferibile ad una delle vittime che si assume repertata sulla vettura dell’imputato e riprodotta in una foto che…non la ritrae! Ed il cui destino resterà un mistero nella confusa catena di raccolta, conservazione ed analisi irrispettosa dei protocolli di polizia scientifica.

    A proposito di reperti, non si deve dimenticare che, ufficialmente per errore (un po’ come capitato a Bergamo nella vicenda legata all’omicidio di Yara Gambirasio) sono andati distrutti dei reperti che, guarda caso, la Cassazione aveva ritenuto fruibili dalla difesa per un’accurata analisi scientifica.

    In buona sostanza, un processo che merita ampiamente di essere sottoposto ad una analisi critica, al di là dei rigori formalistici al cui ossequio si intende legare il diniego della revisione.

    Rispetto che sembrerebbe, altresì, dovuto a quella forma di giustizia che si definisce “teorematica” che si realizza quando vi è l’impossibilità di costruire un’ipotesi di accusa su dati empirici verificati e consolidati e, ad un certo punto, prende forma un teorema e tutti gli elementi che lo confortano vengono valorizzati a differenza di quelli che lo smentiscono.

    Come dire che in una gara di tiro con l’arco prima viene scagliata la freccia e poi si disegna il bersaglio intorno al punto di impatto per dimostrare che si è fatto centro.

    Vi sono fatti e – soprattutto misfatti – che reclamano l’individuazione di un responsabile ma un colpevole purchessia non è giustizia e neppure vendetta sociale ma semplicemente una vergogna a cui, se possibile, dando parola alla Giustizia deve porsi rimedio.

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