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Modelli economici in scala 1:10

Nella diatriba politico economica in cui i sostenitori dell’attuale asset istituzionale ed economico all’interno dell’Unione Europea sono contrapposti alla compagine politica che vede nell’uscita dall’euro, e magari della stessa Unione, la soluzione ai problemi di sviluppo economico  entrambi gli schieramenti portano, a supporto delle proprie tesi, alcuni esempi di Nazioni (quindi di un sistema complesso di economia, istituzioni e popolazione) che confermerebbero le proprie posizioni, soprattutto in ambito economico.

Il Portogallo rappresenta l’esempio adoperato da chi considera la possibilità di invertire il trend negativo avviato dal 2011 in poi per il nostro Paese ricorrendo soprattutto alla rimodulazione della spesa pubblica.

Da più parti infatti si legge come il Portogallo, per uscire dalla crisi, abbia utilizzato concetti come “i progressi sono stati frutto anche dei provvedimenti presi dai governi precedenti che oltre ad iniziare l’austerity hanno reso più flessibile il mercato del lavoro (contratti a termine, orari elastici, malleabilità salariale, licenziamenti)” uniti a “un forte aumento dell’export, senza bisogno di agire sul cambio e con robuste iniezioni di liberalizzazioni e deregolamentazione del mercato di energia, telecomunicazioni, trasporti, poste e professioni, avendo altresì perfezionato la normativa antitrust”.

Certamente il Portogallo ha saputo sfruttare al meglio i finanziamenti europei per migliorare l’offerta formativa (mentre in Italia si varava la buona scuola) e questo ha permesso alla nazione lusitana di aumentare il livello culturale generale.

Tornando però alla ricetta economica c’è da chiedersi se questa analisi comparativa tra l’economia portoghese e quella italiana possa definirsi corretta.

Innanzitutto andrebbe fornito  il giusto peso al fattore demografico: durante il periodo della crisi circa 500.000 portoghesi hanno lasciato il proprio paese in cerca di migliori opportunità professionali all’estero.  Considerando che la popolazione del paese risulta di poco superiore ai 10 milioni in pochi anni è mancato il 5% della popolazione (come se in Italia emigrassero in pochi anni tre milioni di cittadini). Questa emigrazione economica di persone che già erano ai margini del ciclo economico (quindi pesavano sulla spesa pubblica attraverso prestazioni e servizi sociali)  ha portato ad  una inevitabile  riduzione sostanziale della spesa pubblica, frutto quindi della minore utenza e non di scelte politiche (confermata dalla sostanziale tenuta della pressione fiscale).

In altre parole, nessuna delle cosiddette liberalizzazioni o aperture al mercato ha avuto la capacità di incidere sul volume della spesa pubblica quanto l’emigrazione del 5% della popolazione portoghese. Una emigrazione che aveva prodotto nel 2016 un calo dei consumi del -8,2% e che successivamente ha virato in positivo al +2.2%, soprattutto grazie alla ripresa del turismo (quindi sempre un fattore esogeno al sistema portoghese) e che già nelle previsioni dei prossimi anni prevede un ulteriore rallentamento della crescita.

La parte avversa invece ha sposato come modello economico di sviluppo l’Ungheria. Una nazione che ha il terzultimo stipendio medio europeo (648 euro davanti solo a Romania e Bulgaria), poco più di 1/3 di quello italiano che è di 1.560 euro. Può sembrare veramente paradossale che una parte politica di una nazione prenda a modello una economia con un valore di Pil  15 volte inferiore alla propria.

Quindi  quello che unisce le due diverse analisi, che giungono a soluzioni ovviamente opposte, è la scelta dei modelli di riferimento assolutamente non compatibili in scala 1:10.

Il Portogallo  ha una popolazione di poco superiore ai dieci milioni di abitanti, esattamente quanto la Lombardia. Quindi ogni scelta di politica economica del governo portoghese può eventualmente proporsi con una valenza regionale in quanto i sessanta milioni di cittadini italiani definiscono una società decisamente più articolata e complessa e che quindi necessita di politiche economiche e fiscali più articolate.

La stessa Ungheria presenta una popolazione di poco inferiore ai dieci milioni (9 milioni ed 800.000, quindi vicina ai circa 9 milioni e 900.000 del Veneto), quindi anche in questo caso la complessità italiana rende l’esempio scelto assolutamente non compatibile.

Se poi si inserisse il parametro del Pil in entrambi i modelli scelti a sostegno delle opposte tesi economiche il quadro diventerebbe addirittura ridicolo.

Il PIl del Portogallo risulta di 204 mld (in crescita del 2,7 nel 2017) mentre quello dell’Ungheria risulta di circa 112 Mld di euro, con un tasso di crescita superiore alla media europea (4% rispetto al 2% della media europea ed all’1.4% italiano). Il primo risulta otto volte inferiore a quello italiano mentre quello ungherese risulta 1/15 di quello italiano. All’interno di una analisi comparata dovrebbero caso mai essere queste due nazioni a scegliere noi come modello economico da seguire o eventualmente da evitare.

Emerge evidente come la scelta dei modelli politici ed economici dei due diversi schieramenti risulti arbitraria (cioè non basata su modelli omologhi e compatibili anche utilizzando il solo parametro di grandezza) e motivata da argomentazioni ideologiche e non certo economiche.

In fondo queste scelte dimostrano la imbarazzante mancanza di conoscenza dei parametri di base per analisi comparate espresse da entrambi gli schieramenti i quali, con le loro scelte, sposano (in modo assolutamente inconsapevole considerato lo spessore nella analisi comparate) la tesi dell’On. Andreotti.

Questi, soprattutto attraverso la propria politica estera, mirava a far diventare il nostro Paese come il primo dell’area mediterranea invece di guardare ai modelli europei o di oltre oceano. Per lo meno la politica e la strategia dell’ex leader della prima Repubblica risultavano una scelta consapevole.

Viceversa il medesimo obiettivo viene inconsapevolmente  (per deficit culturale) perseguito da entrambi gli schieramenti politici che convinti di proporre con la scelta dei propri modelli economici di riferimento  indirizzano il nostro Paese verso un declino economico nell’immediato ma sono espressione di un articolato declino culturale cominciato e coltivato da oltre trent’anni.

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