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11 marzo 2018: la spesa pubblica

Questa data passerà alla storia in quanto è stato “finalmente” raggiunto il livello di 2300 miliardi di debito pubblico, come si può tranquillamente verificare consultando il sito dell’Istituto Bruno Leoni di Milano (http://www.brunoleoni.it/debito-pubblico-italiano.htm).

Se confrontato al momento di massima difficoltà dello Stato italiano individuabile nel novembre 2011, che comportò l’arrivo alla Presidenza del Consiglio di Mario Monti, il debito allora segnava un livello di 1987 miliardi. Quindi  tutti i governi, Monti,Letta, Renzi e Gentiloni, hanno aumentato il debito di oltre 315 miliardi ai quali bisogna aggiungere i valori delle varie manovre finanziarie (il  solo governo Monti ne varò una da 92 miliardi) per una somma complessiva di circa 250 miliardi. A tutto ciò si somma una novità assoluta per lo stato italiano di questi ultimi tre anni: circa 55 miliardi di nuovo debito non in bilancio (una sorta di nero di Stato), come confermato dalla Corte dei Conti.

In altre parole dal novembre 2011 lo Stato italiano, tra debito pubblico per finanziare nuova spesa pubblica e manovre finanziarie, ha gestito  circa seicentoventi (620!!!) miliardi di risorse pubbliche per ritrovarsi nella medesima situazione a distanza di sette anni addietro. Perché nonostante questa iniezione di risorse finanziarie e dando anche per mediamente veritieri i dati relativi alla crescita italiana (la quale al netto dell’inflazione risulta essere di più 0,3%) mai come oggi un quarto della popolazione risulta a rischio povertà, come confermato dalla Banca d’Italia.

Ovviamente le responsabilità di tale situazione vanno distribuite equamente alle politiche ottuse e miopi dei governi degli ultimi venticinque/trent’anni che hanno puntato alla deindustrializzazione del nostro paese portata avanti con cieca costanza fino alla crisi epocale del novembre 2011 nella  quale sono riemerse come fattore centrale finalmente le ritrovate possibilità di crescita legate alle PMI e all’Industria nel suo complesso. Politiche talmente a senso unico e miopi che però hanno visto sempre il pieno sostegno dei media come di tutto il mondo accademico e di tutti i politici pseudoesperti di economia.

Tuttavia risulta evidente che se gli indici che determinano il livello di consumi non aumentano lo sviluppo attuale sarà semplicemente una partita di giro legato agli sgravi fiscali che vengono riconosciuti giustamente per la digitalizzazione dell’industria italiana. Al di là delle differenze attribuibili al diverso posizionamento politico all’interno dell’arco parlamentare e al di là dei risultati che le singole coalizioni riusciranno ad ottenere, il minimo comune denominatore di tutti quanti i programmi elettorali e politici viene rappresentato dall’invocato ricorso ad un maggiore utilizzo della spesa pubblica come elemento e fattore fondamentale per la ripresa economica ed occupazionale.

La spesa pubblica quindi viene individuata o meglio il suo ulteriore aumento rispetto al già insostenibile livello attuale viene indicato come il fattore determinante per la ripresa in contrapposizione “all’austerità fino a qui imposta dall’Europa”. Paradossale come questo ragionamento risulti anacronistico, specialmente in rapporto ai diversi rilevatori economici.

Innanzitutto non è vero che negli ultimi anni i governi che si sono succeduti alla guida del paese non abbiano ampiamente fatto ricorso alla spesa pubblica con l’obiettivo di invertire il trend negativo che stava bloccando ogni tipo di crescita italiana. Si pensi ad esempio agli oltre 313 miliardi di nuovo debito ai quali vanno aggiunti altri 55 miliardi fuori bilancio che rappresentano e certificano il ricorso ad aumento della spesa pubblica al fine di finanziare le scelte politiche i cui risultati tuttavia risultano fortemente deludenti. Già la premessa su cui si basa questo minimo comune denominatore di tutti i programmi elettorali risulta perciò assolutamente inconsistente ed errata. Viceversa sarebbe interessante introdurre il parametro relativo all’efficacia della spesa pubblica stessa e quindi al valore aggiunto della interposizione che vede come protagonista lo Stato nella erogazione dei servizi ai cittadini. Solo per fornire un elemento indicativo risulterebbe sufficiente confrontare la spesa complessiva per il sistema del welfare scandinavo (indicato come il migliore per quanto riguarda l’erogazione di servizi e al tempo stesso il più oneroso) rispetto alla quale il nostro sistema richiede un onere superiore di circa 20 punti percentuali in più rispetto al modello scandinavo. Logica conseguenza individuerebbe nella centralità del problema la interposizione dello Stato nella erogazione dei servizi nei confronti dei cittadini italiani.

Rimanendo questa inefficienza e tale rapporto assolutamente squilibrato tra costi e benefici, l’idea  di fornire a questo sistema ulteriori risorse finanziarie dimostra una miopia o forse peggio una connivenza molto pericolosa. In più, nel libro dei sogni di questo famoso minimo comune denominatore si legge anche che l’aumento della spesa pubblica aumenterebbe le opportunità di lavoro. Una visione decisamente superata e legata agli asset industriali tipici degli  anni ‘70 con aziende a ciclo completo.

Viceversa  la rivoluzione industriale degli anni ‘80  trasformò le aziende in un network nel quale ciascuna forniva il proprio know-how alla realizzazione del prodotto finito. Precedentemente a fronte di  nuova  opera da realizzare talvolta l’azienda indicata come esecutrice dell’opera poteva aumentare il proprio numero di dipendenti e di conseguenza determinare delle occasioni di nuova occupazione.

Attualmente invece, a fronte della realizzazione di un’opera pubblica, si assiste a una asta pubblica europea che spesso individua il committente in un big contractor molto spesso privo di alcuna  struttura ma che demanda a società di servizi e cooperative la realizzazione della stessa. Con il risultato di vedere alla fine di tutto questo iter solo personale extracomunitario alla realizzazione  dell’opera. Con la beffa aggiuntiva che circa un terzo delle retribuzioni poi si trasformino giustamente in rimesse verso le famiglie nei paesi di origine. Quindi nessuna occupazione aggiuntiva di buon livello e la perdita molto spesso anche di un terzo delle retribuzioni: oltre al danno la beffa. Tutto questo non significa che la spesa pubblica non possa avere un ruolo importante nell’agevolare la ripresa economica e aumentare la competitività del sistema imprenditoriale italiano, ciò ovviamente succede quando essa sia finalizzata alla creazione di fattori competitivi che pongono le imprese italiane sullo stesso livello delle proprie concorrenti.

Sì pensi ad esempio al notevole risparmio in termini di costi per un’azienda tedesca rispetto ad una italiana la quale non solo paga il 30% di gasolio in meno (valore calcolato comprendente i diversi valori di reddito dei due paesi) per ogni movimentazione ma usufruisce anche delle “Autobahn”gratuite per i cittadini tedeschi.

Alla fine risulta quindi la necessità di una riformulazione completa della spesa pubblica la quale viene sorretta da un carico fiscale divenuto insostenibile, raddoppiato ad una velocità e ad un valore doppio rispetto all’inflazione negli ultimi vent’anni (1996/2016: Inflazione +40,3% – Tassazione +80,1% ).

Tornando quindi al concetto tanto caro ai sostenitori della economia keynesiana (maggiore spesa pubblica) ai quali si contrappongono i sostenitori del libero mercato che invece, in modo altrettanto miope, individuano nel solo aumento della produttività il fattore per ritrovare competitività, annullando  il dumping fiscale, sociale e normativo tra i paesi industrializzati e quelli in via di sviluppo, solo e ribadisco solo (o se si preferisce conditio sine qua non) la rimodulazione della spesa pubblica rappresenta sicuramente un fattore determinante nel medio, come nel lungo termine per offrire uno scenario di crescita economica al nostro paese.

In un mercato talmente complesso, in cui al suo ingresso nel WTO alla Repubblica Popolare Cinese nel WTO veniva riconosciuto un ritrovato DNA democratico, ora invece ci si ritrova un concorrente che pianifica la propria economia in modo non molto difforme da uno Stato Socialista.

In questo mercato non solo sotto il profilo economico ma anche politico chiunque individui o indichi in un’unica iniziativa la soluzione di tutti i problemi, che invece  risultano essere la conseguenza di oltre trent’anni  anni di politica economica disastrosa, dimostra il proprio livello culturale assolutamente insufficiente per affrontare le sfide epocali dei prossimi anni.

Solo l’analisi degli errori di strategia economica dei governi italiani dalla fine degli anni ottanta  ad oggi permetterebbe la nascita di una strategia economica di sviluppo per il nostro paese.

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