vertice

  • Il vertice di Berlino

    Tre cose non si possono nascondere troppo a lungo: il sole, la luna e la verità.

    Umberto Eco; “Il nome della rosa”

    Il 29 aprile scorso a Berlino si è svolto il vertice sui Balcani occidentali. Presidenti e capi dei governi, insieme con le rispettive delegazioni sono stati gli invitati della cancelliera Merkel e del presidente Macron. Oltre ai massimi rappresentanti dei sei paesi della regione, c’erano anche quelli della Slovenia e della Croazia. Doveva essere presente, come ospite, anche il presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, ma in sua vece era arrivata l’Alto rappresentante dell’Unione per gli Affari Esteri e la Politica di Sicurezza, Federica Mogherini. Gli organizzatori hanno ritenuto doveroso sottolineare il carattere informale del vertice. Nonostante ciò, tutti erano a Berlino per discutere di alcuni seri e spinosi problemi, che potrebbero avere preoccupanti ripercussioni non solo per la regione balcanica. Uno tra i tanti era però il vero problema: quello dei confini tra il Kosovo e la Serbia. L’aveva già anticipato anche la portavoce del governo tedesco il 26 aprile scorso. Lo hanno confermato poi il 29 aprile nelle loro dichiarazioni prima di iniziare il vertice, sia la cancelliera Merkel che il presidente Macron. La cancelliera tedesca ha ribadito che la soluzione finale dei contenziosi tra il Kosovo e la Serbia “non si dovrebbe fare ai danni degli altri paesi della regione”. Il presidente francese ha aggiunto anche che per risolvere i problemi tra il Kosovo e la Serbia bisognava verificare e trattare “tutte le possibilità”. Ma bisognava “evitare le eventuali tensioni nella regione” che ne potrebbero derivare a causa delle scelte fatte. E sia per la Merkel, che da tempo è stata chiara e perentoria, sia adesso anche per Macron, la ridefinizione dei confini sarebbe una scelta non solo sbagliata, ma anche pericolosa. Perciò una scelta da evitare definitivamente. Un messaggio chiaro per tutti coloro che la soluzione per sbloccare i difficili negoziati tra il Kosovo e la Serbia la trovavano in uno scambio di territori tra i due paesi. Un messaggio chiaro anche per loro, per gli ideatori, i sostenitori e gli attuatori di questo progetto pericoloso. Progetto che avrebbe portato, con molta probabilità, ad una allarmante recrudescenza degli scontri etnici nei Balcani e sarebbe servito anche come pretesto e riferimento in altri casi simili in altri paesi.

    Si sapevano già i nomi dei sostenitori più motivati di questo progetto, ognuno per le sue ragioni, ma in questi ultimi giorni tutto è diventato chiaro. I “tre moschettieri del re” erano il presidente del Kosovo, il quale ha reso pubblico per primo il progetto l’agosto scorso, il presidente della Serbia e il primo ministro albanese. Tutti e tre, con dietro una schiera di strateghi, consiglieri e opinionisti, hanno cercato di convincere l’opinione pubblica dei rispettivi paesi sulla “bontà” del progetto. Progetto di cui loro erano soltanto i sostenitori e gli attuatori. Perché da molte fonti mediatiche, e non solo, risulterebbe che “il re”, l’ideatore, un noto multimiliardario speculatore di borsa, seguiva tutto dall’altra parte dell’Atlantico. Essendo ormai una persona di una veneranda età, lui ha preferito essere rappresentato dal suo erede biologico e negli affari. Quest’ultimo è stato molto attivo e presente dall’agosto 2018 in poi, sia in Serbia che in Kosovo e in Albania. Le cattive lingue, riferendosi alla sua presenza nella regione, parlano di grandi interessi speculativi a medio e lungo termine che sarebbero stati avviati se il progetto di una nuova delimitazione dei confini tra il Kosovo e la Serbia avrebbe avuto successo.

    In tutto questo periodo si è parlato tanto di questo progetto. Ma erano in pochi quelli che sapevano dei dettagli e, men che meno, il vero contenuto del progetto. Un progetto che, comunque, doveva interessare molto alla Serbia, che ne usciva vincente a scapito del Kosovo. Ragion per cui, appena il presidente del Kosovo, all’inizio dell’agosto 2018, ha parlato per la prima volta pubblicamente del progetto, la reazione è stata immediata e aspramente contraria. Sia in Kosovo che in Albania. In Kosovo il presidente si è trovato subito isolato in questa iniziativa e contestato sia da tutti gli altri rappresentanti politici, in modo trasversale, che dai media e dalla popolazione. Anche in Albania il progetto è stato contestato fortemente, sia dagli analisti e dagli opinionisti, che dai rappresentanti della politica, tranne quelli del partito del primo ministro. Hanno “sostenuto” il progetto anche alcuni opinionisti che si sono messi al servizio e alla mercé del primo ministro. Il quale all’inizio ha taciuto, cercando di “nascondersi”, come fa sempre in casi simili. Ma come sempre, quando si trova in serie difficoltà e semplicemente per delle “convenienze del momento”, il primo ministro albanese, in cambio di qualche “favore e supporto internazionale”, in seguito ha “cambiato opinione” riguardo al sopracitato progetto, come il camaleonte cambia il colore. All’inizio si è guardato bene dall’esprimere una sua opinione e ha negato il suo diretto coinvolgimento nell’attuazione del progetto. Poi, sempre negando il suo coinvolgimento, si è schierato apertamente a fianco del presidente del Kosovo, considerando come “somari” tutti quelli che erano contro il progetto (Patto Sociale n.329; 335; 339; 345 ecc.). Ultimamente sono diverse le dichiarazioni pubbliche di persone ben informate, secondo le quali il primo ministro albanese sapeva e appoggiava il progetto già da più di due anni fa! Si parla anche di almeno due incontri suoi con il presidente serbo, durante i quali, secondo le stesse dichiarazioni, avrebbero parlato del progetto e come farlo attuare. Nonostante ciò nessuna reazione pubblica da parte del primo ministro e/o da chi per lui, per negare esplicitamente quanto sopracitato. Nel frattempo il presidente serbo, a lavori finiti del vertice di Berlino, ha dichiarato pubblicamente, riferendosi al menzionato progetto: “La mia idea è fallita. Questo [fatto] costerà alla nostra nazione per i venti o i trenta anni a venire”.

    Tornando al vertice di Berlino del 29 aprile scorso, per fortuna, non solo il progetto dei confini tra il Kosovo e la Serbia non ha trovato appoggio, ma è stato fortemente contrariato e “seppellito per sempre”. Perciò, se in quel vertice sia stato raggiunto anche un solo obiettivo, questo senz’altro è stato l’annientamento di quel progetto. Ma dal vertice di Berlino è stato “lasciato intendere” anche il fallimento delle politiche della Commissione europea per la soluzione dei contenziosi e le discordie tra il Kosovo e la Serbia. Da “indiscrezioni” trapelate dall’interno del vertice risulterebbe anche una presa di posizione nei confronti dell’operato e del ruolo quasi personale e personalizzato dell’Alto rappresentante dell’Unione per gli Affari Esteri e la Politica di Sicurezza, Federica Mogherini. Il solo fatto della necessità di convocare il vertice di Berlino dietro l’iniziativa e il patronato della cancelliera Merkel e del presidente Macron, lasciando “in secondo piano” la Commissione europea, è molto significativo. Un altro merito di questo vertice è che ha smascherato pubblicamente alcune bugie e inganni. Chissà come si è sentito qualcuno dei partecipanti, smentito, smascherato e trascurato?!

    Chi scrive queste righe condivide pienamente quanto scriveva Umberto Eco. E cioè che tre cose non si possono nascondere troppo a lungo: il sole, la luna e la verità.

     

  • Passi indietro nelle istituzioni internazionali…e non solo

    Molti dati ci confermano che stiamo vivendo, a livello nazionale, europeo e mondiale, una fase di rallentamento. L’economia si sta raffreddando, la produzione sta diminuendo, il prodotto interno lordo non cresce come le previsioni avevano fatto sperare, il tasso di disoccupazione non diminuisce, se non in alcuni Paesi soltanto, come gli Stati Uniti, ad es. In Italia si respira un’aria di disaffezione; si crede sempre meno alla politica e nello stesso tempo crescono i consensi – o perlomeno non diminuiscono – alle forze cosiddette “sovraniste”. Anche in Europa i nazionalismi populisti hanno ripreso vigore e mettono in dubbio la validità delle scelte comunitarie. Non siamo ancora al “ciascun per sé”, ma temiamo che questo falso valore possa distruggere quanto di buono e di utile ci è stato offerto dall’ “insieme è meglio”. In questo clima di sfiducia generalizzata – nonostante le prediche catastrofiche contro la globalizzazione –  assistiamo impotenti proprio all’esito negativo di riunioni di istituzioni internazionali che non riescono a cavare un ragno dal buco. Una conferma esemplare ce la offre il recente vertice del G20 che ha avuto luogo a Buenos Aires. L’incontro è terminato con una dichiarazione unitaria, ma il contenuto della stessa – come afferma l’economista Paolo Raimondi in un articolo della Gazzetta del Mezzogiorno del 14 dicembre scorso – “sembra non solo annacquato, ma anche di secondaria importanza.” Probabilmente si è cercato in tutti i modi di evitare ciò che era successo due settimane prima al vertice dei Paesi dell’Asia-Pacific Economic Cooperation (APEC) in Nuova Guinea, dove, nonostante la presenza degli Usa, della Russia e della Cina, non si è giunti a nessuna conclusione e non vi è stato nemmeno un comunicato congiunto. Anche il G7 riunitosi nel giugno scorso nel Quebéc è stato un fallimento. Poche ore dopo la sua conclusione, infatti, Trump respinse i contenuti della dichiarazione finale, rendendo sostanzialmente inutile il documento. E non ci si può dimenticare anche dell’improvvisa decisione americana di non sottoscrivere il trattato di Parigi sul clima. Ma è il vertice di Buenos Aires che ha segnato un pericoloso passo indietro e un ritorno alla pratica dei negoziati bilaterali, che erano stati superati proprio perché il G20 è la sede per eccellenza per discutere proposte a livello multilaterale, nel doveroso tentativo di trovare soluzioni condivise ai problemi mondiali e alla sfide politico-economiche più difficili e urgenti. Sono i vertici multilaterali e non bilaterali che dovrebbero concludere negoziati validi per tutti. Lo stesso bilateralismo Usa-Cina, che ha permesso di posticipare di tre mesi la decisione americana di portare dal 10 al 25% i dazi su molti prodotti cinesi per un valore complessivo di 200 miliardi i dollari e di evitare le conseguenti ritorsioni cinesi, ha portato ad una decisione modesta, tanto che molti esperti, tra cui la banca Goldman Sachs, danno poche probabilità al futuro successo di un accordo tra le due superpotenze. In questo disincantato disaccordo generale intanto, l’andamento dell’economia mondiale sta rallentando. L’OCSE ritiene che i dazi del 10% nei confronti della Cina, e la sua conseguente risposta, produrrebbero una diminuzione dello 0,2% del Pil mondiale e che, se portati al 25%, i dazi farebbero aumentare la perdita fino all’1%. Questo ritorno al bilateralismo segna inoltre la cancellazione dell’incontro con il presidente russo Putin da parte di Trump. Non solo questo metodo di negoziato è negativo per chi lo pratica; esso incide negativamente anche sugli equilibri mondiali. Lo svuotamento del ruolo di dialogo propositivo dei massimi organismi internazionali, oltretutto in una situazione mondiale di sgravi squilibri, non può che suscitare grandi preoccupazioni. Smantellare le uniche istituzioni internazionali dove è possibile dialogare su temi molto delicati è un’operazione da condannare. Dove incontrarsi per evitare conflitti maggiori? All’Onu, sempre meno credibile? Forse all’OMC, l’organizzazione mondiale del commercio, che abbisogna di riforme, è vero, ma che rappresenta una garanzia di sviluppo se si tiene conto della funzione positiva svolta fino ad ora. In tutto questo bailamme l’Europa ha fatto sentire una flebile voce: vuole una “cooperazione coordinata” per una “globalizzazione più giusta” e una “riforma delle regole finanziarie globali”, flebile perché non dice come ottenere questa cooperazione e quale riforma delle regole. In questo quadro preoccupante di non collaborazione, vige una sola certezza: i tanti progetti riguardanti la realizzazione delle infrastrutture, la modernizzazione tecnologica, le nuove energie, la digitalizzazione del sistema economico, il maggiore rispetto del lavoro e dei diritti civili – tutti progetti annunciati nella dichiarazione di Buenos Aires – ne risentirebbero in modo tragico. Se venisse meno la volontà degli Stati di collaborare nessuno potrebbe fermare questa involuzione. Perché non darsi una mossa, allora?

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